giovedì 11 febbraio 2016

ADUNANZA PLENARIE: l'Antitrust e la competenza sanzionatoria sulla "pratica commerciale aggressiva" (Ad. Plen., sentenza 9 febbraio 2016, n. 3).


ADUNANZA PLENARIE: 
l'Antitrust 
e la competenza sanzionatoria 
sulla "pratica commerciale aggressiva"
 (Ad. Plen., sentenza 9 febbraio 2016, n. 3)




Principi di diritto

 1. La competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato;
2. Non viene meno l’interesse alla pronuncia di annullamento per incompetenza dell’Antitrust, dovendo essere invece direttamente respinta la censura di incompetenza.



Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 16 di A.P. del 2015, proposto da:
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - Antitrust, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
contro
Vodafone Omnitel NV, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fabio Cintioli e Vittorio Minervini, con domicilio eletto presso l’avvocato Fabio Cintioli in Roma, via Vittoria Colonna, 32; 
nei confronti di
Associazione Altroconsumo; 
e con l'intervento di
ad opponendum:
Telecom Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Mario Siragusa e Fausto Caronna, con domicilio eletto presso l’avvocato Mario Siragusa in Roma, piazza di Spagna, 15; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, n. 01742/2013, resa tra le parti, concernente l’irrogazione di sanzione amministrativa pecuniaria per pratica commerciale scorretta.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Vodafone Omnitel NV;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 dicembre 2015 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e uditi per le parti l’Avvocato dello Stato Meloncelli e gli avvocati Minervini, Cintioli, Siragusa e Caronna;

FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, Sez. I, con la sentenza 18 febbraio 2013, n. 1742, ha accolto il ricorso proposto dall’attuale parte appellata Vodafone Omnitel NV per l’annullamento della decisione 6 marzo 2012, n. 23357, assunta all’esito del procedimento PS7002 e notificata a Vodafone in data 23 marzo 2012, con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha condannato Vodafone, in qualità di professionista, al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di euro 250.000,99 in relazione alla pratica commerciale giudicata scorretta ai sensi degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f), d.lgs. n. 206-2005 (Codice del Consumo), e “consistente nell'aver omesso di informare in maniera adeguata gli acquirenti delle SIM dell'esistenza di servizi accessori già attivati, fra i quali, in particolare, la navigazione in internet ed il servizio di segreteria telefonica”, anche nella parte in cui rigetta gli impegni proposti da Vodafone.
La sentenza è stata appellata avanti al Consiglio di Stato e la Sezione VI, cui è stato assegnato il ricorso, con ordinanza 18 settembre 2015, n. 4352, ha rimesso all’Adunanza Plenaria le seguenti questioni:
a) se l’articolo 27, comma 1-bis, del Codice del consumo, sia da interpretarsi come norma attributiva di una competenza esclusiva ad AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette, anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea (ritenute idonee a reprimere il comportamento sia con riguardo alla completezza ed esaustività della disciplina, sia con riguardo ai poteri sanzionatori, inibitori e conformativi attribuiti all’Autorità di regolazione);
b) in caso affermativo, se la circostanza che lo jus superveniens abbia attribuito ad AGCM la competenza all’esercizio del potere sanzionatorio in materia di pratiche commerciali scorrette comporti il venir meno dell’interesse alla decisione in ordine alla censura di incompetenza – formulata con riguardo alla sanzione adottata da tale Autorità nel precedente regime - anche nell’ipotesi in cui la nuova norma abbia aggravato il procedimento di irrogazione della sanzione con la previsione della necessaria acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione.
Le parti, in sede di discussione avanti a questa Adunanza all’udienza 9 dicembre 2015, hanno riproposto le tesi già ribadite negli atti depositati in giudizio, insistendo in particolar modo (da parte di Vodafone) sulla necessità di deferimento della questione oggetto del giudizio alla Corte di Giustizia.

DIRITTO
1. Rileva preliminarmente questa Adunanza che la fattispecie che ha dato luogo all’irrogazione della sanzione contestata in questo giudizio consiste nell’aver attivato, da parte del professionista, i servizi di navigazione in internet e di segreteria telefonica sulle SIM vendute senza aver previamente acquisito il consenso del consumatore e senza averlo reso edotto dell’esistenza della preimpostazione di tali servizi e della loro onerosità, così esponendolo ad eventuali addebiti inconsapevoli connessi alla navigazione internet e al servizio di segreteria.
Questa condotta è stata ritenuta “idonea a determinare un indebito condizionamento tale da limitare considerevolmente, e in alcuni casi addirittura escludere, la libertà di scelta degli utenti in ordine all’utilizzo e al pagamento dei servizi reimpostati” e, quindi, integrante la fattispecie della “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva”, attuata esigendo il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto, vietata ai sensi dell’art. 26, comma 1, lett. f), d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206.
La condotta appena descritta, oggetto di sanzione da parte dell’Antitrust, è contestata nella misura in cui dà luogo a conflitti di norme sostanziali applicabili appartenenti a corpus normativi differenti, segnatamente riferibili nel caso di specie, nella prospettiva dell’appellata Vodafone, al settore regolato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (“AgCom”).
Ciò anche in considerazione del fatto che questa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 11 maggio 2012, n. 11 (e successive sentenze da 12 a 16-2012) ha stabilito l’incompetenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette (artt. 21 e ss. Codice del Consumo) nei settori in cui la tutela del consumatore è attribuita ad un’autorità regolamentare, secondo lo schema della cd. specialità “per settori”.
2. Questa Adunanza ritiene di poter risolvere la questione relativa alla competenza dell’Autorità appellante (cui entrambi i quesiti, sostanzialmente, fanno riferimento), valorizzando nel caso in esame le condotte in specifico contestate.
Secondo questa Adunanza, la fattispecie in esame integra pacificamente una condotta anticoncorrenziale ai sensi della normativa appena citata, pur attuata mediante l’inosservanza di obblighi imposti dal Codice delle comunicazioni elettroniche e dalla normativa ad esso riferibile.
Tali condotte, infatti, consistono specificamente in pratiche commerciali aggressive messe in opera attraverso la violazione di obblighi informativi circa i servizi telefonici reimpostati.
Nel nostro sistema, mentre la pratica commerciale aggressiva è inequivocabilmente attratta nell’area di competenza dell’Autorità Antitrust appellante, la violazione degli obblighi informativi suddetta è invece, di per sé, suscettibile di sanzione da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.
E’ evidente, quindi, che nel caso di specie si assiste ad una ipotesi di specialità per progressione di condotte lesive che, muovendo dalla violazione di meri obblighi informativi comportano la realizzazione di una pratica anticoncorrenziale vietata ben più grave per entità e per disvalore sociale, ovvero di una pratica commerciale aggressiva.
Si realizza quindi nell’ipotesi in esame, sempre ai fini dell’individuazione dell’Autorità competente, più che un conflitto astratto di norme in senso stretto, una progressione illecita, descrivibile come ipotesi di assorbimento-consunzione, atteso che la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata dall’Autorità Antitrust appellante.
Infatti, la violazione dei predetti obblighi informativi di per sé non è sufficiente ad integrare la fattispecie di illecito concorrenziale, poiché da tali obblighi è necessario inferire l’esistenza di un condizionamento tale da limitare considerevolmente, e in alcuni casi addirittura escludere, la libertà di scelta degli utenti in ordine all’utilizzo e al pagamento dei servizi reimpostati e, per conseguenza, ritenere integrata la condotta del “pagamento immediato o differito di prodotti che il consumatore non ha richiesto” che costituisce, ai sensi dell’art. 26 del Codice del consumo citato, “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva”.
3. Tale conclusione non è in contrasto con le citate pronunce dell’Adunanza Plenaria da 11 a 16-2012, atteso che le stesse stabilivano (al punto 6 della sentenza n. 11-2012) da un lato che “occorre impostare il rapporto tra la disciplina contenuta nel Codice del consumo e quella dettata dal Codice delle comunicazioni elettroniche e dai provvedimenti attuativi/integrativi adottati dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni”, muovendo dalla circostanza che “la disciplina recata da quest'ultimo corpus normativo, presenti proprio quei requisiti di specificità rispetto alla disciplina generale, che ne impone l'applicabilità alle fattispecie in esame”.
Dall’altro, tuttavia, si specificava che “ciò evidentemente non basta: per escludere la possibilità di un residuo campo di intervento di Antitrust occorre anche verificare la esaustività e la completezza della normativa di settore”.
Proprio attuando tale ultimo inciso nel caso di specie, si può evidenziare, alla luce di quanto appena descritto che il comportamento contestato all'operatore economico con il provvedimento Antitrust impugnato in questa sede non è per nulla interamente ed esaustivamente disciplinato dalle norme di settore, che non comprende affatto un’ipotesi di illecito come quella considerata, ovvero una “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva”, ricostruita sulla base dei processi inferenziali sopra descritti.
4. Peraltro, ritiene questo Collegio di dovere parzialmente ritornare sulle decisioni citate di questa Adunanza Plenaria da 11 a 16-2012, optando per un revirement parziale delle medesime nella misura in cui esse possano essere lette come mera applicazione del criterio di specialità per settori e non per fattispecie concrete.
Tale revirement, nel senso ora precisato, si impone anche in considerazione del fatto che, con lettera di costituzione in mora in data 18 ottobre 2013, ex art. 258 TFUE, la Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione (n. 2013-2169) nei confronti della Repubblica Italiana per scorretta attuazione ed esecuzione della direttiva 2005/29/UE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e della direttiva al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica.
La Commissione ha contestato l’inadeguata applicazione da parte italiana dell’art. 3, par. 4, e degli artt. da 11 a 13 della direttiva in materia di pratiche sleali poiché, in sostanza, nell’ordinamento italiano non sarebbe correttamente applicato il principio della “lex specialis” contenuto nella direttiva, che regola il coordinamento tra tale disciplina (a carattere transettoriale) e le normative specifiche di settore.
In particolare, la Commissione ha addebitato all’Italia che tale errata applicazione del diritto europeo, riconducibile a criteri interpretativi delle disposizioni italiane di recepimento della normativa europea stabiliti in alcune sentenze di giudici amministrativi e in delibere dell’AGCM, avrebbe provocato la mancata attuazione della direttiva pratiche commerciali sleali nel settore delle comunicazioni elettroniche.
La Commissione contesta, in particolare, la tesi per cui l’esistenza di una disciplina specifica settoriale, in quanto considerata esaustiva, comporterebbe la prevalenza di tale disciplina su quella generale, ancorché di derivazione europea, in materia di tutela dei consumatori.
Nell’interpretazione data dalle autorità italiane si determinerebbe un contrasto tra legge speciale e norma generale non soltanto quando esista una opposizione – tesi sostenuta dalla Commissione europea – ma anche in presenza di una sovrapposizione per cui la disciplina speciale regolerebbe la totalità delle fattispecie al punto che non avrebbe ragione l’applicazione, sia pure in funzione sussidiaria o come norma di chiusura, della disciplina generale.
Secondo la Commissione, inoltre, a causa di tale lacuna in Italia non vi sarebbe alcuna autorità indipendente competente a far rispettare la direttiva pratiche commerciali sleali nel settore delle comunicazioni elettroniche.
Nell’atto di avvio della procedura d’infrazione si legge tra l’altro che “l’art. 3, par. 4, della direttiva non consente di concludere che l’applicazione della stessa possa essere esclusa solo perché esiste una legislazione più specifica per un dato settore. Tale affermazione è corretta solo se tale legislazione più specifica si fonda su altre norme dell’Unione e se è limitata agli aspetti da essa disciplinati”.
5. Tale procedura di infrazione, che si è aperta sul presupposto che questo Consiglio avesse completamente integralmente e senza eccezioni adottato lo schema della specialità per settori, presupposto per altro erroneo come si è visto, poiché una tale lettura ermeneutica, eccessivamente rigida e schematica oblitera il contenuto articolato e complesso delle pronunce, induce comunque ad un ripensamento di tale schema.
Schema che non può che essere quello della specialità basato sul raffronto tra le fattispecie, secondo il collaudato principio di specialità conosciuto nel nostro ordinamento che assurge a criterio generale di regolazione dei rapporti tra norme sanzionatorie, penali e amministrative, in tutte le materie disciplinate dalla legge nel nostro ordinamento ove si verifichino conflitti apparenti di norme e sia necessario, pertanto, risolvere le antinomie giuridiche.
Pertanto, ove disposizioni appartenenti ai due diversi ambiti convergano sul medesimo fatto se ne applica una sola, quella speciale, individuata in base ai criteri noti nel nostro ordinamento e in modo compatibile, come è ovvio, con l’ordinamento comunitario nella specifica materia di pertinenza comunitaria.
Nel caso di specie, e sempre ai fini della competenza ad irrogare la sanzione, è evidente che l’art. 3, par. 4, della direttiva 2005/29/UE impone che vi sia sempre l’intervento di un’Autorità indipendente competente a far rispettare la predetta direttiva, sanzionando all’uopo le pratiche commerciali sleali anche nel settore delle comunicazioni elettroniche.
L’Autorità indipendente menzionata dalla direttiva è, nel nostro sistema nazionale, l’Autorità Antitrust.
6. Sul tema della competenza si deve peraltro osservare che con l’art. 1, comma 6, lett. a), d. lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, recante l’attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori (v. anche l’art. 1, e l’Allegato B, della l. n. 96/2013 – legge di delega europea 2013), è stato inserito, nell’art. 27 del codice del consumo, il comma 1-bis, secondo cui “anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente”.
La relazione illustrativa allo schema del citato d.lgs. n. 21-2014 evidenzia che la norma di modifica del codice del consumo con la quale si attribuisce in via esclusiva all’Antitrust, acquisito il parere dell’Autorità di settore, la competenza a intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, ha l’obiettivo di superare la citata procedura d’infrazione n. 2013-2069 avviata dalla Commissione europea con lettera di costituzione in mora del 18 ottobre 2013.
Ciò posto, alla luce di quanto appena detto, è evidente che tale norma ha una portata esclusivamente di interpretazione autentica, atteso che, come detto, anche alla luce di una corretta analisi ermeneutica delle sentenze dell’Adunanza Plenaria da 11 a 16-2012 e dell’applicazione dei principi da essa scaturenti è indubbia la competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette nel caso oggetto del presente giudizio già in base alla normativa antecedente che l’art. 1, comma 6, lett. a), d. lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 si è limitata, per quanto qui rileva, soltanto a confermare.
7. Né in senso contrario può opporsi la previsione, contenuta in tale norma sopravvenuta, di un eventuale previo parere dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, poiché tale segmento procedimentale, ora previsto nell’art. 16 della Delibera AGCM 1° aprile 2015, n. 25411 (Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di tutela del consumatore) era già previsto in precedenti delibere (cfr. Delibera AGCM 15 novembre 2007, n. 17589); il legislatore, pertanto, non ha fatto altro che innalzare al rango di norma primaria una disposizione già esistente nell’ordinamento, che, per tale motivo, non può ritenersi avere portata sostanzialmente innovativa.
Tale considerazione esime l’Adunanza dall’esaminare il tema del principio del “tempus regit actum”, peraltro correttamente applicato dalla sentenza della VI Sezione 5 marzo 2015, n. 1104, in base al quale l’Amministrazione adotta i provvedimenti di sua competenza sulla base della normativa anche, appunto, relativa alla competenza vigente nel momento (nella specie, posteriore alla modifica normativa intervenuta) dell’adozione del nuovo provvedimento da emanare nel riesercizio del potere amministrativo.
8. Inoltre, deve essere rilevato che in nessun modo potrebbe porsi nel caso di specie, con specifico riferimento all’individuazione dell’Autorità competente, un problema di compatibilità comunitaria della normativa italiana, su cui insistono le controparti in appello, tenendo conto del noto principio di indifferenza dell’Unione rispetto all’organizzazione interna.
A questo riguardo, si osserva, infatti, che in numerose occasioni la Corte di Giustizia ha affermato l'indifferenza dell'ordinamento europeo rispetto all'articolazione delle competenze amministrative all'interno degli Stati membri (cfr. ex multis, Corte di Giustizia, sentenza 25 maggio 1982, Commissione delle Comunità europee c. Regno dei Paesi Bassi, causa C-96/81, in Raccolta 1982, p. 1791; sentenza 17 giugno 1986, Commissione delle Comunità europee c. Regno del Belgio, causa 1/86, in Raccolta 1987, p. 2797; sentenza 13 dicembre 1991, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana, causa C-33/90, in Raccolta 1991, p. I-5987).
Il principio sul quale si incentrano queste decisioni è una dichiarazione di indifferenza del giudice comunitario rispetto alla distribuzione delle competenze attuative all'interno degli Stati membri dell'UE: ciò che la Corte di giustizia intende sottolineare è soprattutto la volontà di non ascoltare giustificazioni ad inadempimenti di obblighi comunitari che invochino meccanismi interni di riparto delle competenze.
9. Né, infine, si può condividere la tesi di una violazione del principio ne bis in idem, poiché l’art. 4, Prot. n. 7 CEDU implica soltanto, nella sostanza, la tendenziale messa al bando del c.d. “doppio binario” sanzionatorio, vale a dire della previsione, per il medesimo fatto, di sanzioni di natura distinta (sul piano della qualificazione interna) applicabili alla stessa persona tramite procedimenti di diverso tipo.
La violazione della norma convenzionale è innescata non dalla mera pendenza contemporanea di due procedimenti (peraltro, nel caso di specie, ne risulta pendente soltanto uno), ma dal fatto che uno di essi venga instaurato o prosegua dopo che l'altro si è chiuso con una decisione definitiva, non importa se di assoluzione o di condanna (cfr. Corte CEDU, decisione Grande Stevens contro Italia 4 marzo 2014 e i c.d. criteri Engel , elaborati in una vecchia decisione del 1976 e progressivamente affinati).
Pertanto, nessuna violazione del principio del ne bis in idem può dedursi come sussitente nel caso in esame.
10. In conclusione, in risposta ai quesiti sottoposti dalla Sezione VI, l’Adunanza Plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
- la competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato;
- non viene meno l’interesse alla pronuncia di annullamento per incompetenza dell’Antitrust, dovendo essere invece direttamente respinta la censura di incompetenza.
L’Adunanza restituisce per il resto il giudizio alla Sezione remittente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., cui spetterà ovviamente anche la liquidazione delle spese.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, enuncia i seguenti principi di diritto:
- la competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato;
- non viene meno l’interesse alla pronuncia di annullamento per incompetenza dell’Antitrust, dovendo essere invece direttamente respinta la censura di incompetenza.
Restituisce per il resto il giudizio alla Sezione remittente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.
Spese al definitivo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 dicembre 2015 con l'intervento dei magistrati:
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Paolo Numerico, Presidente
Carlo Deodato, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore
Antonio Amicuzzi, Consigliere
Dante D'Alessio, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 09/02/2016
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione


martedì 9 febbraio 2016

ADUNANZE PLENARIE (PROCESSO & ESPOPRIAZIONE P.U.): commissario "ad acta" e provvedimento di cui all'art. 42 "bis" del d.P.R. n. 327/2001 (Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 2).


ADUNANZE PLENARIE
 (PROCESSO & ESPOPRIAZIONE P.U.): 
commissario "ad acta" e 
provvedimento di cui all'art. 42 "bis" 
del d.P.R. n. 327/2001 
(Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 2)



Principio di diritto

1. Il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’articolo 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità -:
a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, co. 1, lett. e), e 114, co. 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur;
b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell’art. 117, co. 3, c.p.a., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al menzionato art. 42-bis.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 23 di A.P. del 2014, proposto dalla Signora Carmela Marraffa, rappresentata e difesa dall'avvocato Carlo Caniglia, domiciliata ai sensi dell’art. 25 c.p.a. presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro n. 13; 
contro
Comune di Villa Castelli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Pomarico, domiciliato ai sensi dell’art. 25 c.p.a. presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro n. 13; 
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Puglia – sede staccata di Lecce - Sezione I, n. 383 del 21 febbraio 2013.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Villa Castelli;
Vista l’ordinanza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato – n. 3347 del 3 luglio 2014 – che ha rimesso la presente causa all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99, co.1, c.p.a.;
Vista l’ordinanza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato - n. 28 del 15 ottobre 2014 - che ha sospeso il presente giudizio essendo pendente la questione di legittimità costituzionale della norma sancita dall’art. 42 bis, d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità -;
Vista la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 30 marzo 2015 pubblicata nella G.U., 1° s.s., 6 maggio 2015 n. 18;
Vista l’istanza di fissazione d’udienza e contestuale atto di riassunzione depositato dalla difesa della Signora Carmela Marraffa in data 1 giugno 2015;
Vista la memoria difensiva depositata davanti all’Adunanza plenaria dalla difesa della Signora Carmela Marraffa in data 14 settembre 2015;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 ottobre 2015 il consigliere Vito Poli e uditi per le parti gli avvocati Caniglia, e Pomarico;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal provvedimento reso dal commissario ad acta - nominato in sede di esecuzione di un giudicato - recante, nella sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.
1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza irrevocabile del T.a.r. per la Puglia - sede staccata di Lecce, Sezione I, n. 3342 del 19 novembre 2008 che, in accoglimento del ricorso proposto dalla Signora Carmela Marraffa:
a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un appezzamento di terreno (di proprietà dell’istante) in giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che, sebbene avesse disposto l’occupazione d’urgenza dell’area, non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;
b) ha condannato il comune a restituire l’area, ovvero a concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.;
c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna fase ed i relativi adempimenti, formulando minute prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli accessori;
d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per l’esecuzione della decisione;
e) ha condannato il comune alla refusione delle spese di lite.
2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.
2.1. Con una prima sentenza irrevocabile resa in esecuzione del giudicato de quo agitur– T.a.r. Lecce, Sezione I, n. 2241 del 2 ottobre 2009 -:
a) è stata assodata la sostanziale inerzia del comune ad eseguire il giudicato;
b) è stato ordinato all’ente di dare corso a tutti gli adempimenti previsti dal giudicato entro un breve termine (45 giorni);
c) è stata disposta la condanna dell’ente alle spese di lite.
2.2. Con una seconda sentenza irrevocabile resa sempre in esecuzione del giudicato – T.a.r Lecce, Sezione I, n. 928 del 24 maggio 2012 -:
a) è stato ritenuto applicabile in luogo dell’art. 43, l’art. 42-bis t.u. espr.;
b) si è preso atto che il comune non ha inteso concludere un accordo transattivo;
c) sono state rinnovate le statuizioni alternative, relative alla restituzione del terreno ovvero all’emanazione di un provvedimento ex art. 42-bis, accompagnate dalle consequenziali misure risarcitorie;
d) è stato concesso un ulteriore termine di 60 giorni;
e) è stato nominato il commissario ad acta con il mandato di provvedere a tutti gli adempimenti occorrenti per l’ottemperanza;
f) è stata disposta l’ennesima condanna dell’ente alle spese di lite.
2.3. Nella perdurante inerzia del comune, il commissario ad acta ha emanato, in data 10 settembre 2012, un provvedimento ex art. 43 t.u. espr. determinando il valore del bene ed il risarcimento del danno.
2.4. Il provvedimento commissariale è stato reclamato dalla Signora Marraffa, ex art. 114, co. 6, c.p.a., sotto molteplici aspetti (cfr. atto notificato in data 4 dicembre 2012).
2.5. Il reclamo è stato respinto dall’impugnata sentenza del T.a.r. di Lecce, Sez. I, n. 383 del 21 febbraio 2013 che, previa riqualificazione del provvedimento ex art. 42-bis cit.:
a) ha escluso che il commissario dovesse agire nel contraddittorio delle parti, acquisendo il contributo istruttorio delle medesime;
b) ha riconosciuto congrua la determinazione del valore del terreno in relazione alla sua inedificabilità;
c) ha escluso che la stima dell’Agenzia del territorio, posta a base del provvedimento commissariale, fosse stata in precedenza ritenuta incongrua o inutilizzabile dal medesimo T.a.r.
3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO.
3.1. Con ricorso ritualmente notificato e depositato la Signora Marraffa ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza articolando due autonomi motivi:
a) con il primo (pagine 7 – 9 del gravame), ha contestato che il commissario fosse esonerato dall’obbligo di acquisire i pareri delle parti che sarebbero stati, viceversa, rilevanti e decisivi in punto di scelta fra restituzione del bene o acquisizione coattiva;
b) con il secondo (pagine 9 – 10 del gravame), ha ribadito che il commissario, per individuare il valore del bene, non avrebbe dovuto basarsi sulla stima dell’Agenzia del territorio perché tale valutazione era stata considerata inappropriata dallo stesso T.a.r. nella sentenza n. 2241 del 2009; da qui la violazione del mandato conferito all’ausiliario dalla sentenza n. 928 del 2012 e l’invalidità, in parte qua, del provvedimento reclamato.
3.2. Si è costituito il comune confutando analiticamente la fondatezza dell’appello di cui ha chiesto il rigetto.
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA ED I SUCCESSIVI SVILUPPI PROCESSUALI.
4.1. Con ordinanza n. 3347 del 3 luglio 2014, la IV Sezione del Consiglio di Stato:
a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica, l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43 e poi dall’art. 42-bis; t.u. espr.;
b) ha dato atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità che in sede di esecuzione del giudicato il giudice amministrativo, direttamente o per il tramite dell’intervento del commissario ad acta, possa o meno ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art. 42-bis, ovvero limitarsi a sollecitare l’esercizio di tale potere, fissando all’uopo un termine, scaduto il quale non rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;
c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13 gennaio 2014, nn. 441 e 442);
d) all’esplicito scopo di meglio garantire l’armonico coordinamento (ed il rispetto) dei principi della effettività della tutela giurisdizionale, da un lato, e dell’autorità del giudicato, dall’altro, ha sottoposto all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero <<se nella fase di ottemperanza – con giurisdizione, quindi, estesa al merito – ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42-bis t.u. espr.>>.
4.2. Con ordinanza dell’Adunanza plenaria - n. 28 del 15 ottobre 2014 – è stato sospeso il presente giudizio in attesa della definizione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n. 71 del 30 marzo 2015 - pubblicata nella G.U., 1° s.s., 6 maggio 2015 n. 18 – la Corte costituzionale, in relazione ai vari parametri evocati, ha dichiarato in parte inammissibile, in parte infondata, ed in parte non fondata ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis.
4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito con l’istanza depositata in data 1 giugno 2015 dalla difesa della signora Marraffa ed alla camera di consiglio dell’8 ottobre 2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI EFFETTI DELLA ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.
5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 42 - bis, t.u. espr. - Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico – come introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011 convertito con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: <<1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.
5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo nè dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.>>
5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile ricostruire (limitandosi a quanto di interesse) il quadro dei condivisibili principi che, successivamente all’ordinanza di rimessione della IV Sezione, sono stati elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71 del 2015 cit.), dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19 gennaio 2015 e n. 22096 del 29 ottobre 2015) e dal Consiglio di Stato (cfr. sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19 ottobre 2015; n. 4403 del 21 settembre 2015; n. 3988 del 26 agosto 2015; n. 2126 del 27 aprile 2015; n. 3346 del 3 luglio 2014), all’interno della consolidata cornice di tutele delineata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato fenomeno delle <<espropriazioni indirette>> del diritto di proprietà o di altri diritti reali (cfr., ex plurimis e da ultimo, con riferimento all’ordinamento italiano, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 3 giugno 2014, Rossi e Variale; Sez. II, 14 gennaio 2014, Pascucci; Sez. II, 5 giugno 2012, Immobiliare Cerro; Grande Camera, 22 dicembre 2009, Guiso; Sez. II, 6 marzo 2007, Scordino; Sez. III, 12 gennaio 2006, Sciarrotta; Sez. II, 17 maggio 2005, Scordino; Sez. II, 30 maggio 2000, Soc. Belvedere alberghiera; Sez. II, 30 maggio 2000, Carbonara e Ventura).
5.3. In linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. – con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene - che viene a cessare solo in conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu (Sez. IV, n. 3988 del 2015 e n. 3346 del 2014); dunque a condizione che:
I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;
II) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;
III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30 giugno 2003) perché solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il<<….giorno in cui il diritto può essere fatto valere>>;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.
5.4. Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit. costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del 2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735 del 2015 cit.), giova evidenziare che:
a) la disposizione introduce una norma di natura eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione tradizionale che considera a tale stregua le norme limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con particolare riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un potere ablatorio.
Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un bene altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della consequenzialità logica della disciplina generale (europea e nazionale) di riferimento in materia di acquisizione coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con essa attraverso una discriminazione – pure sancita dalla legge - del trattamento giuridico di situazioni soggettive che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del valore costituzionale della funzione sociale della proprietà privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce il fondamento del potere attribuito alla P.A.), secondo un approccio metodologico basato su una visione sistemica, multilivello e comparata della tutela dei diritti, a sua volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel suo complesso, quale risultante dalla interazione fra norme (interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e sovranazionali);
b) l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc)il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;
c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale - rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose – basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio (perché non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di alternative non può mai consistere nella generica <<…eccessiva difficoltà ed onerosità dell’alternativa a disposizione dell’amministrazione..>>), per la tutela di siffatte imperiose esigenze pubbliche;
d) sono coerenti con questa impostazione:
I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto di acquisizione sotto il profilo della misura dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass. civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u.espr.), maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare autonome poste di danno;
II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei conti in una vicenda che produce oggettivamente (e indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di responsabilità da accertarsi nelle competenti sedi) un aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza pubblica;
e) per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto ordinamentale che - in ragione della sussistenza dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto tipico sull’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto - prevede per il proprietario strumenti adeguati di reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito silenzio” (artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio sospettato di illegittimità (o altro giudizio avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come verificatosi nel caso di specie), secondo le coordinate esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del 2015 (in particolare § 6.6.3.);
f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento – valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo - si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);
g) ne consegue che la scelta che l’amministrazione è tenuta ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis, non concerne l’alternativa fra l’acquisizione autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione e la non acquisizione, in quanto la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico — cioè una mera conseguenza legale della decisione di non acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede procedimentale — ed essa non costituisce, né può costituire, espressione di una specifica volontà provvedimentale dell’autorità, atteso che, nell’adempiere gli obblighi di diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento e non agisce iure auctoritatis;
h) per concludere sul punto utilizzando un argomento esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione di acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo pagamento di una compensazione pecuniaria), introducendo pragmaticamente una regola di second best, da un lato, riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di uso routinario – causa maggiori costi, responsabilità erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della restituzione quale giusta causa di acquisizione del bene, partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta finale, motivazione esigente e rigorosa sulla impossibilità di configurare soluzioni diverse - configurandosi come una normale alternativa all’espropriazione ordinaria: in quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non rappresenta più (per usare il linguaggio della Corte di Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance structurelle dell’ordinamento italiano (rispetto a quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione adottata secondo il canone della <<buona e debita forma>> predicato dal paradigma europeo.
6. IL POTERE SOSTITUTIVO DEL COMMISSARIO AD ACTA E L’ADOZIONE DEL PROVVEDIMENTO EX ART. 42 –BIS T.U. ESPR.
6.1. La possibilità di emanazione del provvedimento ex art. 42-bis in sede di ottemperanza, da parte del giudice amministrativo o per esso dal commissario ad acta, non può essere predicata a priori e in astratto ma, al contrario, come bene testimonia il caso di specie, postula una risposta articolata che prenda necessariamente le mosse dal contesto processuale in cui è chiamato ad operare il giudice (ed il suo ausiliario) e lo conformi ai principi dianzi illustrati (in particolare al § 5.4.).
6.2. Si è visto in precedenza (retro § 5.4., lett. f), che l’effetto inibente (all’emanazione del provvedimento di acquisizione) del giudicato restitutorio costituisce elemento essenziale dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bis nella lettura costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice delle leggi in armonia con la CEDU: conseguentemente in presenza di un giudicato restitutorio il provvedimento di acquisizione non può essere emanato.
Si pone il problema della individuazione del giudicato restitutorio: nulla quaestio nel caso in cui il giudicato (amministrativo o civile) disponga espressamente, sic et simpliciter, la restituzione del bene, con l’unica precisazione che una tale statuizione restitutoria potrebbe sopravvenire anche nel corso del giudizio di ottemperanza. Si tratta di una conseguenza fisiologica della naturale portata ripristinatoria e restitutoria del giudicato di annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi d’indole espropriativa (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 29 aprile 2005, n. 2; Ad. plen., 4 dicembre 1998, n. 8; Ad. plen., 22 dicembre 1982, n. 19).
In tutti questi casi è certo che l’Amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis.
6.3. Tuttavia, costituisce fatto notorio che, sovente, durante la pendenza del processo avente ad oggetto la procedura espropriativa, il fondo subisce alterazioni tali da rendere necessario il compimento, ai fini della sua restituzione, di rilevanti attività giuridiche o materiali; a fronte di una situazione di tal fatta si possono verificare le seguenti evenienze:
I) il privato potrebbe non avere un interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria – preferendo evitare di essere coinvolto in attività spesso defatiganti - e dunque non propone una rituale domanda di condanna dell’Amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino, secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 30, co. 1, e 34, co. 1, lett. c) ed e), c.p.a.; in questo caso il giudicato si presenterebbe come puramente cassatorio, per scelta (e a tutela) del proprietario, ma non si produrrebbe l’effetto inibitorio dell’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis;
II) il proprietario ha interesse alla restituzione e propone la relativa domanda ma il giudice non si pronuncia o si pronuncia in modo insoddisfacente; in tal caso il rimedio è affidato ai normali strumenti di reazione processuale, in mancanza (o all’esito) dei quali se il giudicato continua a non recare la statuizione restitutoria, comunque l’Amministrazione potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis non sussistendo la preclusione inibente dianzi richiamata.
6.4. A diverse conclusioni deve giungersi allorquando, come verificatosi nella vicenda in trattazione, il giudicato rechi, in via esclusiva o alternativa, la previsione puntuale dell’obbligo dell’Amministrazione di emanare un provvedimento ex art. 42-bis.
In realtà è bene precisare subito che non esiste la possibilità, tranne si versi in una situazione processuale patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di cognizione l’Amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione: vi si oppongono, da un lato, il principio fondamentale di separazione dei poteri (e della riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della Giustizia Amministrativa, dall’altro, uno dei suoi più importanti corollari processuali consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. fra i quali non si rinviene tale tipologia di contenzioso (cfr. negli esatti termini Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5).
A maggior ragione in una fattispecie in cui vengono in rilievo sofisticate valutazioni sulla ricorrenza delle circostanze eccezionali che giustificano l’acquisizione coattiva, cui si possono eventualmente riconnettere gravi ricadute in termini di responsabilità erariale.
Se del caso, dovrà essere cura delle parti evitare che si formi un giudicato di tal fatta su domande il cui petitum ha proprio ad oggetto l’emanazione di un provvedimento ex art. 42–bis, attraverso la proposizione di specifiche eccezioni (o mezzi di impugnazione all’esito della sentenza di primo grado).
6.5. Come si è testé rilevato è ben possibile, invece, che il giudice amministrativo, adito in sede di cognizione ordinaria ovvero nell’ambito del c.d. rito silenzio, a chiusura del sistema, imponga all’amministrazione di decidere - ad esito libero, ma una volta e per sempre, nell’ovvio rispetto di tutte le garanzie sostanziali e procedurali dianzi illustrate - se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42-bis ovvero abbandonarla in favore delle altre soluzioni individuate in precedenza (retro § 5.3.).
In questo caso non vi è ragione di discostarsi dai principi recentemente enucleati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. sentenza 15 gennaio 2013, n. 2) in sintonia con la Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza 18 novembre 2004, Zazanis), alla stregua dei quali l’effettività delle tutela giurisdizionale e il carattere poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale: in tali casi, la totale inerzia dell’autorità o l’attività elusiva di carattere soprassessorio posta in essere da quest’ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza di intervenire, secondo lo schema disegnato dagli artt. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà, nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti dianzi illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l’acquisizione coattiva del bene ex art. 42-bis.
7. L’Adunanza plenaria restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1, ultimo periodo, e 4, c.p.a., affinché si pronunci sull’appello in esame nel rispetto del seguente principio di diritto: <<Il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’articolo 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità -:
a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur;
b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell’art. 117, comma 3, c.p.a., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al menzionato art. 42-bis>>.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto:
a) formula i principi di diritto di cui in motivazione;
b) restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato per ogni ulteriore statuizione, in rito, nel merito nonché sulle spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 ottobre 2015 con l'intervento dei magistrati:
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Paolo Numerico, Presidente
Luigi Maruotti, Presidente
Vito Poli, Consigliere, Estensore
Francesco Caringella, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Carlo Deodato, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 09/02/2016
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione