sabato 8 giugno 2013

ENERGIA: l'art. 14, L. n. 689/81 si applica anche ai procedimenti sanzionatori dell'A.E.E.G. (T.A.R. Lombardia, Milano, 17 dicembre 2012 n. 3061).


ENERGIA: 
l'art. 14, L. n. 689/81 si applica anche 
ai procedimenti sanzionatori dell'A.E.E.G. 
(T.A.R. Lombardia, Milano, 17 dicembre 2012 n. 3061)


Massima

L'art. 14, l. n. 689 del 1981 che disciplina i tempi e i modi della contestazione delle violazioni cui si correla l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, si applica anche ai procedimenti sanzionatori dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas
Invero, l'art. 14, l. n. 689 del 1982 definisce l'ambito di applicazione della disciplina delle sanzioni amministrative, stabilendo che le norme in essa contenute si osservano "in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente stabilito, per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale". L'intento del legislatore perseguito mediante detta previsione normativa è quello di assoggettare ad uno statuto unico tutte le ipotesi di sanzioni amministrative pecuniarie, derivanti o meno dalla depenalizzazione di reati, mediante una disciplina unica ed esaustiva idonea ad assicurare un determinato livello di garanzie procedimentali per ogni soggetto cui è inflitta una sanzione pecuniaria amministrativa. Il limite di tale estensione è dato dall'applicabilità della disciplina in esame nella particolare materia e dall'assenza di una diversa regolamentazione da parte di una fonte normativa pariordinata, che presenti carattere di specialità e, pertanto, introduca una deroga alla norma generale e di principio.

Sentenza per esteso

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 522 del 2011, proposto da:
Azienda Intercomunale Metano - Servizi Vendita s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Francesco Piron e Antonio Martini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Milano Galleria San Carlo n. 6; 
contro
Autorità Per L'Energia Elettrica e il Gas, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano, presso i cui Uffici è domiciliata per legge, in Milano via Freguglia n. 1; 
per l'annullamento
-della deliberazione dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas datata 22 novembre 2010 n. VIS 148/10, recante “Irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, ai sensi dell’art. 2, comma 20 lett. c), della legge 14 novembre 1995 n. 481, nei confronti di A.I. Met. Azienda Intercomunale Metano Servizi e Vendita s.r.l.”;
-della nota del 21 settembre 2009 prot. n. 53959 con cui l’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas ha comunicato le risultanze istruttorie;
-della deliberazione dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas datata 4 dicembre 2007 n. 301, recante avvio di istruttoria formale, notificata in data 28.12.2007;
-della deliberazione dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas datata 1° giugno 2007 n. 124;
-della deliberazione dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas datata 18 settembre 2007 n. 227 di chiusura dell’istruttoria conoscitiva avviata con deliberazione n. 124/07;
-di ogni atto presupposto;
nonché per la condanna dell’amministrazione
- alla restituzione dell’importo del sanzione amministrativa, con rivalutazione monetaria e interessi legali;
-al risarcimento del danno.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Autorita' Per L'Energia Elettrica e il Gas;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Designato relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 novembre 2012 il dott. Fabrizio Fornataro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
La società Azienda Intercomunale Metano - Servizi Vendita s.r.l. (di seguito anche A.I.Met) ha impugnato gli atti indicati in epigrafe deducendone l’illegittimità per violazione di legge, in relazione, in particolare, all’art. 2, comma 20 lett. c), della legge 1995 n. 481 e all’art. 14 della legge 1981 n. 689, nonché per eccesso di potere sotto diversi profili.
Nel contempo la ricorrente ha chiesto la condanna dell’Autorità per l’energia elettrica ed il gas alla restituzione delle somme versate e al risarcimento del danno sofferto.
L’amministrazione resistente, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’infondatezza del ricorso avversario, chiedendone il rigetto.
Le parti hanno prodotto memorie e documenti.
All’udienza del giorno 14.11.2012 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO
1) In punto di fatto va osservato che, con la deliberazione n. 237/00 del 28.12.2000, l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas (d’ora in poi A.E.E.G. o Autorità) definiva i criteri per la determinazione delle tariffe per le attività di distribuzione del gas e di fornitura ai clienti del mercato vincolato, individuando, tra l’altro, un coefficiente di correzione rapportato alle caratteristiche altimetriche e climatiche delle singole zone (c.d. coefficiente M, il cui valore è specificato nelle tabelle allegate alla delibera).
Con deliberazione n. 124/07, datata 01.06.2007, l’Autorità avviava un’istruttoria conoscitiva sull’applicazione da parte delle imprese di trasporto, distribuzione e vendita del gas naturale, tra l’altro, del coefficiente di adeguamento tariffario stabilito con la deliberazione n. 237/00.
L’istruttoria veniva chiusa dall’Autorità con la deliberazione n. 227/07 del 18.09.2007.
Con deliberazione n. 301/07, datata 4 dicembre 2007 e notificata in data 28 dicembre 2007, l’Autorità avviava un’istruttoria formale nei confronti di A.I.Met per l’adozione di provvedimenti prescrittivi e sanzionatori in conseguenza della violazione dei provvedimenti dell’A.E.E.G. relativi al coefficiente di adeguamento tariffario M e, in particolare, per la violazione dell’obbligo di esporre in bolletta il valore del coefficiente M.
Quindi, con nota del 21 settembre 2009 prot. n. 53959 l’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas comunicava alla società le risultanze istruttorie.
Infine, con deliberazione datata 22 novembre 2010 n. VIS 148/10 l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas accertava la violazione da parte di A.I.Met delle disposizioni inerenti al coefficiente M poste dall’art. 17, comma 1, della deliberazione n. 237/00 e, contestualmente, irrogava alla società una sanzione amministrativa pecuniaria, ai sensi dell’art. 2, comma 20 lett. c, della legge 1995 n. 481, pari ad 25.822,84 Euro.
2) E’ fondato il motivo – che presenta carattere assorbente perché di portata sostanziale – con il quale si deduce la violazione dell’art. 14 della legge 1981 n. 689, in quanto il potere sanzionatorio sarebbe stato illegittimamente esercitato dall’Autorità dopo il decorso del termine perentorio stabilito proprio dall’art. 14 ora richiamato.
Questa disposizione disciplina i tempi e i modi della contestazione delle violazioni cui si correla l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, prevedendo, nei primi due commi, che “la violazione, quando è possibile, deve essere contestata immediatamente tanto al trasgressore quanto alla persona che sia obbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa. Se non è avvenuta la contestazione immediata per tutte o per alcune delle persone indicate nel comma precedente, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all'estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall'accertamento.”
Non è condivisibile la tesi, pure sostenuta, secondo la quale l’art. 14 della legge 1981 n. 689 non sarebbe applicabile al caso di specie in coerenza con alcuni passaggi della sentenza del Consiglio di Stato 3 maggio 2010, n. 2507.
In primo luogo, va osservato che la sentenza ora citata, dopo avere prospettato l’inapplicabilità dell’art. 14 della legge 1981 n. 689 per ragioni di incompatibilità di tale disciplina con “la complessa attività (regolatrice, di controllo, di istruttoria e sanzionatoria) propria dell’A.E.E.G. (richiamando anche l'art. 12 della citata legge, secondo cui “le disposizioni di questo capo si osservano, in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente stabilito”), nonché in considerazione del carattere speciale della legge istitutiva dell'A.E.E.G. (legge n. 481/1995) e “del rinvio dalla stessa operato, nell’art. 2 comma 24, lett. a), ad una disciplina regolamentare dei procedimenti sanzionatori”, esamina il merito della causa proprio sul presupposto dell’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 14 della legge 1981 n. 689.
In ogni caso, il Tribunale ritiene di confermare l’orientamento del tutto prevalente, della giurisprudenza di primo e di secondo grado, che ritiene applicabile anche ai procedimenti sanzionatori dell’Autorità la disciplina posta dall’art. 14 della legge 1981 n. 689.
Invero, l’art. 12 della legge 1981 n. 689 definisce l’ “ambito di applicazione” della disciplina della sanzioni amministrative, stabilendo che le norme in essa contenute si osservano “in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente stabilito, per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale”.
La giurisprudenza ha messo in luce l’intento del legislatore di assoggettare ad un statuto unico tutte le ipotesi di sanzioni amministrative pecuniarie, derivanti o meno dalla depenalizzazione di reati, mediante una disciplina unica ed esaustiva idonea ad assicurare un determinato livello di garanzie procedimentali per ogni soggetto cui è inflitta una sanzione pecuniaria amministrativa.
Il limite di tale estensione è dato dall’ “applicabilità” della disciplina in esame nella particolare materia e dall’assenza di una diversa regolamentazione da parte di una fonte normativa pari ordinata, che presenti carattere di specialità e, pertanto, introduca una deroga alla norma generale e di principio.
Del resto, l’orientamento tradizionale ha precisato che “il limite alla “vis espansiva” delle disposizioni di cui al capo I della legge n. 681/1989 non va individuato nella sua “compatibilità” con la singola fattispecie sanzionatoria, in relazione alle finalità di rilievo pubblico che a mezzo di essa si è inteso perseguire, ma si raccorda alla nozione di “applicabilità” del quadro normativo ivi prefigurato. Questa attiene alla sussistenza dei presupposti identificati dall’art. 12 (natura amministrativa dell’illecito; quantificazione in via pecuniaria della sanzione; non riconducibilità dell’illecito ad uno specifico codice di disciplina) e non implica alcuno scrutinio di coerenza e congruità del sistema prefigurato al capo I della legge n. 689/1981 con le singole misure repressive”.
Di conseguenza, in base all’art. 12 della legge n. 689/1981, le disposizioni “del capo I della legge medesima devono essere osservate con riguardo a tutte le violazioni aventi natura amministrativa per le quali è comminata la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro, essendo palese l’intento di attribuire a dette disposizioni carattere generale, così da comprendere qualsiasi ipotesi di illecito amministrativo, ad eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie”.
In senso contrario non rileva la tendenziale complessità dell’attività rimessa all’Autorità che comprende anche gli interventi di regolazione, atteso che le sanzioni pecuniarie, se anche applicate da un soggetto dotato di poteri regolatori in un determinato settore, conservano la valenza afflittiva e dissuasiva che le caratterizza e che giustifica l’applicazione di un corpus unitario di norme che ne disciplina l’irrogazione.
Né merita condivisione la valorizzazione della specialità della disciplina contenuta nella legge 1995 n. 481, in quanto, in relazione ai poteri sanzionatori dell’Autorità, l’art. 2, comma 20 lett. c), della legge ora citata si limita a prevedere, in generale, le ipotesi di illecito amministrativo e le misure repressive pecuniarie, di cui fissa il minimo ed il massimo edittale, senza dettare particolari regole procedimentali per la loro irrogazione, idonee a sostituire, nel particolare settore, quelle dettate dalla legge 1981 n. 689.
Neppure il riferimento al d.p.r. 2001 n. 244 vale ad individuare una disciplina speciale per i procedimenti sanzionatori attivati dall’Autorità, idonea a prevalere sulla normativa generale contenuta nella legge 1981 n. 689.
Al di là della natura solo regolamentare del d.p.r. 2001 n. 244, che lo rende inidoneo a derogare a norme di fonte primaria in mancanza di una specifica previsione legislativa sul punto o di un meccanismo di delegificazione, vale osservare che tale normativa concerne la generalità delle procedure istruttorie dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas, a norma dell'articolo 2, comma 24 lettera a), della L. 14 novembre 1995, n. 481 e non solo i procedimenti sanzionatori.
In ogni caso, resta fermo che la disciplina, di fonte primaria e secondaria, inerente ai procedimenti dell’Autorità non contiene delle previsioni speciali che introducano termini perentori per la conclusione dei procedimenti di irrogazione delle sanzioni pecuniarie, tali da derogare alla disciplina generale della legge 1981 n. 689 (cfr. in relazione all’orientamento dominate ora riferito si considerino tra le altre, Consiglio di Stato, sez. VI, 25 giugno 2004, n. 6901; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 341; T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 23 ottobre 2007 n. 6261; T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 19 giugno 2007 n. 5475; T.a.r. Lombardia Milano, sez. III, 29 dicembre 2008, n. 6181; Tar Lombardia Milano, sez. III, 10 settembre 2009, n. 4638; T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 24 novembre 2009, n. 5131).
Una volta ribadita l’applicabilità dell’art. 14 della legge 1981 n. 689, vale osservare che non è in contestazione la natura perentoria del termine di 90 giorni dall’accertamento della violazione entro il quale deve avvenire la contestazione, in coerenza con il consolidato orientamento della giurisprudenza, sia ordinaria sia amministrativa, atteso che l’art. 14 stabilisce espressamente che l'obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione si estingue se è stata omessa la notificazione nel termine prescritto (cfr. sul punto tra le tante Cass. Civ. 5 marzo 2003, n. 3254).
Rispetto alla determinazione del momento iniziale della decorrenza del termine perentorio di 90 giorni va considerato che l'art. 14 della legge n. 689 del 1981 correla il dies a quo all'accertamento della violazione; tuttavia, come costantemente ribadito dalla giurisprudenza, l'accertamento non coincide con la generica e approssimativa percezione del fatto, ma con il compimento di tutte le indagini necessarie al fine della piena conoscenza di esso.
Insomma, la mera constatazione dei fatti nella loro materialità non coincide necessariamente con l'accertamento degli estremi della violazione, cui si correla la decorrenza del termine di contestazione, perché vi sono ambiti in cui l’accertamento della violazione richiede un’apposita attività istruttoria e valutativa dei fatti constatati.
Ecco, allora, che il termine non decorre dalla semplice notizia di un fatto astrattamente idoneo ad integrare una violazione, ma dall’acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita, effettuata sulla base di un’apposita attività valutativa, sicché non è computabile ai fini della decorrenza del termine il periodo ragionevolmente occorso, in relazione alla complessità delle singole fattispecie, per l’acquisizione e la delibazione degli elementi necessari “per una matura e legittima formulazione della contestazione” (cfr. Cass. Civ., 29 febbraio 2008, n. 5467; Consiglio di stato, sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 341; T.a.r. Lazio, sez. III ter, 22 novembre 2007, n. 12490; T.a.r. Lombardia Milano, sez. III, 29 dicembre 2008, n. 6181).
Nella fattispecie in esame l’amministrazione ha avviato l’istruttoria in data 01.06.2007, con la delibera n. 124/07, concludendola con la delibera n. 227/07 del 18.09.2007, che segna il momento di accertamento della violazione a seguito del compimento di tutte le indagini necessarie per la piena conoscenza di essa, con conseguente decorrenza del termine perentorio di 90 giorni posto dall'art. 14 della legge n. 689 del 1981.
D’altro canto la contestazione della violazione è avvenuta con la deliberazione datata 4 dicembre 2007 n. 301, recante avvio di istruttoria formale, notificata alla società ricorrente in data 28.12.2007.
Ne deriva che tra l’accertamento della violazione, riconducibile, come già evidenziato, alla deliberazione n. 227/2007 del 18.09.2007 di chiusura dell’istruttoria e la contestazione degli addebiti, avvenuta con la notificazione in data 28.12.2007 della deliberazione n. 301/2007, è intercorso un termine superiore a 90 giorni, con conseguente violazione dell’art. 14 della legge 1981 n. 689.
Ne deriva la fondatezza del motivo in esame, atteso che l’Autorità ha violato il termine previsto dall’art. 14 della legge 1981 n. 689, effettuando la contestazione degli addebiti dopo il decorso di 90 giorni dall’accertamento della violazione.
Il carattere assorbente della censura esaminata consente di prescindere dall’esame delle ulteriori doglianze articolate nel ricorso.
3) E’ parzialmente fondata la domanda con la quale la società ricorrente chiede la condanna dell’Autorità alla restituzione delle somme versate a titolo di sanzione in esecuzione della deliberazione datata 22 novembre 2010 n. VIS 148/10.
Invero, l’annullamento del provvedimento sanzionatorio impugnato in via principale comporta il venire meno ex tunc del titolo in base al quale la società ricorrente ha provveduto al pagamento della sanzione irrogatale, sicché i relativi importi devono essere restituiti dall’amministrazione resistente.
Del resto, si tratta di una condanna ad un facere non provvedimentale, rispetto al quale non si delineano profili di discrezionalità idonei a precludere la condanna dell’amministrazione in sede di cognizione, ai sensi dell’art. 34 c.p.a., fermo restando che la controversia, afferendo a provvedimenti sanzionatori, rientra nella giurisdizione esclusiva e funzionale del Tribunale, ai sensi degli artt. 14, comma 2, e 133 lett. l, c.p.a..
Viceversa la domanda non può essere accolta nella parte in cui chiede la rivalutazione monetaria delle somme versate.
Il credito di cui si tratta è di valuta, avendo ab origine ad oggetto una somma di denaro, pertanto la rivalutazione può astrattamente venire in considerazione come componente della pretesa vantata in termini di maggior danno da ritardato adempimento del debito, ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, c.c..
Sul punto, dopo altalenanti orientamenti giurisprudenziali, variamente articolati nel corso di decenni, in ordine alla prova che il creditore deve fornire per conseguire il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria in caso di tardivo adempimento di debiti di valuta ed, in particolare, in ordine ai limiti all’utilizzabilità della prova presuntiva, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono recentemente intervenute sul punto, enucleando precisi principi di diritto, cui aderisce il Tribunale.
Si è precisato (cfr. Cassazione civile, Sezioni Unite, 16 luglio 2008, n. 19499 e giurisprudenza successiva, tra le tante si consideri Cassazione civile sez. III, 28 marzo 2012, n. 4959; Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 8 marzo 2012, n. 3682) che: “a) nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2 (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate - nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284 cod. civ., comma 1; b) è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata; c) il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti; d) in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa".
In definitiva, il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, mentre al di fuori di tale meccanismo presuntivo deve essere provato in modo specifico dalla parte che ne chiede il ristoro.
Nondimeno la giurisprudenza già citata ha precisato, in modo del tutto coerente con i criteri che governano il riparto dell’onere della prova, che la sopravvenuta svalutazione monetaria non ne consente una rivalutazione d'ufficio, occorrendo una domanda del creditore di riconoscimento del maggior danno nei limiti previsti dall'art. 1224, comma 2, c.c. ed il soddisfacimento del relativo onere probatorio.
Insomma, spetta al ricorrente richiedere il maggior danno da svalutazione fornendo la prova almeno presuntiva di questo e cioè almeno del tasso del bot non superiore all'anno (sul punto, testualmente, Cassazione civile, sez. III, 28 marzo 2012, n. 4959).
Nel caso di specie, la domanda di rivalutazione non è supportata sul piano probatorio, perché la parte ricorrente non ha dimostrato, neppure in via indiziaria, che nel periodo preso in considerazione il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali.
La mancata soddisfazione dell’onere probatorio, peraltro di minima difficoltà, conduce al rigetto della domanda di condanna al pagamento di somme a titolo di danno da svalutazione monetaria.
Nondimeno, la circostanza che si tratti di un debito restitutorio di valuta rende fondata, ex art. 1224, comma 1, c.c., la pretesa alla corresponsione degli interessi di mora, al saggio legale, dal momento della costituzione in mora dell’amministrazione, ossia dal momento della notificazione del ricorso in esame, recante anche la domanda restitutoria, fino alla concreta soddisfazione della pretesa vantata.
4) E’ infondata la domanda di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno per violazione del termine di effettuazione della contestazione degli addebiti, articolata dalla ricorrente richiamando l’art. 2 bis, comma 1, della legge 1990 n. 241.
Sul punto è sufficiente osservare che l’art. 2 bis, comma 1, della legge 1990 n. 241, da correlare all’art. 30, comma 4, c.p.a., prevede che anche la violazione, dolosa o colposa, da parte dell’amministrazione del termine di conclusione del procedimento può essere fonte di responsabilità risarcitoria, qualora da tale comportamento derivi un danno ingiusto.
La norma non introduce una forma automatica di indennizzo correlata alla mera violazione del termine procedimentale, ma precisa che anche questa violazione può essere fonte di un danno ingiusto da risarcire.
Pertanto, la fattispecie rientra nell’ambito dell’illecito extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. e la pretesa risarcitoria può essere accolta solo in quanto siano provati gli elementi costitutivi della responsabilità risarcitoria.
Nel caso di specie la ricorrente, oltre a non avere dimostrato la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, non ha neppure allegato e provato la sussistenza di un danno risarcibile.
Ne deriva l’infondatezza della domanda risarcitoria, che, pertanto, deve essere respinta.
5) In definitiva, il ricorso è parzialmente fondato e merita accoglimento nei limiti dianzi esposti.
La soccombenza parziale reciproca consente di compensare tra le parti le spese della lite.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza)definitivamente pronunciando accoglie in parte il ricorso e per l’effetto:
1) annulla la deliberazione dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas datata 22 novembre 2010 n. VIS 148/10;
2) condanna l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas alla restituzione delle somme versate dalla società ricorrente a titolo sanzionatorio in forza della deliberazione datata 22 novembre 2010 n. VIS 148/10, con esclusione della rivalutazione monetaria, ma con corresponsione degli interessi di mora al saggio legale dal giorno della notificazione del ricorso e sino alla completa soddisfazione;
3) respinge la domanda di condanna al risarcimento del danno;
4) compensa tra le parti le spese della lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 14 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Dario Simeoli, Primo Referendario
Fabrizio Fornataro, Primo Referendario, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 17/12/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


venerdì 7 giugno 2013

ADUNANZE PLENARIE: regolarità fiscale ex art. 38 D.lgs. n. 163/06 e rateizzazione del debito tributario (Ad. Plen., sentenza 5 giugno 2013, n. 15).


ADUNANZE PLENARIE: 
regolarità fiscale ex art. 38 D.lgs. n. 163/06 e rateizzazione del debito tributario 
(Ad. Plen., sentenza 5 giugno 2013, n. 15)


Massima

1. L’Adunanza aderendo al prevalente indirizzo interpretativo, comunitario e nazionale, affermatosi in subiecta materia, ha ribadito che il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata accolta con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo.
E' pertanto necessario che l'istanza di rateizzazione sia stata accolta prima della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione alla gara e preceda l'autodichiarazione circa il possesso della regolarità, essendo inammissibile una dichiarazione che attesti il possesso di un requisito in data futura.
2.  La bontà della tesi sposata dalla giurisprudenza pressoché univoca di questo Consiglio trova riscontro nella conformazione nella disciplina dell’istituto della rateizzazione fiscale ex art. 19 del d.P.R. n. 602/1973.
2.1 Sul piano teleologico la rateizzazione del debito tributario è espressione del favore legislativo verso i contribuenti in temporanea difficoltà economica, ai quali viene offerta la possibilità di regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere nel rischio di insolvenza. Pertanto, condizione per la concessione del beneficio è la dimostrazione dell’ obiettiva situazione di temporanea difficoltà in cui versa il debitore impossibilitato a pagare in un’ unica soluzione il debito iscritto a ruolo e, tuttavia, in grado di sopportare l’onere finanziario derivante dalla ripartizione dello stesso debito in un numero di rate congruo rispetto alle sue condizioni patrimoniali.
2.2 Sul versante tecnico la rateizzazione si traduce in un beneficio che, una volta accordato, comporta la sostituzione del debito originario con uno diverso, secondo un meccanismo di stampo estintivo-costitutivo che dà la stura a una novazione oggettiva dell’obbligazione originaria ai sensi degli art. 1230 e ss. del cod. civ..
3.  La configurazione del meccanismo novativo fa sì che, nell’arco di tempo che precede l’accoglimento della domanda, resta in vita il debito originario, la cui esistenza è ammessa dallo stesso contribuente con la presentazione della domanda di dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo.
Il debito che grava sul contribuente prima dell’accoglimento dell’istanza, in caso di istanza di rateizzazione non ancora accolta all’atto della scadenza dei termini di presentazione delle domande di partecipazione, è quindi unicamente quello originario, in quanto tale certo (tanto nella sua esistenza quanto nel suo ammontare), scaduto ed esigibile nei sensi richiesti dal comma 2 dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
4.  Va soggiunto che l’inidoneità della mera presentazione dell’istanza di dilazione a soddisfare il requisito della regolarità contributiva è corroborata dalla considerazione che l’ammissione alla rateazione non costituisce, di norma (fa eccezione l'art. 38 del d. lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, relativo all’imposta di successione), atto dovuto, in quanto l’art. 19 del d.P.R. n. 602/1973 conferisce all’Amministrazione il potere discrezionale di valutare quell’ "obiettiva difficoltà economica" che si è in precedenza visto essere presupposto per la concessione del beneficio. Ne deriva che l’ammissione alla procedura del concorrente che non abbia ancora ottenuto il provvedimento favorevole, oltre a sancire una deroga atipica al principio secondo cui i requisiti di partecipazione alle gare vanno verificati al momento della scadenza dei termini fissati per la presentazione delle domande, innesterebbe nello svolgimento della procedura di evidenza pubblica il fattore di incertezza legato all’accertamento di un requisito in fieri, collegato alla variabile della valutazione discrezionale dell’amministrazione tributaria.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10 di A.P. del 2013, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Ligra Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni De Vergottini, con domicilio eletto presso Giovanni De Vergottini in Roma, via A. Bertoloni, n. 44; 
contro
Poste Italiane Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Marco Filippetto e Mario Sanino, con domicilio eletto presso Spa Poste Italiane Direzione Affari Legali, in Roma, viale Europa, n. 175; 
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
Bruno Raffaele, Pariso Ciro, Grimaldi Massimo, Mazzarella Vincenzo, Lo Franco Giuseppe, Avallone Vincenzo, La Magna Marco, Ilardo Ferdinando, Covino Tommaso, Abbatiello Vittorio, Sacco Fabio, Sacco Marco, Paciocco Alessandro, Castelluccio Salvatore, Schiano Nicola, D'Alise Antonio, Vannella Dario, Pullo Katia, Esposito Brunella, Scognamiglio Danilo, Tarantino Alfredo, Lucarelli Marco, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Roberto Manservisi, con domicilio eletto presso la segreteria del Consiglio di Stato in Roma, alla piazza Capo di Ferro, n. 13; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III TER n. 07382/2012, resa tra le parti, concernentei servizio di distribuzione e raccolta di corrispondenza prodotti postali ed espletamento servizi ausiliari

Visti il ricorso in appello, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Poste Italiane Spa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 aprile 2013 il Cons. Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati De Vergottini, Filippetto, Sanino e Manservisi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
1. La società Ligra a r.l. propone appello avverso la sentenza di primo grado che ha respinto l’originario ricorso proposto nei confronti della determinazione con la quale Poste Italiane s.p.a. ne aveva disposto l’esclusione dall’albo dei fornitori.
Il suddetto provvedimento era motivato in ragione della ritenuta violazione dell’art. 38, comma 1, lett. g) del codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163), in ragione dell’omessa dichiarazione in ordine all’esistenza di due cartelle esattoriali.
In sede d’appello parte ricorrente ripropone la tesi, disattesa dalla sentenza gravata, secondo cui siffatte cartelle non sarebbero riferibili a violazioni di obblighi tributari definitivamente accertati ex art. 38, comma 1, lett. g), in quanto:
- con riguardo alla prima cartella (n. 07120110100998446000), la Ligra s.r.l. aveva richiesto ad Equitalia Sud s.p.a. la rateizzazione degli importi dovuti all’Erario, istanza in prosieguo accolta da Equitalia;
- con riguardo alla seconda cartella (n. 07120100112047469000), al momento in cui la Ligra s.r.l. aveva reso la dichiarazione di regolarità fiscale non era ancora decorso il termine per l’impugnazione e per la richiesta di rateizzazione.
Si è costituita Poste Italiane s.p.a., che ha chiesto il rigetto dell’appello.
I soggetti in epigrafe specificati hanno spiegato intervento adesivo.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza parziale, ha rigettato i motivi di appello con cui parte ricorrente aveva dedotto la violazione di termini a difesa, la conclusione del procedimento di qualificazione per facta concludentia e la lesione di un suo legittimo affidamento.
Ai fini dell’esame del motivo d’appello che involge la questione di diritto relativa alla portata dell’art. 38, comma 1, lett. g), del codice dei contratti pubblici, la Sezione ha deferito con apposita ordinanza la soluzione della controversia al vaglio dell’ Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo.
All’udienza del 22 aprile 2013 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. La questione rimessa all’Adunanza Plenaria riguarda l’individuazione dell’esatta portata del concetto di definitività dell’accertamento della violazione tributaria, ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, laddove vengano in rilievo meccanismi di rateizzazione o dilazione del debito tributario ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 e di norme analoghe (cfr. la sospensione amministrativa della riscossione di cui all'art. 39 del medesimo DPR n. 602/1973).
2. Deve essere, in via preliminare, riepilogato il quadro normativo che regola la fattispecie sottoposta all’esame dell’Adunanza Plenaria.
L’articolo 38, comma 1, lettera g, del codice dei contratti pubblici stabilisce che “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti…. che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”.
Il d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, ha dettato un parametro quantitativo cui ancorare l’elemento della gravità della violazione (“si intendono gravi le violazioni che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse per un importo superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602”).
Su altro fronte, il d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito in legge 26 aprile 2012, n. 44, è intervenuto fornendo una definizione normativa di “definitività” dell’accertamento (art. 1, comma 5, modificativo del comma 2 dell’art. 38 cit.: “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”), e, al contempo, regolando le situazioni poste in essere precedentemente all’entrata in vigore dello stesso decreto (art. 1, comma 6 : “Sono fatti salvi i comportamenti già adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto dalle stazioni appaltanti in coerenza con la previsione contenuta nel comma 5”).
La ratio della normativa fin qui passata in rassegna risponde all'esigenza di garantire l'amministrazione pubblica in ordine alla solvibilità e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale essa contrae.
Concentrando l'esame sul concetto di "violazione definitivamente accertata", occorre poi rammentare che l'art. 38 citato è direttamente attuativo dell'articolo 45 della direttiva 2004/18, norma volta ad accertare la sussistenza dei presupposti di generale solvibilità dell'eventuale futuro contraente della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. III, 5 marzo 2013, n. 1332).
L’ attribuzione di un effetto rigidamente preclusivo all’inadempimento fiscale legislativamente qualificato risponde all’ esigenza di contemperare la tendenza dell’ordinamento ad ampliare la platea dei soggetti ammessi alle procedure di gara alla stregua del canone del favor partecipationis con la necessaria tutela dell’ interesse del contraente pubblico ad evitare la stipulazione con soggetti gravati da debiti tributari che incidono in modo significativo sull'affidabilità e sulla solidità finanziaria degli stessi.
3. Tanto premesso in merito alla coordinate normative di riferimento e alla ratio che le ispira, si tratta di stabilire se, ai fini dell’integrazione del requisito della regolarità fiscale di cui all'art. 38 cit., sia sufficiente che, entro il termine di presentazione dell'offerta, sia stata presentata da parte del concorrente istanza di rateazione del debito tributario oppure occorra che il relativo procedimento si sia concluso con un provvedimento favorevole.
4. E’ da rilevarsi che, con riguardo alla questione di diritto rimessa all’Adunanza Plenaria, l’ordinanza di rimessione ha così riassunto le opzioni ermeneutiche astrattamente percorribili:
-una tesi più rigorosa ritiene che, ai fini della regolarizzazione della posizione fiscale, sia necessaria la positiva definizione del procedimento di rateazione con l’ accoglimento dell'istanza del contribuente prima del decorso del termine fissato dalla lex specialis per la presentazione della domanda di partecipazione;
- una tesi più elastica annette rilievo già alla presentazione dell’istanza di rateazione entro il suddetto confine temporale;
-una linea interpretativa mediana ammette alla partecipazione l’impresa che abbia presentato istanza di rateizzazione, sub condicione della positiva definizione della procedura prima dell’aggiudicazione della gara e della conseguente stipulazione del contratto.
5. L’Adunanza ritiene che la quaestio iuris debba essere risolta in conformità al prevalente indirizzo interpretativo affermatosi in subiecta materia.
5.1. La giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte giust. CE, Sez. I, 09 febbraio 2007, n. 228/04 e 226/04) e quella nazionale (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 22 marzo 2013, n. 1633; sez. III, 5 marzo 2013, n. 1332; sez. VI, 29 gennaio 2013, n. 531; sez. V, 18 novembre 2011, n. 6084), al pari dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (cfr. determinazione 16 maggio 2012, n. 1; determinazione 12 gennaio 2010, n. 1; parere 12 febbraio 2009, n. 23; deliberazione 18 aprile 2007, n. 120), hanno anche di recente ribadito, sulla scorta di argomentazioni suscettibili di condivisione, l’adesione alla tesi più rigorosa secondo cui il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata accolta con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo.
Si è a tale stregua subordinata l’ammissione alla procedura alla condizione che “l'istanza di rateizzazione sia stata accolta prima della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione alla gara e preceda l'autodichiarazione circa il possesso della regolarità, essendo inammissibile una dichiarazione che attesti il possesso di un requisito in data futura” (Cons. Stato sez. VI n. 531/2013 cit.; vedi anche, ex plurimis, Cons. St., sez. V, 18 novembre 2011, n. 6084, che mette l’accento sulle condizioni di ammissione date dall’ “ottenimento della rateizzazione” o dalla “dimostrazione di aver beneficiato di un concordato al fine di una rateizzazione o di una riduzione dei debiti”).
5.2. La bontà della tesi sposata dalla giurisprudenza pressoché univoca di questo Consiglio trova riscontro nella conformazione nella disciplina dell’istituto della rateizzazione fiscale ex art. 19 del d.P.R. n. 602/1973.
5.2.1. Sul piano teleologico la rateizzazione del debito tributario è espressione del favore legislativo verso i contribuenti in temporanea difficoltà economica, ai quali viene offerta la possibilità di regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere nel rischio di insolvenza. Pertanto, condizione per la concessione del beneficio è la dimostrazione dell’ obiettiva situazione di temporanea difficoltà in cui versa il debitore impossibilitato a pagare in un’ unica soluzione il debito iscritto a ruolo e, tuttavia, in grado di sopportare l’onere finanziario derivante dalla ripartizione dello stesso debito in un numero di rate congruo rispetto alle sue condizioni patrimoniali.
5.2.2.Sul versante tecnico la rateizzazione si traduce in un beneficio che, una volta accordato, comporta la sostituzione del debito originario con uno diverso, secondo un meccanismo di stampo estintivo-costitutivo che dà la stura a una novazione dell’obbligazione originaria (cfr. Cons. St., Sez. IV, 22 marzo 2013, n. 1633).
L’ammissione alla rateizzazione, rimodulando la scadenza dei debiti tributari e differendone l’esigibilità, implica quindi la sostituzione dell’originaria obbligazione a seguito dell’insorgenza di un nuovo rapporto obbligatorio secondo i canoni della novazione oggettiva di cui agli artt. 1230 e seguenti del codice civile.
Il risultato è la nascita di una nuova obbligazione tributaria, caratterizzata da un preciso piano di ammortamento e soggetta a una specifica disciplina per il caso di mancato pagamento delle rate.
5.2.3. La configurazione del meccanismo novativo fa sì che, nell’arco di tempo che precede l’accoglimento della domanda, resta in vita il debito originario, la cui esistenza è ammessa dallo stesso contribuente con la presentazione della domanda di dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo.
Il debito che grava sul contribuente prima dell’accoglimento dell’istanza, in caso di istanza di rateizzazione non ancora accolta all’atto della scadenza dei termini di presentazione delle domande di partecipazione, è quindi unicamente quello originario, in quanto tale certo (tanto nella sua esistenza quanto nel suo ammontare), scaduto ed esigibile nei sensi richiesti dal comma 2 dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
A sostegno dell’assunto depone viepiù la considerazione che l’art. 19 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel regolamentare l’istituto della dilazione del pagamento, al comma 1-quater, pone quale unico limite all’attività forzosa dell’agente della riscossione, una volta ricevuta la richiesta di rateazione, l’inibizione all’iscrizione di ipoteca ex art. 77. Ne deriva che, salva questa specifica prescrizione di favore a tutela del debitore richiedente, la presentazione dell’istanza non incide ex se sull’esigibilità del credito originario e sulla conseguente possibilità per il creditore pubblico di dare impulso alle procedure finalizzate alla relativa riscossione in executivis.
Va soggiunto che l’inidoneità della mera presentazione dell’istanza di dilazione a soddisfare il requisito della regolarità contributiva è corroborata dalla considerazione che l’ammissione alla rateazione non costituisce, di norma (fa eccezione l'art. 38 del d. lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, relativo all’imposta di successione), atto dovuto, in quanto l’art. 19 del d.P.R. n. 602/1973 conferisce all’Amministrazione il potere discrezionale di valutare quell’ "obiettiva difficoltà economica" che si è in precedenza visto essere presupposto per la concessione del beneficio. Ne deriva che l’ammissione alla procedura del concorrente che non abbia ancora ottenuto il provvedimento favorevole, oltre a sancire una deroga atipica al principio secondo cui i requisiti di partecipazione alle gare vanno verificati al momento della scadenza dei termini fissati per la presentazione delle domande, innesterebbe nello svolgimento della procedura di evidenza pubblica il fattore di incertezza legato all’accertamento di un requisito in fieri, collegato alla variabile della valutazione discrezionale dell’amministrazione tributaria.
5.3. Le considerazioni da ultimo esposte ostano alla praticabilità anche della tesi mediana secondo cui l’istante che abbia presentato richiesta di rateazione dovrebbe essere ammesso a condizione del conseguimento del beneficio nel corso della procedura di gara.
A sostegno della soluzione in esame non può, infatti, militare in modo decisivo la valorizzazione del principio del favor partecipationis, in quanto la preferenza per un ampliamento del novero dei partecipanti non è un valore assoluto ma deve essere ricondotta nel suo alveo naturale, dato dalla sua funzione di strumento volto al conseguimento dell’ obiettivo di assicurare la scelta del miglior contraente in una gara celere e trasparente alla stregua del codice dei contratti pubblici.
Il favor admissionis non può pertanto giustificare l’ammissione di un contraente, sprovvisto al momento della domanda del requisito della regolarità tributaria, in forza di una riserva il cui scioglimento sarebbe caratterizzato da profili di aleatorietà sia sul piano dell’an che sul versante del quando.
Il principio della certezza del quadro delle regole e dei tempi della procedura di evidenza pubblica impone, infatti, che i requisiti di partecipazione siano verificati in modo compiuto al momento della scadenza dei termini di presentazione delle domande e impedisce un’ammissione condizionata che si rifletterebbe negativamente sui valori dell’efficienza e della tempestività dell’azione amministrativa, subordinando l’aggiudicazione e la successiva stipulazione a fattori caratterizzati dagli esposti profili di imponderabilità.
5.4. L’adesione all’orientamento più rigoroso non è scalfito, ai fini che in questa sede rilevano, dalla citata novella normativa secondo cui “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili” (art. 1, comma 5, del decreto legge n. 16/2012).
Si è già osservato in precedenza che la presentazione di un’istanza di ripartizione del debito in rate, dando la stura ad un meccanismo volto alla produzione di un fenomeno novativo, non incide, alla luce della disciplina tributaria e della normativa civilistica, sulla sussistenza dei suddetti requisiti del credito nelle more della definizione della procedura.
Detto assunto è confermato dal tenore dei lavori preparatori.
In particolare, dall’esame della relazione tecnica (A.S. 3184) di accompagnamento al d.l. sulle semplificazioni fiscali si ricava come l’ intenzione del legislatore fosse quella di intendere non scaduti ed esigibili i debiti per i quali sia stato “concordato un piano di rateazione” rispetto al quale il contribuente è in regola con i pagamenti. Di tenore ancor più inequivocabile è la scheda di lettura (n. 625/4) redatta dall’Ufficio Studi della Camera dei Deputati in data 15 giugno 2012 in cui si afferma che i commi 5 e 6 sono volti a non escludere dalle gare pubbliche il contribuente “ammesso alla rateizzazione” del proprio debito tributario.
È pertanto chiara la volontà di considerare in regola con il fisco unicamente il contribuente cui sia stata accordata la rateizzazione e la conferma del principio secondo cui la mera presentazione dell’istanza di rateazione o dilazione non rileva ai fini della dimostrazione del requisito della regolarità fiscale.
5.5. Non può infine essere valorizzato, in senso contrario alla tesi rigorosa fin qui esposta, l’argomento secondo cui sarebbe iniquo che la tardiva definizione della procedura finalizzata alla concessione della rateazione o della dilazione si riflettesse negativamente sulla sfera giuridica dell’istante, sub specie di esclusione dalla procedura di evidenza pubblica regolate dal codice dei contratti pubblici. Si deve infatti osservare, in direzione opposta, che l’inibizione legale trova fondamento nella condizione di illiceità fiscale imputabile al concorrente e che il beneficio della rateazione è previsto da una normativa eccezionale i cui effetti favorevoli non possono superare i confini delle espresse previsioni legislative, riflettendosi nell’ammissione alla gara di un soggetto gravato da un debito tributario liquido, scaduto ed esigibile.
6. Questa Adunanza reputa in definitiva che, alla stregua delle considerazioni che precedono, debba trovare conferma l’indirizzo ermeneutico secondo cui non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione.
7. L’applicazione di tali coordinate conduce alla reiezione dell’appello, ricavandosi dagli atti di causa che per una delle due cartelle esattoriali oggetto di giudizio la parte ricorrente, al momento della presentazione della dichiarazione di regolarità fiscale, non aveva ancora conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione.
La complessità della questione di diritto affrontata giustifica la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere, Estensore
Maurizio Meschino, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Vittorio Stelo, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 05/06/2013
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione

ENTI LOCALI: azione popolare "ex" art. 70 TUEL per l’incompatibilità tra sindaco e parlamentare (Corte Costituzionale, 5 giugno 2013, n. 120).


ENTI LOCALI: 
azione popolare "ex" art. 70 TUEL per l’incompatibilità tra sindaco e parlamentare 
(Corte Costituzionale, 5 giugno 2013, n. 120)


Commento e Massima (dal sito "Il Diritto Amministrativo")

La sentenza in epigrafe costituisce il prolungamento del ragionamento logico iniziato con la decisione n. 277/11, nella quale il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 15 febbraio 1953, n. 60, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti.
Precisamente, è apparso incoerente il sistema in quanto proibiva ai sindaci dei grandi comuni di essere eletti parlamentari, ma nel contempo non disponeva nulla, in termini di incompatibilità, per chi già parlamentare fosse divenuto sindaco in costanza di mandato. In tal senso si è addotto il “«naturale carattere bilaterale dell’ineleggibilità», il quale inevitabilmente «finisce con il tutelare, attraverso il divieto a candidarsi in determinate condizioni, non solo la carica per la quale l’elezione è disposta, ma anche la carica, il cui esercizio è ritenuto incompatibile con la candidatura in questione»“. Si è quindi ritenuto che il sistema, facendo dipendere la cumulabilità o meno delle cariche dalla circostanza casuale della cadenza temporale delle tornate elettorali, ledesse il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, nonché la libertà di elettorato attivo e passivo.
Attesa l’identità di ratio fondata sul naturale carattere bilaterale della causa di incompatibilità e la stessa necessità di rimediare ad una omissione, la Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità dell’art. 60 del d.lgs. n. 267/2000 (cd. T.U.E.L.) “nella parte in cui non prevede l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti” e, conseguentemente, impedisce di far valere tale specifica incompatibilità mediante l’azione popolare di cui all’art. 70 del medesimo decreto. TM


Sentenza per esteso
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 63 e 70 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), promosso dal Tribunale ordinario di Napoli nel procedimento vertente tra Boccellino Giovanni ed altri e Nespoli Vincenzo ed altro, con ordinanza del 14 marzo 2012 iscritta al n. 262 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 aprile 2013 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto
1. – In un giudizio promosso (con ricorso depositato il 5 dicembre 2011) da cittadini elettori nei confronti del Sindaco di Afragola – per accertare la sussistenza in capo a questo della causa di incompatibilità tra tale carica e quella di senatore della Repubblica italiana e dichiararne la decadenza dalla prima – il Tribunale ordinario di Napoli, prima sezione civile, con ordinanza emessa il 14 marzo 2012, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 63 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), «in combinato disposto con l’art. 70 del D.Lgs. n. 267/2000, nella parte in cui il suddetto articolo 63, nel sancire le cause di incompatibilità, non prevede l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di Sindaco di un Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti, non consentendo così l’esercizio dell’azione popolare, per la lesione degli articoli 3, 51, 67 e 97 della Costituzione nonché del principio di ragionevolezza in riferimento agli artt. 1, 2, 3 e 4 della L. n. 53/1960 [recte: n. 60/1953] come dichiarati costituzionalmente illegittimi dalla sentenza n. 277 del 2011 della Corte Costituzionale».
Il rimettente espone che l’elezione a sindaco del convenuto era avvenuta nella tornata elettorale del 13 e 14 aprile 2008 e nel successivo turno di ballottaggio del 28 e 29 aprile 2008 (ed era stata convalidata l’11 giugno 2008), mentre il medesimo rivestiva anche la carica di parlamentare nazionale in quanto eletto al Senato della Repubblica nella XVI legislatura, in data 13 aprile 2008 (proclamato il 24 aprile 2008, con convalida in data 1° luglio 2008), con conseguente contemporanea assunzione delle due cariche.
Ciò premesso – esaminato il quadro normativo vigente in tema di incompatibilità tra cariche pubbliche e di modalità di contestazione e di accertamento, in particolare con riguardo alle cariche di parlamentare e di sindaco –, il Collegio rileva che nel decreto legislativo n. 267 del 2000, tra le disposizioni che prevedono le cause di ineleggibilità ed incompatibilità, anche sopravvenute, non si rinviene alcuna previsione che sancisca l’ineleggibilità del parlamentare a sindaco e l’incompatibilità tra le due cariche, giacché un riferimento ai profili di interferenza tra dette cariche si trova solo nell’art. 62, che disciplina (con previsione coincidente a quella contenuta nell’art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, recante «Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati», e negli artt. 2 e 5 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, recante «Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica») il diverso caso in cui la accettazione della candidatura a parlamentare comporta la decadenza dalla carica di sindaco di un Comune con popolazione superiore a 20.000 abitanti.
Richiamate analiticamente le argomentazioni contenute nella sopra citata sentenza di questa Corte n. 277 del 2011, nel respingere le eccezioni del convenuto di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione e decadenza dall’azione, il Tribunale osserva, da un lato, che – se va considerato che l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco, enucleata da detta sentenza, non ricade direttamente sull’ambito applicativo del decreto legislativo n. 267 del 2000, ove è disciplinata l’azione popolare – non può non considerarsi che la mancata possibilità di esercitarla, conseguente a questa assenza normativa, determinerebbe una disarmonia ed un disequilibrio del sistema, così da causare una sperequazione tra il diritto di elettorato passivo rispetto al diritto di elettorato attivo, «atteso che la valutazione di una incompatibilità ricadente su due diverse cariche elettive (parlamentare e sindaco) si troverebbe ad essere parzialmente sottratta all’ordinario sistema di accertamento e contestazione previsto per una delle due (sindaco)»; laddove, comunque, la domanda proposta in giudizio non verterebbe in materia coperta dalla riserva di autodichia di cui all’art. 66 Cost., giacché «la qualità di parlamentare non è in nessun caso suscettibile di subire riflessi giuridici, diretti o indiretti, dalla decisione che l’A.G.O. è tenuta ad assumere nel merito dell’azione popolare esperita in relazione alla carica di Sindaco». Dall’altro lato, il Tribunale rileva che secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, l’azione elettorale si colloca su un piano di assoluta autonomia rispetto alla delibera consiliare di convalida dell’elezione, involgendo posizioni di diritto soggettivo perfetto; e che pertanto i pieni poteri di cognizione del giudice ordinario, comprendenti anche quello di correggere il risultato delle elezioni, non sono influenzati da eventuali provvedimenti del consiglio comunale, né il relativo procedimento amministrativo può incidere sulla proponibilità dell’azione giudiziaria, che prescinde sia dalla esistenza di un deliberato consiliare sia dalla correlativa impugnativa di esso.
Escluso che la censurata lacuna normativa possa essere colmata in via di applicazione estensiva o analogica, ovvero di interpretazione costituzionalmente orientata (atteso il principio di tassatività delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità), il rimettente osserva, dunque, come la mancata previsione nel decreto legislativo n. 267 del 2000 della incompatibilità (legislativamente prevista, sia pure in altra legge, in ragione della richiamata sentenza n. 277 del 2011) tra la carica di sindaco di un Comune con più di 20.000 abitanti e di parlamentare, non consentendo tra l’altro la utilizzabilità dell’azione popolare, si ponga in contrasto: a) con l’art. 3 Cost., «sotto il profilo della ragionevolezza, per la violazione del principio generale secondo cui un soggetto non può assumere e mantenere durante il proprio mandato la carica di parlamentare e di sindaco tra le quali è stata sancita una incompatibilità ex lege ex artt. 2, 3 e 4 della legge n. 60/1953 come dichiarati costituzionalmente illegittimi dalla sentenza n. 277 del 2011 della Corte Costituzionale, senza che sia consentito ai cittadini elettori di sottoporre questa situazione al vaglio della giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 70 del D.Lgs. n. 267/2000, come previsto per tutte le altre ipotesi di incompatibilità dettate ex lege per il Sindaco»; e con il «principio di eguaglianza specificamente sancito in materia elettorale dall’art. 51 Cost.»; b) con l’art. 67 Cost., «nella parte in cui viene in evidenza una possibile contrapposizione d’interessi tra enti locali, e segnatamente tra Comuni aventi una rilevante popolazione, ed organizzazione statuale nazionale, con conseguente vulnus del principio di libertà di mandato» e di imparzialità nell’esercizio delle funzioni; c) con l’art. 97 Cost., atteso che il cumulo degli uffici di sindaco di un Comune con rilevante popolazione e di parlamentare nazionale può ripercuotersi negativamente sull’efficienza e imparzialità delle funzioni cumulativamente esercitate, come ripetutamente affermato dalla Corte (di cui cita le sentenze n. 143 del 2010, n. 44 del 1997 e n. 235 del 1988).
2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità della sollevata questione, in ragione del fatto che – prevista dall’art. 62 del decreto legislativo n. 267 del 2000 la decadenza (azionabile ai sensi del successivo art. 70) dalle cariche elettive ricoperte per i sindaci dei Comuni con popolazione superiore ai 20 mila abitanti ed i presidenti di Provincia che accettino la candidatura a deputato o senatore – il rimettente muoverebbe dall’erroneo presupposto che la mancata previsione nell’impugnato art. 63 della incompatibilità tra le cariche de quibus precluderebbe la possibilità per il cittadino di far valere la decadenza in oggetto. La difesa erariale rileva viceversa che, nel caso in esame, le conseguenze della contemporaneità dell’incarico parlamentare con quello di sindaco sarebbero già previste e disciplinate con la decadenza, che ben può essere fatta valere (come è stata concretamente esercitata) con l’azione prevista dal citato art. 70.

Considerato in diritto
1. – Il Tribunale ordinario di Napoli, prima sezione civile – chiamato a pronunciarsi su una azione popolare promossa da cittadini elettori nei confronti del Sindaco di Afragola, per accertare la sussistenza in capo ad esso della causa di incompatibilità (per contemporanea assunzione all’esito delle rispettive elezioni tenutesi entrambe nel mese di aprile del 2008) tra tale carica e quella di senatore della Repubblica italiana e dichiararne la decadenza dalla prima – censura dell’articolo 63 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), «in combinato disposto con l’art. 70 del D.Lgs. n. 267/2000, nella parte in cui il suddetto articolo 63, nel sancire le cause di incompatibilità, non prevede l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di Sindaco di un Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti, non consentendo così l’esercizio dell’azione popolare, per la lesione degli articoli 3, 51, 67 e 97 della Costituzione nonché del principio di ragionevolezza in riferimento agli artt. 1, 2, 3 e 4 della L. n. 53/1960 [recte: n. 60/1953] come dichiarati costituzionalmente illegittimi dalla sentenza n. 277 del 2011 della Corte Costituzionale», «nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti».
Secondo il rimettente – escluso che la censurata lacuna normativa possa essere colmata nel giudizio a quo mediante applicazione estensiva o analogica, ovvero interpretazione costituzionalmente orientata, stante il principio di tassatività delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità –, la norma impugnata si pone in contrasto: a) con gli articoli 3 e 51 della Costituzione, «sotto il profilo della ragionevolezza, per la violazione del principio generale secondo cui un soggetto non può assumere e mantenere durante il proprio mandato la carica di parlamentare e di sindaco tra le quali è stata sancita una incompatibilità ex lege […] senza che sia consentito ai cittadini elettori di sottoporre questa situazione al vaglio della giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art.70 del D.Lgs. n. 267/2000, come previsto per tutte le altre ipotesi di incompatibilità dettate ex lege per il Sindaco»; e con il «principio di eguaglianza specificamente sancito in materia elettorale»; b) con l’art. 67 Cost., «nella parte in cui viene in evidenza una possibile contrapposizione d’interessi tra enti locali, e segnatamente tra Comuni aventi una rilevante popolazione, ed organizzazione statuale nazionale, con conseguente vulnus del principio di libertà di mandato» e di imparzialità nell’esercizio delle funzioni; c) con l’art. 97 Cost., atteso che il cumulo degli uffici di sindaco di un Comune con rilevante popolazione e di parlamentare nazionale può ripercuotersi negativamente sull’efficienza e imparzialità delle funzioni cumulativamente esercitate.
2. – L’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta nel presente giudizio in rappresentanza e difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, eccepisce l’inammissibilità della sollevata questione, in ragione di una dedotta erroneità della premessa da cui muove il rimettente, secondo cui la mancata previsione (nell’impugnato art. 63 della incompatibilità) tra le cariche de quibus verrebbe a precludere la possibilità per il cittadino di far valere la decadenza in oggetto. Il rimettente, infatti, non avrebbe considerato che le conseguenze della contemporaneità dell’incarico parlamentare con quello di sindaco sarebbero già previste e disciplinate, con la specifica decadenza sancita dal precedente art. 62, che ben potrebbe essere fatta valere con l’azione popolare.
2.1. – L’eccezione non è fondata.
Essa si basa sull’assunto (privo di fondamento normativo) in base al quale il rimettente (anziché proporre l’incidente di costituzionalità) avrebbe dovuto applicare per la definizione della fattispecie sottoposta al suo giudizio il rimedio disciplinato dall’art. 62 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (azionabile anch’esso con la generale azione di cui all’art. 70, la quale dunque, in tesi, non rimarrebbe preclusa al cittadino elettore). Detto articolo dispone che, «Fermo restando quanto previsto dall’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, e dall’articolo 5 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, l’accettazione della candidatura a deputato o senatore comporta, in ogni caso, per i sindaci dei comuni con popolazione superiore ai 20.000 abitanti e per i presidenti delle province la decadenza dalle cariche elettive ricoperte». Dalla lettura dell’inequivoco disposto normativo emerge viceversa con chiarezza che la norma richiamata dalla difesa dello Stato regola gli effetti derivanti dalla accettazione di una candidatura a parlamentare nazionale da parte di colui il quale (all’atto della candidatura medesima) sia già sindaco di un grande Comune (ovvero presidente di Provincia).
È vero che la previsione della decadenza dalla carica locale già rivestita in ragione della semplice candidatura (svincolata nella sua immediata operatività da qualunque incidenza della successiva elezione alla carica nazionale) risulta finalizzata a realizzare in anticipo (ed «in ogni caso») l’effetto preclusivo di un eventuale cumulo di cariche. Ed è altrettanto vero che – rammentato che costituisce principio costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale quello secondo cui la eleggibilità costituisce la regola, mentre la ineleggibilità rappresenta una eccezione; sicché le norme che disciplinano quest’ultima sono di stretta interpretazione, analogamente a quanto avviene per le cause di incompatibilità, introducendo le une e le altre limitazioni al diritto di elettorato passivo (sentenza n. 283 del 2010) – il censurato art. 63 si riferisce a fattispecie di incompatibilità affatto differente rispetto a quella regolata dal richiamato all’art. 62, che quindi costituisce norma inconferente e non applicabile. Ciò, a meno di non attribuire ad essa (con opzione ermeneutica che smentirebbe radicalmente il menzionato consolidato orientamento) un generale effetto decadenziale derivante dalla mera candidatura al Parlamento nazionale (non caratterizzato dal peculiare rapporto di priorità temporale tra la carica locale già rivestita e quella cui il soggetto aspira), così estendendone inammissibilmente la portata limitativa del diritto di elettorato passivo anche alla fattispecie che ha dato origine al giudizio a quo, in cui (secondo la prospettazione, non contestata) le cariche oggetto del contenzioso sono state conseguite pressoché contemporaneamente, e comunque senza che si sia verificata in concreto il presupposto richiesto dalla disposizione evocata di una accettazione da parte del convenuto della candidatura alle elezioni del Senato, intervenuta in un momento successivo alla elezione del medesimo a Sindaco del Comune di Afragola.
La sottolineata eterogeneità delle fattispecie porta pertanto ad escludere che le lamentate conseguenze della contemporaneità della assunzione dell’incarico parlamentare con quello di sindaco avrebbero potuto essere ovviate dal rimettente attraverso il rimedio di cui all’art. 62 del d.lgs. n. 267 del 2000.
2.2. – Non assume, inoltre, rilevanza ai fini della decisione del presente scrutinio quanto sancito dall’art. 13, comma 3, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, il quale prevede che, «Fermo restando quanto previsto dalla legge 20 luglio 2004, n. 215, e successive modificazioni, le cariche di deputato e di senatore, nonché le cariche di governo di cui all’articolo 1, comma 2, della citata legge n. 215 del 2004, sono incompatibili con qualsiasi altra carica pubblica elettiva di natura monocratica relativa ad organi di governo di enti pubblici territoriali aventi, alla data di indizione delle elezioni o della nomina, popolazione superiore a 5.000 abitanti, fermo restando quanto previsto dall’articolo 62 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Le incompatibilità di cui al primo periodo si applicano a decorrere dalla data di indizione delle elezioni relative alla prima legislatura parlamentare successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto. […]». Come evidenziato dallo stesso rimettente, la espressa posticipazione alla prossima legislatura della operatività della nuova previsione di incompatibilità del parlamentare successivamente eletto sindaco rende la nuova normativa priva di incidenza, ratione temporis, sulla sollevata questione; laddove le eventuali problematiche derivanti dalla duplice regolamentazione della medesima materia troveranno evidentemente soluzione nei giudizi a quibus secondo le generali regole della successione di leggi nel tempo.
Altrettanto è a dirsi quanto alle vicende di fatto sopravvenute rispetto alla proposizione dell’odierno scrutinio di costituzionalità, quali la cessazione del mandato parlamentare ricoperto dal convenuto a seguito della intervenuta conclusione della XVI legislatura: infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, tali mutamenti non sono idonei ad esplicare effetti sul giudizio incidentale, in quanto questo, una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente, non è suscettibile di essere influenzato da successive vicende di fatto concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato, come previsto dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel testo approvato il 7 ottobre 2008 (sentenze n. 274 del 2011 e n. 227 del 2010).
3. – Nel merito, la questione è fondata.
3.1. – Va premesso che – sebbene formalmente risulti censurato l’art. 63 del decreto legislativo n. 267 del 2000 «in combinato disposto con l’art. 70» dello stesso testo unico degli enti locali – nella sostanza, per il rimettente, la denunciata impossibilità di avvalersi dell’azione popolare in mancanza di una previsione che sancisca l’incompatibilità tra le cariche de quibus, non deriva dal dettato dell’art. 70 (che, quale norma processuale, in sé non produce alcuno dei vizi lamentati, trattandosi di un generale rimedio giurisdizionale, utilizzabile per rimuovere tutti i casi in cui siano state violate le regole di ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità previste dall’intero capo II del titolo III del decreto legislativo n. 267 del 2000), ma costituisce un mero effetto della lacuna normativa che il rimettente ravvisa sussistere nella incompleta previsione, appunto, dell’art. 63, richiedendo di colmarla attraverso l’estensione ad essa del dictum di cui alla sentenza n. 277 del 2011.
3.2. – Così individuato il thema decidendum, anche in rapporto al petitum formulato dal rimettente (che, depurato dai richiami di valenza meramente argomentativa, va individuato nella richiesta di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 63 del decreto legislativo n. 267 del 2000, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti), questa Corte rileva, in primo luogo, che nella specie la sollevata questione risulta diretta ad accertare non se debba essere (ri)affermata l’incompatibilità tra l’ufficio di parlamentare nazionale e la carica di sindaco di un Comune di grandi dimensioni. Piuttosto (una volta riconosciuta, con la sentenza n. 277 del 2011, tale causa di incompatibilità attraverso la dichiarazione di incostituzionalità diretta a rimediare ad una omissione presente nel plesso normativo delle leggi sulle incompatibilità parlamentari) che tale previsione – ove si presenti rispetto ad una fattispecie che il rimettente (mediante motivazione non implausibile né contestata) afferma essere regolata dal differente sistema di leggi sull’ordinamento degli enti locali, che deve trovare applicazione nel giudizio a quo in ragione della domanda azionata dai cittadini elettori – venga formalmente ad essere estesa anche a questo, stante la eadem ratio fondata sul naturale carattere bilaterale della causa di incompatibilità, attesa la medesima necessità di rimediare ad una omissione, già ritenuta incostituzionale dalla Corte rispetto ad altra legge (sentenza n. 67 del 2012).
Orbene, nella sentenza n. 277 del 2011 – premesso che l’art. 7, primo comma, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), sancisce che: «Non sono eleggibili: […] c) i sindaci dei Comuni con popolazione superiore ai 20.000 abitanti»; e che, a sua volta, l’art. 5 del decreto legislativo 2 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), dispone che: «Sono eleggibili a senatori gli elettori che, al giorno delle elezioni, hanno compiuto il quarantesimo anno di età e non si trovano in alcuna delle condizioni d’ineleggibilità previste dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione della Camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361» – questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 15 febbraio 1953, n. 60, recante le regolamentazione delle «Incompatibilità parlamentari» (censurati in quanto nulla disponevano, in termini di incompatibilità, per il caso in cui la identica causa di ineleggibilità fosse sopravvenuta rispetto alla elezione a parlamentare), nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti.
Trattandosi in quel contesto decisionale di «verificare la coerenza di un sistema in cui, alla non sindacabile scelta operata dal legislatore (che evidentemente produce in sé una indubbia incidenza sul libero esercizio del diritto di elettorato passivo) di escludere l’eleggibilità alla Camera o al Senato di chi contemporaneamente rivesta la carica di sindaco di grande Comune, non si accompagni la previsione di una causa di incompatibilità per il caso in cui la stessa carica sopravvenga rispetto alla elezione a membro del Parlamento nazionale», questa Corte ha innanzi tutto sottolineato, sotto il profilo sistematico, che la valutazione della mancata previsione della causa di incompatibilità in oggetto deve muoversi non solo sul versante della diversità di ratio e di elementi distintivi proprí, per causa ed effetti, delle cause di ineleggibilità rispetto a quelle di incompatibilità (le prime tradizionalmente intese a limitare lo jus ad officium, onde evitare lo strumentale insorgere di fenomeni di captatio benevolentiae e di metus publicae potestatis; le altre incidenti sullo jus in officio, per scongiurare l’insorgere di conflitti di interessi: sentenze n. 288 del 2007 e n. 235 del 1988).
Deve, viceversa, essere condotta – in ossequio alla esigenza di ricondurre il sistema ad una razionalità intrinseca altrimenti lesa – alla stregua di un criterio più propriamente teleologico, nel cui contesto va evidenziato «il naturale carattere bilaterale dell’ineleggibilità», il quale inevitabilmente «finisce con il tutelare, attraverso il divieto a candidarsi in determinate condizioni, non solo la carica per la quale l’elezione è disposta, ma anche la carica, il cui esercizio è ritenuto incompatibile con la candidatura in questione» (sentenza n. 276 del 1997).
Ed ha quindi affermato, in primo luogo, che «tale profilo finalistico non può trovare attuazione se non attraverso l’affermazione della necessità che il menzionato parallelismo sia assicurato, allorquando il cumulo tra gli uffici elettivi sia, comunque, ritenuto suscettibile di compromettere il libero ed efficiente espletamento della carica, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 51 Cost. (sentenza n. 201 del 2003)»; in secondo luogo, che – poiché in ultima analisi le cause di ineleggibilità e di incompatibilità si pongono quali strumenti di protezione non soltanto del mandato elettivo, ma anche del pubblico ufficio che viene ritenuto causa di impedimento del corretto esercizio della funzione rappresentativa – il potere discrezionale del legislatore di introdurre (o mantenere) dei temperamenti alla esclusione di cumulo tra le due cariche «trova un limite nella necessità di assicurare il rispetto del principio di divieto del cumulo delle funzioni, con la conseguente incostituzionalità di previsioni che ne rappresentino una sostanziale elusione (sentenza n. 143 del 2010)».
Sulla base di tali argomentazioni, anche nella specie va ribadito che, in assenza di una causa normativa (enucleabile all’interno della legge impugnata ovvero dal più ampio sistema in cui la previsione opera) idonea ad attribuirne ragionevole giustificazione, la previsione della non compatibilità di un munus pubblico rispetto ad un altro preesistente, cui non si accompagni, nell’uno e nell’altro, una disciplina reciprocamente speculare, si pone in violazione della naturale corrispondenza biunivoca della cause di ineleggibilità e di incompatibilità, che vengono ad incidere necessariamente su entrambe le cariche coinvolte dalla relativa previsione, anche a prescindere dal dato temporale dello svolgimento dell’elezione.
Tanto più, allorquando «la regola della esclusione “unidirezionale” viene in concreto fatta dipendere, quanto alla sua effettiva operatività, dalla circostanza – meramente casuale – connessa alla cadenza temporale delle relative tornate elettorali ed alla priorità o meno della assunzione della carica elettiva “pregiudicante” a tutto vantaggio della posizione del parlamentare; da ciò la lesione non soltanto del canone di uguaglianza e ragionevolezza ma anche della stessa libertà di elettorato attivo e passivo» (sentenza n. 277 del 2011; nonché sentenza n. 67 del 2012).
3.3 – Pertanto, la sussistenza di un’identica situazione di incompatibilità derivante dal cumulo tra la carica di parlamentare nazionale e quella di sindaco di Comune con popolazione superiore a ventimila abitanti – in assenza di un peculiare motivo (enucleabile all’interno delle disposizioni impugnate ovvero nel più ampio sistema in cui esse operano) idoneo ad attribuirne ragionevole giustificazione ed a prescindere dal momento di assunzione delle cariche medesime – porta (stante l’assoluta identità di ratio) alla declaratoria di illegittimità costituzionale della mancata specifica previsione di tale incompatibilità nella norma impugnata.
3.4. – Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura formulati dal rimettente.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 63 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nella parte in cui non prevede l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI