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venerdì 29 gennaio 2016

ADUNANZE PLENARIE & MILITARI: sull'indennità di trasferimento del personale militare in caso di soppressione della sede di servizio (Ad. Plen., sentenza 29 gennaio 2016, n. 1).


ADUNANZE PLENARIE & MILITARI: 
sull'indennità di trasferimento del personale militare
 in caso di soppressione della sede di servizio 
(Ad. Plen., sentenza 29 gennaio 2016, n. 1)



Principio di diritto

Prima dell’entrata in vigore (al 1° gennaio 2013) dell’art. 1, co. 163, l. 24 dicembre 2012, n. 228 - che ha introdotto il comma 1-bis nell’art. 1, l. 29 marzo 2001, n. 86 - spetta al personale militare l’indennità di trasferimento prevista dal comma 1 del medesimo articolo, a seguito del mutamento della sede di servizio dovuto a soppressione (o diversa dislocazione) del reparto di appartenenza (o relative articolazioni), anche in presenza di clausole di gradimento (o istanze di scelta) della nuova sede, purché ricorrano gli ulteriori presupposti individuati dalla norma, ovvero una distanza fra la nuova e l’originaria sede di servizio superiore ai 10 chilometri e l’ubicazione in comuni differenti.



Sentenza per esteso

 INTESTAZIONE
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8 di A.P. del 2015, proposto dal Ministero dell'economia e delle finanze - Comando generale della Guardia di finanza – in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12; 
contro
i signori Luciano Giamberardino, Demetrio Dosa, Giacomo Ficchì, Giulio Ciociola, Gabriele Rizzi, Nunzio Marmorea, Andrea Rizza, Marco Colombo, tutti rappresentati e difesi dall'avvocato Aldo Travi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fabrizio Ravidà in Roma, via Attilio Bertoloni n. 44/46; 
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Lombardia – Milano - Sezione I, n. 569 del 28 febbraio 2014.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dei signori Luciano Giamberardino, Demetrio Dosa, Giacomo Ficchì, Giulio Ciociola, Gabriele Rizzi, Nunzio Marmorea, Andrea Rizza, Marco Colombo;
Viste le memorie difensive depositate dall’Amministrazione e dagli intimati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 novembre 2015 il consigliere Vito Poli e uditi per le parti gli avvocati Aldo Travi (in sede di chiamata preliminare) e Maurizio Greco (per l’Avvocatura generale dello Stato);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dalla domanda di corresponsione dell’indennità di trasferimento, prevista dall’art. 1, legge n. 86 del 29 marzo 2001, proposta da alcuni militari appartenenti al Corpo della Guardia di finanza.
1.2. Più in dettaglio, giova evidenziare in fatto che:
a) nell’ambito di una più vasta manovra di revisione dell’organizzazione territoriale del Corpo della Guardia di finanza, il Comandante generale del Corpo ha soppresso la Tenenza ubicata nel Comune di Sesto Calende (in provincia di Varese) con decorrenza 1° agosto 2011 (cfr. determinazione 15 giugno 2011);
b) con nota del Comando regionale Lombardia in data 22 giugno 2011, i militari in servizio presso la Tenenza di Sesto Calende sono stati invitati a proporre domanda di trasferimento presso altri reparti ubicati all’interno della circoscrizione territoriale ricompresa nel Comando interregionale dell’Italia Nord-occidentale con la previsione dell’assegnazione alla sede prescelta anche in soprannumero;
c) i signori Luciano Giamberardino, Demetrio Dosa, Giacomo Ficchì, Giulio Ciociola, Gabriele Rizzi, Nunzio Marmorea e Andrea Rizza, hanno indicato quale nuova sede di servizio la Compagnia di Gallarate, mentre il signor Marco Colombo ha indicato il Gruppo della G.d.f. di Malpensa (cfr. le corrispondenti otto istanze di trasferimento a domanda, tutte datate 13 luglio 2011, ed espressamente motivate, conformemente alla modulistica di riferimento, in relazione alla soppressione della Tenenza di Sesto Calende);
d) con determinazioni del Comando regionale Lombardia, tutte datate 21 luglio 2011, i su menzionati militari sono stati trasferiti a domanda nelle sedi prescelte.
2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.
2.1. Ricusata dall’Amministrazione la richiesta stragiudiziale di corresponsione dell’indennità di trasferimento ex art. 1, l. n. 86 del 2001, gli istanti hanno proposto ricorso davanti al T.a.r. per la Lombardia – allibrato al nrg. 2646 del 2012 - per l’accertamento del relativo diritto e la condanna al pagamento della sorte capitale maggiorata dagli interessi legali dalla data del trasferimento e sino all’effettivo soddisfo.
2.2 Radicatosi il contraddittorio, l’impugnata sentenza - T.a.r. per la Lombardia – Milano - Sezione I, n. 569 del 28 febbraio 2014 -:
a) ha ritenuto che il movimento di personale in questione, poiché disposto nell’interesse dell’Amministrazione, fosse da sussumersi nel genus del trasferimento d’ufficio e sotto tale angolazione perdesse rilevanza la presentazione di una domanda di assegnazione alla sede prescelta da parte di ciascuno dei militari ricorrenti perché comunque costretti ad abbandonare l’originaria sede di servizio;
b) ha considerato non retroattiva, e quindi ininfluente, la norma sopravvenuta nel corso del giudizio - sancita dall’art. 1, co. 163, legge n. 228 del 24 dicembre 2012 che ha introdotto nel corpo dell’art. 1, l. n. 86 del 2001, il comma 1-bis - in forza della quale è vietato corrispondere l’indennità in questione ai militari trasferiti ad altra sede di servizio a seguito della soppressione del reparto di appartenenza;
c) ha condannato l’Amministrazione al pagamento della sorte capitale maggiorata degli interessi legali;
d) ha respinto la richiesta di rivalutazione monetaria delle somme dovute (tale capo non è stato impugnato);
e) ha compensato fra le parti le spese di lite.
3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO.
3.1. Con ricorso ritualmente notificato e depositato, il Ministero dell'economia e delle finanze - Comando generale della Guardia di finanza – ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza articolando due connessi motivi di gravame:
a) con il primo (pagine 3 – 7 del ricorso), è stata lamentata la violazione e falsa applicazione della legge n. 86 del 2001 nonché l’erronea valutazione degli atti di causa; in particolare, richiamata la disciplina dei trasferimenti (d’autorità e a domanda) e la novella introdotta dall'art. 1, co. 163 della l. n. 228 del 2012, ed evidenziato il suo carattere innovativo e non interpretativo, si nega che il criterio ermeneutico dell’argumentum a contrario possa comportare il riconoscimento legale del diritto all’indennità, in caso di trasferimenti conseguenti a soppressione di reparti o articolazioni, per il periodo precedente e secondo la disciplina ante vigente al 1° gennaio 2013;
b) con il secondo motivo (pagine 7 – 12), è stata messa in luce la rilevanza della dichiarazione di gradimento nell'ipotesi di trasferimento conseguente alla soppressione del reparto; secondo l’Amministrazione militare, la presentazione di istanza, contenente comunque una opzione preferenziale di gradimento per una sede, esclude in radice, secondo consolidati orientamenti giurisprudenziali, la configurabilità di un trasferimento d’autorità.
3.2. Si sono costituiti in giudizio gli intimati confutando, con dovizia di argomenti ma nel rispetto del dovere di sinteticità, la fondatezza dell’appello di cui hanno chiesto il rigetto.
3.3. Con ordinanza n. 5407 del 26 novembre 2014 è stata accolta la richiesta di sospensione degli effetti dell’impugnata sentenza <<Considerato che l’appello richiede definizione nel merito con approfondita rimeditazione della problematica, e che a tal fine sarà fissata, con decreto presidenziale, udienza di discussione nel tempo ragionevolmente più congruo; Considerata l’opportunità che, nelle more della definizione di merito, la res litigiosa permanga adhuc integra>>.
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA.
4.1. Con ordinanza n. 3269 del 1 luglio 2015, la IV Sezione del Consiglio di Stato:
a) ha ricostruito analiticamente, in chiave storica e sistematica, l’istituto dell’indennità di trasferimento di cui al più volte menzionato art. 1, l. n. 86 del 2001;
b) ha dato atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (anche in sede consultiva) e del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, circa la possibilità di considerare sussistenti i presupposti per il riconoscimento dell’indennità, in presenza di clausole di gradimento accessive al provvedimento di trasferimento (situazione cui ha assimilato quella in cui sia stata presentata una vera e propria domanda di trasferimento);
c) ha manifestato univocamente la preferenza per la tesi – che ha fatto risalire alla decisione della Quarta Sezione n. 5201 del 23 ottobre 2008 – secondo cui<<…..la dichiarazione di gradimento e cioè la dichiarazione di accettazione del trasferimento a domanda impedisce la configurabilità di un trasferimento d’ufficio, in quanto non si è in presenza di una mera dichiarazione di disponibilità al trasferimento; né ha alcun autonomo rilievo la circostanza che con il predetto trasferimento l’Amministrazione ha perseguito un interesse proprio: attivando le procedure di reperimento del personale con la richiesta di espressa disponibilità al trasferimento a domanda, essa ha inteso far coincidere, nel pieno rispetto dei principi di legalità, buon andamento ed imparzialità che devono guidare l’azione amministrativa, l’interesse privato con quello pubblico, senza che quest’ultimo in concreto possa considerarsi prevalente…. Collegandosi alle incisive argomentazioni della decisione n. 5201 del 23 ottobre 2008, risulta, ad avviso di questo Collegio, assai difficile negare la sostanziale consensualizzazione del movimento, e che questo quindi non giunga, per dir così "a sorpresa", sebbene in un quadro in cui all'interessato è stato offerto di poter valutare la soluzione preferibile nell'ambito delle sedi viciniori disponibili, e di poter calibrare la sua indicazione in funzione delle sue esigenze di vita, familiare e relazionale.
Non ritiene, invece, il Collegio che possa annettersi alcun rilievo esegetico alla disciplina novativa di cui al comma 1 bis, poiché l'argomento a contrario, in senso proprio e stretto, e quello che equivale al criterio esegetico "ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit", laddove non pare che una norma sopravvenuta che disciplina in modo precipuo una fattispecie, e in quella disciplina esaurisce la sua portata e i suoi effetti, possa avere valore interpretativo retroattivo della fattispecie medesima.
In altri termini, la circostanza che i trasferimenti per soppressione di reparto siano ora collocati fuori dall'ambito applicativo entro il quale opera il riconoscimento del beneficio, non può condurre a sostenere, che invece, per il passato, vi ricadessero, o quantomeno a riconoscere valore risolutivo della questione esegetica, trascurando peraltro la circostanza che la nuova disciplina prescinde affatto da qualsiasi consensualizzazione del movimento.>>;
d) ha sottoposto all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero <<se debba riconoscersi l'indennità di cui all'art. 1 comma 1 della legge 29 marzo 2001, n. 86 al personale ivi contemplato, e nel caso di specie a militari e sottufficiali della Guardia di Finanza, che, in relazione alla soppressione (o dislocamento) del reparto o articolazione organizzativa in cui prestavano servizio, abbiano espresso, comunque, una indicazione preferenziale di gradimento relativa a una sede distante oltre dieci chilometri da quella a quo, cui sia stato dato seguito dall'Amministrazione. Il tutto per le ipotesi non ricadenti sotto la vigenza dell’art. 1 comma 163 L. 24.12.2012 n. 228.>>.
4.2. All’udienza pubblica del 18 novembre 2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. NATURA GIURIDICA E PRESUPPOSTI APPLICATIVI DELL’INDENNITA’ EX ART. 1, L. N. 86 DEL 2001.
5.1. E’ da premettersi che la questione che deve essere affrontata dall’Adunanza plenaria riguarda sotto il profilo soggettivo il personale militare e sotto quello cronologico situazioni ad esaurimento perché, dal 1° gennaio 2013, la soppressione (o la diversa dislocazione) dei reparti (e delle relative articolazioni), cui consegua il trasferimento d’autorità del personale interessato alla movimentazione, ai sensi del menzionato comma 1-bis, in nessun caso può consentire il pagamento di qualsivoglia emolumento (previsto a titolo di rimborso spese o indennità), collegato a tale mutamento di sede di servizio.
5.2. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 1, l. n. 86 del 2001, rubricato Indennità di trasferimento, nel testo vigente - evidenziando che il comma 1-bis è stato introdotto dall’art. 1, co. 163, della l. n. 228 del 2012, a decorrere dal 1° gennaio 2013 ai sensi del comma 561 del medesimo articolo -: <<1. Al personale volontario coniugato e al personale in servizio permanente delle Forze armate, delle Forze di polizia ad ordinamento militare e civile e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, agli ufficiali e sottufficiali piloti di complemento in ferma dodecennale di cui al Codice dell'ordinamento militare emanato con decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 , e, fatto salvo quanto previsto dall' articolo 28, comma 1, del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139, al personale appartenente alla carriera prefettizia, trasferiti d'autorità ad altra sede di servizio sita in un comune diverso da quello di provenienza, compete una indennità mensile pari a trenta diarie di missione in misura intera per i primi dodici mesi di permanenza ed in misura ridotta del 30 per cento per i secondi dodici mesi.
1- bis. L'indennità di cui al comma 1 nonché ogni altra indennità o rimborso previsti nei casi di trasferimento d'autorità non competono al personale trasferito ad altra sede di servizio limitrofa, anche se distante oltre dieci chilometri, a seguito della soppressione o dislocazione dei reparti o relative articolazioni.
2. L'indennità di cui al comma 1 è ridotta del 20 per cento per il personale che fruisce nella nuova sede di alloggio gratuito di servizio.
3. Il personale che non fruisce nella nuova sede di alloggio di servizio può optare, in luogo del trattamento di cui al comma 1, per il rimborso del 90 per cento del canone mensile corrisposto per l'alloggio privato fino ad un importo massimo di lire 1.000.000 mensili per un periodo non superiore a trentasei mesi. Al rimborso di cui al presente comma si applica l'articolo 48, comma 5, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.>>.
5.3. La tesi propugnata dall’Amministrazione e fatta propria dall’ordinanza di rimessione - secondo cui anche prima dell’entrata in vigore della novella al più volte menzionato art. 1, l. n. 86 cit., la mobilità del personale militare dovuta alla soppressione (ovvero alla diversa dislocazione) del reparto di appartenenza se conseguente a domande di trasferimento o clausole di gradimento accessive al provvedimento di trasferimento non integra il presupposto del trasferimento d’autorità richiesto dalla legge – è suffragata da una parte della giurisprudenza della Quarta, della Prima e della Seconda Sezione del Consiglio di Stato (cfr. da ultimo Sez. IV, n. 3835 del 28 giugno 2012; Sez. I, n. 1290 del 14 marzo 2013; Sez. II, n. 4407 del 25 ottobre 2013), e si basa, in sintesi, oltre che sugli argomenti utilizzati dall’ordinanza di rimessione (retro § 4.1.), sulle ulteriori rationes decidendi, di seguito sintetizzate:
a) la clausola di gradimento si risolve in una formale manifestazione di acquiescenza al provvedimento di trasferimento con tutte le relative conseguenze di carattere economico;
b) la presentazione dell’istanza di trasferimento nella sede prescelta, a seguito della soppressione del reparto di appartenenza, interrompe il nesso di causalità fra la scelta organizzativa dell’Amministrazione e il successivo movimento del militare interessato;
c) la soppressione del reparto sostituito con un altro non dà luogo ad un vero e proprio trasferimento d’autorità (che presuppone la permanenza della sede a quo), ma ad un fenomeno di c.d. riorganizzazione necessitata.
5.4. Tale tesi non può trovare accoglimento alla stregua delle seguenti considerazioni.
5.4.1. Storicamente, l’esigenza di sovvenire ai disagi personali e familiari legati ai trasferimenti di sede di speciali categorie di personale statale (fisiologicamente destinato a frequenti avvicendamenti) e, in particolare, del personale militare – in relazione al quale il trasferimento d’autorità, assumendo la veste di un vero e proprio ordine militare (ex art. 976 d.lgs. n. 66 del 15 marzo 2010, codice dell’ordinamento militare, che ha positivizzato il diritto vivente), finisce per accentuarne l’onerosità quantomeno sotto il profilo giuridico - ha costituito il presupposto di numerose interventi normativi ad hoc, l’ultimo dei quali, per rilevanza sistematica, è rappresentato dalla l. n. 86 del 2001 cit., che, in parte qua, ha sostituito la disciplina recata dall’art. 1, l. n. 100 del 10 marzo 1987.
Circa la natura giuridica, l’oggetto, i presupposti e gli effetti innovativi dettati dalla l. n. 86 cit., si rinvia ai principi enucleati dall’Adunanza plenaria n. 23 del 14 dicembre 2011, senza tralasciare di osservare, specie in relazione a quanto si dirà nel successivo § 5.4.4., che tale sentenza ha evidenziato come il trendnormativo, in modo innovativo, è nel senso di restringere <<…il raggio operativo del beneficio dell’indennità di trasferimento>>.
Sintetizzando le condivisibili conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio in ordine all’indennità di cui alla l. n. 86 cit. (che pure si pone, per molti aspetti, in continuità con quella di cui alla l. n. 100 del 1987 ), si osserva quanto segue:
a) gli elementi costitutivi del diritto di credito alla corresponsione della indennità di trasferimento sono: I) un provvedimento di trasferimento d’ufficio; II) una distanza fra la vecchia e la nuova sede di oltre 10 chilometri; III) l’ubicazione della nuova sede in un comune diverso;
b) è qualificabile come d’ufficio il trasferimento diretto a soddisfare in via primaria l’interesse pubblico, da ritenersi prioritario nei casi di assegnazione di funzioni superiori o spiccatamente diverse o di maggiore responsabilità rispetto a quelle precedentemente ricoperte senza che rilevino le eventuali dichiarazioni di assenso o di disponibilità dell’interessato; la considerazione del requisito della permanenza del disagio arrecato dal nuovo incarico a causa del mutamento, in senso proprio, della sede di servizio, induce ad escludere, in linea generale, che in caso di comando o distacco possa essere attribuita l’indennità con la conseguenza che la destinazione alla prima sede di servizio al termine della stessa fase addestrativa non costituisce trasferimento d’autorità (come risulta oggi esplicitato dall’art. 976, co.1, cod. ord. mil.);
c) in linea generale, e salve le specifiche deroghe normative, l’indennità di trasferimento mutua lo stesso regime giuridico dell’indennità di missione; da qui gli ulteriori conseguenti corollari: I) la decorrenza retroattiva delle promozioni, eventualmente conseguite dal personale destinatario dell’indennità, non comporta l’attribuzione ex novo del compenso ovvero il ricalcolo per i periodi già decorsi alla data del decreto di promozione (ex art. 4, l. n. 836 del 1973); II) non spetta il beneficio in ogni caso di assegnazione solo temporanea ad altra sede di servizio (ad esempio in caso di assegnazione ad una diversa sede per facilitare l’esercizio del mandato elettorale), ovvero, atteso il carattere novativo del rapporto, nel caso di superamento di concorso pubblico con il conferimento di posti di ruolo non rientranti nella quota riservata al personale militare già in servizio;
d) anche nella vigenza della l. n. 100 del 1987, il trasferimento del militare ad altra sede, disposto a seguito della soppressione dell’ente o della struttura alla quale il suddetto dipendente era originariamente assegnato, si qualificava necessariamente come trasferimento d’ufficio in quanto palesemente preordinato alla soluzione di un problema insorto a seguito di una scelta organizzativa della stessa Amministrazione e, quindi, alla tutela di un pubblico interesse, risultando ininfluente la circostanza che gli interessati fossero stati invitati a presentare istanza di trasferimento e che agli stessi fosse stata contestualmente offerta la possibilità d’indicare, per altro entro ben definiti ambiti territoriali, le nuove sedi di gradimento (Cons. Stato, Sez. IV, 12 luglio 2007, n. 3964; successivamente, nello stesso senso, Cons. gist. amm., 18 giugno 2014, n. 333).
5.4.2. Seguendo un approccio sostanziale all’interpretazione della disciplina di riferimento, assume un valore decisivo la circostanza che il mutamento di sede origina da una scelta esclusiva dell’Amministrazione militare che, per la miglior cura dell’interesse pubblico, decide di sopprimere un reparto (o una sua articolazione) obbligando inderogabilmente i militari di stanza a trasferirsi presso la nuova sede, ubicata in un altro luogo, onde prestare il proprio servizio.
Viene integrato, dunque, il primo indefettibile presupposto divisato dalla legge quale elemento costitutivo del diritto di credito alla corresponsione della relativa indennità di trasferimento e, al contempo, si disvela la natura e la portata della clausola di gradimento che ad esso eventualmente accede (ovvero dell’istanza di trasferimento sollecitata in conseguenza della soppressione del reparto di appartenenza del richiedente).
Tale clausola, infatti, incide solo sugli effetti ubicazionali ovvero lato sensu geografici dell’ordine di trasferimento; essa comporta acquiescenza in senso proprio a tali effetti perché implica rinuncia al proprio diritto di agire in giudizio, nel rispetto di tutti i rigorosi presupposti richiesti dalla consolidata e condivisa giurisprudenza di questo Consiglio onde evitare l’elusione dei valori costituzionali tutelati dagli artt. 24, co.1, e 113, co. 1, Cost. (sin da Ad. plen., 20 novembre 1972, n. 12; successivamente e da ultimo, cfr. Cons. giust. amm., 28 gennaio 2015, n. 75; Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 74); in sintesi: condotta (espressa o tacita) univoca sulla irrefutabile volontà di accettare gli effetti e l’operatività del provvedimento; volizione libera, successiva o contestuale all’emanazione del provvedimento astrattamente lesivo; irrilevanza della contingente tolleranza manifestata anche attraverso il compimento di attività necessarie per fronteggiare gli effetti del provvedimento lesivo in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio.
L’acquiescenza rende dunque irretrattabile l’individuazione della sede prescelta rendendo inammissibili, per carenza di interesse ad agire, le eventuali iniziative contenziose intraprese dal militare che subisce il trasferimento, ma non incide sul diritto di credito (a percepire l’indennità) che scaturisce direttamente dalla legge al ricorrere di determinati presupposti; certamente anche il diritto di credito in questione può essere oggetto di rinuncia (rectius rimessione del debito nel linguaggio dell’art. 1236 c.c.), ma al verificarsi di tutte le condizioni previste dalla richiamata disposizione che sono diverse e non sovrapponibili rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie dell’acquiescenza, non fosse altro che per la diversa indole della situazione soggettiva coinvolta (diritto soggettivo in relazione alla spettanza dell’indennità, interesse legittimo in relazione all’esercizio del potere organizzatorio e gerarchico da parte dell’Autorità militare).
5.4.3. Anche il precedente valorizzato nell’ordinanza di rimessione (Cons. Stato, Sez. IV, n. 5201 del 2008, capostipite di una lunga serie di analoghe sentenze), non ha mai affermato che le clausole di gradimento accessive ad ordini di trasferimento consensualizzino l’ordine militare nell’ipotesi di soppressione delle sedi a quo; tale precedente, invero, conformemente all’indirizzo esegetico assolutamente prevalente formatosi sotto l’egida della abrogata l. n. 100 del 1987, ha correttamente ritenuto che non si dovesse consentire l’erogazione della pertinente indennità a seguito di un trasferimento d’autorità (cui accedeva una clausola di gradimento della nuova sede), disposto in relazione ad un normale movimento di personale militare della G. di f. (nella specie il militare ricorrente era stato trasferito dal Comando regionale di Catanzaro al Comando di Compagnia di Catanzaro, sezione di Sellia Marina ubicata nell’omonimo comune); tanto nel decisivo presupposto che, in questo caso, non fosse rinvenibile un reale interesse pubblico (prevalente rispetto a quello del militare) al mutamento di sede, perché <<…sarebbe stato possibile per l’interessato, negare il gradimento e rinunciare al trasferimento presso il Comando Compagnia di Catanzaro, sez. operativa di Sellia Marina>>.
Detto altrimenti, il Consiglio di Stato ha inteso evitare un ingiustificato esborso erariale in presenza di un trasferimento che, formalmente emanato come ordine militare, nella sostanza dissimulava un trasferimento a domanda; evenienza questa che non può mai verificarsi nel caso di soppressione del reparto (o diversa dislocazione delle sue articolazioni), perché il militare è, per forza di cose, obbligato ad abbandonare la precedente sede di servizio che non esiste più.
5.4.4. La norma introdotta dal più volte menzionato comma 1-bis non ha natura di interpretazione autentica (già in questo senso cfr. l’indirizzo inaugurato da Cons. Stato, Sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4159; successivamente, Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 5553; Sez. IV, 27 aprile 2015, n. 2088).
Una siffatta conclusione si impone perché non si rinvengono tutti gli indici rivelatori di tale peculiare categoria di norme, elaborati dalla consolidata giurisprudenza costituzionale, europea ed amministrativa (cfr., da ultimo e fra le tante, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 7 giugno 2011, Agrati; Corte cost., 11 giugno 2010, n. 209; 6 dicembre 2004, n. 376; Cons. St., Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; 24 maggio 2011, n. 9).
In particolare, pur verificatosi il presupposto dell’incertezza applicativa della norma antecedente quella asseritamente di interpretazione autentica - ancorché si registri la presenza di un indirizzo largamente maggioritario in favore della tesi sostenuta dagli odierni appellati - difetta non solo il (pur non vincolante per l’interprete) requisito formale dato dalla auto qualificazione della norma come di interpretazione autentica, ma soprattutto, non si riscontra l’effetto tipico insito in tutte le norme di interpretazione autentica, ovvero l’incidere su rapporti pendenti.
Sul punto è dirimente quanto stabilito dai commi 163 e 561 del più volte menzionato art. 1, l. n. 228 cit., secondo cui la nuova più restrittiva disciplina trova applicazione a partire dal 1 gennaio 2013 e dunque si rende applicabile ai soli movimenti di personale successivi a tale data, in base ad un’esegesi improntata al principio generalissimo, codificato dall’art. 11 disp. prel. c.c., secondo cui <<la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo>>; il ché significa, in applicazione del corollario applicativo tempus regit actum, che deve escludersi in radice ogni possibilità di applicazione della innovativa disposizione ai provvedimenti che (come quelli oggetto del presente giudizio) dispongono il trasferimento del militare con decorrenza antecedente all’entrata in vigore del più volte menzionato comma 1-bis.
Rafforza tale conclusione anche il dato sistematico enucleabile dal raffronto del comma 1-bis, con l’art. 3, co., 74, l. 24 dicembre 2003, n. 350 – secondo cui<<74. L'articolo 8 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, si interpreta nel senso che la domanda prodotta dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza è da considerare, ai fini dell'applicazione della legge 10 marzo 1987, n. 100, come domanda di trasferimento di sede.>>- perché emerge con immediatezza che quando la legge ha voluto dettare una norma di interpretazione autentica, in materia di indennità di trasferimento con finalità di contenimento della spesa e risoluzione dei contrasti giurisprudenziali, ha utilizzato le consuete clausole normative tradizionalmente impiegate al perseguimento di tali obbiettivi.
Una volta assodata la portata non retroattiva della nuova disciplina, è consequenziale ritenere, analizzando in chiave storica l’evoluzione della legge sul punto controverso, che assume rilievo il criterio esegetico fondato sul c.d. argumentum a contrario: la nuova norma presuppone logicamente che la pregressa disciplina abbia attribuito, in caso di soppressione del reparto di appartenenza e nel concorso di tutti gli altri presupposti di legge, l’indennità di trasferimento anche al militare che avesse espresso il gradimento circa la nuova sede di servizio in quanto privo di alternativa alla movimentazione (non esistendo più la pregressa sede di servizio) ed astretto al dovere di obbedienza.
6. LA FORMULAZIONE DEL PRINCIPIO DI DIRITTO E LA DECISIONE DELLA CAUSA.
6.1. Alla stregua delle su esposte argomentazioni, l’Adunanza plenaria formula il seguente principio di diritto: <<Prima dell’entrata in vigore (al 1° gennaio 2013) dell’art. 1, co. 163, l. 24 dicembre 2012, n. 228 - che ha introdotto il comma 1-bis nell’art. 1, l. 29 marzo 2001, n. 86 - spetta al personale militare l’indennità di trasferimento prevista dal comma 1 del medesimo articolo, a seguito del mutamento della sede di servizio dovuto a soppressione (o diversa dislocazione) del reparto di appartenenza (o relative articolazioni), anche in presenza di clausole di gradimento (o istanze di scelta) della nuova sede, purché ricorrano gli ulteriori presupposti individuati dalla norma, ovvero una distanza fra la nuova e l’originaria sede di servizio superiore ai 10 chilometri e l’ubicazione in comuni differenti>>.
6.2. Ai sensi dell’art. 99, co. 1. e 4, c.p.a., l’Adunanza plenaria decide l’intera controversia alla stregua del principio di diritto formulato e, conseguentemente, respinge l’appello proposto dall’Amministrazione non essendo stata contestata (e non essendo contestabile sulla scorta della documentazione versata in atti), nel particolare caso di specie, la sussistenza degli altri presupposti individuati dall’art. 1, l. n. 86 del 2001 per il sorgere del diritto di credito all’indennità ivi prevista.
6.3. Nei mutamenti e contrasti giurisprudenziali registratisi sulla questione sottoposta all’Adunanza plenaria, il Collegio ravvisa le eccezionali ragioni che, a mente del combinato disposto degli artt. 26, co.1, c.p.a. e 92, co. 2, c.p.c., consentono di compensare integralmente fra le parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma l’impugnata sentenza.
Dichiara integralmente compensate fra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 novembre 2015 con l'intervento dei magistrati:
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Paolo Numerico, Presidente
Vito Poli, Consigliere, Estensore
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Deodato, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Sandro Aureli, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/01/2016
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione


giovedì 20 marzo 2014

PROCEDIMENTO: il diritto d'accesso dopo la L. n. 190/12 ed il D.Lgs n. 33/2013 (Cons. St., Sez. VI, sentenza 24 febbraio 2014 n. 865).


PROCEDIMENTO: 
il diritto d'accesso 
dopo la L. n. 190/12 ed il D.Lgs n. 33/2013 
(Cons. St., Sez. VI, 
sentenza 24 febbraio 2014 n. 865).


Massima

1.  Dapprima l’art. 1, commi da 15 a 33, della L. n. 190/12, e da ultimo il D.Lgs. n. 33/13, hanno indicato tra i dati oggetto di pubblicazione, e suscettibili di speculare accesso civico, anche i provvedimenti concessori, da intendersi comprensivi dei dati economici (v. artt. 24 e 26 D.Lgs 33/2013), allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche da parte delle amministrazioni (v. art. 1, D.Lgs. cit.).
2. I dati nella specie richiesti sono quindi dati pubblici e la nuova istanza aveva provveduto a radicarsi su una più esatta specificazione dei dati concretamente ritenuti di interesse, sicchè discorrere di limiti alla sindacabilità del diniego per ragioni attinenti all’asserita natura di interesse legittimo dell’accesso ed alla possibile elusione del termine decadenziale connesso alla reiterazione dell’istanza, appare oggi, invero, un fuor d’opera, non corrispondente all’esatta individuazione del sistema dell’accesso, e delle posizioni soggettive sottostanti, quale ricostruito da una consolidata giurisprudenza.
3.  Né può annettersi una qualche valenza alle considerazioni svolte dal controinteressato in ordine all’ inesistenza, in concreto, di una posizione dominante e del relativo abuso, essendo evidente che trattasi di questioni che non competono e non devono essere vagliate dall’amministrazione che ha formato o che detiene gli atti, la quale deve limitarsi alla verifica della giuridica rilevanza dell’interesse ostensivo in disparte quanto sopradetto in relazione alla dimensione civica ormai assunta dall’interesse, quando questo abbia ad oggetto “concessioni”)


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6346 del 2013, proposto da:
Auta Marocchi Spa, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Alberto Quaglia, Francesco Paoletti, con domicilio eletto presso Francesco Paoletti in Roma, via Maresciallo Pilsudski, 118; 
contro
Industrie Rebora Srl, rappresentato e difeso dagli avv. Paolo Gatto, Giuseppe Naccarato, con domicilio eletto presso Giuseppe Naccarato in Roma, via Tagliamento 76, Sc. 7, Int. 8;
Autorità Portuale di Genova, non costituita in giudizio.
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LIGURIA - GENOVA: SEZIONE I n. 00852/2013, resa tra le parti, concernente diniego accesso ai documenti relativi ai rapporti di concessione di aree portuali

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Industrie Rebora Srl;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2013 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Quaglia e Naccarato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
La società Auta Marocchi, operante da tempo nel settore dei trasporti container, anche a Genova, ove tuttavia non ha mai ottenuto, nonostante le numerose richieste, la concessione di alcuno spazio per l’attività operativa in ambito portuale, instava per l’accesso agli atti relativi a tutte le concessioni di spazi ad uso deposito invece rilasciate in favore delle società facenti parte del gruppo Spinelli, diretto concorrente, e ciò al dichiarato fine di verificare la sussistenza di una posizione dominante e del suo eventuale abuso, in ambito portuale.
L’autorità portuale di Genova rispondeva all’istanza, presentata il 5 giugno 2012, confermando l’esistenza di concessioni in favore delle dette società ed indicandone gli estremi, ma non i dati economici. La società Auta Marocchi presentava allora una seconda domanda di accesso in data 6.11.2012 con la quale richiedeva le condizioni economiche praticate a fronte delle concessioni rilasciate, dato asseritamente rilevante per valutare l’abuso della posizione dominante nei confronti delle imprese, quali quella istante, costrette invece a procurarsi spazi facendo ricorso al libero mercato.
In relazione a tale seconda istanza decorrevano trenta giorni senza alcun riscontro, sicchè ritenuto formatosi il silenzio diniego, l’ Auta Marocchi ricorreva al TAR Liguria.
- Il TAR dichiarava il ricorso inammissibile. Riteneva in particolare l’istanza di accesso del 6.11.2012, meramente reiterativa di quella presentata in data 5.6.2012, in assenza di fatti sopravvenuti od elementi di novità (l’unico fatto nuovo sarebbe rappresentato dal diniego di accesso alle condizioni economiche di ciascun affidamento, nel frattempo manifestato dall’Autorità Portuale con la nota 6.9.2012, prot. 20631, non tempestivamente impugnato).
- Propone ora appello la società Auta Marocchi: si tratterebbe della tutela di un diritto soggettivo e non di un interesse legittimo; anche a voler ammettere l’applicazione tout court della disciplina dell’azione di annullamento, la nuova domanda non potrebbe considerasi identica alla precedente, in quanto contenente specificazioni fatte proprio in forza dei dati relativi ai rapporti concessori in corso, forniti nella prima risposta.
- L’Autorità portuale non si è costituita in giudizio. Si è invece costituita la società controinteressata, Industrie Rebora Srl. Quest’ultima sottolinea, in particolare, che la precisa indicazione degli estremi degli atti concessori in favore di società facenti capo al Gruppo Spinelli, contenuti nella prima parziale risposta dell’Autorità, non potesse considerarsi un elemento di novità tale da far ritenere ammissibile una domanda già parzialmente respinta in ragione della sua genericità e del difetto di interesse giuridicamente rilevante. Piuttosto, il parziale rigetto dell’istanza (in quanto generica) avrebbe, come correttamente statuito dal primo giudice, dovuto essere tempestivamente impugnata.
- La causa è stata trattenuta in decisione nella Camera di consiglio del 19 novembre 2013.
L’appello è fondato.
L’amministrazione, in prima battuta, ha indicato gli estremi dei rapporti concessori in corso con il Gruppo Spinelli, ma non i dati economici, ritenendo sul punto l’istanza eccessivamente generica. L’istante, a seguito della segnalata genericità, anziché impugnare il parziale diniego, ha chiesto nuovamente i dati economici relativi ai rapporti concessori, questa volta analiticamente indicati.
Il provvedimento di totale diniego che si è questa volta tacitamente formato non può essere considerato meramente confermativo del primo, parziale ed espresso diniego, non foss’altro perché la genericità, espressamente stigmatizzata a mezzo del primo provvedimento, è stata superata dai contenuti della seconda istanza, specificatamente riferita ai dati economici dei singoli rapporti concessori.
In ogni caso, giova segnalare, che dapprima l’articolo 1, commi da 15 a 33, della legge 6 novembre 2012, n. 190, e da ultimo il D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, hanno indicato tra i dati oggetto di pubblicazione, e suscettibili di speculare accesso civico, anche i provvedimenti concessori, da intendersi comprensivi dei dati economici (Cfr. artt. 24 e 26 d.lgs 33/2013), allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche da parte delle amministrazioni (Cfr. art. 1, d.lgs cit.).
I dati nella specie richiesti sono quindi dati pubblici e la nuova istanza aveva provveduto a radicarsi su una più esatta specificazione dei dati concretamente ritenuti di interesse, sicchè discorrere di limiti alla sindacabilità del diniego per ragioni attinenti all’asserita natura di interesse legittimo dell’accesso ed alla possibile elusione del termine decadenziale connesso alla reiterazione dell’istanza, appare oggi, invero, un fuor d’opera, non corrispondente all’esatta individuazione del sistema dell’accesso, e delle posizioni soggettive sottostanti, quale ricostruito da una consolidata giurisprudenza.
Né può annettersi una qualche valenza alle considerazioni svolte dal controinteressato in ordine all’ inesistenza, in concreto, di una posizione dominante e del relativo abuso, essendo evidente che trattasi di questioni che non competono e non devono essere vagliate dall’amministrazione che ha formato o che detiene gli atti, la quale deve limitarsi alla verifica della giuridica rilevanza dell’interesse ostensivo in disparte quanto sopradetto in relazione alla dimensione civica ormai assunta dall’interesse, quando questo abbia ad oggetto “concessioni”)
L’appello è pertanto accolto. Per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, è fatto obbligo all’amministrazione di esibire gli atti richiesti.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, ordina all’amministrazione l’esibizione degli atti richiesti, comprensivi dei dati economici, entro e non oltre giorni 15 dalla notificazione o comunicazione della presente decisione.
Condanna l’amministrazione e Industrie Rebora Srl al pagamento in favore dell’appellante delle spese del doppio grado, forfettariamente liquidate in €. 7.000, rispettivamente a carico dell’amministrazione per €. 4.000, e di Industrie Rebora Srl per €. 3.000, oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Claudio Contessa, Consigliere
Andrea Pannone, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 24/02/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


venerdì 14 febbraio 2014

AUTHORITIES & UNIONE EUROPEA: il diritto comunitario permette il trattamento privilegiato dei dipendenti di Bankitalia (Corte Cost., sentenza 23 gennaio 2014 n. 7).


AUTHORITIES & UNIONE EUROPEA: 
il diritto comunitario permette
 il trattamento privilegiato 
dei dipendenti di Bankitalia 
(Corte Cost., sentenza 23 gennaio 2014 n. 7).


Massima

1.  Il diverso trattamento riservato dall’art. 3, co. 3, del d.l. n. 78 del 2010 alla Banca d’Italia rispetto all’AGCOM è giustificato dall’esigenza imposta dalla disciplina dell’Unione di previa consultazione della Banca centrale europea da parte delle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative concernenti, tra l’altro, le banche centrali nazionali. Poiché analoga esigenza non viene in rilievo con riferimento alle altre autorità amministrative indipendenti, la disciplina riservata alla Banca d’Italia non può costituire, sotto questo profilo, un utile tertium comparationis per una pretesa disparità di trattamento e la prospettata questione di legittimità costituzionale è priva di fondamento in riferimento all’art. 3 Cost.
2.  Pur godendo tanto la Banca d’Italia che l’AGCOM di una speciale autonomia organizzativa e funzionale a tutela della loro indipendenza, occorre tuttavia affermare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari che la differenziano da ogni altra autorità amministrativa indipendente.
3. La scelta del legislatore di prevedere un meccanismo di adeguamento della Banca d’Italia alla normativa introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 corrisponde all’esigenza, imposta dai Trattati relativi alle modalità di funzionamento dell’Unione europea, di consultare preventivamente la Banca centrale europea per ogni modifica che riguardi una banca centrale nazionale.

La normativa

L’art. 3, comma 3 del d.l. n. 78/2010 dispone che «La Banca d’Italia tiene conto, nell’ambito del proprio ordinamento, dei principi di contenimento della spesa per il triennio 2011-2013 contenuti nel presente titolo. A tal fine, qualora non si raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali sulle materie oggetto di contrattazione in tempo utile per dare attuazione ai suddetti princìpi, la Banca d’Italia provvede sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva eventuale sottoscrizione dell’accordo».


Sentenza per esteso


INTESTAZIONE
EPIGRAFE
[...]

SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con ordinanze del 10, del 9 e dell’8 maggio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 184, 185 e 194 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 38, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di Abbonato Rosa ed altri, di Falvella Lina ed altro, di Liberatore Benedetta Alessia ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi gli avvocati Aristide Police per Abbonato Rosa ed altri e per Falvella Lina ed altro, Mario Sanino per Liberatore Benedetta Alessia ed altri e l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1.− Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con tre ordinanze di identico tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 36425397 e 117 della Costituzionequestione di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
1.1.− Il rimettente premette che i giudizi a quibus hanno ad oggetto la richiesta di annullamento: 1) della delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011, pubblicata il 23 marzo 2011, con la quale sono state individuate le modalità di attuazione delle disposizioni previste dal d.l. n. 78 del 2010, nonché di ogni altro atto presupposto, ivi compresi: a) il Parere del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato in data 11 gennaio 2011, reso su apposita richiesta dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato prot. n. 0068665 del 17 dicembre 2010 in merito all’applicabilità delle disposizioni di cui ald.l. n. 78 del 2010; b) l’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196; c) i singoli provvedimenti individuali adottati in esecuzione della predetta delibera n. 114/11/CONS del 2011 nei confronti dei singoli ricorrenti; 2) il nuovo elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge n. 196 del 2009 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 228, del 30 settembre 2011; 3) la delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 498/11/CONS del 13 settembre 2011, pubblicata in data 11 novembre 2011, con la quale, in attuazione dell’art. 12, commi 7, 8, 9 e 10 del d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 7 della suddetta delibera n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011, è stata ridefinita la disciplina del trattamento di fine rapporto del personale dell’Autorità.
Il rimettente riferisce che gli atti impugnati sono tutti diretti a dare attuazione alle norme censurate.
1.2.− Il TAR del Lazio evidenzia, in primo luogo, l’infondatezza dei motivi di ricorso sollevati dai ricorrenti nei giudizi a quibus per l’annullamento degli atti impugnati e il cui accoglimento priverebbe di rilevanza le questioni.
Il TAR del Lazio afferma la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie in materia di impiego alle dipendenze dell’Autorità garante delle comunicazioni richiamando la pronuncia della Corte di cassazione sezioni unite, ordinanza 23 giugno 2005, n. 13446, e la successiva evoluzione legislativa e giurisprudenziale.
Sempre in via preliminare, il TAR ritiene che, ai fini dell’interesse ad agire dei ricorrenti e della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, non assuma rilievo assorbente − a differenza di quanto affermato dai ricorrenti nella memoria depositata in data 18 febbraio 2012 − la circostanza che la sezione III-quater del medesimo Tribunale amministrativo regionale con la sentenza 11 gennaio 2012, n. 226, abbia annullato l’elenco ISTAT pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 228 del 30 settembre 2011, nella parte in cui inserisce anche l’AGCOM fra le predette Amministrazioni.
Secondo il rimettente, tale annullamento non sarebbe rilevante perché il legislatore ha operato un rinvio recettizio al provvedimento dell’ISTAT e da ciò deriverebbe che il suddetto annullamento non può dispiegare effetti sul provvedimento legificato
Il TAR, sempre motivando in punto di rilevanza, ritiene infondato il motivo di ricorso che attiene alla presunta non applicabilità all’Autorità delle comunicazioni della disciplina del d.l. n. 78 del 2010. Il Collegio ritiene che la prova della volontà del legislatore di includere anche l’AGCOM nel campo di applicazione degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010 si rinvenga: a) nel fatto che il legislatore quando ha menzionato espressamente le autorità indipendenti (come, per l’appunto, nell’art. 6, commi 8, 9, 12, 13 e 14 del d.l. n. 78 del 2010) ha utilizzato la formula «incluse le autorità indipendenti», così limitandosi a specificare un dato − quale l’inclusione di tali enti nell’elenco ISTAT − chiaramente evincibile da una semplice lettura del predetto elenco; b) nel fatto che lo stesso legislatore, laddove ha inteso garantire la specialità di determinati soggetti pubblici, ha introdotto una disciplina speciale in materia di contenimento della spesa, come ha fatto, ad esempio, con l’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge, che riguarda soltanto la Banca d’Italia e non le altre autorità indipendenti.
Infine, a differenza di quanto affermato dai ricorrenti, non assumerebbe rilievo decisivo il parere del Consiglio di Stato, commissione speciale, 26 gennaio 2012, n. 385. In tale sede, infatti, il Consiglio di Stato − chiamato a chiarire l’applicabilità dell’art. 6, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 all’AGCOM, sul presupposto che il sistema di finanziamento dell’Autorità è quasi interamente autonomo, essendo affidato al contributo versato dai soggetti regolati, mentre solo una minima ed irrilevante parte delle entrate è a carico del bilancio dello Stato − dopo aver ribadito «il principio di corrispondenza tra gli oneri imposti agli operatori e i costi amministrativi sostenuti per l’esercizio dei compiti svolti dall’Autorità», ha affermato che le somme ricavate da economie di gestione dall’Autorità possono essere destinate al bilancio statale solo relativamente alla parte imputabile ai contributi ricevuti dallo Stato, ossia nella misura corrispondente al valore percentuale di tali contributi sul complesso delle entrate finanziarie dell’Autorità. Secondo il rimettente, il parere citato confermerebbe ulteriormente l’applicabilità delle norme di cui al d.l. n. 78 del 2010 all’AGCOM.
1.3.− Dopo aver evidenziato, ai fini della rilevanza, l’infondatezza dei motivi di ricorso proposti nell’ambito dei giudizi a quibus, il TAR motiva in ordine alla non manifesta infondatezza delle singole questioni di costituzionalità.
La prima, sollevata dal rimettente d’ufficio, è relativa all’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui introduce un contributo di solidarietà per i dipendenti pubblici pari alla decurtazione del 5% dei trattamenti economici complessivi superiori a € 90.000 e del 10% per i trattamenti economici complessivi superiori a € 150.000. Secondo il rimettente la norma violerebbe gli artt. 3 e 53, Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di universalità dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina riservata al contributo di solidarietà, oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri cittadini, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
In via subordinata, il rimettente solleva questione di costituzionalità anche con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. in quanto, rideterminando «in senso ablativo un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo», inciderebbe in pejus sullo status economico dei lavoratori, alterando quel sinallagma che è il fondamento dei rapporti di durata ed, in particolare, proprio dei rapporti di lavoro, trasmodando in un regolamento irrazionale con riguardo a situazioni fondate su leggi precedenti e così frustrando il principio del legittimo affidamento, da intendersi quale elemento costitutivo dello Stato di diritto.
Il TAR del Lazio ritiene violato anche l’art. 42 Cost. perché, una volta che fosse esclusa la natura tributaria del prelievo dovrebbe necessariamente riconoscersi la sua natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che verrebbe a costituire una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna indennità, attraverso una norma-provvedimento priva della fase del procedimento e senza neanche la partecipazione degli interessati, cui è negato il diritto di interloquire sulla legittimità ed opportunità delle scelte cui sono chiamati a contribuire con il loro sacrificio.
Inoltre il rimettente evoca la violazione dell’art. 97, Cost., perché sarebbe completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.4.− Il rimettente ritiene di dover sollevare, d’ufficio – con riferimento agli articoli 2, 3, 42, 53 e 97 Cost. − anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, secondo il quale: a «titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita, dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, con riferimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche come individuate dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 il riconoscimento dell’indennità di buonuscita, dell’indennità premio di servizio, del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennità equipollente corrisposta una tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego è effettuato: a) in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 90.000 euro; b) in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 90.000 euro ma inferiore a 150.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 90.000 curo e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo; c) in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 150.000 euro, in tal caso il primo importo annuale è pari a 90.000 curo, il secondo importo annuale è pari a 60.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo».
Il rimettente, nel motivare la non manifesta infondatezza della questione, fa riferimento ad altra questione di costituzionalità dell’art. 12, comma 7, del predetto decreto-legge sollevata dal TAR Calabria (ordinanza n. 89 del 1° febbraio 2012). In tale ordinanza si evidenzia che la disposizione in esame comporta lo scaglionamento − in favore del solo datore di lavoro pubblico − dell’onere di corresponsione delle indennità, comunque denominate, di fine rapporto con differenti modalità a seconda dell’ammontare complessivo delle prestazioni. Ciò comporta una diminuzione patrimoniale certa, che si identifica nella mancata corresponsione di interessi per la dilazione del pagamento. La misura determinerebbe anche una più profonda compromissione del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e dipendente pubblico, giacché le somme di cui trattasi hanno pacificamente natura retributiva, sia pure differita, e si tratterebbe di una misura strutturale, non limitata − nella sua vigenza − ad un periodo di tempo predefinito.
Inoltre, il TAR osserva che «il mero differimento della retribuzione non risponde ad alcuna logica di riduzione di spesa, né può essere apprezzato in sede comunitaria, atteso che non si tratta di una misura strutturale ma di un mero rinvio della spesa, di talché la razionalità del “prelievo” mascherato cede innanzi alle esigenze di trasparenza dello Stato con il cittadino, oltre che di lealtà dello Stato-datore di lavoro con il dipendente che esige la giusta remunerazione di una vita di lavoro; analogo rilievo vale per la nuova e diversa incisione del computo dei trattamenti di fine servizio».
In tal modo, verrebbe leso − senza che lo richieda il soddisfacimento di altri e più pregnanti principi costituzionali, nell’ottica di un ragionevole bilanciamento − il principio di affidamento del pubblico dipendente nell’ordinario sviluppo economico della carriera, comprensivo del trattamento collegato alla cessazione del rapporto di impiego.
Si lamenta anche la discriminazione che subirebbero in peius i pubblici dipendenti rispetto a tutti gli altri lavoratori, con palese violazione dell’art. 3 Cost., posto che il datore di lavoro privato non è legittimato ad effettuare alcuna rateizzazione del trattamento di fine rapporto.
Sarebbe palese anche «la violazione dell’art. 36 Cost., tenuto conto che il trattamento di fine rapporto, e gli istituti equivalenti, altro non sono se non una retribuzione differita, i cui importi devono pertanto essere restituiti al lavoratore al momento della cessazione del rapporto.
Infine, anche in questo caso verrebbe completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbero normalmente potersi esprimere pur in riferimento allo stato economico del personale, secondo i generali principi espressi dall’art. 97 Cost.
1.5.− Il Tribunale rimettente considera rilevante e non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale sollevata con il secondo motivo del ricorso introduttivo, ove viene denunciata l’incostituzionalità degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., sul presupposto della ritenuta inapplicabilità all’AGCOM dello speciale regime previsto per la Banca d’Italia dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010.
In punto di rilevanza di quest’ultima questione, il Collegio osserva che la tesi secondo la quale l’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 sarebbe implicitamente applicabile anche all’AGCOM,  sostenuta dai ricorrenti, sulla scorta del combinato disposto dell’art. 2, comma 28, della legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e per la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità), e dell’art. 11, comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), non può essere condivisa perché, a fronte della già evidenziata inclusione delle autorità indipendenti (ivi compresa 1’AGCOM) nell’elenco ISTAT, la disposizione dell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 si presenta come una norma eccezionale e, come tale, non suscettibile di essere applicata in ambiti diversi da quelli espressamente indicati dal legislatore.
In punto di non manifesta infondatezza, in aggiunta alle considerazioni svolte dai ricorrenti nel primo motivo sulla autonomia ed indipendenza organizzativa e finanziaria (considerazioni che il rimettente richiama integralmente), il Collegio ritiene sufficiente evidenziare che la mancata applicazione all’AGCOM del regime speciale previsto dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 per la Banca d’Italia, oltre a comportare un’ingiustificata disparità di trattamento tra enti appartenenti alla medesima categoria (quella delle autorità indipendenti), finisce per pregiudicare gravemente l’autonomia e l’indipendenza organizzativa e finanziaria riconosciuta all’AGCOM dall’ordinamento comunitario e da quello nazionale, in contrasto con gli articoli 3, 97 e 117, primo comma, Cost.
2.− Si è costituito nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura dello Stato premette che le disposizioni censurate si inseriscono nell’ambito dell’articolata ed organica manovra di contenimento delle spese nel settore del pubblico impiego effettuata nell’anno 2010. Tale manovra economica è stata determinata dall’eccezionalità della situazione economica internazionale e dall’esigenza prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea. In tale contesto, uno dei settori di intervento per il contenimento della spesa, è stato, necessariamente, quello dell’impiego pubblico.
In tal modo si è fornita una risposta anticipata a quanto è stato espressamente richiesto, successivamente, con lettera della Banca centrale europea (BCE).
Il legislatore ha ritenuto che anche il personale dell’AGCOM dovesse concorrere al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, in termini non dissimili da quanto avvenuto per tutti i pubblici dipendenti con l’art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438.
L’Avvocatura dello Stato ricorda che le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento a quest’ultima disposizione legislativa sono state dichiarate manifestamente infondate (ordinanza n. 299 del 1999). Peraltro, quando s’impone l’esigenza di effettuare manovre correttive di finanza pubblica incisive e si deve intervenire con misure che attengono direttamente al rapporto di impiego, anche il personale dell’AGCOM è tenuto a contribuirvi. Sarebbe non ragionevole chiedere sacrifici ai dipendenti di tutti i settori della pubblica amministrazione (sia in regime privatistico che pubblicistico) esentandone alcuni.
Secondo la difesa dello Stato, l’intervento legislativo non avrebbe natura tributaria, perché altrimenti avrebbe dovuto riguardare tutti i cittadini, si tratterebbe invece di un intervento adottato al fine di ridurre la spesa di quel determinato settore (la pubblica amministrazione) che è stato individuato anche in sede europea quale elemento distorsivo in eccesso del debito pubblico. In materia fiscale, d’altronde, il legislatore non si è mai fatto carico di salvaguardare gli effetti previdenziali dell’emolumento oggetto di imposizione, come, invece, è previsto dalla norma oggetto di censura, nella quale si è precisato che «tale riduzione non opera ai fini previdenziali». Pertanto, dovrebbe ritenersi infondata la prospettata violazione dell’art. 53 Cost.
L’intervento normativo in questione dunque sarebbe, secondo l’Avvocatura, ragionevole e sostanzialmente equo, e non violerebbe né l’art. 2 né l’art. 3 Cost. Esso non violerebbe nemmeno l’artt. 97 Cost., pure richiamato dal giudice rimettente, perché il predetto «precetto costituzionale non può essere invocato al fine di giustificare la pretesa al conseguimento di miglioramenti economici» (Corte costituzionale, ordinanza n. 290 del 2006).
Non sembrerebbe fondata neanche la questione relativa alla violazione dell’art. 36 Cost., giacché, per valutare se una riduzione del trattamento economico incida sul principio dell’adeguatezza del trattamento economico, bisogna avere riguardo al trattamento economico complessivo del dipendente e non alle singole componenti di esso: e la misura della riduzione prevista, nel caso di specie, non può dirsi che comprometta l’adeguatezza della retribuzione (sentenza n. 287 del 2006).
Secondo la difesa dello Stato, le considerazioni svolte in relazione alla prima questione sono riferibili anche alle censure formulate, per ragioni sostanzialmente analoghe, nei riguardi dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, che ha previsto uno scaglionamento del pagamento della indennità di buonuscita e delle indennità analoghe spettanti ai dipendenti pubblici per importi superiori ad euro 90.000,00.
In particolare, si osserva che non sussiste la violazione dell’art. 36 Cost., perché le indennità dovute non sono negate o decurtate, ma solo in parte differite. Non sussiste violazione dei principi di solidarietà, di uguaglianza, di legalità e di buona amministrazione, perché la misura adottata si applica in egual modo per tutti i dipendenti pubblici e risponde ad esigenze di solidarietà sociale, essendo finalizzata a fronteggiare la grave situazione di crisi della finanza pubblica insorta nella recente fase di integrazione europea. Né può dirsi che sussista disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, che sono soggetti a diverso trattamento giuridico ed economico.
Neppure sarebbero fondate le censure di illegittimità costituzionale formulate dai ricorrenti e recepite dal TAR, secondo cui l’art. 9, commi l, 2 e 21, e l’art. 12, commi 7 e 10, del d.l. in esame, sarebbero illegittimi per violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost., in quanto determinerebbero una disparità di trattamento dei dipendenti dell’AGCOM rispetto a quelli della Banca d’Italia.
Sebbene si possa riconoscere che la Banca d’Italia e l’AGCOM costituiscano autorità indipendenti e godano, pertanto, di una speciale autonomia organizzativa e funzionale, occorre tuttavia evidenziare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari, che la differenziano da ogni altra autorità. Ne consegue che, con riferimento alla Banca d’Italia, non è possibile configurare una identità di situazioni che costituisca presupposto dell’eccepita violazione del principio di uguaglianza.
Invero, osserva l’Avvocatura dello Stato, mentre le autorità indipendenti di regolazione sono enti nazionali, preposti a dare concreta attuazione alle direttive europee nei mercati di riferimento, le banche centrali − come la Banca d’Italia − costituiscono ormai organi del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) previsto dagli artt. 127 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esse, pertanto, non possono essere considerate come autorità indipendenti nazionali, bensì come enti federati di un ente federale europeo. Per queste ragioni, si è reso necessario adottare una normativa di carattere speciale per i dipendenti della Banca d’Italia, sottoposta al parere obbligatorio della Banca centrale europea ai sensi della decisione del Consiglio 98/15/CE del 29 giugno 1998, allo scopo di salvaguardare la particolare autonomia delle istituzioni comunitarie. Dunque, la previsione di un regime specifico per la Banca d’Italia concerne la sua veste di Banca centrale nazionale, che è propria solo della Banca d’Italia e non certamente dell’AGCOM.
Neppure sussisterebbe violazione degli artt. 97 e 117 Cost. Invero, l’indipendenza delle autorità di regolazione − qual è l’AGCOM − non implica che esse siano dotate di un’assoluta autonomia patrimoniale e finanziaria e di una totale autarchia nel governo del personale. Viceversa, esse costituiscono parte della pubblica amministrazione e sono soggette al principio di legalità stabilito dall’art. 97 Cost., con la conseguenza che giustamente il trattamento economico e retributivo del proprio personale viene regolato per legge, così come avviene per tutte le altre categorie del pubblico impiego, e non è invece riservato agli autonomi poteri delle singole autorità.
3.− Con riferimento alle ordinanze di rimessione n. 184 e n. 185 del 2012 si sono costituiti nel giudizio costituzionale i ricorrenti nei giudizi a quibus riservandosi di illustrare in un secondo momento le proprie difese.
4.− Con riferimento all’ordinanza di rimessione n. 194 del 2012 si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio a quo chiedendo che la Corte, in accoglimento delle questioni sollevate dal TAR del Lazio, dichiari l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010.
In particolare, le parti private compiono una ricostruzione completa del quadro normativo nazionale e comunitario in materia di autorità indipendenti al fine di evidenziare che tali autorità devono godere di piena autonomia, anche con riferimento al potere di autoregolamentarsi in relazione al personale dipendente.
Quanto alle singole censure, vengono sviluppate argomentazioni analoghe a quelle dell’ordinanza di rimessione.
5.− Con memorie depositate in prossimità dell’udienza tutti i ricorrenti nei giudizi a quibus ribadiscono le proprie richieste, insistendo nell’accoglimento delle questioni e, in particolare, sostenendo l’equiparabilità della disciplina delle autorità indipendenti a quella prevista per la Banca d’Italia a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza.
6.− Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato insiste nella proprie richieste. In particolare, l’Avvocatura sottolinea che, successivamente alla proposizione dell’ordinanza, è intervenuta la sentenza n. 223 del 2012 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010. Pertanto, in relazione a tali norme, le questioni di costituzionalità sono divenute inammissibili per mancanza di oggetto.
Con riferimento alla questione relativa all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione in conformità con quanto deciso da questa Corte nella citatasentenza n. 223 del 2012. Nel merito tale questione sarebbe comunque infondata per le ragioni già esposte nell’atto di costituzione.
Infine, con riferimento alla questione relativa agli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista per la Banca d’Italia per l’adeguamento ai principi contenuti nel medesimo decreto-legge, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle censure relative alla violazione degli artt. 97 e 117, primo comma, Cost. perdifetto di motivazione.
L’ordinanza di rimessione omette, infatti, di esplicitare i motivi per i quali, a suo avviso, sarebbe violato il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, ed omette altresì di indicare le norme comunitarie che costituirebbero parametro di riferimento interposto e che sarebbero state violate nel caso di specie.
Quanto alla violazione dell’art. 3 per disparità di trattamento con la Banca d’Italia, l’Avvocatura ribadisce i motivi di infondatezza già evidenziati nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto
1.− Con tre ordinanze di identico tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del 2012) il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per violazione degli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117 della Costituzione.
1.1.− In considerazione dell’identità delle questioni, deve essere disposta la riunione dei giudizi, al fine di definirli con un’unica pronuncia.
Va, preliminarmente, affermato che è da condividere l’argomentazione con cui il TAR ritiene di respingere la tesi, che priverebbe di rilevanza la questione di costituzionalità, con cui i ricorrenti nel giudizio principale sostengono che sussisterebbe un limite non superabile delle somme da destinare al bilancio dello Stato, rappresentato dai soli importi corrispondenti ai contributi da quest’ultimo direttamente versati all’AGCOM. Lo Stato non potrebbe, con un atto di normazione primaria avente ad oggetto le retribuzioni di coloro che vi lavorano, eccedere rispetto a tale importo, che, per gli esercizi finanziari rientranti nel periodo di vigenza delle misure in oggetto, sarebbe di entità irrilevante e non potrebbe, quindi, estendere il prelievo alla parte relativa ai contributi versati dai soggetti regolati, anche se tale contribuzione deriva da scelte di finanziamento coattivo operate dalla legislazione statale. Poiché a fondamento di tale tesi viene invocato un parere emesso nell’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato (n. 385 del 26 gennaio 2012), deve rilevarsi che, anche prescindendo dalla condivisibilità delle conclusioni cui perviene, esso riguardava un aspetto diverso, vale a dire la destinazione al bilancio dello Stato delle somme provenienti dalle riduzioni di spesa conseguenti all’applicazione dell’art. 6, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, e che, quindi, esso si riferiva ad una fase successiva che presupponeva proprio l’applicazione della normativa contestata.
1.2.− La prima questione posta dal rimettente riguarda l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010 nella parte in cui dispone che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonchè del 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro».
La citata disposizione violerebbe gli artt. 3 e 53 Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di universalità dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina relativa al contributo di solidarietà previsto per gli altri cittadini, che fa riferimento ai redditi oltre i 300.000 euro, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio,prevederebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
Inoltre, in via subordinata, il Tribunale rimettente ritiene violati gli artt. 2 e 3 Cost. in quanto la norma rideterminerebbe, «in senso ablativo, un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo» e, in tal modo, verrebbe ad incidere in pejus sullo status economico dei lavoratori, alterando quel sinallagma che è il proprium dei rapporti di durata ed, in particolare, caratteristica non eliminabile dei rapporti di lavoro, trasmodando in un regolamento irrazionale con riguardo a situazioni fondate su leggi precedenti e così frustrando il principio del legittimo affidamento, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto.
Infine, il TAR del Lazio ritiene che, qualora si escludesse la natura tributaria dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, in questo caso la norma si porrebbe in contrasto in primo luogo con l’art. 42 Cost., avendo natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che determinerebbe una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna indennità, e, in secondo luogo, con l’art. 97, Cost., perché verrebbe ad essere completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.3.– La seconda questione di costituzionalità riguarda l’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone lo scaglionamento della corresponsione del trattamento di fine rapporto fino a tre importi annuali, a seconda dell’ammontare complessivo della prestazione.
Secondo il rimettente, la citata disposizione violerebbe gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto sarebbe irragionevole imporre ai soli dipendenti pubblici lo scaglionamento dell’indennità di buonuscita e, una tale previsione costituirebbe anche una violazione del principio di adeguatezza della retribuzione, caratterizzandosi la buonuscita come «retribuzione differita».
Il TAR del Lazio ritiene sussistere anche la violazione dell’art. 97 Cost. perché risulta svuotata la capacità auto organizzativa della pubblica amministrazione, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.4.– La terza e ultima questione ha ad oggetto gli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge per la Banca d’Italia.
Secondo il Tribunale rimettente, la mancata applicazione all’AGCOM del regime speciale previsto per la Banca d’Italia violerebbe gli articoli 3, 97 e 117, primo comma, Cost. in quanto, oltre a comportare una ingiustificata disparità di trattamento tra enti appartenenti alla medesima categoria delle autorità indipendenti, pregiudicherebbe gravemente l’autonomia e l’indipendenza organizzativa e finanziaria riconosciuta all’AGCOM dall’ordinamento comunitario e da quello nazionale.
2.− Le questioni relative agli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 sono inammissibili.
Questa Corte, con sentenza n. 223 del 2012, successiva alla proposizione delle ordinanze in esame, ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, in quanto, integrando una decurtazione patrimoniale con i caratteri del tributo, si pone in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost.
In tale occasione si è anche affermato che l’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione víola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale violazione si manifesta sotto due diversi profili: da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici; d’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura.
L’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo.
Con la medesima sentenza n. 223 del 2012 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 con la seguente motivazione «a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determina un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della Costituzione».
Da quanto detto consegue che le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, dopo la sentenza n. 223 del 2012, sono divenute prive di oggetto e vanno, quindi, dichiarate inammissibili in relazione ai profili prospettati con le ordinanze di rimessione.
3.− Le questioni relative all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 sono pur esse, anche se per diverso motivo, inammissibili.
Deve nuovamente richiamarsi la sentenza n. 223 del 2012 con la quale le medesime questioni di costituzionalità sono state dichiarate inammissibili perché non risulta «individuato alcun immediato pregiudizio subito dai dipendenti in servizio, diverso dalla rateizzazione, che essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per anzianità di servizio, ovvero per dimissioni» (sentenza n. 223 del 2012).
Anche nel caso in esame deve evidenziarsi che in nessuna delle ordinanze il Tribunale rimettente riferisce di essere investito di una domanda da parte di un dipendente in quiescenza che, per qualunque causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, abbia subito gli effetti della norma. L’assenza di un pregiudizio e di un interesse attuale a ricorrere rende evidente che il rimettente non deve fare applicazione della norma impugnata.
4.− Anche la questione relativa all’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010 sollevata con riferimento ai parametri di cui agli artt. 97 e 117, primo comma, Cost. è inammissibile.
L’ordinanza di rimessione, infatti, è del tutto carente sulle ragioni della non manifesta infondatezza della violazione dei suddetti parametri costituzionali. Sul punto la motivazione si è limitata ad un mero richiamo alle argomentazioni dei ricorrenti, senza riprodurle.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi non è ammessa la cosiddetta motivazione per relationem. Il rimettente deve rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza e non può limitarsi ad un mero richiamo di quelli evidenziati dalle parti nel corso del giudizio (ex plurimis, sentenze n. 234 del 2011 e n. 143 del 2010, ordinanze n. 175 del 2013n. 239 e n. 65 del 2012).
Inoltre, poiché tali argomenti, prospettati dalle parti private, riguardano i motivi dell’invocata illegittimità amministrativa dei provvedimenti impugnati, gli stessi non possono essere utilizzati, con un mero richiamo, per sostenere la violazione dei parametri di costituzionalità che si pretendono violati.
5.− La questione relativa all’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione dell’art. 3 Cost. non è fondata.
Il TAR del Lazio ritiene che l’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge per la Banca d’Italia, determinino un’ingiustificata disparità di trattamento, trattandosi in entrambi i casi di autorità amministrative indipendenti, e sussistendo le medesime esigenze di salvaguardia dell’autonomia delle stesse.
5.1.− L’art. 3, comma 3, ora richiamato dispone che «La Banca d’Italia tiene conto, nell’ambito del proprio ordinamento, dei principi di contenimento della spesa per il triennio 2011-2013 contenuti nel presente titolo. A tal fine, qualora non si raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali sulle materie oggetto di contrattazione in tempo utile per dare attuazione ai suddetti princìpi, la Banca d’Italia provvede sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva eventuale sottoscrizione dell’accordo».
La scelta del legislatore di prevedere un meccanismo di adeguamento della Banca d’Italia alla normativa introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 corrisponde all’esigenza, imposta dai Trattati relativi alle modalità di funzionamento dell’Unione europea, di consultare preventivamente la Banca centrale europea per ogni modifica che riguardi una banca centrale nazionale.
La Banca d’Italia, infatti, è parte integrante del Sistema europeo di banche centrali (SEBC). L’art. 130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione prevede che: «Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti», principio ribadito ed esplicitato anche dall’art. 7 dello statuto del SEBC e della BCE.
Inoltre, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, terzo alinea, della decisione del Consiglio 98/15/CE del 29 giugno 1998 «Le autorità degli Stati membri consultano la BCE su ogni progetto di disposizioni legislative che rientri nelle sue competenze ai sensi del trattato e, in particolare, per quanto riguarda […] le banche centrali nazionali».
Deve riconoscersi che la normativa comunitaria tende ad un rafforzamento dell’indipendenza anche delle autorità nazionali di regolazione. A tal fine, tuttavia, si ritiene sufficiente che sia garantito mediante una previsione esplicita che l’autorità nazionale responsabile della regolazione ex ante del mercato o della risoluzione di controversie tra imprese sia al riparo, nell’esercizio delle sue funzioni, da qualsiasi intervento esterno o pressione politica che possa compromettere la sua imparzialità di giudizio nelle questioni che è chiamata a dirimere.
In particolare, per il settore in esame, la direttiva 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (cosiddetta direttiva quadro), prevede all’undicesimo “considerando” che: «In conformità al principio della separazione delle funzioni di regolamentazione dalle funzioni operative, gli Stati membri sono tenuti a garantire l’indipendenza delle autorità nazionali di regolamentazione in modo da assicurare l’imparzialità delle loro decisioni. Il requisito dell’indipendenza lascia impregiudicata l’autonomia istituzionale e gli obblighi costituzionali degli Stati membri, come pure il principio della neutralità rispetto alla normativa sul regime di proprietà esistente negli Stati membri sancito nell’articolo 295 del trattato. Le autorità nazionali di regolamentazione dovrebbero essere dotate di tutte le risorse necessarie, sul piano del personale, delle competenze e dei mezzi finanziari, per l’assolvimento dei compiti loro assegnati». Si richiede, inoltre, in base al tredicesimo considerando della direttiva n. 2009/140/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009, che siano stabilite preventivamente le norme riguardanti i motivi di licenziamento del responsabile dell’Autorità nazionale di regolazione in modo da dissipare ogni dubbio circa la neutralità di tale ente e la sua impermeabilità ai fattori esterni e che le autorità dispongano di un bilancio proprio che permetta loro di assumere sufficiente personale qualificato.
Dall’esame della disciplina europea risulta evidente la differenza che esiste tra le banche centrali nazionali e le autorità di regolazione dei mercati ex ante e di risoluzione delle controversie tra imprese.
Pertanto, pur godendo tanto la Banca d’Italia che l’AGCOM di una speciale autonomia organizzativa e funzionale a tutela della loro indipendenza, occorre tuttavia affermare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari che la differenziano da ogni altra autorità amministrativa indipendente.
In conclusione, il diverso trattamento riservato dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 alla Banca d’Italia rispetto all’AGCOM è giustificato dall’esigenza imposta dalla disciplina dell’Unione di previa consultazione della Banca centrale europea da parte delle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative concernenti, tra l’altro, le banche centrali nazionali. Poiché analoga esigenza non viene in rilievo con riferimento alle altre autorità amministrative indipendenti, la disciplina riservata alla Banca d’Italia non può costituire, sotto questo profilo, un utile tertium comparationis per una pretesa disparità di trattamento e la prospettata questione di legittimità costituzionale è priva di fondamento in riferimento all’art. 3 Cost.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 97 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 gennaio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2014.