RECENSIONI:
"Guerra o Diritto?"
del Prof. Renato Federici
(prefazione di Gabriele Pepe)
Dopo un lungo silenzio, pubblico volentieri sul blog la recensione del mio Collega ed amico Gabriele Pepe - che è Ricercatore di Diritto Amministrativo presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi - al volume "Guerra o Diritto?" del Prof. Renato Federico.
* * *
"L’arte
della guerra e l’arte giuridica appartengono allo strumentario da lavoro delle
caste e dei popoli dominanti. Del resto, la superiore capacità giuridica e
l’abilità bellica rappresentano i tratti distintivi delle categorie più forti.
Le classi e i popoli dominanti hanno, per l’appunto, a disposizione strumenti
in grado di imporre le proprie scelte sociali, politiche ed economiche sia
all’interno sia all’esterno della comunità di appartenenza. Le caste dominanti,
nel perseguire tale obiettivo, si avvalgono di due officine, l’una per la
produzione di mezzi giuridici e l’altra per forgiare mezzi bellici; una per usi
pacifici, l’altra per usi violenti; una per gli utilizzi quotidiani, l’altra
per quelli eccezionali.
La
guerra e il diritto sono, quindi, per l’Autore i due mezzi operativi delle
classi dominanti, tra loro alternativi, come il giorno e la notte. Si tratta di
una tesi del tutto nuova. Entrambi i meccanismi rappresentano forme di continuazione
della politica: il diritto è la continuazione della politica con mezzi leciti
ed appropriati, mentre la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi
secondo il noto insegnamento di von Clausewitz. Se si cerca un antesignano dell’Autore
lo si ritrova, per l’appunto, in von Clausewitz e prima di lui in Cicerone,
Sofocle, Platone, Hobbes, Rousseau, Kant e Marx. Tuttavia, nessuno di questi studiosi
era stato così esplicito e puntuale.
Per
l’Autore la funzione del diritto è quella di prevenire e risolvere le
controversie: prevenire con il diritto sostanziale e risolvere con il diritto
processuale. Quando il diritto fallisce quale criterio di prevenzione delle
dispute ad esso subentra il criterio alternativo del ricorso al conflitto
armato tra parti avverse (ad es. tra Stati, fazioni, singoli etc..). Ciascun
belligerante, ritenendo di avere ragione, non accetta giudizi di terzi o
accordi ma pretende di imporre la propria volontà con la forza delle armi.
Allora è guerra, ribellione, rivoluzione ma non è diritto.
L’originale
tesi sulla alternatività tra guerra e diritto trova, tuttavia, un serio ostacolo
nella esistenza del c.d. diritto bellico che, viceversa, postula la compresenza
di ambo i fenomeni. Un concetto tradizionalmente dato per pacifico che viene
messo in discussione dall’Autore attraverso la demolizione dei suoi tre
pilastri fondativi: lo jus ad bellum,
lo jus in bello e lo jus post bellum.
Lo
jus ad bellum affonda le sue radici nei
riti sacrali della storia di Roma, riti poi ripresi nelle guerre di religione dei
secoli XVI e XVII per distinguere gli atti di guerra dai comportamenti dei
briganti e dei pirati. Era, infatti, convincimento diffuso che attraverso
alcune procedure si potesse trasformare la guerra da feroce mezzo di offesa in legittimo
strumento di giustizia. Nacque, così, l’equivoco legato ai concetti di guerra
giusta e di guerra legittimamente posta in essere nell’osservanza di procedure
legali e/o sacrali. Su tale equivoco venne costruita, a partire dal Medioevo,
la tesi dell’esistenza di un diritto bellico. Gli istituti su cui
tradizionalmente si fondava lo jus ad
bellum erano l’ultimatum e la
dichiarazione di guerra. Colui che decideva di aggredire uno Stato o un popolo
doveva far precedere la dichiarazione di guerra dalla richiesta di riparazioni
per l’affronto lamentato; solo a seguito di rifiuto alla domanda di
risarcimento, si poteva dichiarare guerra e combattere. Tale meccanismo è
venuto meno con l’avvento, nel 1945, delle Nazioni Unite che vietarono la
guerra di aggressione considerandola un delitto nei confronti della Comunità
Internazionale. Si credeva ingenuamente che senza aggressori non vi sarebbero
state guerre. In realtà, dopo il 1945, vi furono molte guerre nel mondo, con la
differenza che i nuovi conflitti, rispetto ai precedenti, non venivano
dichiarati né erano preceduti da alcun ultimatum.
Infatti, i contendenti erano soliti accusare i nemici di aggressione, ed in
quanto aggrediti, si consideravano legittimati a difendersi dall’illecita
prevaricazione dell’avversario. L’Autore dimostra, così, come il primo pilastro
del diritto bellico risulti oggi crollato e superato dalla storia.
Venendo
al secondo pilastro, costituito dallo jus
in bello, va detto come esso raggruppi l’insieme delle regole da osservare
durante i conflitti armati. Alcune di queste sono in uso da tempo, come le
regole sulla separazione tra civili e combattenti; altre sono state codificate
nei Trattati internazionali a partire dalla seconda metà del secolo XIX, quando
iniziò ad affermarsi il c.d. diritto umanitario in tempo di guerra. Tale
fenomeno si accompagnò alla nascita della Croce Rossa Internazionale, una
associazione umanitaria deputata al soccorso dei feriti e dei prigionieri. A
riguardo l’Autore si domanda se le regole da rispettare durante i conflitti
armati abbiano carattere bellico o umanitario. Il diritto bellico si occuperebbe
dei conflitti armati nella loro interezza, non altrettanto pretende di fare il
diritto umanitario che, persegue il diverso obiettivo di mitigare e lenire gli
aspetti più atroci del conflitto, non preoccupandosi di disciplinare lo scontro
secondo regole simili ad un torneo o ad un duello. Le poche regole previste in
tempo di guerra sono esclusivamente quelle a carattere umanitario (non uccidere
i prigionieri e non ridurli in schiavitù, soccorrere i feriti, separare i
civili dai combattenti, non utilizzare armi proibite etc..). Altre regole giuridiche non ve ne sono. La guerra, infatti,
è una vicenda che il diritto non può regolare, in quanto si fonda su rapporti
di forza, per natura insofferenti a qualsivoglia disciplina giuridica. Pertanto,
lo jus in bello non è ammissibile,
trovando viceversa applicazione nel corso dei conflitti le sole regole del diritto
umanitario volte a regolare non già il conflitto ex se, ma talune sue appendici secondarie.
Il
terzo pilastro, oggetto di confutazione, è lo jus post bellum. È opinione diffusa che la guerra crei il diritto
che si stabilirà al termine del conflitto. L’Autore contesta tale assunto
reputandolo erroneo in quanto, a ben vedere, il diritto non può mai essere frutto
del non diritto. La guerra inizia quando le parti in conflitto non vogliono intavolare
rapporti giuridici (o questi sono falliti), mentre si conclude con la vittoria
dell’uno sull’altro oppure con un reciproco accordo circa il ritorno a metodi giuridici;
in quest’ultimo caso si avviano, di solito, trattative che si concludono con la
firma di un Trattato di Pace. Non esistono per l’Autore regole giuridiche che
nascono dalla guerra. Il diritto segna una netta discontinuità con il conflitto
precedente. È il ripristino dell’ordine sul caos, della luce sulle tenebre,
delle regole giuridiche sui rapporti di forza. Il diritto è, quindi, autonomo sia
dalla guerra sia della forza.
Le
argomentazioni illustrate sono riuscite, così, a demolire i tre pilastri del diritto
bellico, confermando la validità della tesi sulla alternatività tra guerra e
diritto. Il volume è apprezzabile, poi, per la chiarezza espositiva, il rigore
metodologico e l’approccio interdisciplinare. L’analisi ricostruttiva compiuta dall’Autore
si rivela, infine, di palpitante attualità nell’odierno scenario mondiale caratterizzato
dalle guerre di religione e dal terrorismo internazionale".
Gabriele Pepe
Ricercatore di Diritto Amministrativo presso
l’Università degli Studi Guglielmo Marconi