PROCEDIMENTO:
il mancato rispetto del termine procedimentale
ed i riflessi sulla legittimità
del provvedimento finale
(Cons. St., Sez. V,
sentenza 11 ottobre n. 4980).
Massima
1. Il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento, ai sensi dell'art. 2, della L. n. 241/1990, non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo.
2. L’esercizio della funzione pubblica è difatti connotato dai requisiti della doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (art. 1, co. 1, L. n. 241/1990), e non già perentorio.
3. "Ergo" la loro scadenza non priva l’amministrazione del dovere di curare l’interesse pubblico, né rende l’atto sopravvenuto di per sé invalido con la conseguenza che la violazione del termine per la conclusione del procedimento non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo, ma è fonte di responsabilità patrimoniale.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5065 del 2002,
proposto da:
D'Onofrio Francesco, rappresentato e difeso dall'avv. Nicola Colacino, con domicilio eletto presso Vincenzo Colacino in Roma, via Nicola Ricciotti, 9;
D'Onofrio Francesco, rappresentato e difeso dall'avv. Nicola Colacino, con domicilio eletto presso Vincenzo Colacino in Roma, via Nicola Ricciotti, 9;
contro
Comune di Rotondi;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – SEDE DI NAPOLI,
SEZIONE IV, n. 05185/2001, resa tra le parti, concernente concessione edilizia
per costruzione fabbricato
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 aprile
2013 il Cons. Fabio Franconiero, nessuno essendo comparso per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO e DIRITTO
1. Oggetto del presente giudizio è il diniego di
concessione edilizia opposto dal Comune di Rotondi con nota di prot. 4285 del 5
luglio 1996 all’istanza presentata in data 23 dicembre 1991 da Francesco
D’Onofrio per la costruzione di un fabbricato alla via Appia (S.S. 7).
Il diniego veniva motivato sul contrasto del progetto
di cui all’istanza con il sopravvenuto P.R.G., che aveva assegnato alla zona su
cui l’intervento edilizio avrebbe dovuto essere realizzato la incompatibile
destinazione ad attività terziarie.
2. Contro questa determinazione D’Onofrio insorgeva
davanti al TAR Campania – sede di Napoli, sostenendo, per quanto qui ancora di
interesse, che il titolo concessorio si sarebbe formato in virtù del parere
favorevole della Commissione edilizia, espresso il 9 gennaio 1992, che il
successivo diniego, qualificabile come ritiro in autotutela, è carente di
motivazione ed adottato in violazione del termine di conclusione del
procedimento ex art. 2 l. n. 241/1990.
3. Nel respingere l’impugnativa, il TAR adito
osservava che:
- il parere favorevole della commissione edilizia non
poteva essere equiparato al titolo concessorio, difettando dei necessari
elementi strutturali, quali l’indicazione dei termini di inizio e conclusione
dei lavori e la quantificazione del contributo di costruzione;
- l’atto impugnato non si sostanziava in un ritiro in
autotutela di una precedente determinazione favorevole, costituendo invece una “sospensione
soprassessoria di ogni decisione in merito all’istanza” alla luce del
sopravvenuto strumento urbanistico e della conseguente operatività delle misure
di salvaguardia;
- il superamento dei termini di conclusione del
procedimento non si traduce nell’illegittimità dell’atto amministrativo.
4. Nel presente appello D’Onofrio, pur dichiarandosi
consapevole che il parere della commissione edilizia non equivale a concessione
ad edificare, evidenzia innanzitutto che l’abnorme lasso temporale intercorso
tra la presentazione dell’istanza ed il provvedimento impugnato avrebbe dovuto
condurre il TAR a ritenere quest’ultimo illegittimo, in quanto sintomatico di
una preordinazione dell’amministrazione resistente diretta a negare il titolo
abilitativo richiesto.
In secondo luogo, deduce che il diniego si fonda su un
falso presupposto, visto che il P.R.G. adottato nel 1995 non è mai stato
approvato, cosicché la situazione di pendenza determinata dalle misure di
salvaguardia, della durata di 5 anni, ormai scaduti all’epoca della decisione
di primo grado, deve ritenersi superata, cosicché il giudice di primo grado
avrebbe potuto accertare “il diritto del ricorrente all’ottenimento
della richiesta concessione”.
5. Così sintetizzata la prospettazione alla base del
presente appello, il Collegio ritiene che la stessa non possa condurre ad una
pronuncia di accoglimento.
5.1 Premesso che l’azione da cui trae origine il
presente giudizio è di tipo impugnatorio, avverso il suddetto diniego di
concessione, deve innanzitutto essere disattesa la prima censura, nella quale
si sostiene che la stessa sarebbe inficiata da “un comportamento
illegittimo”dell’amministrazione resistente, consistito nell’abnorme durata
del procedimento, ed in particolare dell’atteggiamento inerte tenuto da
quest’ultima successivamente al rilascio del parere favorevole da parte della
Commissione edilizia. Per costante orientamento di questo Consiglio di Stato,
infatti, il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento
non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo (ex
plurimis: Sez. IV, 12 giugno 2012, n. 2264; 10 giugno 2010 n. 3695; Sez.
VI, 1 dicembre 2010, n. 8371; 14 gennaio 2009, n. 140; 25 giugno 2008 n. 3215).
5.1.1 All’indirizzo ora richiamato deve essere data
continuità, perché esso si fonda sull’applicazione di consolidate categorie di
teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme
di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze
rispettivamente discendenti dalla violazione dell’une o delle altre, nel senso
che solo in quest’ultimo caso la sanzione ricade sull’atto medesimo,
determinandone a seconda dei casi la nullità o l’annullabilità, laddove nella
prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio
(cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725). Ora, se è vero che
per effetto della legislazione di origine europea questa fondamentale distinzione
tende ad affievolirsi in alcuni settori dell’ordinamento giuridico, in
particolare in quello dei contratti caratterizzati da uno squilibrio economico
delle parti, la stessa rimane tuttora valida nel diritto amministrativo, nel
quale l’atto amministrativo è annullabile se carente dei requisiti di
legittimità per esso previsti. Questi ultimi, a loro volta, sia che derivino
dalla violazione di precetti normativi (violazione di legge ed incompetenza),
sia che concernano il perseguimento del fine pubblico costituente la causa del
potere autoritativo (eccesso di potere), attengono al concreto svolgimento
della funzione amministrativa sfociata nella determinazione provvedimentale. Il
cattivo esercizio del potere che si compendia nei tre tradizionali vizi di legittimità
ora ricordati (art. 3, comma 1, l. 1034/1971, vigente all’epoca dei fatti e ora
art. 21-octies, comma 1, l. n. 241/1990) è in altri termini una
qualificazione normativa scaturente dal rapporto tra il precetto normativo
astratto e l’atto provvedimentale, il cui riscontro implica un accertamento che
non può prescindere da una verifica intrinseca a quest’ultimo.
Lo stesso è del resto a dirsi per l’eccezionale
categoria della nullità dell’atto amministrativo (art. 21-septies l.
n. 241/1990 e 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006) e dei contratti di
diritto comune. Per questi ultimi, in particolare, la nullità costituisce la
sanzione apprestata per i casi di contrasto con norme inderogabili
dall’autonomia privata o che comunque la prevedano (nullità virtuale e testuale
di cui, rispettivamente, ai commi 1 e 3 dell’art. 1418 cod. civ.), o ancora per
carenza di un elemento strutturale del contratto stesso (nullità strutturale di
cui all’art. 1418, comma 2).
Le fattispecie passate in rassegna esibiscono quindi un
minimo comune denominatore, rappresentato dal fatto che i precetti normativi
che presiedono alla manifestazione di volontà diretta a produrre effetti
giuridici ne costituiscono elementi costitutivi necessari, la cui mancanza ne
rende inconfigurabile la fattispecie (nel caso della nullità) o ne determina la
successiva invalidazione (nel caso dell’annullabilità).
5.1.2 Il rispetto del termine per la conclusione del
procedimento si pone al di fuori di questo schema.
Benché con la legge generale sul procedimento
amministrativo si sia assistito alla generalizzazione del dovere di rispettare
il suddetto termine (art. 2, l. n. 241/1990), nessuna disposizione di legge lo
ha elevato a requisito di validità dell’atto amministrativo, rimanendo dunque
lo stesso confinato sul piano dei comportamenti dell’amministrazione, il quale
ha dato luogo all’elaborazione da parte di questo Consesso dell’istituto del
silenzio (sin dalla pronuncia della IV Sezione 22 agosto 1922, n. 429). Detto
in altri termini, non si è assistito in questo campo a quel fenomeno di
trascinamento di obblighi di comportamento sul terreno del giudizio di validità
dell’atto, registratosi invece in alcuni settori del diritto civile (come ad
esempio per gli obblighi di informativa precontrattuale per i contratti in
materia di servizi finanziari conclusi a distanza: art. 67-septies decies,
comma 4, cod. consumo).
E’ ciò è agevolmente spiegabile ricordando che
l’esercizio della funzione pubblica è connotato dai requisiti della doverosità
e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno
giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di
buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa
(art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già perentorio. Conseguentemente, la
loro scadenza non priva l’amministrazione del dovere di curare l’interesse
pubblico, né rende l’atto sopravvenuto di per sé invalido.
A conferma di quanto ora osservato si può richiamare
la successiva evoluzione normativa, segnata fondamentalmente dall’introduzione
di un rito accelerato contro il silenzio (art. 2 l. n. 205/2000, aggiuntivo
dell’art. 21-bis l. n. 241/1990; ora art. 117 cod. proc. amm.) e
della regola della risarcibilità del danno da ritardo (mediante l’art. 2-bis l.
n. 241/1990, introdotto con l. n. 69/2009: ora ), fino alla previsione per esso
di una tutela di carattere indennitario (art. 2, comma 1-bis, aggiunto
dal d.l. n. 69/2013, conv. dalla l. n. 98/2013). Il costante indirizzo di
politica legislativa che si ricava dai citati interventi normativi è in
sostanza quello di mantenere l’obbligo di rispettare i termini di conclusione
del procedimento sul piano dei comportamenti, fonte di responsabilità
patrimoniale in caso di violazione, ma giammai requisito di validità degli
atti.
5.1.3 Le stesse osservazioni possono essere fatte in
chiave retrospettiva. Se infatti le ricordate innovazioni normative sono
intervenute in epoca ampiamente successiva ai fatti oggetto del presente
giudizio, non può nondimeno sottacersi come grazie all’opera pretoria di questo
Consesso, il privato non risultasse anche allora sfornito di mezzi di tutela
contro l’inerzia dell’amministrazione. Sin dal 1978, infatti, in epoca dunque
antecedente alla generalizzazione dell’obbligo di rispettare i termini di
conclusione del procedimento, l’Adunanza plenaria (decisione del 10 marzo 1978,
n. 10) aveva affermato in generale l’applicabilità dello strumento della
diffida e messa in mora prevista dall’art. 25 del testo unico degli impiegati
civili dello Stato (l. n. 3/1957), e dunque uno strumento valevole per proporre
l’azione civile di risarcimento danni contro il funzionario inerte, al fine di
fare constare il rifiuto dell’amministrazione di provvedere ed il conseguente
silenzio-inadempimento, mediante la relativa azione davanti al giudice
amministrativo.
Inoltre, con specifico riguardo ai procedimenti di
rilascio della concessione edilizia, l’art. 4, comma 1, l. n. 10/1977 opera(va)
un rinvio all’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942, in particolare per
riguardo concerne la “procedura”. La norma richiamata, a sua volta,
impone(va) all’amministrazione di provvedere entro 60 giorni dal ricevimento
della domanda (comma 6), consentendo al privato istante di “ricorrere
contro il silenzio rifiuto” (comma 7).
5.1.4 Pertanto, l’odierno ben avrebbe potuto avvalersi
di quest’ultimo rimedio, per giunta senza dovere provvedere alla notifica di
alcuna diffida.
Non può lo stesso, invece, dolersi dell’illegittimità
del diniego sopravvenuto alla scadenza del suddetto termine. La verifica di
conformità a legge di tale atto, in cui si sostanzia il giudizio di validità,
come detto sopra, risulta infatti positiva, visto che il citato art. 4, comma
1, l. n. 10/1977 prescrive(va) che la concessione edilizia sia rilasciata “in
conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici”. Il che è proprio
quanto avvenuto nel caso di specie, essendo il diniego motivato sulla base
dell’incompatibile destinazione impressa dal sopravvenuto strumento urbanistico
alla zona su cui l’intervento oggetto di domanda avrebbe dovuto essere
realizzato.
5.1.4.1 Tanto meno l’appellante può dolersi del fatto
che la regolamentazione urbanistica dell’area in senso impeditivo
dell’intervento edilizio progettato sia stata possibile proprio a causa
dell’abnorme durata del procedimento e inferire da ciò una dolosa
preordinazione dell’amministrazione di negare in ogni caso il necessario titolo
concessorio.
Infatti, come sopra detto, la legittimità di un atto
amministrativo è data dalla sua oggettiva rispondenza alle norme di legge ed ai
principi generali che presiedono all’esercizio della funzione amministrativa,
mentre non rilevano a tal fine atteggiamenti meramente soggettivi dei
funzionari inseriti nell’organizzazione dell’ente pubblico. Tramontate le
ricostruzioni pan-civilistiche, la teoria generale dell’atto amministrativo si
è ormai affrancata dagli elementi costitutivi di più diretta matrice
contrattualistica ed in particolare dall’elemento della volontà e dalle
relative connotazioni soggettivistiche. Più precisamente, nel campo
dell’amministrazione la volontà rileva unicamente nella misura in cui si è
estrinsecata nella determinazione autoritativa e non già quale espressione di
uno stato psicologico dell’organo autore dell’atto.
6. Non può essere accolto nemmeno il secondo motivo
d’appello.
6.1 Non si può fondatamente addebitare al TAR di non
avere tenuto conto della scadenza dell’effetto di salvaguardia derivante dalla
mancata approvazione del P.R.G. adottato nelle more del procedimento di rilascio
della concessione edilizia e dal conseguente venir meno di tale situazione di
pendenza.
Un simile accertamento esula dal giudizio di
legittimità dell’atto amministrativo proprio dell’azione impugnatoria, quale
invece esperita dall’odierno appellante. Oggetto di quest’ultima è – giova
ancora ripeterlo – la verifica della corrispondenza dell’atto amministrativo
rispetto alle norme di legge o ai principi generali che regolano l’esercizio
della funzione amministrativa e non già l’accertamento della fondatezza della
pretesa sostanziale coinvolta nel rapporto tra pubblico potere e privato che ha
dato luogo all’emanazione dell’atto impugnato.
Per contro, sin dalla ricordata pronuncia
dell’Adunanza plenaria n. 10/1978 si è ritenuta ammissibile, sia pure entro
certi limiti, la verifica al fondo della pretesa in questione nell’ambito del
giudizio sul silenzio-rifiuto, che l’appellante avrebbe potuto esperire.
Inoltre, la regola sopra enunciata a proposito
dell’azione di impugnazione va tanto più riaffermata nel caso di specie, nel
quale la determinazione amministrativa sfavorevole sia legittimamente fondata
su ragioni di diritto effettivamente sussistenti al momento della sua
emanazione, ma venuti meno in epoca successiva.
6.2 Nel caso di specie, peraltro, il TAR ha
debitamente dato conto del fatto che il diniego costituisce in realtà una
sospensione soprassessoria sulla domanda di concessione edilizia, in attesa
della conclusione del procedimento di approvazione dello strumento urbanistico
generale.
Di ciò D’Onofrio risulta avere preso atto,
sottolineando tuttavia che la perdita di efficacia della misura di salvaguardia
derivante dall’adozione del P.R.G., a causa dello spirare del termine di legge
per la sua conclusione, dovrebbe condurre al rilascio della concessione: “se
la misura soprassessoria perde efficacia […] la concessione deve essere
rilasciata”. Ma evidentemente questa richiesta deve essere indirizzata
all’amministrazione e non già al giudice amministrativo, che non può
sostituirsi alla prima, quand’anche non residuino margini di apprezzamento
discrezionale.
L’appello deve dunque essere respinto.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese in assenza di
costituzione dell’amministrazione resistente.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quinta)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in
epigrafe proposto, lo respinge.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del
giorno 30 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:
Alessandro Pajno, Presidente
Francesco Caringella, Consigliere
Doris Durante, Consigliere
Antonio Bianchi, Consigliere
Fabio Franconiero, Consigliere, Estensore
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/10/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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