ADUNANZE PLENARIE:
Corte EDU vs giudicato 1-0
(Ad. Plen., 4 marzo 2015, n. 2)
Mi dispiace ma leggendo questa ordinanza sono sempre più convinto che l'Europa ha bisogno dell'Italia, ma l'Italia ha ben più bisogno dell'Europa.
Non sussiste dubbio alcuno. Almeno giuridicamente parlando...
Massima
Va rimessa alla Consulta la questione di legittimità convenzionale dell'art. 106 c.p.a., e degli artt. 395 e 396 c.p.c. in quanto applicabili al processo amministrativo, ponendosi tali norme in contrasto con l'art. 46 C.E.D.U. e 117 co. 1,111 e 24 Cost., non essendo esperibile l'istituto della revocazione della sentenza passata in giudicato, da esse disciplinato, la fattispecie di "sopravvenuta difforme decisione definitiva della Corte E.D.U.".
Ordinanza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
(Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la
presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 22
di A.P. del 2014, proposto da:
Stefania Staibano, Caterina Andrianou,
Daniela Palmieri, Maria Erennia Vitullo, Rosa Imperatore, Federico Toni, Tullio
Cafiero, Antonio Formato, Silvana Lombardi, Paola Nappa, Donata Martellotta,
Maurizio Lo Presti, Fausta Micanti, Daniela Mattera, Amedeo Loffredo,
rappresentati e difesi dall'avv. Riccardo Marone, con domicilio eletto presso
Luigi Studio Napolitano in Roma, Via Sicilia 50; Michele Mottola, Maria Angela
Losi, Pasquale Abete, Amalia De Renzo, Franco Fulciniti, Antonio Fusco, Mario
Monaco, rappresentati e difesi dagli avv. Raffaella Veniero, Riccardo Marone,
con domicilio eletto presso Luigi Studio Napolitano in Roma, Via Sicilia 50;
contro
Università degli Studi di Napoli Federico
II, rappresentato e difeso dall'avv. Angelo Abignente, con domicilio eletto
presso Angelo Abignente in Roma, piazza Cairoli, 2;
Azienda Ospedaliera Universitaria Federico
II di Napoli;
Inps Gestione ex Inpdap, rappresentato e difeso dagli avv. Dario Marinuzzi, Maria Morrone, con domicilio eletto presso Dario Marinuzzi in Roma, Via Cesare Beccaria, 29;
Inps Gestione ex Inpdap, rappresentato e difeso dagli avv. Dario Marinuzzi, Maria Morrone, con domicilio eletto presso Dario Marinuzzi in Roma, Via Cesare Beccaria, 29;
per la revocazione
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO -
ADUNANZA PLENARIA n. 00004/2007, resa tra le parti, concernente riconoscimento
rapporto di pubblico impiego.
Visti il ricorso in appello e i relativi
allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio
di Università degli Studi di Napoli Federico II e di Inps Gestione ex Inpdap;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno
28 gennaio 2015 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati Marone
Riccardo, Veniero Raffaella, Abignente Angelo, e Marinuzzi Dario;
Ritenuto in fatto:
1. Con ricorso proposto davanti a questo
Consiglio di Stato i ricorrenti, meglio indicati in epigrafe, chiedono la revocazione
della sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 4 del 22 febbraio 2007.
2. I ricorrenti hanno svolto dal 1983 al
1997 funzioni assistenziali presso il Policlinico dell'Università degli Studi
di Napoli Federico II sulla base di contratti a termine aventi ad oggetto
l'esplicazione di attività professionale remunerata a gettone. Successivamente,
i detti sanitari venivano assunti a tempo indeterminato dallo stesso
Policlinico con inquadramento nella categoria del personale non docente di
“elevata professionalità”.
3. Con ricorsi proposto davanti al Tar
Campania nel 2004 i ricorrenti - rifacendosi ad una giurisprudenza consolidata
sul punto e avente ad oggetto casi analoghi - chiedevano il riconoscimento ab
origine dell'esistenza di un rapporto di lavoro dipendente con l'Università
affermando che la qualificazione di “attività professionale” attribuita ai
compiti espletati dissimulava un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.
Si chiedeva quindi il riconoscimento del diritto al versamento dei relativi contributi
previdenziali.
Il Tar campano accoglieva in parte il
ricorso rilevando che i medici gettonati, per i caratteri dell'attività che
avevano espletato andassero assimilati ai “ricercatori universitari” non
ponendosi quindi problemi in ordine alla sussistenza della giurisdizione del
giudice amministrativo.
4. Diversamente, l'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, pronunciandosi in sede di appello con la sent. n. 4/2007,
riteneva applicabile alla controversia l'art. 45, co. 17 del D.lgs n. 80 del
1998 (poi confluito nell'attuale art. 69, co. 7. del T.U. n. 165 del 2001) il
quale disponeva per le liti relative al pubblico impiego “privatizzato” che “le
controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore
al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”.
Pertanto, la disposizione legislativa attribuiva alla giurisdizione del giudice
amministrativo le controversie relative al periodo in cui il rapporto aveva
ancora carattere pubblicistico (i.e. fino al 30 giugno 1998) subordinando
l'esperimento di tale contenzioso al termine decadenziale del 15 settembre
2000.
Nulla espressamente prevede detta norma
circa la sorte delle controversie proposte successivamente a tale data.
Ed invero, alle origini la giurisprudenza
aveva ritenuto che la disposizione fosse rivolta a fissare la giurisdizione del
giudice ordinario per i ricorsi proposti dopo la data del 15 settembre 2015.
Tuttavia, successivamente è prevalso, nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione ed in quella amministrativa, il diverso orientamento che ricollegava
alla scadenza di tale termine la radicale perdita del diritto a far valere, in
ogni sede, ogni tipo di contenzioso. Anche la Corte costituzionale, chiamata a
pronunciarsi sulla legittimità della nuove disposizioni così interpretate,
aveva avallato tale orientamento ritenuto coerente con le esigenze
organizzative connesse al trapasso da una giurisdizione all'altra (Cort cost.
Ordd. nn. 214/2004; 213/2005; 382/2005; 197/2006).
L'Ad. Plen. n. 4/2004 cit. si uniformava a
tale ultimo indirizzo e, nel caso di specie, pronunciava l'inammissibilità per
tardività di tutti i ricorsi originariamente proposti in primo grado dopo il 15
settembre 2000 annullando le sentenze del Tar. Per il solo ricorrente che
invece aveva proposto il proprio ricorso anteriormente alla detta data,
l'Adunanza Plenaria riconosceva sussistente la giurisdizione del giudice
amministrativo e confermava anche nel merito la sentenza del Tar campano.
5. Alcuni dei ricorrenti soccombenti nel
giudizio di appello definito con la detta Ad. Plen. n. 4/2004 ricorrevano alla
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. I giudici europei, con due sentenze del 4
febbraio 2014 (Staibano c. Italia e Mottola c. Italia) divenute definitive il 4
maggio 2014, riconoscevano sussistere una violazione degli obblighi
convenzionali commessa dallo Stato italiano.
In sintesi, la Corte di Strasburgo
rilevava una duplice violazione dei diritti dei ricorrenti. In primo luogo,
veniva accertata la violazione dell'art. 6 par. 1 della Convenzione
relativamente al diritto di accesso ad un tribunale. Affermava la Corte che,
seppur il diritto di accesso ad un tribunale non sia assoluto, potendo in
astratto risultare condizionato o limitato, nel caso di specie il diritto di
accesso a un tribunale era risultato leso nella sua sostanza.
In secondo luogo, la Corte di Strasburgo
rilevava una violazione dell'art 1 del protocollo n. 1 della Convenzione. I
giudici europei ritenevano i ricorrenti titolari di un “bene”, ai sensi
dell'art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione, avendo il diritto di credito
dei ricorrenti una base sufficiente nel diritto interno, in quanto confermato
da consolidata giurisprudenza; gli stessi erano pertanto titolari di
un'aspettativa legittima al versamento dei contributi al pari dei loro
colleghi. “La corte considera – si legge nella sentenza - che lo Stato non
abbia garantito un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in
gioco, e che la decisione del Consiglio di Stato ha svuotato di ogni sostanza
l'aspettativa legittima dei ricorrenti. Gli interessati hanno dovuto dunque
sopportare un onere eccessivo ed esorbitante” ed “il Consiglio di Stato ha, de
facto, privato i ricorrenti di ogni possibilità di far valere il proprio
diritto di credito relativo al trattamento pensionistico”.
Relativamente invece alla domanda di “equa
soddisfazione” formulata dai ricorrenti ai sensi dell'art. 41 della Carta CEDU,
la Corte europea non si è pronunciata, ritenendo “che allo stato attuale non vi
sia luogo per decidere sull'applicazione dell'art. 41. Di conseguenza, si
riserva la decisione e fisserà l'ulteriore procedimento tenuto conto della
possibilità che il Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo”.
6. Alla luce delle dette sentenze della
corte di Strasburgo, gli odierni ricorrenti - soccombenti nel giudizio di
appello definitosi con sent. Ad. Plen. n. 4/2007 e alcuni dei quali parti del
giudizio instauratosi davanti la corte di Strasburgo - si rivolgono ora a
questo Consiglio di Stato chiedendo la revocazione della sentenza n. 4/2007
cit.
6.1 Con riguardo all'ammissibilità del
ricorso per revocazione, i ricorrenti chiedono che questo Collegio dia
un’interpretazione costituzionalmente orientata di detta disposizione e degli
artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.
I ricorrenti richiamano al riguardo la
sentenza della Corte cost. n. 113 del 7 aprile 2011 che in materia penale ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p. “nella parte in
cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza penale o del
decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo
quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti
dell'uomo”.
I ricorrenti ritengono pertanto che,
analogamente a quanto previsto nella disciplina del processo penale a seguito
della sentenza additiva della Corte costituzionale del 2011, anche nel processo
amministrativo debba ammettersi la revocazione della sentenza passata in
giudicato e che ciò discenderebbe da una lettura costituzionalmente orientata
degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.
In via subordinata, i ricorrenti chiedono
che si sollevi questione di legittimità costituzionale dell'art. 106 c.p.a e
degli artt. 395 e 396 c.p.c. per violazione degli artt. 111 e 117, co. 1 Cost.
6.2 Nel merito del ricorso per
revocazione, i ricorrenti chiedono al Consiglio di Stato di “prendere atto
della sentenza della Corte europea per i diritti umani e da essa trarre tutte
le conseguenze che, nell'ordinamento italiano, ne derivano ai sensi dell'art.
117, co. 1, Cost come interpretato dalla Corte costituzionale. Si chiede,
pertanto, in conformità al sistema di tutela dei diritti convenzionali previsto
come interpretato dalla Corte europea, che i ricorrenti vengano rimessi nei
termini di legge e che a loro venga applicato l'art. 45, co. 17 del decreto legislativo
n. 80 del 1998, oggi art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001, nella sola
interpretazione resa possibile dalla sentenza della corte europea, e cioè nel
senso della perdurante giurisdizione amministrativa, delle controversie
riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti la traslazione della
giurisdizione”.
Pertanto, i ricorrenti chiedono che il
giudice amministrativo dia “una diretta applicazione al giudicato della corte
europea” senza passare per il controllo di costituzionalità (sul punto i
ricorrenti richiamano il precedente Corte Cass. SS.UU. 19 luglio 2002 n. 10542)
della norma ora contenuta nel d.lgs n. 165/2001.
In via subordinata, chiedono i ricorrenti
che questo Collegio sollevi questione di legittimità costituzionale della
disposizione di cui all'art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001 per contrasto con
gli artt. 11 e 117 1. co. Cost.
6.3. Così riconosciuta la giurisdizione
del giudice amministrativo, i ricorrenti insistono affinché il rapporto
professionale da loro instaurato con l'Università dal 1983 al 1997 venga
dichiarato nullo ex art. 2126 c.c. per violazione dei principi generali in tema
di assunzione dei pubblici dipendenti determinando il sorgere del diritto al
pagamento di tutte le differenze retributive e previdenziali.
Concludono i ricorrenti chiedendo la
revocazione della sentenza n. 4/2007 e, nel merito, il rigetto degli appelli
allora proposti dalle Amministrazioni e la conferma delle sentenze del Tar
campano che aveva condannato le Amministrazioni convenute al pagamento della
contribuzione previdenziale e dell’indennità di fine rapporto.
7. Si è costituito in giudizio l’INPS.
L’Istituto ritiene inammissibile il
ricorso per revocazione in quanto non rientra in alcuno dei casi contemplati
dall'art. 106 c.p.a., sostenendo che il giudicato interno non possa essere
travolto da una pronuncia della Corte di Strasburgo. Con riferimento alla
presunta illegittimità costituzionale dell'art. 69 co. 7 del d.lgs. n.
165/2001, ritiene l'INPS che la stessa è inammissibile in quanto “andava
sollevata nel giudizio amministrativo di merito” e che comunque sulla
legittimità costituzionale della disposizione la Consulta si è più volte
espressa.
8. Si è costituita in giudizio
l'Università degli studi di Napoli Federico II. L'Università sostiene
l'inammissibilità del ricorso per revocazione in quanto non ricorrerebbero i
presupposti ex art. 106 c.p.a. Con riferimento alla presunta illegittimità
costituzionale di detto articolo, l'Ente ritiene la questione di
costituzionalità inammissibile ed infondata in quanto non supererebbe il vaglio
della rilevanza, dal momento che “la riapertura del processo non consentirebbe
all'Adunanza Plenaria di entrare nel merito del giudizio reinterpretando il
disposto dell'art. 69 D.lgs. n. 165/2001” e, inoltre, “non essendovi stato né
essendo in alcun modo sollecitato un intervento del legislatore in tema di
revocazione delle sentenze del giudice ordinario e/o amministrativo all'esito
della richiamata pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo, la Corte
costituzionale, conformandosi ai suoi precedenti interventi, non potrebbe che
limitarsi a siffatto sollecito, astenendosi da qualsiasi intervento additivo”.
Nel merito del ricorso, l'Università
ritiene che il Consiglio di Stato non possa autonomamente disapplicare l'art.
69 co. 7 del d.lgs 165/2001 qualora ritenuto in contrasto con la Convenzione
(si richiamano sul punto Corte cost. n. 348 e 349 del 2007). Circa la
possibilità che questo Collegio sollevi questione di legittimità costituzionale
della norma, l'Ente ribadisce come la Corte costituzionale si sia già espressa
su tale questione e che, comunque, gli artt. 97, 11 e 25 Cost ostacolerebbero
alla riscrittura della disposizione così come chiesta dalla Corte
sovranazionale. Infine, l'Università ritiene nel merito infondata la pretesa
dei ricorrenti, non avendo gli stessi dimostrato la sussistenza dei presupposti
necessari affinché possa riconoscersi la loro prestazione come assimilabile ad
un rapporto di pubblico impiego.
9. Alla pubblica udienza del 28 gennaio
2015, in prossimità della quale le parti hanno depositato memorie a sostegno
delle proprie argomentazioni e richieste, la causa è stata trattenuta in
decisione.
Considerato in diritto:
10. Deve in primo luogo esaminarsi
l'ammissibilità del ricorso per revocazione proposto. Sul punto, il Collegio
ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale avente ad oggetto l'art. 106 c.p.a. e gli artt. 395 e 396 c.p.c.
11. Si deve anzitutto chiarire che questo
Consiglio di Stato, così come ogni giudice comune, non può autonomamente
disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la Convenzione
europea dei diritti dell'uomo, analogamente a quanto previsto per il diritto
dell'Unione Europea (a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia
Simmenthal del 1978 e della Corte Cost. n. 170/1984).
Infatti, nonostante taluni orientamenti
giurisprudenziali e dottrinari di segno contrario, il giudice delle leggi ha
più volte chiarito come sulle norme interne contrastanti con le norme pattizie
internazionali, ivi compresa la CEDU, spetti esclusivamente alla stessa Corte
costituzionale il sindacato di costituzionalità accentrato (cfr. Corte cost.,
348 e 349 del 2007; n. 39/2008; nn. 311 e 317 del 2009; nn. 138 e 187 del 2010;
nn. 1, 80, 113, 236, 303, del 2011).
Le norme della CEDU, così come
interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono rilevanza nell'ordinamento
italiano quali norme interposte. Alla CEDU è riconosciuta un'efficacia
intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui
all'art. 117 co.1 Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e
regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Tale posizione non muta anche a seguito
dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che all'art. 6 prevede una
adesione dell'Unione Europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non
ha “comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU
nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la concezione delle
norme interposte” (Corte cost. n. 80/2011).
Di conseguenza, qualsiasi giudice,
allorché si trovi a decidere di un contrasto tra la CEDU e una norma di legge
interna, sarà tenuto a sollevare un'apposita questione di legittimità
costituzionale.
Rimane salva l'interpretazione “conforme
alla convenzione”, e quindi conforme agli impegni internazionali assunti
dall'Italia, delle norme interne. Tale interpretazione, anzi, si rende doverosa
per il giudice che, prima di sollevare un'eventuale questione di legittimità, è
tenuto ad interpretare la disposizione nazionale in modo conforme a
costituzione (ex multis, Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239, punto 3 del
considerato in diritto).
12. Nel caso ora in esame, risulta esservi
una tensione tra le norme interne che disciplinano la revocazione della
sentenza amministrativa passata in giudicato e l'obbligo assunto dall'Italia di
conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU).
Infatti, allorché, come nel caso di
specie, i giudici europei abbiano accertato con sentenza definitiva una
violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, sorge per lo Stato
l'obbligo di riparare tale violazione adottando le misure generali e/o individuali
necessarie. La finalità di tali misure è quella della “restitutio in integrum”
in favore dell'interessato, ossia porre il ricorrente in una situazione analoga
a quella in cui si troverebbe qualora la violazione non vi fosse stata (cfr.
Corte cost. 113/2011 e la giurisprudenza CEDU ivi richiamata).
Nel caso in cui, la violazione commessa
dallo Stato sorga proprio a causa della sentenza passata in giudicato, anche in
questo caso non viene meno l'obbligo per lo Stato, complessivamente
considerato, di conformarsi alla sentenze di Strasburgo. Sul punto, la Corte
europea e gli organi del Consiglio d'Europa hanno peraltro progressivamente
individuato la “riapertura” del processo quale soluzione maggiormente idonea a
garantire la restitutio in integrum a favore delle vittime delle violazioni non
altrimenti rimediabili (cfr. Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 20000 del
Comitato dei Ministri). In questi casi, la rimozione del giudicato formatosi
risulta indispensabile per rimuovere la violazione dei diritti commessa dallo
stato-giudice nel corso del processo.
Tale obbligo di riapertura dei processi
iniqui è stato con maggior forza affermato dalle istituzioni del Consiglio
d'Europa con riferimento ai processi penali, dove chiaramente i valori in
gioco, in primis quello della libertà personale, rendono del tutto
intollerabile il perdurare di violazioni di diritti fondamentali degli imputati
e/o dei condannati accertate in via definitiva dalla corte sovranazionale. Ciò
ha portato molti Stati aderenti alla Convenzione a prevedere la possibilità di
riapertura dei processi attraverso norme legislative o interventi
giurisprudenziali.
Anche l'Italia si è posta in tale solco
culminato con la sentenza della Corte cost. n. 113/2011 che con sentenza
additiva ha previsto la possibilità di revisione del processo penale ex art.
630 c.p.p. qualora ciò si renda necessario per conformarsi ad una sentenza
definitiva della corte europea dei diritti umani.
13. Questo Collegio ritiene che un
contrasto tra le norme processuali interne e l'obbligo gravante sullo Stato di
conformarsi alle sentenze CEDU possa sussistere anche nel caso di specie in cui
è in discussione l'ammissibilità del ricorso per la revocazione di una sentenza
del giudice amministrativo.
Infatti, le raccomandazioni del Consiglio
d'Europa circa la riapertura dei processi, seppur dedicano particolare enfasi
al processo penale, non escludono dall'ambito della raccomandazione stessa i
processi civili o amministrativi. Gli stati, infatti, sono incoraggiati a
“riaprire” i processi nel caso in cui ricorrano due condizioni: a) la parte
lesa continui a soffrire serie conseguenze negative a causa della sentenza
nazionale le quali non possono essere adeguatamente rimediate attraverso la
“just satisfaction” accordata dalla Corte europea ex art 41 CEDU e non possono
essere rimosse se non attraverso una riapertura del processo stesso; b) la
Corte CEDU abbia riconosciuto la sentenza domestica quale fonte di una
violazione degli obblighi convenzionali per ragioni sostanziali o procedurali
(par. II, Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 20000 del Comitato dei
Ministri).
14. Nel caso di specie, la Corte di
Strasburgo ha ritenuto che la sentenza passata in giudicato di questa Adunanza
Plenaria n. 4/2004 fosse fonte, come sopra evidenziato, di una duplice
violazione dei diritti convenzionali, segnatamente del diritto di accesso ad un
Tribunale (art. 6 CEDU) e del diritto alla proprietà (art. 1 Prot. n. 1 CEDU)
che veniva in rilievo con riferimento alle prestazioni previdenziali che i
ricorrenti assumono essere loro spettanti.
Qualora non fosse ammissibile la
revocazione del giudicato, l'ordinamento italiano non fornirebbe ai ricorrenti
alcuna possibilità per veder rimediata la violazione dei diritti fondamentali
dagli stessi subita.
In particolare, i ricorrenti si vedrebbero
definitivamente negato il diritto di azionabilità delle proprie posizioni
soggettive che all'epoca tentarono di far valere davanti al giudice
amministrativo. Infatti, nel 2004 i ricorrenti si rivolsero al Tar per veder riconosciuti
diritti pensionistici che assumevano essere stati lesi e quella vicenda
processuale si concluse in grado di appello con la sentenza dell'Adunanza
Plenaria che riteneva il ricorso originariamente proposto inammissibile in
quanto proposto oltre il termine fissato dal legislatore con l'art. 45 co. 17
del d.lgs n. 80/1998, ora trasfuso in formulazione quasi identica nell'art. 69,
co.7 del D.lgs. n. 165/2001, e che la Plenaria interpretava quale termine di
decadenza la cui scadenza comportava la radicale perdita del diritto a far
valere, in qualsiasi sede, il contenzioso. Sul punto, la Corte di Strasburgo,
pur precisando che il diritto di accesso ad un tribunale non è assoluto, ma può
essere di volta in volta limitato o condizionato, ha ritenuto che, nel caso di
specie, il diritto di accesso ad un tribunale sia stato leso nella sua sostanza
essendovi dunque stata una violazione dell'art. 6 par. 1 della Convenzione.
Qualora non fosse rimovibile il giudicato,
i ricorrenti si vedrebbero definitivamente privati della possibilità di
accedere ad un tribunale e, quindi, della possibilità di far valere i diritti
pensionistici che assumono essere loro spettanti. Peraltro, sul punto la Corte
europea ha rilevato una violazione dell'art. 1 del prot. 1 della Convenzione,
ritenendo che i ricorrenti fossero titolari di un “bene” in quanto il diritto
di credito vantato dagli stessi aveva una base sufficiente nel diritto interno.
Con la sentenza n. 4/2014, il Consiglio di Stato, afferma la Corte europea, ha
privato i ricorrenti di ogni possibilità di far valere il loro diritto relativo
al trattamento pensionistico, creando così un'ingerenza nel diritto dei
ricorrenti al rispetto della proprietà tale da configurare una violazione dei
diritti convenzionali.
Peraltro, incidentalmente si evidenzia
che, sebbene la Corte costituzionale abbia in più occasioni dichiarato
inammissibili questioni di legittimità costituzionale della norma attualmente
contenuta al detto art. 69, co.7 del D.lgs. n. 165/2001, mai è stata fino ad
oggi sottoposta all'attenzione del giudice delle leggi la questione relativa
alla costituzionalità di detta norma con riferimento all'art. 117 co. 1 Cost. e
alle norme interposte fornite dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Anche davanti al giudice amministrativo,
così come a quello civile, viene in rilievo la tutela di diritti fondamentali
che, in caso di vizi processuali o sostanziali, possono essere compressi o
limitati in modo da non risultare tollerabile per uno stato di diritto e
generare una responsabilità dello Stato per violazione degli obblighi
convenzionali assunti. Qualora la Corte CEDU accerti che una tale violazione vi
è stata, possono darsi casi in cui la rimozione del giudicato si appalesi quale
unico mezzo utile per rimuovere le perduranti violazioni di diritti
fondamentali, analogamente a quanto si è riconosciuto nell'ambito del processo
penale.
Infatti, molti Stati aderenti alla
Convenzione hanno previsto la possibilità di riaprire i processi non solo in
ambito penale ma anche civile ed amministrativo (ad es. in Germania è stata di
recente introdotta al riguardo un'apposita disposizione all'art. 580 del
Zivilprozessordnung).
15. Ritiene, pertanto, questo Collegio che
le norme processuali nazionali che disciplinano i casi di revocazione delle
sentenze del giudice amministrativo - i.e. l'art. 106 c.p.a. e, in quanto
richiamato dallo stesso, gli artt. 395 e 396 c.p.c. - si pongano in tensione
con il vincolo per il legislatore statale di rispetto degli obblighi
internazionali sancito dall'art. 117 co. 1 Cost. e che, nel caso di specie,
viene in rilievo con riferimento all'impegno assunto dallo Stato - con la legge
di ratifica ed esecuzione 4 agosto 1955, n. 848 - di conformarsi alle sentenze
della Corte di Strasburgo. Infatti, non contemplando tra i casi di revocazione
quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della
Corte europea dei diritti dell'uomo, le norme processuali appaiono in contrasto
con l'art 46 CEDU che, invece, sancisce tale obbligo per gli Stati aderenti.
Altresì, l'assenza nell'ordinamento
italiano di un apposito rimedio volto a “riaprire” il processo giudicato
“iniquo” dalla Corte europea sembra potersi porre in contrasto con i principi
sanciti dall'art. 111 Cost. e (ritiene di dover aggiungere questo Collegio, in
aggiunta alle prospettazioni di parte ricorrente) con l'art. 24 Cost. Infatti,
le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo
previste dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla
CEDU e può argomentarsi un contrasto tra le dette norme costituzionali e le
previsioni legislative che non consentono la revocazione del giudicato di cui è
stata accertata in sede CEDU l’ “ingiustizia” per violazione di un diritto
fondamentale come quello di accesso ad un Tribunale.
16. Come sopra detto, questo Collegio non
può autonomamente disapplicare le norme interne incompatibili con la
Convenzione europea. Altresì non si ritiene che nel caso di specie il contrasto
tra le norme processali interne e quelle convenzionali possa essere risolto
tramite un'”interpretazione adeguatrice”. Basti dire che i casi di revocazione
delle sentenze amministrative ammessi dal nostro ordinamento sono
tassativamente elencati dal combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396
c.p.c. Un’interpretazione volta ad ammettere un ulteriore caso di revocazione
quale quello di cui qui si discute non è configurabile alla stregua di alcun
canone ermeneutico e comporterebbe un intervento oltremodo creativo del giudice
tale da usurpare il ruolo spettante al Legislatore o al Giudice delle leggi.
17. Ritiene, dunque, il Collegio di dover
sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395
e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 Cost nella parte in cui
non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia
necessario, ai sensi dell'art. 46 par. 1, della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo.
La questione è rilevante nel presente
giudizio in quanto dalla soluzione della stessa dipende l'ammissibilità del
ricorso per revocazione proposto.
La rilevanza della questione non viene
meno alla luce del fatto che la Corte Costituzionale già ha avuto modo di
dichiarare in più occasioni la non fondatezza di questioni di legittimità
costituzionale aventi ad oggetto la disposizione contenuta attualmente all'art.
69, co. 7 del D.lgs. n. 165/2001. Infatti, la questione attinente all'interpretazione
ed alla legittimità costituzionale di detta norma riguarda una eventuale fase
successiva dell'iter logico di decisione che deve seguire questo Collegio. Una
volta che verrà eventualmente ritenuto ammissibile il ricorso per revocazione
proposto nella fase rescindente, si dovranno valutare, nella fase rescissoria,
se, nel merito, vi siano i presupposti per la revocazione della sentenza n.
4/2007 di questa Adunanza Plenaria.
Per quanto sopra detto, inoltre, la
questione non appare manifestamente infondata.
In conclusione, il presente giudizio deve
essere sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte Costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sul
ricorso in epigrafe,
visti gli artt. 134 Cost., art. 1 della l.
cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art 23 della l. 111 marzo 1953 n. 87,
dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di costituzionalità degli artt. 106 del Codice del
processo amministrativo (L. n. 104/2010) e 395 e 396 del Codice processuale
civile, in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 della Costituzione, nella
parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando
ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una
sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo.
Dispone la sospensione del presente
giudizio e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale.
Ordina che a cura della Segreteria
dell'Adunanza Plenaria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa
ed al presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Riserva alla decisione definitiva ogni
ulteriore statuizione in rito, nel merito ed in ordine alle spese.
Così deciso in Roma alla pubblica udienza
del giorno 28 gennaio 2015 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini,
Presidente
Riccardo Virgilio,
Presidente
Stefano Baccarini,
Presidente
Alessandro Pajno,
Presidente
Gianpiero Paolo Cirillo,
Presidente
Francesco Caringella,
Consigliere
Carlo Saltelli,
Consigliere
Carlo Deodato,
Consigliere
Nicola Russo,
Consigliere, Estensore
Salvatore Cacace,
Consigliere
Sergio De Felice,
Consigliere
Sandro Aureli,
Consigliere
Roberto Giovagnoli,
Consigliere
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/03/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)