giovedì 15 gennaio 2015

ELEZIONI FORENSI: il T.A.R. capitolino torna sui suoi passi: si vota regolarmente (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, ordinanza 15 gennaio 2015, n. 151).


ELEZIONI FORENSI: 
il T.A.R. capitolino torna sui suoi passi: 
si vota regolarmente 
(T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I,
 ordinanza 15 gennaio 2015, n. 151)


Su Altalex trovate l'ordinanza gemella n. 155/15 (principale ricorrente l'Associazione Nazionale Forense - A.N.F.).
Qui trovate la 151/15 (principale ricorrente l'Associazione Nazionale Avvocati Italiani - A.N.A.I.).
L'ordinanza è ben motivata: e svolte l'elezioni... Dubito altamente (direi sul piano "metagiuridico" più che "giuridico") dell'accoglimento del ricorso nel merito!

L'art. 28, commi 2 e 3 della L. n. 247/2012 (c.d. Legge professionale), recita: 
"2. I componenti del consiglio sono eletti dagli iscritti con voto segreto in base a regolamento adottato ai sensi dell'articolo 1 e con le modalità nello stesso stabilite. Il regolamento deve prevedere, in ossequio all'articolo 51 della Costituzione, che il riparto dei consiglieri da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l'equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri eletti. La disciplina del voto di preferenza deve prevedere la possibilità di esprimere un numero maggiore di preferenze se destinate ai due generi. Il regolamento provvede a disciplinare le modalità di formazione delle liste ed i casi di sostituzione in corso di mandato al fine di garantire il rispetto del criterio di riparto previsto dal presente comma. Hanno diritto al voto tutti coloro che risultano iscritti negli albi e negli elenchi dei dipendenti degli enti pubblici e dei docenti e ricercatori universitari a tempo pieno e nella sezione speciale degli avvocati stabiliti, il giorno antecedente l'inizio delle operazioni elettorali. Sono esclusi dal diritto di voto gli avvocati per qualunque ragione sospesi dall'esercizio della professione.
"3. Ciascun elettore può esprimere un numero di voti non superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere, arrotondati per difetto".


Massima

Una corretta lettura dei commi 2 e 3 dell’art. 28, l. 31 dicembre 2012, n. 247, dei quali il Ministro, nell’impugnato Regolamento sulle modalità di elezione dei componenti dei Consigli degli ordini circondariali forensi di cui al decreto 10 novembre 2014, ha dato corretta attuazione;
Considerato che la questione sottesa alla materia del contendere è il rapporto tra il comma 2 e il comma 3 del citato art. 28, e cioè se, come sostiene parte ricorrente, gli stessi introducono disposizioni autonome tra loro - con la conseguenza che il Regolamento previsto dal comma 2 non può modificare la disciplina dettata ex lege dal successivo comma 3 perché non coperto da delega - oppure se il comma 2 introduce una deroga alla previsione del successivo comma 3;
Considerato che il comma 2 del citato art. 28 si è prefisso lo scopo di assicurare, ai sensi dell’art. 51 Cost., l’equilibrio tra i generi e lo fa attraverso una serie di disposizioni, la cui attuazione è rimessa alla disciplina regolamentare delegata al Ministro della giustizia;
Considerato infatti che il citato comma 2 da un lato garantisce la tutela del genere meno rappresentato in seno al neo eletto Consiglio dell’Ordine, prevedendo che almeno un terzo dei seggi sia occupato dallo stesso; dall’altro invece tutela il genere nella fase della manifestazione del voto, prevedendo la possibilità di esprimere un numero maggiore di preferenze se destinate ai due generi;
Considerato che il comma 3 ha invece disciplinato la manifestazione del voto, prevedendo che ogni elettore non può esprimere un numero di voti superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere;
Considerato che, tale essendo il contenuto dei commi 2 e 3, il comma 2, nella parte in cui (quarto alinea) disciplina la manifestazione del voto al dichiarato fine di tutelare i generi, prevedendo la possibilità di esprimere “un numero maggiore di preferenze” se destinate ai due generi, introduce una deroga alla disciplina generale dettata dalla stessa legge sull’espressione di voto, e quindi una deroga al comma 3;
Considerato che è proprio il tenore letterale del quarto alinea del comma 2 a confermare tale conclusione, atteso che, nell’introdurre la possibilità di esprimere un numero di preferenze “maggiore”, non può avere come unità di riferimento se non quella individuata, in via generale, dal comma 3, id est i due terzi;
Considerato che lo stesso quarto alinea del comma 2, non individuando un limite a tale deroga, perché precisa solo che il numero di preferenze da esprimere deve essere “maggiore”, lascia al Regolamento la possibilità di disciplinare il sistema di voto nel caso in cui le preferenze siano espresse nei confronti di entrambi i generi;
Considerato che, tale essendo l’interpretazione che della normativa primaria deve essere data, il Regolamento, nelle disposizioni dettate dal combinato disposto degli artt. 7 e 9, non appare porsi in contrasto con essa;
Visto il comma 1 dell’art. 7, che prevede che le liste possono recare le indicazioni dei nominativi fino ad un numero pari a quello complessivo dei consiglieri da eleggere nell’ipotesi in cui i candidati appartengano ai due generi e a quello meno rappresentato sia riservato almeno un terzo dei componenti della lista, arrotondato per difetto all’unità inferiore;
Visto l’art. 9, comma 5, dell’impugnato Regolamento che, per la sola ipotesi di voto destinato ai due generi, prevede che le preferenze possono essere espresse in misura pari al numero complessivo dei componenti del Consiglio da eleggere, fermo il limite massimo dei due terzi per ciascun genere, mentre il successivo comma 6 dello stesso art. 9, nel solo caso di voto non destinato ai due generi, dispone che l’elettore possa esprimere un numero di preferenze non superiore ai due terzi dei componenti del Consiglio da eleggere, pena la nullità della scheda;
Considerato dunque che la possibilità, prevista dal comma 5 dell’art. 9, di esprimere tante preferenze quanti sono i componenti del Consiglio da eleggere è applicazione della previsione – disposta a garanzia dell’equilibrio tra i generi – del quarto alinea del comma 2 dell’art. 28, l. n. 247 (id est, la possibilità di esprimere “un numero maggiore di preferenze” se destinate ai due generi), come attesta la dichiarata condizione, posta dal comma 5, che il voto sia destinato ai due generi;
Ritenuto che ad analoga conclusione deve pervenirsi per l’ipotesi in cui le liste rechino le indicazioni dei nominativi fino ad un numero pari a quello complessivo dei consiglieri da eleggere (comma 1 dell’art. 7) e il voto è espresso indicando la lista (comma 4 dell’art. 9), atteso che in tale ultima ipotesi la circostanza che votando la lista il voto sia attribuito ad ognuno dei suoi componenti è limitata all’ipotesi – espressa nel comma 1 dell’art. 7 come condizione per indicare tanti nominativi quanti sono i consiglieri da eleggere - che i candidati appartengono ai due generi;
Considerato che per le ragioni sopra esposte le disposizioni regolamentari non appaiono inficiate dai profili di illegittimità dedotti da parte ricorrente;

Considerato altresì che non può dubitarsi neanche della conformità a Costituzione della normativa primaria, che offre una particolare tutela al genere meno rappresentato, e ciò in quanto il comma 2 dell’art. 28, l. n. 247 del 2012 è volto a dare effettività al principio di pari opportunità tra donne e uomini, principio che trova tutela a livello costituzionale ai sensi dell’art. 51 Cost., richiamato peraltro proprio nel predetto comma 2.

Ordinanza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 15512 del 2014, proposto da: Anai Associazione Nazionale Avvocati Italiani, De Tilla Maurizio, Prosperetti Giulio, Stoppani Isabella Maria, Fraioli Antonio Leonardo, Prosperetti Eugenio, Pascali Giulio, Simeoni Olga, Zazza Roberto, Pozzaglia Pietro, Graziano Alessandro, Palombi Walter, Aversa Nilia, Shuli Flonja, Bellini Cristina, Bosco Maria Grazia, Silva Elisabetta, Finelli Antonio, Marino Manlio, Valcepina Chiara, Straniero Alessio, Belloni Silvia, Giannini Edilberto, Caterina Bruno Mario, Acampora Claudio, Renzella Roberto, Ferraro Nicola, Andretta Maria, Cerulli Danilo, Longino Lombardi Gilda, De Tilla Caterina, Esposito Andrea, Borgo Brunella, Carnevale Nadia Giuseppina, Raffa Maria Carmen, Attanasio Francesco, Straticò Maria Francesca, Di Sanzo Daniela, Mari Vincenzo, Bria Giancarlo, Laghi Domenico, Aiello Giusy, Malomo Fanny, Bellusci Mario, Niger Pompeo, Aversa Angela, Amato Rosalba, Chimenti Carmine, Verrina Elisabetta, Farciniti Teresa, rappresentati e difesi dagli avv.ti Isabella Maria Stoppani e Giulio Prosperetti, con domicilio eletto presso l’avv. Isabella Maria Stoppani in Roma, Via Brenta, 2/A;

contro
Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso per legge dall' Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12; 
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
Domenico Condello, Antonella Anselmo, Angelo Cugini, Maria Grazia Leuci, Giorgio Lombardi, Edmondo Tomaselli, Stefano Toro, Elisa Traversa, con domicilio eletto presso l’avv. Domenico Condello in Roma, Via Cardinal De Luca, n. 1;
avv. Nicoletta Giorgi e dell’Associazione Italiana dei Giovani Avvocati, rappresentati e difesi dall'avv. Francesco Maria Caianiello, con domicilio eletto presso l’avv. Angela Fiorentino in Roma, Via E. Q. Visconti n. 11;
ad opponendum:
Marco Saraceno, rappresentato e difeso dall'avv. Orazio Abbamonte, con domicilio eletto presso o stesso avv. Orazio Abbamonte in Roma, Via Terenzio, 7; 
per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
decreto del Ministro della Giustizia del 10.11.2014, n. 170, in G.U. n. 273 del 24.11.2014, nonchè di tutti gli atti del sottostante procedimento amministrativo, presupposti, preordinati, preparatori, connessi e conseguenti, segnatamente i conseguenti bandi;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Visti gli atti di intervento ad adiunvandum e ad opponendum;
Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2015 il cons. Giulia Ferrari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto necessario rinviare alla più approfondita fase di merito l’esame della questione, di indubbio spessore, relativa all’ammissibilità del ricorso per essere stato proposto prima dell’esito delle elezioni, e dunque prima che il risultato dello spoglio confermi se effettivamente la norma regolamentare impugnata abbia, come sostiene parte ricorrente, creato un vulnus alle minoranze, possibilità questa legata ad una serie di fattori – e dunque evento tutt’altro che certo – quali il numero delle liste, la modalità di espressione del voto (alla lista e non ai singoli candidati), ecc.;
Ritenuto di poter prescindere, nella presente fase cautelare, anche dalla verifica dell’ammissibilità sia dell’atto di intervento ad opponendum che dell’atto di intervento ad adiuvandum – quest’ultimo in considerazione del principio secondo cui lo stesso non può essere proposto dal titolare di una posizione giuridica direttamente tutelabile con una propria impugnativa ma solo dal titolare di una posizione dipendente da quella del ricorrente principale (Cons. St., sez. IV, 12 marzo 2013, n. 1480) – e dell’eventuale possibilità, sussistendone tutti i presupposti, di trasformare l’intervento adesivo in ricorso autonomo;
Considerato infatti che i motivi di ricorso non appaiono assistiti da sufficiente fumus alla luce di una corretta lettura dei commi 2 e 3 dell’art. 28, l. 31 dicembre 2012, n. 247, dei quali il Ministro, nell’impugnato Regolamento sulle modalità di elezione dei componenti dei Consigli degli ordini circondariali forensi di cui al decreto 10 novembre 2014, ha dato corretta attuazione;
Considerato che la questione sottesa alla materia del contendere è il rapporto tra il comma 2 e il comma 3 del citato art. 28, e cioè se, come sostiene parte ricorrente, gli stessi introducono disposizioni autonome tra loro - con la conseguenza che il Regolamento previsto dal comma 2 non può modificare la disciplina dettata ex lege dal successivo comma 3 perché non coperto da delega - oppure se il comma 2 introduce una deroga alla previsione del successivo comma 3;
Considerato che il comma 2 del citato art. 28 si è prefisso lo scopo di assicurare, ai sensi dell’art. 51 Cost., l’equilibrio tra i generi e lo fa attraverso una serie di disposizioni, la cui attuazione è rimessa alla disciplina regolamentare delegata al Ministro della giustizia;
Considerato infatti che il citato comma 2 da un lato garantisce la tutela del genere meno rappresentato in seno al neo eletto Consiglio dell’Ordine, prevedendo che almeno un terzo dei seggi sia occupato dallo stesso; dall’altro invece tutela il genere nella fase della manifestazione del voto, prevedendo la possibilità di esprimere un numero maggiore di preferenze se destinate ai due generi;
Considerato che il comma 3 ha invece disciplinato la manifestazione del voto, prevedendo che ogni elettore non può esprimere un numero di voti superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere;
Considerato che, tale essendo il contenuto dei commi 2 e 3, il comma 2, nella parte in cui (quarto alinea) disciplina la manifestazione del voto al dichiarato fine di tutelare i generi, prevedendo la possibilità di esprimere “un numero maggiore di preferenze” se destinate ai due generi, introduce una deroga alla disciplina generale dettata dalla stessa legge sull’espressione di voto, e quindi una deroga al comma 3;
Considerato che è proprio il tenore letterale del quarto alinea del comma 2 a confermare tale conclusione, atteso che, nell’introdurre la possibilità di esprimere un numero di preferenze “maggiore”, non può avere come unità di riferimento se non quella individuata, in via generale, dal comma 3, id est i due terzi;
Considerato che lo stesso quarto alinea del comma 2, non individuando un limite a tale deroga, perché precisa solo che il numero di preferenze da esprimere deve essere “maggiore”, lascia al Regolamento la possibilità di disciplinare il sistema di voto nel caso in cui le preferenze siano espresse nei confronti di entrambi i generi;
Considerato che, tale essendo l’interpretazione che della normativa primaria deve essere data, il Regolamento, nelle disposizioni dettate dal combinato disposto degli artt. 7 e 9, non appare porsi in contrasto con essa;
Visto il comma 1 dell’art. 7, che prevede che le liste possono recare le indicazioni dei nominativi fino ad un numero pari a quello complessivo dei consiglieri da eleggere nell’ipotesi in cui i candidati appartengano ai due generi e a quello meno rappresentato sia riservato almeno un terzo dei componenti della lista, arrotondato per difetto all’unità inferiore;
Visto l’art. 9, comma 5, dell’impugnato Regolamento che, per la sola ipotesi di voto destinato ai due generi, prevede che le preferenze possono essere espresse in misura pari al numero complessivo dei componenti del Consiglio da eleggere, fermo il limite massimo dei due terzi per ciascun genere, mentre il successivo comma 6 dello stesso art. 9, nel solo caso di voto non destinato ai due generi, dispone che l’elettore possa esprimere un numero di preferenze non superiore ai due terzi dei componenti del Consiglio da eleggere, pena la nullità della scheda;
Considerato dunque che la possibilità, prevista dal comma 5 dell’art. 9, di esprimere tante preferenze quanti sono i componenti del Consiglio da eleggere è applicazione della previsione – disposta a garanzia dell’equilibrio tra i generi – del quarto alinea del comma 2 dell’art. 28, l. n. 247 (id est, la possibilità di esprimere “un numero maggiore di preferenze” se destinate ai due generi), come attesta la dichiarata condizione, posta dal comma 5, che il voto sia destinato ai due generi;
Ritenuto che ad analoga conclusione deve pervenirsi per l’ipotesi in cui le liste rechino le indicazioni dei nominativi fino ad un numero pari a quello complessivo dei consiglieri da eleggere (comma 1 dell’art. 7) e il voto è espresso indicando la lista (comma 4 dell’art. 9), atteso che in tale ultima ipotesi la circostanza che votando la lista il voto sia attribuito ad ognuno dei suoi componenti è limitata all’ipotesi – espressa nel comma 1 dell’art. 7 come condizione per indicare tanti nominativi quanti sono i consiglieri da eleggere - che i candidati appartengono ai due generi;
Considerato che per le ragioni sopra esposte le disposizioni regolamentari non appaiono inficiate dai profili di illegittimità dedotti da parte ricorrente;
Considerato altresì che non può dubitarsi neanche della conformità a Costituzione della normativa primaria, che offre una particolare tutela al genere meno rappresentato, e ciò in quanto il comma 2 dell’art. 28, l. n. 247 del 2012 è volto a dare effettività al principio di pari opportunità tra donne e uomini, principio che trova tutela a livello costituzionale ai sensi dell’art. 51 Cost., richiamato peraltro proprio nel predetto comma 2;
Ritenuto pertanto che non sussistono i presupposti previsti per l’accoglimento dell’istanza cautelare.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)
Respinge la suindicata domanda incidentale di sospensione dell’impugnato regolamento approvato con decreto del Ministro della Giustizia del 10.11.2014, n. 170.
Compensa tra le parti in causa le spese della presente fase di giudizio.
La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2015 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Tosti, Presidente
Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore
Roberta Cicchese, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE






DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 15/01/2015
IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

RESPONSABILITA' P.A.: il c.d. danno da "contatto sociale" (Cons. St., Sez.VI, sentenza 30 dicembre 2014, n. 6421).

RESPONSABILITA' P.A.: 
il c.d. danno 
da "contatto sociale" 
(Cons. St., Sez.VI,
 sentenza 30 dicembre 2014, n. 6421)



La responsabilità della P.A. da "contatto sociale", almeno a mio avviso, rappresenta un istituto di grande interesse concettuale, quindi rilevante al livello dottrinale, ma di assai rilevante impatto processuale, quindi di scarso peso professionale e giurisdizionale (basta leggere la sentenza per capire che alcuni istituti civilistici sono sì presi a riferimento, ma rielaborati in senso "creativo" dal G.A.).
Da una parte accademici e concorsisti, dall'altra Avvocati e Giudici (almeno per una volta!) quindi...
Comuqnue la massima riporta brevemente la fattispecie concreta, per cui la lettura della sentenza per esteso (come delle norme citate nella stessa) risulta sempre indispensabile.


Massima

1. Va rilevato che alcuni orientamenti giurisprudenziali tendono ad estendere alla pubblica amministrazione la responsabilità da contatto sociale, quando il comportamento dell'amministrazione (tenendo conto dell'immediata percepibilità del canone di corretta condotta) sia da qualificare come negligente o imprudente secondo i parametri dell'azione amministrativa di cui all'art. 1 della L.n. 241/1990, i quali implicano il corretto sviluppo procedimentale e la legittima emanazione del provvedimento finale, salvo errore scusabile. 
2. Tanto comporta che la responsabilità dell'amministrazione pubblica per lesione di interessi legittimi non del tutto coincide con quella extracontrattuale, sussistendo anche profili (rilevanti, in particolare, sul piano probatorio) assimilabili a quelli della responsabilità contrattuale, in considerazione dell'interesse giuridicamente protetto al giusto procedimento amministrativo (es. Cons. Stato, VI, 4 luglio 2012, n. 3897).
Tuttavia, questa responsabilità da contatto sociale pur sempre presuppone un collegamento funzionale tra procedimento e condotta addebitata (da stimare nel concreto in relazione alla gravità dei vizi del provvedimento adottato) e il relativo inadempimento dev’essere configurabile come astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
3. Va ben sottolineato che, secondo regole generali dell’ordinamento, il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell’annullamento giurisdizionale per illegittimità dell’atto amministrativo, ma richiede altresì la positiva verifica di tutti gli appositi elementi previsti dalla legge, siano essi di ordine contrattuale o extracontrattuale: oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, è indispensabile che sia accertata la presenza di una colpa (o del dolo) dell’amministrazione, che sia provata l’esistenza di un danno ingiusto al patrimonio del preteso danneggiato, che sussista un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito.
4. Conclusivamente, il rapporto che si instaura con lo svolgimento dei così dall’ordinamento chiamati lavori socialmente utili trae origine da ragioni essenzialmente di ordine assistenziale (c.d. ammortizzatori sociali), riguardando un impegno lavorativo di suo precario e dai caratteri peculiari (quale il compenso orario uguale per tutti, sostitutivo dell’indennità di disoccupazione, versato dallo Stato o dalla Regione e non dal datore di lavoro beneficiario della prestazione): si tratta pertanto di un rapporto che si colloca, concettualmente e per disciplina normativa, al di fuori dall’ambito del rapporto di lavoro subordinato e, tra l’altro, non è assistito da alcuna automatica stabilizzazione (es. Cons. Stato, VI, 15 marzo 2007, n. 1253; 27 giugno 2007, n. 3664; 11 settembre 2008, n. 4344).
5. Inoltre, in relazione a questa peculiare ed essenziale natura assistenziale del lavoro socialmente utile, nella fattispecie concreta deve ravvisarsi quantomeno la presenza di un errore scusabile nell’operato della Commissione Regionale per l’Impiego, che ha sospeso l’iscrizione nelle liste di mobilità nelle more dei necessari chiarimenti in rapporto agli atti ispettivi ed alla comunicazione dell’Inps, alla luce del mutamento intervenuto nella situazione originaria di fatto dei requisiti abilitanti e, quindi, a ragione dei sopravvenuti motivi di pubblico interesse insiti nel rispetto delle condizioni di legge per accedere da parte degli aventi titolo alle liste di mobilità.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 65 del 2011, proposto da:
Linda Crispino, Di Martino Giovanna, Di Martino Lucia, Di Martino Immacolata, Grasso Olga, Marino Anna, Murolo Carmela, Murolo Carolina, Murolo Immacolata, Putignano Patrizia, Scognamiglio Sara, Scognamiglio Salvatore, tutti rappresentati e difesi dagli avv. Luigi Tremante e Roberto Ferrari, con domicilio eletto presso Ivan Canelli in Roma, via Montebello, 8; 
contro
Regione Campania, nella persona del presidente in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Rosaria Saturno, con domicilio eletto presso Rosaria Saturno in Roma, via Poli,29;
Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali, nella persona del ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE VIII n. 00885/2010, resa tra le parti, concernente risarcimento danni per illegittima cancellazione dalle liste dei lavoratori socialmente utili

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della regione intimata e della difesa statale;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 maggio 2014 il Cons. Vito Carella e uditi per le parti gli avvocati Saturno, e dello Stato Soldani;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1.- Risulta dalla sentenza appellata in tema di risarcimento danni che il Tribunale amministrativo regionale della Campania, Napoli, ritenuta la giurisdizione che era stata declinata dal giudice del lavoro (sentenza del 24 maggio 2006), ha respinto il ricorso riassunto dai ricorrenti, già lavoratori del calzaturificio “Caraibi s.a.s.” dichiarato fallito nel 1990 e soggetti in mobilità inseriti nei progetti di lavori socialmente utili (LSU).
Con tale decisione è stata ravvisata l’inesistenza dei presupposti connessi all’instaurata azione risarcitoria nonché della lamentata responsabilità colposa dell’amministrazione per il pregiudizio patrimoniale patito a ragione della mancata corresponsione delle indennità maturate medio tempore, della perdita di chance, della privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa che avrebbe consentito ai reclamanti di conseguire l’agognata stabilizzazione.
In particolare, la sentenza considera che i ricorrenti, odierni appellanti, hanno poggiato la domanda di risarcimento dei danni sulla sentenza del medesimo Tribunale amministrativo per la Campania, sede di Napoli, n. 3594 del 9 aprile 2003 (non impugnata in appello al Consiglio di Stato, e che aveva annullato il provvedimento di sospensione dalle liste di mobilità emesso il 5 gennaio 1996 dalla Commissione Regionale per l’Impiego della Campania).
Il giudicato è fondato sulla statuizione di omessa comunicazione di avvio del procedimento ed essendo disposta una sospensione sine die in attesa degli approfondimenti istruttori, fatti “salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione”.
La vicenda era sorta in esito ad alcuni accertamenti svolti dall’Ufficio Regionale del Lavoro e dall’I.N.P.S. (donde il predetto atto di sospensione) in merito alle rilevate discordanze tra l’elenco degli operai in servizio presso il calzaturificio Caraibi e quello relativo ai dipendenti avviati alle liste di mobilità, risultati numericamente eccedenti rispetto ai dati in possesso dei predetti enti, tanto che la sede I.N.P.S. di Napoli, con nota del 5 dicembre 1995, aveva espressamente disconosciuto l’esistenza dei rapporti di lavoro subordinato tra la citata azienda ed i lavoratori in questione.
Avendo la Commissione Regionale istituita presso la Regione Campania (nel frattempo subentrata alla Commissione Regionale per l’Impiego), in ottemperanza alla citata sentenza n. 3594 del 2003, disposto la revoca della sospensione già annullata in sede giurisdizionale e la conseguente reiscrizione dei ricorrenti nelle liste di mobilità, con il gravame di primo grado i ricorrenti hanno avanzano richiesta di risarcimento dei danni per equivalente monetario, dal momento che l’annullamento giurisdizionale del provvedimento di sospensione dalle liste di mobilità (ed anche la successiva reiscrizione disposta dalla Commissione Regionale nel 2003) non sarebbero pienamente satisfattivi della pretesa dedotta alle indennità maturate nel frattempo e alla perdita della possibilità di conseguire la stabilizzazione del rapporto di lavoro.
2.- Con l’appello in esame, suffragato da due motivi di censura, i deducenti hanno criticato la sentenza perché affermata erronea in punto di qualificazione della fattispecie come da responsabilità extracontrattuale, da ascriversi invece nella figura dell’inadempimento da contatto sociale qualificato in rapporto alla differenziata relazione procedimentale, assimilabile a quella da contratto (compresa la presunzione di colpa).
A loro dire l’amministrazione non avrebbe fatto discendere dall’annullamento giurisdizionale tutte le inevitabili conseguenze giuridiche con il loro reinserimento nei progetti LSU, accordato a taluni soltanto dei destinatari dell’illegittima sospensione; di conseguenza, i ricorrenti hanno anche denunciato, in subordine, palese incoerenza, disparità di trattamento, travisamento, illogicità e irragionevolezza della pronuncia gravata, nonostante l’assoluta identità delle situazioni di fatto.
La Regione Campania ha resistito come da memoria depositata il 3 aprile 2014, mentre la difesa statale si è formalmente costituita.
All’udienza del 20 maggio 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
3.- L’appello è infondato per tutti i profili di censura, che sono suscettibili di trattazione congiunta, e la sentenza merita di essere confermata, perché esente dalle doglianze mosse.
In anteprima, va rilevato che alcuni orientamenti giurisprudenziali tendono ad estendere alla pubblica amministrazione la responsabilità da contatto sociale, quando il comportamento dell'amministrazione (tenendo conto dell'immediata percepibilità del canone di corretta condotta) sia da qualificare come negligente o imprudente secondo i parametri dell'azione amministrativa di cui all'art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, i quali implicano il corretto sviluppo procedimentale e la legittima emanazione del provvedimento finale, salvo errore scusabile. Tanto comporta che la responsabilità dell'amministrazione pubblica per lesione di interessi legittimi non del tutto coincide con quella extracontrattuale, sussistendo anche profili (rilevanti, in particolare, sul piano probatorio) assimilabili a quelli della responsabilità contrattuale, in considerazione dell'interesse giuridicamente protetto al giusto procedimento amministrativo (es. Cons. Stato, VI, 4 luglio 2012, n. 3897).
Tuttavia, questa responsabilità da contatto sociale pur sempre presuppone un collegamento funzionale tra procedimento e condotta addebitata (da stimare nel concreto in relazione alla gravità dei vizi del provvedimento adottato) e il relativo inadempimento dev’essere configurabile come astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
Anche ad aderire a detto indirizzo, dunque, si deve considerare che queste condizioni e caratteristiche non si riscontrano nel caso di specie, in quanto: la sentenza del Tribunale amministrativo della Campania, Napoli, n. 3594 del 2003 si è pronunciata solo in tema di omesso avviso di comunicazione e sulla sospensione sine die dalle liste di mobilità in attesa degli approfondimenti istruttori “salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione”; la sospensione peraltro è intervenuta in materia assistenziale in esito a regolari atti ispettivi dell’ufficio regionale del Lavoro e dell’Inps, finalizzati a prevenire gli abusi - come nella fattispecie emerso - e, quindi, con attività legittimamente esercitata a fronte di discordanze tra libro matricola della ditta fallita e numero maggiore di lavoratori risultati dichiarati in mobilità; l’amministrazione, sia pure a seguito della sentenza che ha censurato una modalità formale della sospensione applicata per l’omesso avviso di avvio del relativo procedimento in attesa degli accertamenti amministrativi e penali, ha revocato la sospensione temporanea, il cui atto non è stato opposto; la cancellazione dalle liste di mobilità non ha inciso sul rapporto di LSU in essere sino alla scadenza naturale ed in seguito si è soltanto sostanziata nella eliminazione dell’opzione tra assegno per attività di lavoro socialmente utile ed indennità di disoccupazione.
4.- Va ben sottolineato che, secondo regole generali dell’ordinamento, il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell’annullamento giurisdizionale per illegittimità dell’atto amministrativo, ma richiede altresì la positiva verifica di tutti gli appositi elementi previsti dalla legge, siano essi di ordine contrattuale o extracontrattuale: oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, è indispensabile che sia accertata la presenza di una colpa (o del dolo) dell’amministrazione, che sia provata l’esistenza di un danno ingiusto al patrimonio del preteso danneggiato, che sussista un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito.
Sotto tali aspetti, la pretesa dei ricorrenti deve essere valutata negativamente: l’invocato risarcimento è innanzitutto incompatibile con il regime giuridico-assistenziale degli LSU, con le relative finalità lavorative e con i suoi ambiti di operatività; l’atto adottato di sospensione è stato riconosciuto irregolare solo dal punto di vista procedimentale e la sua riedizione era fatta salva dal giudicato; la Commissione Regionale per l’Impiego, nell’adottare detta sospensione, non è venuta meno alle regole sostanziali di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, ovvero ai canoni di diligenza e di perizia, alla luce degli atti ispettivi e delle infrazioni private al diritto nazionale e comunitario; l’ordinamento pone in via alternativa il beneficio patrimoniale accordato agli LSU e l’indennità di disoccupazione, non potendo quindi essere duplicato uno stesso vantaggio di natura assistenziale.
E, comunque, se quest’ultima indennità alternativa non era stata percepita, era onere dei deducenti attivarla a seguito della cancellazione dalle liste di mobilità. Pertanto, costoro non possono ora venire contro il fatto proprio.
Di conseguenza, nessun addebito ragionevole di colpa può essere formulato a carico dell’amministrazione, avuto riguardo alla quasi nulla ampiezza di valutazione discrezionale nell’adottata sospensione in relazione alle risultanze ispettive, il contesto nel quale l’atto è maturato, le condizioni concrete stesse e l’apporto dato dai privati all’iscrizione nelle liste di mobilità di soggetti in situazione lavorativa non limpida.
Nemmeno è possibile configurare, in capo ai ricorrenti assegnati a progetti LSU e percettori di assegno INPS, una disparità di trattamento rispetto ad altri LSU ai fini del loro reinserimento e successiva (eventuale) stabilizzazione: stante la non identità delle situazioni di fatto (nella specie peraltro solo enunciate e senza comprovati termini di paragone); dipendendo la fattispecie legale degli LSU dall’individuale collocamento nella lista di mobilità; scaturendo la relativa scelta di avvio dalla professionalità specifica richiesta a livello circoscrizionale e di progetto.
5.- Conclusivamente, il rapporto che si instaura con lo svolgimento dei così dall’ordinamento chiamati lavori socialmente utili trae origine da ragioni essenzialmente di ordine assistenziale (c.d. ammortizzatori sociali), riguardando un impegno lavorativo di suo precario e dai caratteri peculiari (quale il compenso orario uguale per tutti, sostitutivo dell’indennità di disoccupazione, versato dallo Stato o dalla Regione e non dal datore di lavoro beneficiario della prestazione): si tratta pertanto di un rapporto che si colloca, concettualmente e per disciplina normativa, al di fuori dall’ambito del rapporto di lavoro subordinato e, tra l’altro, non è assistito da alcuna automatica stabilizzazione (es. Cons. Stato, VI, 15 marzo 2007, n. 1253; 27 giugno 2007, n. 3664; 11 settembre 2008, n. 4344).
Inoltre, in relazione a questa peculiare ed essenziale natura assistenziale del lavoro socialmente utile, nella fattispecie concreta deve ravvisarsi quantomeno la presenza di un errore scusabile nell’operato della Commissione Regionale per l’Impiego, che ha sospeso l’iscrizione nelle liste di mobilità nelle more dei necessari chiarimenti in rapporto agli atti ispettivi ed alla comunicazione dell’Inps, alla luce del mutamento intervenuto nella situazione originaria di fatto dei requisiti abilitanti e, quindi, a ragione dei sopravvenuti motivi di pubblico interesse insiti nel rispetto delle condizioni di legge per accedere da parte degli aventi titolo alle liste di mobilità.
L’appello va dunque respinto con il conseguente rigetto della domanda risarcitoria e la sentenza, quindi, deve essere confermata per le considerazioni sopra svolte.
Per la natura e la particolarità della fattispecie, le spese di lite relative al grado possono essere equamente compensate tra tutte la parti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto (ricorso numero: 65 del 2011), respinge l’appello e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata come da motivazione.
Spese del grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Vito Carella, Consigliere, Estensore
Roberta Vigotti, Consigliere
Carlo Mosca, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 30/12/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


lunedì 12 gennaio 2015

UNIONE EUROPEA & APPALTI: tre sentenze della Corte di Giustizia, assolutamente non rilevanti, ma interessanti sì (una, invero, pericolosa!).


UNIONE EUROPEA & APPALTI: 
tre sentenza della Corte di Giustizia, 
assolutamente non rilevanti, ma interessanti sì 
(una, invero, pericolosa!)


Senza alcuna pretesa di sistematicità...
Tre sentenze della Corte di Giustizia, due del 2014 ed una del 2013, tutte in materia di appalti pubblici.
Assolutamente non rilevanti, ma interessanti sì (una è pericolosa invero!).



1. Corte di Giustizia U.E., sez. IX, 18  settembre 2014, n. 549

Massima

In una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, nella quale un offerente intende eseguire un appalto pubblico avvalendosi esclusivamente di lavoratori impiegati da un subappaltatore stabilito in uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l'amministrazione aggiudicatrice, l'articolo 56 TFUE osta all'applicazione di una normativa dello Stato membro a cui appartiene tale amministrazione aggiudicatrice che obblighi detto subappaltatore a versare ai lavoratori in parola un salario minimo fissato da tale normativa.



2. Corte di Giustizia U.E., sez. V, 19 giugno 2014, n. 574

Massima

Qualora l'aggiudicatario di un appalto pubblico sia un'associazione di pubblica utilità senza scopo di lucro che, al momento dell'affidamento di tale appalto, comprende tra i suoi membri non solo enti che fanno parte del settore pubblico, ma anche istituzioni caritative private che svolgono attività senza scopo di lucro, la condizione relativa al <controllo analogo>, dettata dalla giurisprudenza della Corte affinché l'affidamento di un appalto pubblico possa essere considerato come un'operazione <in house> non è soddisfatta e pertanto la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2014, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, è applicabile.



3. Corte di Giustizia, sez. V, 14 marzo 2013, n. 555

Massima

Lo spirito di collaborazione che deve presiedere allo svolgimento del rinvio pregiudiziale implica che il giudice nazionale tenga presente la funzione di cui la Corte è investita, che è quella di contribuire all'amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche.
Ne consegue che va dichiarata inammissibile la questione posta dal remittente relativa al riconoscimento del riparto di giurisdizione nel sistema italiano come elemento lesivo del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, , sebbene tale diritto, garantito dall'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU, al quale fa pure riferimento il giudice del rinvio, costituisca un principio generale del diritto dell'Unione e sia stato riaffermato dall'articolo 47 della Carta.
Resta il fatto che la decisione di rinvio non contiene alcun elemento concreto tale da consentire di concludere che l'oggetto del procedimento principale riguarda l'interpretazione o l'applicazione di una norma dell'Unione diversa da quelle di cui alla Carta.
Più in particolare, il giudice del rinvio chiama in causa elementi essenziali del sistema giurisdizionale italiano e pone alla Corte questioni di principio dibattute da diversi anni nella giurisprudenza e nella dottrina italiane, fondandosi su un'asserita violazione del diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo sulla base del rilievo che tale giudice dovrebbe dichiararsi privo di giurisdizione e rinviare dinanzi al giudice amministrativo competente una controversia che non presenta alcun elemento rientrante nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione.



Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
EPIGRAFE

Nella causa C-555/12,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'articolo 267 TFUE, dal Tribunale di Tivoli, con ordinanza del 6 novembre 2012, pervenuta in cancelleria il 3 dicembre 2012, nel procedimento
Claudio Loreti,
Maria Vallerotonda,
Attilio Vallerotonda,
Virginia Chellini
contro
Comune di Zagarolo,
LA CORTE (Decima Sezione),
composta dal sig. A. Rosas (relatore), presidente di sezione, dai sigg. E. Juhász e D. Šváby, giudici,
avvocato generale: sig.ra J. Kokott
cancelliere: sig. A. Calot Escobar
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l'avvocato generale, di statuire con ordinanza motivata, ai sensi dell'articolo 53, paragrafo 2, del regolamento di procedura della Corte,
ha emesso la seguente
Ordinanza

1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e dell'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), in combinato disposto con l'articolo 52, paragrafo 3, della Carta e l'articolo 6 TUE.
2 Tale domanda è stata proposta nell'ambito di una controversia tra, da un lato, il sig. Loreti, la sig.ra Vallerotonda, il sig. Vallerotonda e la sig.ra Chellini, nella loro veste di proprietari immobiliari, e, dall'altro, il Comune di Zagarolo, avente ad oggetto alcuni atti amministrativi adottati da quest'ultimo con i quali era stato approvato un progetto edilizio, in quanto tali atti sarebbero stati adottati in violazione di legge e le opere realizzate in base agli stessi recherebbero molestia ai ricorrenti nel procedimento principale.
Diritto italiano
3 L'articolo 103, primo comma, della Costituzione della Repubblica italiana stabilisce quanto segue:
«Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi».
4 L'articolo 7 del codice del processo amministrativo, contenuto nel decreto legislativo n. 104/10, del 2 luglio 2010 (Supplemento ordinario alla GURI n. 148, del 7 luglio 2010), stabilisce quanto segue:
«Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico».
Procedimento principale e questione pregiudiziale
5 Dinanzi al giudice del rinvio, i ricorrenti nel procedimento principale chiedono che venga ordinato al Comune di Zagarolo di sospendere e di rimuovere i lavori di modifica, in altezza e in profondità, delle dimensioni di un immobile di proprietà di tale comune, sito rispettivamente di lato e di fronte agli immobili dei ricorrenti, in quanto tale modifica reca molestia al godimento del diritto di proprietà di questi ultimi. A tal fine, essi hanno chiesto al giudice del rinvio di disapplicare gli atti amministrativi con i quali era stata approvata l'esecuzione del progetto edilizio, invocando il ricorso alla cosiddetta tutela «possessoria» nonché a quella contro le nuove opere e contro la minaccia di danno temuto che il proseguimento dei lavori comporterebbe per i ricorrenti.
6 Il Comune di Zagarolo ha sostenuto l'esistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia principale, nonché l'infondatezza della domanda.
7 Secondo il giudice del rinvio, dagli accertamenti tecnici effettuati risulta che i lavori di ristrutturazione hanno comportato per l'immobile rilevanti modifiche, sia in altezza che per ingombro in pianta, sicché, pur essendo stati realizzati in conformità ai permessi richiesti, tali lavori non rispettano le distanze previste dalla legge e recano danno ai ricorrenti nel procedimento principale, avendo alterato in tal modo la visuale goduta dai loro appartamenti.
8 Tali permessi, stante la violazione dei limiti delle distanze minime richieste dalla legge, dovrebbero pertanto essere considerati in violazione di legge. L'amministrazione sarebbe quindi incorsa in un'ipotesi di cattivo esercizio del potere.
9 Secondo il giudice del rinvio, l'attuale giurisprudenza nazionale in materia di giurisdizione gli imporrebbe, in base all'articolo 7 del codice del processo amministrativo, di dichiarare il difetto di giurisdizione e di rimettere gli atti al giudice amministrativo competente. Egli rileva a questo proposito che, con ordinanza priva nell'ordinamento italiano di valore vincolante, il precedente giudice cui era assegnato il fascicolo aveva ritenuto, in base alla giurisprudenza allora applicata, che la giurisdizione spettasse al giudice del rinvio, e aveva istruito la causa. Tuttavia, la successiva evoluzione giurisprudenziale rimetterebbe in discussione tale decisione.
10 Il giudice del rinvio ritiene quindi di dover sollevare il problema della compatibilità del sistema di attribuzione della giurisdizione previsto dalle norme nazionali italiane con talune disposizioni del diritto dell'Unione.
11 Nella sua ordinanza di 55 pagine, il giudice del rinvio analizza la nozione di «comportamento amministrativo» nelle varie fonti normative che vi fanno riferimento, la dicotomia esistente tra interessi legittimi e diritti soggettivi, nonché le diverse teorie dottrinali e giurisprudenziali relative a tale questione. Egli sottolinea la complessità della teoria che sorregge il riparto di giurisdizione tra i diversi giudici nel diritto italiano.
12 Il giudice del rinvio ritiene infatti che il sistema di definizione delle situazioni giuridiche soggettive tutelabili e di riparto della giurisdizione sia talmente complesso e suscettibile di interpretazioni diverse che, negli effetti, determina un possibile contrasto con il diritto dell'Unione. Egli richiama a questo proposito il «défaut de sécurité juridique» (assenza di certezza del diritto), la difficoltà di accesso alla giustizia determinata dalla difficoltà di individuare il giudice dotato di giurisdizione, nonché la durata ragionevole del processo.
13 Tenuto conto di tali elementi, il Tribunale di Tivoli ha deciso di sospendere il procedimento e di domandare alla Corte di pronunciarsi su:
«la compatibilità dell'articolo 7 del codice del processo amministrativo vigente [in Italia] (...) con l'articolo 6 della CEDU e con gli articoli 47 e 52, paragrafo 3, della Carta, come recepiti a seguito della modifica dell'articolo 6 [TUE ad opera] del Trattato di Lisbona:
a) nella parte in cui attribuisce ad organi giurisdizionali diversi il potere di decidere su posizioni giuridiche soggettive in astratto diversificate (interesse legittimo e diritto soggettivo) ma in concreto di difficile o impossibile certa identificazione e senza specificarne normativamente il contenuto concreto;
b) nella parte in cui prevede l'esistenza di giurisdizioni competenti a decidere sulle stesse materie in base a criteri (individuazione di diverse posizioni giuridiche soggettive) non più rispondenti alla realtà di fatto dopo la introduzione della risarcibilità dell'interesse legittimo (prevista ormai dall'anno 2000 al fine di adeguare la normativa interna ai principi [del diritto dell'Unione]) con consistenti differenze anche nelle modalità processuali di espletamento dei giudizi;
nonché, in generale, [sulla] compatibilità dell'articolo 103 della Costituzione italiana laddove prevede e tutela in forma diversificata posizioni giuridiche soggettive (denominate interessi legittimi) che non trovano corrispondenza nel diritto [dell'Unione] attribuendone la giurisdizione a plessi giurisdizionali diversi, la cui competenza viene periodicamente modificata».
Sulla competenza della Corte
14 Con le sue questioni, il giudice del rinvio chiede alla Corte, in sostanza, di interpretare l'articolo 47, paragrafo 3, della Carta e l'articolo 6 della CEDU, in combinato disposto con l'articolo 52, paragrafo 3, della Carta e l'articolo 6 TUE, al fine di poter stabilire se l'articolo 103 della Costituzione e l'articolo 7 del codice del processo amministrativo siano compatibili con tali disposizioni.
15 L'articolo 51, paragrafo 1, della Carta stabilisce che le disposizioni della medesima si applicano agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. L'articolo 6, paragrafo 1, TUE, al pari dell'articolo 51, paragrafo 2, della Carta, precisa che le disposizioni di tale Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei Trattati.
16 In base alla descrizione del giudice del rinvio, il procedimento principale verte sulla legittimità di un atto amministrativo relativo ad un immobile e sul risarcimento del danno derivante dalla ristrutturazione di tale immobile sulla base di tale atto asseritamente illegittimo. Nessun elemento nella decisione di rinvio indica pertanto che il procedimento principale coinvolga una normativa nazionale di attuazione del diritto dell'Unione ai sensi dell'articolo 51, paragrafo 1, della Carta.
17 Pertanto, sebbene il diritto ad un ricorso effettivo, garantito dall'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU, al quale fa pure riferimento il giudice del rinvio, costituisca un principio generale del diritto dell'Unione (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 22 dicembre 2010, DEB, C-279/09, Racc. pag. I-13849, punto 29, e ordinanza del 1° marzo 2011, Chartry, C-457/09, Racc. pag. I-819, punto 25) e sia stato riaffermato dall'articolo 47 della Carta, resta il fatto che la decisione di rinvio non contiene alcun elemento concreto tale da consentire di concludere che l'oggetto del procedimento principale riguarda l'interpretazione o l'applicazione di una norma dell'Unione diversa da quelle di cui alla Carta.
18 Pertanto, la Corte non è competente a rispondere alle questioni poste dal giudice del rinvio (v., in tal senso, sentenza del 22 dicembre 2010, Omalet, C-245/09, Racc. pag. I-13771, punto 18; ordinanze Chartry, cit., punti 25 e 26; del 10 maggio 2012, Corpul National al Politistilor, C-134/12, punto 15; del 7 febbraio 2013, Pedone, C-498/12, punto 15, nonché Gentile, C-499/12, punto 15).
19 Inoltre, il giudice del rinvio chiama in causa elementi essenziali del sistema giurisdizionale italiano e pone alla Corte questioni di principio dibattute da diversi anni nella giurisprudenza e nella dottrina italiane, fondandosi su un'asserita violazione del diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo sulla base del rilievo che tale giudice dovrebbe dichiararsi privo di giurisdizione e rinviare dinanzi al giudice amministrativo competente una controversia che non presenta alcun elemento rientrante nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione.
20 Va ricordato, a questo proposito, che lo spirito di collaborazione che deve presiedere allo svolgimento del rinvio pregiudiziale implica che il giudice nazionale tenga presente la funzione di cui la Corte è investita, che è quella di contribuire all'amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche (v., in tal senso, sentenze del 16 dicembre 1981, Foglia, 244/80, Racc. pag. 3045, punti 18 e 20, nonché del 16 luglio 1992, Meilicke, C-83/91, Racc. pag. I-4871, punto 25).
21 In tale contesto si deve dichiarare, sulla base dell'articolo 53, paragrafo 2, del suo regolamento di procedura, che la Corte è manifestamente incompetente a rispondere alle questioni poste dal Tribunale di Tivoli.
Sulle spese
22 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

P.Q.M.
Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara:
La Corte di Giustizia dell'Unione europea è manifestamente incompetente a rispondere alle questioni poste dal Tribunale di Tivoli.


domenica 11 gennaio 2015

NOVITA': la Francia traduce (intelligentemente) il proprio Codice del Processo Amministrativo (e noi?).


NOVITA': 
la Francia traduce (intelligentemente) il proprio Codice del Processo Amministrativo 
(e noi?)


La Francia, il Paese più linguisticamente "nazionalista" d'Europa, traduce il proprio Codice del Processo Amministrativo (che si divide in una parte legislativa ed in una regilamentare).
Un'opera meritoria, sia sul piano giuridico-comparatistico, sia sul quello economico  - gli investimenti esteri "parlano" inglese, e la conoscibilità/certezza del sistema di giustizia interno è una "calamita"-.
Così mentre "noi" pensiamo, a livello politico, di aver trovato la panacea a livello economico nel limitare, di fatto, l'accesso alla giustizia (anche amministrativa) da parte dei cittadino e delle imprese, Oltralpe qualcuno ha avuto un'idea migliore.
Chapeaux.

P.S.: di seguito trovate due link, tratti dal sito del Conseil d'Etat, per scaricare il Codice del Processo Amministrativo tradotto.
- C.P.A. FR legislativo (clicca!);
- C.P.A. FR regolamentare (clicca qui!).