SANITA' &
DIRITTI DELLA PERSONA:
la sentenza del Consiglio di Stato sul caso Englaro
(Cons. St., Sez. III,
sentenza 4 settembre 2014, n. 4460)
Breve commento
Innumerevoli gli spunti d'interesse di questa sentenza, dall'interesse all'appello in caso di sopravvenienze in fatto (morte di Eluana Englaro prima dell'appello), alla presa di posizione del Consiglio di Stato sulla teoria dei diritti inaffievolibili o assoluti (v. salute, ai sensi dell'art. 32 Cost.), coniata dalla Suprema Corte, onde poter affermare che sussiste sempre la giurisdizione del Giudice ordinario.
I
Giudici di Palazzo Spada, al contrario, tornano a ridefinire i contorni della
giurisdizione esclusiva secondo i parametri della nota sentenza n. 204/2004
della Corte Costituzionale, distinguendo tra "comportamenti
amministrativi" (Giudice amministrativo) e "meri comportamenti"
(Giudice ordinario), e facendo rientrare nei primi tutti i provvedimenti, pur
incidenti sulla salute del singolo cittadino, che si caratterizzino per
l'esercizio di un potere amministrativo.
In
definitiva, una sentenza da leggere per intero.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale
3000 del 2009, proposto da:
Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Federico Tedeschini, dall’Avv. Catia Gatto, dall’Avv. Pio Dario Vivone, con domicilio eletto presso l’Avv. Federico Tedeschini in Roma, Largo Messico, n. 7;
Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Federico Tedeschini, dall’Avv. Catia Gatto, dall’Avv. Pio Dario Vivone, con domicilio eletto presso l’Avv. Federico Tedeschini in Roma, Largo Messico, n. 7;
contro
-OMISSIS-, rappresentato e difeso
dall’Avv. Sergio Vacirca, dall’Avv. Vittorio Angiolini e dall’Avv. Marco
Cuniberti, con domicilio eletto presso l’Avv. Sergio Vacirca in Roma, via
Flaminia, n. 1955;
nei confronti di
Franca Alessio, nella qualità di curatrice
speciale di-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’Avv. Giovanna Fiore, con
domicilio eletto presso lo stesso Avv. Giovanna Fiore in Roma, via degli
Scipioni, n. 94;
Azienda Ospedaliera “Ospedale di Lecco”, appellata non costituita;
Azienda Ospedaliera “Ospedale di Lecco”, appellata non costituita;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA -
MILANO: SEZIONE III n. 00214/2009, resa tra le parti, concernente il
trattamento sanitario di-OMISSIS-;
Visti il ricorso in appello e i relativi
allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 22, comma 8, del d. lgs.
196/2003
Relatore nell’udienza pubblica del giorno
17 luglio 2014 il Cons. Massimiliano Noccelli e uditi per le parti l’Av. Vivone
e l’Avv. Angiolini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto
quanto segue.
FATTO
1. -OMISSIS-, nella sua qualità di tutore
di-OMISSIS-, impugnava avanti al T.A.R. Lombardia la nota della Regione
Lombardia prot. n. M1.2008.0032878 del 3.9.2008, con la quale il Direttore
Generale della Direzione Generale Sanità respingeva la richiesta, formulata dal
predetto con atto di significazione e diffida del 19.8.2008, che la Regione
mettesse a disposizione una struttura per il distacco del sondino naso-gastrico
che alimentava e idratava artificialmente la predetta-OMISSIS-, in stato di
coma vegetativo permanente, in seguito all’autorizzazione rilasciata dalla
Corte di Appello di Milano, con decreto del 9.7.2008, nel giudizio di rinvio
disposto dalla Corte di Cassazione, sez. I, 16.10.2007, n. 21748, e in sede di
reclamo contro provvedimento del giudice tutelare del Tribunale di Lecco.
2. Nell’impugnato provvedimento la Regione
Lombardia, pur manifestando sentimenti di solidarietà e vicinanza al tutore per
quanto stava accadendo alla sua famiglia, con la predetta nota respingeva la
richiesta del tutore, “in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla
presa in carico diagnostico – assistenziale dei pazienti” e in tali strutture,
hospice compresi, deve essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia
nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone e, in particolare,
negli hospice possono essere accolti solo malati in fase terminale.
3. La nota aggiungeva che il personale
sanitario che avesse proceduto, in una delle strutture del Servizio Sanitario,
alla sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiale sarebbe venuto
meno ai propri obblighi professionali e di servizio, anche in considerazione
del fatto che il provvedimento giurisdizionale, di cui si chiedeva
l’esecuzione, non conteneva un obbligo formale di adempiere a carico di
soggetti o enti individuati.
4. Avverso tale decisione proponeva
ricorso avanti al T.A.R. Lombardia il predetto tutore, deducendo, con un unico
motivo, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2, 13, 32 e 33, comma
primo, Cost., e in special modo degli artt. 1, 7, 11 e 25 e ss. della l.
833/1978, in relazione agli artt. 24, 101, 102, 111 e 117 Cost. e ai principi
sull’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, l’illogicità manifesta e la
manifesta irragionevolezza, lo sviamento e l’eccesso di potere.
5. Il ricorrente lamentava che il
provvedimento impugnato sostanziasse un autentico “atto di ribellione” della
Regione Lombardia al diritto, come sancito da un pronunciamento
giurisdizionale, quale quello della Corte di Appello di Milano, sin dal
9.7.2008 esecutivo e ormai divenuto anche inoppugnabile, per l’essere stata
respinta ogni impugnativa contro il medesimo proposta tanto avanti alla Corte
costituzionale quanto dinanzi alla Corte di Cassazione.
6. La Regione Lombardia, quale ente
istituzionalmente e costituzionalmente competente per i servizi sanitari nonché
per il coordinamento e la programmazione degli stessi, ha la responsabilità di
assicurare le cure e, dunque, anche l’interruzione delle stesse, in conformità
dei pronunciamenti giudiziari, e ciò per la generalità dei pazienti che,
come-OMISSIS-, erano in carico al Servizio Sanitario Regionale.
7. Assumeva ancora il ricorrente che
sarebbe comunque abnorme e manifestamente lesivo della libertà dell’esercizio
della professionale intellettuale, anche agli effetti dell’art. 33, comma 1,
Cost. oltre che del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che un organo
amministrativo della Regione stabilisse quali fossero gli obblighi
professionali del medico in riferimento a cure e trattamenti da praticarsi ad
un singolo paziente, poiché ciascuno, adottando tale ordine d’idee, potrebbe
vedersi elargiti o negati dal “suo” medico trattamenti sanitari o cure ad
arbitrio dell’Amministrazione.
8. Il rifiuto assoluto della Regione
Lombardia, e delle strutture sanitarie da essa programmate e coordinate
nell’ambito del servizio pubblico, a collaborare all’esecuzione di un
provvedimento giurisdizionale esecutivo, doveva quindi, ad avviso del
ricorrente, ritenersi gravemente illegittimo, anche dal punto di vista
dell’art. 388, comma secondo, c.p. o di altre norme penali che sanzionano
l’elusione o la violazione delle decisioni giudiziarie.
9. Il ricorrente chiedeva quindi al T.A.R.
lombardo di annullare l’atto impugnato, condannando l’Amministrazione al
risarcimento del danno.
10. Si costituivano nel giudizio di prime
cure la Regione Lombardia, eccependo il difetto di giurisdizione del g.a. e
comunque, nel merito, resistendo al ricorso, nonché la curatrice speciale
dell’interdetta, Avv. Franca Alessio, aderendo al ricorso medesimo.
11. Con successiva istanza cautelare,
depositata il 30.12.2008, il ricorrente domandava idonea tutela cautelare,
volta ad assicurare l’esecuzione del decreto della Corte d’Appello di Milano.
12. Nella camera di consiglio del
22.1.2009, fissata per l’esame dell’istanza cautelare, il T.A.R. Lombardia,
ritenuto di poter decidere la controversia in forma semplificata, ai sensi
dell’art. 26 della l. 1034/1971 al tempo vigente, stante anche la rinuncia alla
domanda risarcitoria proposta dal ricorrente, tratteneva la causa in decisione.
13. Il T.A.R. Lombardia, con sentenza n.
214 del 26.1.2009, accoglieva il ricorso di -OMISSIS- e annullava il
provvedimento impugnato.
14. Il T.A.R. riteneva anzitutto
sussistente la propria giurisdizione, osservando che la tutela di un diritto
fondamentale, come quello alla salute, ben poteva spettare anche alla
cognizione di questi, laddove essa dovesse misurarsi con l’esercizio di un
potere autoritativo da parte dell’amministrazione sanitaria, a ciò non ostando
il preteso carattere incomprimibile di tale diritto, posto che il giudice
amministrativo disponeva di tutti i poteri idonei ad assicurare una tutela
giurisdizionale piena ed effettiva alla lesione di diritti fondamentali
asseritamente incisi dall’illegittimo esercizio del potere.
15. Nel merito il T.A.R. stigmatizzava il
provvedimento impugnato, per aver esso illegittimamente vulnerato il diritto
costituzionale di rifiutare le cure, siccome riconosciuto ad-OMISSIS- dalla
sentenza della Cass., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, quale diritto di libertà
assoluto, il cui dovere di rispetto si impone erga omnes, nei confronti di
chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura, non importa se
operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata.
16. Secondo il giudice di prime cure,
pertanto, il paziente che rifiuta le cure e, quindi, anche l’alimentazione e
l’idratazione artificiale, ha diritto a che le siano apprestate tutte le
misure, suggerite dagli standards scientifici riconosciuti a livello
internazionale, atte a garantirle un adeguato e dignitoso accudimento
accompagnatorio della persona, durante tutto il periodo successivo alla
sospensione del trattamento di sostegno vitale, rientrando ciò a pieno titolo
nelle funzioni amministrative di assistenza sanitaria.
17. L’Amministrazione Sanitaria,
conformandosi alla sentenza, avrebbe dovuto, in ossequio ai principi di
legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, indicare la struttura
sanitaria dotata dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, tali
da renderla “confacente” agli interventi e alle prestazioni strumentali all’esercizio
della libertà costituzionale di rifiutare le cure, al fine di evitare
all’ammalata o al tutore o curatore di lei, nel suo interesse, di indagare
quale struttura sanitaria sia meglio equipaggiata al riguardo.
18.-OMISSIS-, frattanto, decedeva ad Udine
il 9.2.2009.
19. Avverso la sentenza del T.A.R.
lombardo ha comunque proposto appello la Regione Lombardia, chiedendo al
Consiglio di Stato di annullare e/o riformare l’appellata sentenza, previa – se
del caso – sollevazione dell’eccepita questione di legittimità costituzionale
degli artt. 51 e 52 c.p.c. per violazione degli artt. 111 e 117, comma primo,
Cost.
20. La Regione Lombardia, nell’affermare
il proprio perdurante interesse alla decisione della controversia, ha proposto
quattro motivi di censura:
1) l’assenza di imparzialità del giudice
di primo grado e la nullità della sentenza impugnata o, in subordine, la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 51 e 52 c.p.c.
2) il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo a conoscere della presente controversia;
3) la illegittimità della sentenza per
violazione della normativa in materia di erogazione dei servizi sanitari e per
illogicità e contraddittorietà della motivazione;
4) la illegittimità della sentenza per
erronea interpretazione del decreto della Corte d’Appello di Milano del
9.7.2008.
21. Si è costituito l’appellato,
-OMISSIS-, domandando di dichiarare inammissibile e, comunque, di respingere
l’avversario gravame e si è costituita, altresì, la curatrice speciale
di-OMISSIS-, opponendosi anch’ella all’accoglimento dell’appello,
22. Nella pubblica udienza del 17.7.2014
il Collegio, uditi i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in
decisione.
DIRITTO
1. Oggetto del presente giudizio, come si
è già esposto nella parte in fatto, è la legittimità del provvedimento con il
quale la Regione Lombardia ha respinto la richiesta, formulata da -OMISSIS-,
tutore di-OMISSIS-, che la Regione mettesse a disposizione una struttura per il
distacco del sondino naso-gastrico che alimentava e idratava artificialmente la
predetta-OMISSIS-, in stato di coma vegetativo permanente.
2. Il T.A.R. Lombardia, come pure si è
accennato, ha ritenuto illegittimo tale provvedimento e lo ha conseguentemente
annullato con la sentenza n. 214 del 26.1.2009, impugnata avanti a questo
Consiglio dalla Regione Lombardia.
3. La Regione Lombardia anzitutto ritiene
tuttora sussistente il proprio interesse ad agire, nonostante l’intervenuto
decesso di-OMISSIS-, ad una pronuncia d’appello sulla legittimità del proprio
operato, sottolineando, anzitutto, che attualmente esistono più di 400 persone
in situazione di stato vegetativo permanente in carico al Servizio Sanitario
Regionale, sicché la sentenza del T.A.R. Lombardia costituirebbe un pericoloso
precedente, capace di rendere addirittura “attraente” (p. 6 del ricorso) il
sistema sanitario lombardo per famiglie di soggetti in stato vegetativo
permanente che desiderino un trattamento analogo a quello richiesto dal tutore
di-OMISSIS-.
4. Nella perdurante assenza di un
intervento del legislatore nazionale, che regoli i drammatici aspetti relativi
alle dichiarazioni anticipate di trattamento, un eventuale passaggio in
giudicato della sentenza qui avversata e per le motivazioni qui contestate,
secondo la Regione, costituirebbe infatti un precedente “pericolosissimo”,
capace di influenzare le eventuali richieste, di analogo contenuto, da parte di
altri pazienti e le scelte dell’Amministrazione sanitaria.
5. Non potrebbe quindi negarsi un
interesse, anche solo strumentale o morale, ad una pronuncia del giudice, anche
al fine di orientare autorevolmente la futura attività della pubblica
amministrazione.
6. Inoltre la pronuncia sulla legittimità
dell’atto avrebbe, comunque, una perdurante utilità ai fini della domanda
risarcitoria, rinunciata nel presente giudizio da parte del tutore di-OMISSIS-,
ma pur sempre proponibile una volta che sia passata in giudicato la sentenza
che abbia accertato l’illegittimità dell’atto, annullandolo.
7. La persistenza di un concreto ed
attuale interesse ad agire, in capo alla Regione appellante, è fermamente
contestata dall’appellato, -OMISSIS-, il quale sostiene l’inammissibilità
dell’appello, in quanto esso costituirebbe un tentativo surrettizio,
illegittimo e dunque, proprio in quanto tale, inammissibile di rimettere in
discussione il contenuto e gli effetti vincolanti, per il caso di-OMISSIS- e
per esso solo, derivanti da pronunciamenti divenuti inoppugnabili dell’autorità
giudiziaria ordinaria.
8. La riprova di tale dedotta
inammissibilità starebbe, secondo l’appellato, nella memoria depositata dalla
Regione Lombardia per l’udienza pubblica del 17.7.2014, memoria nella quale, a
p. 6, la Regione pone al Collegio delle questioni di principio, già risolte
dalla Cassazione nella sentenza della sez. I, 16.10.2007, n. 21748, riguardanti
la natura di trattamento sanitario riconoscibile all’alimentazione e
all’idratazione artificiali; la configurabilità di un eventuale “abbandono del
malato” in ipotesi di accanimento terapeutico, l’erogabilità di una prestazione
sanitaria, come quella richiesta da -OMISSIS-, ad opera e a carico del Servizio
Sanitario; il potere riconosciuto dall’ordinamento ad un qualsivoglia organo
giurisdizionale, ordinario o amministrativo che sia, di imporre agli operatori
sanitari di interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiali,
determinando ineluttabilmente il decesso del malato.
9. L’appello della Regione, sostiene il
tutore nella memoria di replica (p. 7), non riguarderebbe dunque la sentenza
del T.A.R., pur formalmente impugnata, ma mirerebbe, per vie traverse e non
consentite, a fungere da impugnazione delle decisioni delle autorità
giudiziarie ordinarie, Corte di Cassazione e Corte d’Appello di Milano, dei cui
effetti vincolanti ed inoppugnabili, per il caso di-OMISSIS-, il T.A.R. ha
tenuto doverosamente conto nella sentenza impugnata.
10. Di qui, secondo la difesa
dell’appellato, la radicale inammissibilità dell’appello proposta dalla Regione
Lombardia.
11. Ritiene il Collegio, seppur con le
precisazioni che di seguito verranno esposte, che l’appello sia assistito da un
persistente, concreto ed attuale, interesse ad agire da parte della Regione
appellante, nonostante l’intervenuto decesso di-OMISSIS-.
11.1. In effetti, anche a voler tacere
della perdurante utilità di una pronuncia di questo Consiglio ai soli eventuali
fini risarcitori, sussiste senza dubbio un interesse, quanto meno morale, ad
una decisione, nel presente giudizio di appello, sul corretto o non corretto
agire della Regione in una vicenda tanto peculiare e delicata sul piano del
rapporto tra pretesa del privato e pubblico interesse.
11.2. Sul punto la giurisprudenza di
questo Consiglio è costante, infatti, nell’affermare che “la dichiarazione di
improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse presuppone
che, per eventi successivi alla instaurazione del giudizio, debba essere esclusa
l’utilità dell’atto impugnato, ancorché meramente strumentale o morale, ovvero
che sia chiara e certa l’inutilità di una pronuncia di annullamento dell’atto
impugnato” (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 13.1.2014, n. 70).
11.3. La sopravvenienza deve essere cioè
tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della sentenza, per aver fatto
venir meno per il ricorrente o per l’appellante qualsiasi residua utilità della
pronuncia del giudice, anche soltanto strumentale o morale (cfr., ancor più di
recente, Cons. St., sez. IV, 29.4.2014, n. 2231).
11.4. Ora è ben apprezzabile, concreto e
tuttora attuale, l’interesse della Regione a veder definitivamente accertata la
legittimità, in ipotesi, del proprio operato e, in particolare, del
provvedimento con il quale essa ha respinto la richiesta del tutore non già, si
noti, adducendo una impossibilità materiale di eseguire la prestazione, per
specifiche ragioni attinenti alla personale situazione del paziente o di una
singola struttura, ma esercitando un vero e proprio potere discrezionale inteso
a definire e ad affermare che, tanto sul piano dell’ordinamento generale che su
quello organizzativo del settore sanitario, la prestazione richiesta
esulerebbe, come si legge nell’ultima memoria regionale depositata in vista
dell’udienza del 17.7.2014 (p. 2), “dal novero dei compiti da essa
legittimamente eseguibili”.
11.5. La Regione Lombardia ha dunque, in
questo senso, un perdurante interesse a veder dichiarata in via definitiva la
eventuale legittimità del potere in concreto esercitato anzitutto, se non
esclusivamente, nella vicenda che ne occupa, senza dire che il ricorrente
potrebbe comunque chiedere il risarcimento dei danni conseguenti all’accertata
illegittimità della delibera regionale, stante anche il fatto che egli aveva
rinunciato alla domanda risarcitoria inizialmente proposta avanti al T.A.R., ma
non certo all’azione e, dunque, all’eventuale diritto di chiedere il ristoro
dei danni in ipotesi subiti, una volta passata in giudicato la sentenza di
annullamento.
11.6. L’esigenza di tutela giurisdizionale
(Rechtsschutzbedürfnis) rappresentata dalla Regione, con il proposto appello,
non attiene dunque ad una astratta declaratoria iuris o al mero ripristino
della legalità violata e, cioè, all’affermazione di un principio generale
inerente alla legittimità di un qualsivoglia potere in materia, ma al concreto
esercizio del potere manifestatosi nel caso di specie.
11.7. La circostanza che la Regione
sottolinei l’effetto orientativo che il giudicato potrebbe avere sulla futura
azione della p.a., per casi analoghi, nulla toglie alla concretezza e
all’attualità dell’interesse, anzitutto morale, della Regione a vedere
accertata la legittimità del potere esercitato nella specifica vicenda qui
esaminata, anche se essa si è definitivamente esaurita, con la morte
di-OMISSIS-, sul piano umano.
12. È appena il caso qui di aggiungere e
chiarire, per dissipare ogni possibile equivoco e fugare qualsivoglia ambiguità
insita nel rilievo, pur corretto, che il giudicato amministrativo ha anche
l’effetto di orientare il legittimo agire della p.a. per il futuro, che non
compete certo a questo Collegio rimettere in discussione il contenuto e gli
effetti dei provvedimenti giurisdizionali – la sentenza della Corte di
Cassazione e il decreto della Corte d’Appello di Milano nel giudizio di rinvio
– che hanno interessato la concreta e dolorosa vicenda di-OMISSIS-,
provvedimenti costituenti ormai res iudicata, al di là delle adesioni e delle
critiche che essi hanno ricevuto da parte di commentatori e studiosi e,
soprattutto, dell’ampio dibattito che hanno suscitato nell’opinione pubblica o
in ambito parlamentare e in altre sedi istituzionali.
12.1. Non può e non deve quindi questo
Collegio interpretare o reinterpretare tali provvedimenti né, ancor meno, costruire
sulla loro base regulae iuris, conformi o difformi rispetto al loro definitivo
contenuto decisorio, che abbiano una portata generale o che, addirittura, si
sostituiscano ad una eventuale volontà del legislatore, che resta pur sempre
libero di disciplinarli ed è il solo chiamato, per la delicatezza di tale
materia, a tale arduo compito, ma solo valutare, sulla base dell’ordinamento
vigente, la correttezza della decisione impugnata, nell’annullare il
provvedimento regionale di diniego opposto alla richiesta del tutore, e
attraverso questa, nei limiti dell’effetto devolutivo connesso ai soli motivi
di doglianza qui proposti, la legittimità del potere esercitato dalla Regione
con il provvedimento in primo grado impugnato.
13. L’appello della Regione Lombardia, per
le esposte ragioni, appare dunque pienamente ammissibile e procedibile.
14. La Regione Lombardia, ciò premesso,
eccepisce in via preliminare, con un primo motivo di doglianza (pp. 8-15),
l’assenza di imparzialità del giudice di primo grado e la conseguente nullità
della sentenza e pone, in subordine, questione di legittimità costituzionale
degli artt. 51 e 52 c.p.c., laddove interpretati letteralmente e secondo il
costante orientamento interpretativo di questo Consiglio, per violazione degli artt.
111 e 117, comma primo, Cost., con riferimento all’art. 6 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo.
14.1. L’appellante lamenta, in estrema
sintesi, che il dott. Dario Simeoli, estensore della sentenza, aveva
pubblicato, nel fascicolo 7-8 dell’anno 2008, p. 1727, della rivista Giustizia
Civile, una nota alla sentenza della Cass., sez. I, 16.10.2007, n. 21748,
proprio relativa alla vicenda di-OMISSIS-, nella quale egli avrebbe espresso il
proprio apprezzamento sulla sentenza, sottolineando come “nella diversa sede
contenziosa, ovvero di accertamento dell’illiceità del rifiuto da parte dei
sanitari di dare corso all’indicazione del legale rappresentante di
interrompere la terapia salvavita, il giudice possa fornire ogni tutela
specifica anche condannatoria”.
14.2. Secondo la Regione non vi è chi non
veda come le convinzioni manifestate dal dott. Simeoli siano state recepite
pedissequamente nella sentenza da lui redatta e in questa sede impugnata.
14.3. Il caso di cui si è occupato il
T.A.R. Lombardia nella sentenza qui impugnata, infatti, aveva proprio ad
oggetto il rifiuto, da parte dell’Amministrazione sanitaria, di dar corso alla
richiesta, avanzata dal tutore di-OMISSIS-, di indicare la struttura sanitaria
all’interno della quale si sarebbe dovuta interrompere la terapia.
14.4. E puntualmente, sottolinea la
Regione, il dott. Simeoli avrebbe affermato nella sentenza che la Regione
Lombardia si è posta in contrasto con l’ordinamento giuridico e le ha ordinato,
conseguentemente, di indicare la struttura sanitaria all’interno della quale
interrompere le cure.
14.5. In altre parole il giudice
amministrativo, esattamente come aveva affermato il dott. Simeoli nella sua
nota alla sentenza della Cassazione, avrebbe somministrato proprio quella
tutela specifica necessaria al fine di interrompere la terapia salvavita.
14.6. Anche la complessiva e discutibile
motivazione, che sorregge la sentenza impugnata, dimostrerebbe, ad avviso
dell’impugnante Regione, l’assenza di imparzialità, da parte del primo giudice,
poiché le “forzature giuridiche” (p. 10 del ricorso), che sarebbero contenute
nella sentenza, contribuirebbero a mostrare l’assenza di imparzialità di cui
sostanzialmente la Regione si duole.
14.7. Da altro punto di vista, pur
connesso all’ordine di censure qui esposto, la causa sarebbe stata decisa dal
Collegio, con sentenza semplificata ai sensi dell’art. 26 della l. 1034/1971,
con un uso improprio e affrettato di tale rito, pur a fronte di questione sì
complessa e delicata, dimostrando come il dott. Simeoli, prima di essere
investito della questione, aveva già studiato i fatti di causa, si fosse
formato una convinzione in merito all’esito del giudizio e, soprattutto,
l’avesse già chiaramente e pubblicamente manifestata.
14.8. La Regione, insomma, vuol sostenere,
come essa stessa afferma (p. 11 del ricorso in appello), che “il giudice
estensore della sentenza impugnata ha giudicato secondo la sua scienza privata
e non soltanto – come la Costituzione impone – sulla base degli atti di causa”.
15. Soggiunge la Regione di ben conoscere
l’orientamento di questo Consiglio, secondo il quale, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 51 e 52 c.p.c., si verterebbe in una situazione di
“astensione facoltativa”, per la quale non è consentito alle parti di proporre
ricusazione, e che anche la violazione del dovere di astenersi, da parte del
giudice, nelle ipotesi di astensione obbligatoria, non è causa di nullità della
sentenza in difetto di tempestiva istanza di ricusazione (pp. 11-12 del
ricorso), ma essa assume, cionondimeno, che il testo riformato dell’art. 111
Cost., come anche la costante interpretazione dell’art. 6 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo da parte della Corte EDU, costituente parametro
interposto di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost., impongano ora una
interpretazione, costituzionalmente orientata, alla stregua della quale la
situazione, in cui versa un giudice che si esprime precedentemente sui fatti di
causa anticipando sostanzialmente l’esito del giudizio, integra una situazione
di astensione obbligatoria, la cui mancata attuazione vizia di nullità l’intera
sentenza.
16. La Regione chiede, pertanto, che
questo Consiglio, laddove aderisca alla tradizionale interpretazione degli
artt. 51 e 52 c.p.c., sollevi questione di costituzionalità, nei termini appena
riassunti, nella parte in cui non dispongono che il giudice sia obbligato ad
astenersi nei casi in cui ha già anticipato l’esito sostanziale del giudizio,
per violazione dell’art. 111 e dell’art. 117, comma primo, Cost., nella parte
relativa al rispetto degli obblighi derivanti da “vincoli internazionali”.
17. L’eccezione di nullità, come anche la
subordinata questione di costituzionalità, deve essere disattesa.
17.1. Il motivo è anzitutto inammissibile.
17.2. Occorre muovere dal presupposto di
principio secondo cui i casi di astensione obbligatoria del giudice di cui
all’art. 51 c.p.c., applicabili anche al processo amministrativo, nella
previgente disciplina processuale applicabile ratione temporis ai sensi
dell’art. 47 del r.d. 17 agosto 1907 n. 642, sono di stretta interpretazione,
in quanto incidono sulla capacità del giudice, determinando una deroga ai
principi del giudice naturale precostituito per legge (Cons. St., sez. IV,
25.10.2006, n. 6370).
17.3. Anche volendo però, in ipotesi,
accedere alla ricostruzione “costituzionalmente” orientata della normativa in
materia di astensione e ricusazione, alla stregua della quale l’opinione
espressa dal giudice in sede scientifica costituirebbe un “pregiudizio”
integrante un motivo di astensione obbligatoria che, pur non rientrando nelle
ipotesi tassative dell’art. 51 c.p.c., sarebbe nondimeno ricavabile dal
sistema, l’appellante Regione non ne ha tratto le debite conseguenze, sul piano
processuale, e non ha tempestivamente proposto istanza di ricusazione, proprio
per l’assunta natura obbligatoria di tale astensione, nel giudizio di primo
grado.
17.4. È la stessa Regione, consapevole di
tale decisivo inadempimento processuale, a ricordare di non aver proposto
ricusazione nei termini previsti dall’art. 48 del r.d. 642/1907 e dall’art. 52
c.p.c. (p. 14 del ricorso in appello) né basta certo a giustificare la mancata
tempestiva proposizione dell’istanza l’affermata circostanza che la scelta del
primo giudice di decidere la controversia in forma semplificata avrebbe reso
“praticamente impossibile”, alla difesa regionale, sollevare tempestiva istanza
di ricusazione, poiché tale istanza poteva e doveva essere formulata, se del
caso, tre giorni prima dell’udienza fissata per la trattazione dell’istanza
cautelare o, al più tardi, oralmente all’udienza prima dell’inizio della
discussione, come prevedono sia l’art. 48 del r.d. 642/1947 che l’art. 52,
comma secondo, c.p.c.
17.5. Non rileva, quindi, che il Collegio venga
costituito a ridosso della data di trattazione, come sostiene l’appellante,
perché comunque l’art. 48, comma primo, del r.d. 642/1907 prevede anche
l’ipotesi che il ricusante non conosca i nomi dei giudici designati almeno tre
giorni prima dell’udienza, disponendo che, in tal caso, l’istanza di
ricusazione sia proposta in limine oralmente, all’udienza, prima della
discussione.
17.6. La Regione non ha convincentemente
dimostrato, del resto, di aver avuto notizia della nota a sentenza solo dopo il
passaggio in decisione, non bastando certo a tal fine la mera allegazione che
la notizia di tale nota fosse riportata nel quotidiano Avvenire del 9.2.2009.
17.7. Anche quindi volendo ammettere, a
dispetto di ogni rigorosa tassatività in materia, che il caso rientri in una
ipotesi di astensione obbligatoria, peraltro non prevista dall’ordinamento
processuale, la mancata tempestiva proposizione, in primo grado, dell’istanza
di ricusazione o, in subordine, della questione di costituzionalità degli artt.
51 e 52 c.p.c., rende il motivo del tutto inammissibile, al di là della sua
infondatezza nel merito, e la questione di costituzionalità sollevata in
subordine del tutto irrilevante ai fini del decidere, perché la mancata
astensione del giudice, nelle ipotesi di sua obbligatorietà, non può costituire
motivo di nullità della sentenza, ma solo motivo di ricusazione ai sensi
dell’art. 52 c.p.c. e la costante giurisprudenza in materia ritiene che il
mancato esercizio del potere di ricusazione del giudice, entro i termini previsti,
precluda alla parte di far valere, in sede di impugnazione, la nullità della
sentenza pronunciata dal giudice che abbia violato l’obbligo di astensione.
17.8. Sia questo Consiglio (sez. VI,
23.2.2009, n. 1049) che la Corte di Cassazione (sez. I, 5.12.2003, n. 18629)
hanno confermato, infatti, la fondatezza della ricostruzione esegetica secondo
la quale è manifestamente infondata la eccezione di incostituzionalità degli
artt. 51 e 52 c.p.c., in relazione agli artt. 3, 24, 101 e 104 Cost., laddove non
prevedono né la nullità dei provvedimenti resi dai giudici obbligati alla
astensione né la possibilità di tardive ricusazioni, all’uopo puntualmente
richiamando la interpretazione restrittiva del giudice delle leggi (decisioni
n. 363 del 1998; nn. 326 e 357 del 1997).
17.9. La ratio di tale orientamento riposa
nella constatazione che il legislatore alla parte che ritenga violato l’obbligo
di astensione riconosce il diritto di ricusazione nel termine previsto
dall’art. 52, comma secondo, c.p.c. e, dunque, un valido strumento per evitare
di essere giudicati da colui del quale contesti la obbiettività, mentre la
scelta di non far conseguire alla inosservanza dell’obbligo di astensione la
nullità della sentenza e di imporre un termine per la ricusazione risponde alla
esigenza di impedire facili strumentalizzazioni all’uso di tale istituto, che
verrebbe utilizzato secundum eventum litis, con la vanificazione di complesse
attività giudiziarie espletate.
17.10. Detta impostazione, ancora di
recente riaffermata dalla Cassazione civile (sez. I, 8.5.2013, n. 10724) e da
questo Consiglio (sez. IV, 20.4.2012, n. 2355) si coniuga con quella, che del
pari costituisce ius receptum, secondo la quale “la pretesa incompatibilità di
uno dei giudici che hanno composto il collegio può esser fatta valere soltanto
con la ricusazione nelle forme e nei termini di cui all’art. 52 c.p.c. e non dà
luogo al vizio di costituzione ravvisabile solo quando gli atti giudiziali
siano posti in essere da persona estranea all’ufficio” (Cass., sez. I,
10.10.2007, n. 21287).
17.11. Il vizio relativo alla costituzione
del giudice per la violazione dell’obbligo di astensione non può essere dedotto
quale motivo di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 158 c.p.c., poiché
l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo, ha
demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina anche attraverso
gli istituti dell’astensione e della ricusazione, sancendo, come affermato
dalla Corte costituzionale (sentenza n. 387 del 1999), che – in considerazione
della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle
parti – non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire l’imparzialità
e la terzietà del giudice solo attraverso gli istituti dell’astensione e della
ricusazione (Cass., sez. II, 29.3.2007, n. 7702).
17.12. Ad analoghe conclusioni è
pervenuta, per il processo amministrativo, anche la giurisprudenza di questo
Consiglio (sez. VI, 23.2.2009, n. 1049).
18. In ogni caso, quand’anche si prescinda
da tale assorbente rilievo, sul piano processuale, e finanche dalla questione
della riconducibilità dell’ipotesi qui dedotta ad un caso di astensione
“obbligatoria” ricavabile dal sistema dei principi costituzionali ed europei,
ritiene il Collegio che, di fatto, il giudice non sia venuto meno al suo dovere
di imparzialità.
18.1. Nella nota in questione il dott.
Simeoli non ha espresso alcun convincimento sull’illegittimità del
provvedimento impugnato avanti al T.A.R. Lombardia e, quindi, non si è in alcun
modo pronunciato anticipatamente sulla specifica res iudicanda portata alla sua
cognizione, ma si è limitato semplicemente a manifestare, in via di principio e
senza alcun riferimento al giudizio in oggetto, un’opinione scientifica,
secondo la quale il giudice potrebbe assicurare la doverosa tutela specifica,
anche condannatoria, di fronte ad un illecito rifiuto, da parte dei sanitari,
di dar corso alla volontà del paziente, siccome ricostruita dal tutore, nel
contraddittorio con il curatore speciale, ed accertata in sede giudiziale.
18.2. Tale tutela, come si legge nella
nota, può essere assicurata solo di fronte all’eventuale accertamento
dell’illiceità di tale rifiuto, ma non si parla né del provvedimento adottato
dalla Regione Lombardia né di una sua illiceità, sicché, al di là del fatto che
il dott. Simeoli abbia annotato, in senso adesivo, la sentenza della Cassazione
pronunciata nel caso -OMISSIS-, l’appellante non spiega per quale motivo il
dott. Simeoli avrebbe dovuto astenersi solo per aver manifestato un’opinione
scientifica su una questione di diritto che non riguardava, e non poteva
riguardare, il concreto provvedimento impugnato avanti al T.A.R.
18.3. Nella nota alla sentenza non si
afferma, infatti, che ogni eventuale rifiuto dei sanitari sarebbe stato per ciò
solo illegittimo né, ancor meno, si parla del rifiuto opposto dalla Regione
nella nota in questa sede impugnata, onde non è dato comprendere in qual modo
il giudice avrebbe espresso un pregiudizio sulla specifica e concreta res
iudicanda che, giova ripeterlo, è unicamente lo specifico e concreto
provvedimento qui impugnato, di cui mai si fa menzione nella nota a sentenza.
18.4. Né certo giova a corroborare
l’assunto che il giudice abbia pronunciato sulla questione secondo un
“pregiudizio” ed ex privata scientia, come afferma la Regione, il solo fatto
che il Collegio abbia deciso di definire la sentenza in forma semplificata, ai
sensi dell’art. 26 della l. 1034/1971, posto che, se anche tale scelta
processuale, peraltro rimasta inoppugnata, sullo specifico punto, per la
mancata articolazione di uno specifico motivo di censura inerente alla
violazione del citato art. 26, possa apparire opinabile al cospetto di
questione sì complessa, certo da tale scelta legittimamente adottata dal
Collegio non può desumersi in alcun modo l’esistenza di una prescienza,
addirittura privata e comunque antecedente all’instaurazione del giudizio,
della res iudicata, prescienza che in alcun modo emerge dalla lettura del
provvedimento impugnato, che si è attenuto rigorosamente solo agli atti di
causa, e men che mai di un pregiudizio o di un preconcetto convincimento circa
il merito della questione.
18.5. Le ragioni addotte dal T.A.R. a base
del proprio convincimento, infatti, nulla hanno a che vedere con l’analisi
della sentenza della Cassazione, contenuta nella nota del dott. Simeoli, né una
loro analisi rivela che esse, ben lungi dal contenere “forzature giuridiche”
(p. 10), abbiano in qualche modo mutuato o pedissequamente riprodotto
argomentazioni contenute nella nota, che del resto mai il provvedimento
regionale ha riguardato né mai avrebbe potuto riguardare.
18.6. Il Collegio non ignora che ancor di
recente, nella sentenza n. 194 del 9.7.2014, la Corte costituzionale, nel
ribadire la fondamentale rilevanza del principio di imparzialità del giudice,
ha stabilito che le soluzioni legislative per realizzare questo principio non
debbono prefigurare moduli necessariamente identici per tutti i tipi di
processo, ma deve essere, comunque, osservata la regola che il giudice rimanga
sempre super partes ed estraneo rispetto agli interessi oggetto del processo e
sia assicurato quel minimo di garanzie ragionevolmente idonee allo scopo.
18.7. Ma nel caso di specie, per quanto
attiene alla disciplina del processo amministrativo, che ai sensi dell’art. 47
del r.d. 642/1907 era mutuata nella previgente disciplina processuale da quella
del processo civile, il giudice non è venuto meno a questo principio, per aver
anticipato il suo giudizio in ordine alla specifica res iudicanda, né
sussistono gravi ragioni di convenienza, legate a proprie situazioni personali,
che ne farebbero venir meno la terzietà.
19. Ne consegue che la vicenda di cui è
causa non rientra in alcuna delle ipotesi di astensione, obbligatoria e nemmeno
facoltativa, contemplate dagli artt. 51 e 52 c.p.c., con conseguente
irrilevanza, anche per tale ragione, della questione di costituzionalità
sollevata in via subordinata dalla Regione appellante.
20. Occorre adesso esaminare, seguendo lo
stesso ordine delle questioni proposto dall’appellante e non, come pure ha
affermato questo Consiglio nella sentenza dell’Adunanza plenaria n. 4 del 2011,
l’ordine del loro esame consigliato dalla loro pregiudizialità
logico-giuridica, la questione pregiudiziale inerente alla giurisdizione, in
questa sede riproposta, appunto con il terzo motivo (pp. 15-21), da parte della
Regione appellante, benché la questione della giurisdizione, nell’ordine delle
questioni pregiudiziali, debba ritenersi la prima, come ha chiarito la citata
sentenza dell’Adunanza plenaria.
20.1. Ritiene il Collegio di poter
prescindere, pur non mancando di rilevarne l’esistenza, dalla implicita
contraddittorietà insita nell’impostazione difensiva della Regione che, se da
un lato sostiene il proprio persistente interesse ad ottenere una pronuncia
d’appello sulla legittimità del proprio agire, in riforma della sentenza
impugnata, dall’altro e tuttavia insiste nell’eccepire il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo.
20.2. Il rilievo che l’accoglimento di
tale ultima eccezione determinerebbe l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata, con conseguente (ripristinata) validità del provvedimento regionale
impugnato in prime cure, può forse contribuire a superare le rigorose
conseguenze che, sul piano processuale, si dovrebbero pur trarre da tale
intrinseca contraddittorietà, ritenendola non decisiva ai fini
dell’ammissibilità dell’eccezione inerente al difetto di giurisdizione, benché
non scongiuri del tutto l’impressione di un venire contra factum proprium, da
parte della Regione, nell’assumere, con forza, la persistenza di un interesse,
concreto ed attuale ad una pronuncia sulla legittimità di un atto, da parte del
giudice amministrativo d’appello (e, non si badi, da parte di un qualsivoglia
giudice munito di giurisdizione), per poi sostenerne, con altrettanta forza, la
cognizione da parte del giudice ordinario.
21. Il Collegio, non senza rilevare tale
singolarità, stima comunque di dover esaminare, per la sua assoluta rilevanza,
anche tale fondamentale questione, che ha ritenuto di posporre alle altre due
sopra esaminate, nonostante la sua indubbia pregiudizialità logico-giuridica
rispetto a queste, per un motivo attinente, essenzialmente, ad una più ordinata
ed organica sistemazione della materia trattata la quale, per la delicatezza
delle questioni dibattute, ne ha reso opportuno, sul piano processuale, una preliminare
ed anticipata verifica.
21.1. Certamente la pregiudiziale
valutazione della propria potestas iudicandi costituisce un prius
logico-giuridico rispetto ad ogni altra questione, ma la motivata inversione
dell’esame delle questioni, senza che ovviamente ciò comporti irrazionalmente e
illegittimamente, oltre che inutilmente, una pronuncia, nel merito, su
questioni controverse da parte del giudice che poi si ritenga sfornito di
giurisdizione, può essere consentita tutte le volte in cui il giudice ne ravvisi
l’opportunità, alla luce della materia trattata, non potendo assurgere l’ordine
logico-giuridico delle questioni ad un dogma assoluto e vincolante per il
giudice, ma solo ad un fondamentale criterio di orientamento, improntato alla
ragionevolezza e all’economia dei mezzi processuali, per un ordinato, logico ed
utile esame della materia controversa.
21.2. Al riguardo, sul punto della
giurisdizione, il T.A.R. lombardo ha affermato che sussiste, “senza alcun
dubbio” (p. 2 dell’impugnata sentenza), la giurisdizione ratione materiae del
giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33 del d. lgs. 80/1998, poiché si
verte e controverte in ipotesi di giurisdizione esclusiva.
21.3. Secondo il primo giudice la
valutazione dell’amministrazione regionale, in qualità di soggetto titolare
della funzione amministrativa di organizzazione del servizio pubblico sanitario
regionale, avente ad oggetto l’identificazione dei compiti allo stesso
pertinenti, si inserisce in una fase del rapporto amministrativo attinente al
momento prettamente organizzativo del servizio pubblico, concretantesi nello
svolgimento del potere ad esso assegnato.
21.4. Nessun rilievo, sul punto, può avere
– secondo il T.A.R. – una qualsivoglia considerazione sul formante di diritto
soggettivo o sul rango costituzionale della posizione soggettiva dedotta” (p. 2
dell’impugnata sentenza), dal momento che, anche in materia di diritti
fondamentali tutelati dalla Costituzione, ove si versi nelle materie riservate
alla giurisdizione esclusiva (come appunto, ed esemplarmente nel caso di
specie, per un servizio pubblico), compete al giudice amministrativo, quale
giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica, la
cognizione delle relative controversie in ordine alla sussistenza dei diritti vantati
ed al contemperamento degli stessi con l’interesse generale pubblico, sempre
che la loro incisione sia dedotta come effetto di una manifestazione di volontà
o di un comportamento materiale, espressione di poteri autoritativi, di cui si
denunci la contrarietà alla legge (Cass., Sez. Un., 28.12.2007, n. 27187).
21.5. Tale sentenza delle Sezioni Unite,
menzionata dal primo giudice, ha affermato il fondamentale principio di diritto
che anche in materia di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali
il diritto alla salute (art. 32 Cost.), allorché la loro lesione sia dedotta
come effetto di un comportamento materiale, espressione di poteri autoritativi
e conseguente ad atti della p.a. di cui sia denunciata l’illegittimità, in
materie riservate alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi, come
ad esempio in quella di gestione del territorio, compete a detti giudici la
cognizione esclusiva delle relative controversie e circa la sussistenza in
concreto dei diritti vantati e il contemperamento o la limitazione dei suddetti
diritti in rapporto all’interesse generale pubblico all’ambiente salubre e la
emissione di ogni provvedimento cautelare, per assicurare provvisoriamente gli
effetti della futura decisione finale sulle richieste inibitorie, demolitorie
ed eventualmente risarcitorie dei soggetti che deducono di essere danneggiati
da detti comportamenti o provvedimenti.
21.6. Il T.A.R. richiama anche il
precedente della Corte costituzionale che, nella sentenza n. 140 del 27.4.2007,
ha chiarito che l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, circa la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in
presenza di alcuni diritti assolutamente prioritari (tra cui quello alla
salute), risulta enunciato in ipotesi in cui venivano in considerazione meri
comportamenti della pubblica amministrazione e, pertanto, esso è coerente con
la sentenza n. 191 del 2006, con la quale la stessa Corte costituzionale ha
escluso dalla giurisdizione esclusiva la cognizione del risarcimento del danno
conseguente a meri comportamenti della pubblica amministrazione, mentre nel
caso in esame, invece, si tratta di specifici provvedimenti o procedimenti
“tipizzati” normativamente, sicché la giurisdizione del g.a. sussiste.
21.7. La sentenza impugnata perviene,
così, alla conclusione che nella presente vicenda il giudice amministrativo
detenga, in definitiva, “tutti i poteri idonei ad assicurare piena tutela, per
equivalente o in forma specifica, alla lesione dei diritti fondamentali asseritamente
sofferta in dipendenza dell’illegittimo esercizio del potere amministrativo”
(p. 3 dell’impugnata sentenza).
22. La Regione Lombardia censura la
decisione del T.A.R. e sostiene l’assunto che l’atto regionale, oggetto di
impugnazione, non attiene affatto “al momento prettamente organizzativo del
servizio”, in quanto non era in contestazione una modalità di svolgimento del
rapporto controverso, bensì il divieto assoluto, per il Servizio Sanitario
Nazionale, di erogare prestazioni non previste nei livelli essenziali di
assistenza (c.d. LEA) e, a contrariis, di non erogare l’assistenza di base
rappresentata dall’alimentazione e dall’idratazione artificiale.
22.1. Quello richiesto dal tutore
di-OMISSIS-, ad avviso della Regione appellante, sarebbe un trattamento extra
ordinem, non previsto, ma anzi vietato dall’ordinamento sanitario e, pertanto,
in discussione non sarebbe il corretto esercizio, da parte della Regione, del
potere ordinario di assistenza ad essa attribuito dalla legge, bensì il dovere
di rendere comunque una prestazione costituente un diritto riconosciuto dal
giudice civile.
22.2. Deve escludersi, secondo tale tesi,
che la domanda azionata dal tutore potesse rientrare nella giurisdizione
esclusiva del T.A.R. in materia di servizi pubblici, avendo la Corte
costituzionale, con sentenza n. 362 del 2007, dichiarato l’illegittimità del
comma 1 dell’art. 33 del d. lgs. 80/1998 nella parte in cui, con riguardo alla
materia dei pubblici servizi, affida alla giurisdizione esclusiva del g.a.
“tutte le controversie” anziché “le controversie relative a concessioni di
pubblici servizi, escluse quelle concernenti”.
22.3. Il citato art. 33, nel comma 2,
lett. e), esclude espressamente dal novero dei rapporti sussumibili nella
giurisdizione esclusiva, inoltre, “i rapporti individuali di utenza con
soggetti privati”.
22.4. Sostiene la Regione che non si
sarebbe al cospetto di servizi erogabili sulla base di rapporti convenzionali
di diritto pubblico, di carattere concessorio, che radicherebbero la
giurisdizione esclusiva, ma di una domanda, proposta da un privato e tesa a far
valere un suo preteso diritto di interruzione (attiva) delle cure sugli
obblighi (di renderle) da parte del servizio pubblico.
22.5. È possibile affermare, conclude la
Regione appellante, che vi sia giurisdizione esclusiva nel caso in cui
l’attività della pubblica amministrazione debba essere vagliata alla stregua
delle norme che regolano l’attività o il servizio pubblico, per statuire la sua
legittimità o meno a fronte di regole esistenti, indipendentemente dalla natura
della situazione giuridica dedotta (diritto soggettivo o interesse legittimo),
mentre si è invece fuori da tale ambito di giurisdizione esclusiva quando, come
nel caso di specie, la pretesa del privato non assuma, come parametro di
riferimento, l’ordinamento di settore – le regole del Servizio Sanitario –
bensì quello generale, sostantivo e costituzionale, al fine di far prevalere un
diritto soggettivo sui doveri e obblighi della pubblica amministrazione.
22.6. Trattandosi di un diritto soggettivo
“assoluto” e non rientrando la materia – richiesta di prestazioni non
contemplate dai LEA – tra quelle proprie della giurisdizione esclusiva, dunque,
la Regione ne deduce che il T.A.R. avrebbe dovuto declinare la propria
giurisdizione.
23. L’assunto della Regione è infondato,
dovendosi qui riaffermare, al pari del primo giudice, la giurisdizione del
giudice amministrativo sulla presente controversia.
23.1. L’appellante ha inteso negare
l’effettuazione della richiesta prestazione sanitaria non con la semplice
inerzia o con un mero comportamento materiale, agendo “nel fatto”, o adducendo
a motivo di tale mancato adempimento l’impossibilità tecnica della prestazione
richiesta o un impedimento di ordine fattuale, bensì con l’emanazione di un espresso
provvedimento, a firma del Direttore Generale della Sanità Lombarda, con il
quale essa ha sostenuto, sulla base di una propria interpretazione giuridica
dell’ordinamento settoriale ed esercitando un potere attinente
all’organizzazione del servizio, che le strutture sanitarie sono deputate alla
presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti e non possono procedere,
invece, alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale,
anche per la conseguente responsabilità del personale sanitario che tale
sospensione attuasse per il ritenuto venir meno ai propri obblighi
professionali e di servizio.
23.2. La Regione Lombardia, nel denegare
la prestazione richiesta mediante il contestato provvedimento, ha dunque
esercitato un proprio potere discrezionale, attinente all’organizzazione del
servizio sanitario, e l’esercizio di tale potere radica la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33, comma 1, del d.
lgs. 80/1998 e alla luce di quanto ha chiarito la Corte costituzionale nella
sentenza additiva n. 204 del 2004.
24. Non ignora questo Collegio la
prevalente giurisprudenza delle Sezioni Unite, pur ricordata dalla Regione
appellante, in materia dei cc.dd. diritti assoluti, incomprimibili e
inaffievolibili.
24.1. Ha chiarito anche di recente la
Suprema Corte che le controversie relative a tutte le prestazioni erogate dal
Servizio Sanitario Nazionale – ricorrendo un rapporto obbligatorio tra
cittadini e amministrazione, con l’esclusione di un potere autorizzatorio –
sono devolute alla competenza del giudice ordinario, ai sensi del criterio
generale di riparto delle giurisdizioni definito dalla l. 20 marzo 1865, n.
2248, all. E, art. 2, e presupposto dell’art. 442 c.p.c. (v., tra le tante,
Cass., Sez. Un., 22.2.2012, n. 2570 in Foro amm., C.d.S., 2012, 2, 263), e che
siffatto tipo di controversie non rientra in alcuna delle ipotesi di
giurisdizione esclusiva, ma neppure, trattandosi di diritto soggettivo
perfetto, nella giurisprudenza amministrativa di legittimità.
24.2. Alla base di tale consolidato
orientamento la sentenza appena citata ha ribadito che, ai fini del riparto
della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, la lesione
di una specifica pretesa, quale quella facente capo al diritto alla salute di
cui all’art. 32 Cost., è sufficiente, sulla base del criterio del petitum
sostanziale, che va identificato soprattutto in funzione della causa petendi e,
cioè, dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, a far
ritenere che la parte, quale assistita dal Servizio Sanitario Regionale, abbia
fatto valere un diritto soggettivo, oggetto della tutela garantita dall’art. 32
Cost. in favore di tutti i cittadini, e che, trattandosi di un diritto primario
e fondamentale, il pur necessario contemperamento con altri interessi non vale
a sottrargli la consistenza di diritto soggettivo perfetto.
24.3. Secondo la Suprema Corte la
posizione creditoria correlata al diritto alla salute non è per sua natura
suscettibile di essere affievolita dal potere di autorizzazione o, comunque,
dall’esercizio di qualsivoglia potere da parte della pubblica amministrazione.
24.4. Si sarebbe peraltro anche al di
fuori del perimetro della giurisdizione esclusiva, disegnato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004 relativa all’art. 33, comma 2,
lett. e), del d. lgs. 80/1998.
24.5. Analogamente, ad esempio, la Suprema
Corte ha stabilito che la controversia relativa al diniego dell’autorizzazione
ad effettuare cure specialistiche presso centri di altissima specializzazione
all’estero appartiene alla giurisdizione del g.o., giacché la domanda è diretta
a tutelare una posizione di diritto soggettivo – il diritto alla salute – non
suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica
attribuita in materia alla p.a., senza che rilevi che, in concreto, sia stato
chiesto l’annullamento dell’atto amministrativo, il quale implica solo un
limite interno alle attribuzioni del g.o., giustificato dal divieto di
annullamento, revoca o modifica dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 4,
l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, e non osta alla possibilità per il giudice
di interpretare la domanda come comprensiva della richiesta di declaratoria del
diritto ad ottenere l’autorizzazione ad effettuare le cure all’estero (Cass.,
Sez. Un., 6.9.2013, n. 20577, in Foro amm., C.d.S., 2013, 12, 3324).
24.6. Pure la giurisprudenza di questo
Consiglio, seppur in riferimento alle spese mediche sostenute all’estero,
riconosce la teoria dei diritti assoluti, declinando la propria giurisdizione
(Cons. St., sez. III, 11.7.2011, n. 4156, in Foro amm., C.d.S., 2011, 7-8,
2352).
25. Deve tuttavia darsi conto, come del
resto ha fatto il T.A.R. menzionando la sopra citata sentenza delle Sezioni
Unite, 28.12.2007, n. 27187, di un diverso orientamento, seguito appunto dalle
Sezioni Unite, secondo cui tale tesi – che si fonda sul presupposto che sui
diritti fondamentali protetti dalla Costituzione, in quanto gli stessi non sono
degradabili ad interessi legittimi, la p.a. agirebbe sempre in carenza assoluta
di potere e, quindi, i comportamenti posti in essere dalla stessa dovrebbero
sempre essere valutati, perché non fondati sull’esercizio di un potere, come
attività materiali e di mero fatto, riservate alla esclusiva cognizione del
giudice ordinario – non può essere condivisa, trattandosi di una tesi
sostenibile allorché il riparto di giurisdizione si fondava esclusivamente
sulla tradizionale bipartizione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi,
ma non più sostenibile dopo l’entrata in vigore del d. lgs. 80/1998, come
modificato dalla l. 205/2000 e ridisegnato dalle sentenze della Corte
costituzionale del 28.4.2004, n. 204, e dell’8.3.2006 n. 191.
25.1. A seguito della entrata in vigore di
detta normativa, infatti, in materia di giurisdizione esclusiva non rileva più,
al fine del riparto della giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice
ordinario, la distinzione tra diritti soggettivi ed interressi legittimi, anche
se vengono in considerazione diritti costituzionalmente protetti e non
suscettibili di affievolimento ad interessi legittimi, ma la distinzione tra
comportamenti riconducibili all’esercizio di pubblici poteri e meri
comportamenti, identificabili questi in tutte quelle situazioni in cui la
pubblica amministrazione non esercita - nemmeno mediatamente, e cioè
avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici –
alcun pubblico potere.
25.2. In un recente arresto la Cassazione
ha così ribadito il “principio, già affermato da questa Suprema Corte (cfr.
Cass. n. 27187 del 2007, resa a sezioni unite), secondo cui anche in materia di
diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali il diritto alla salute
(art. 32 Cost.) – allorché la loro lesione sia dedotta come effetto di un comportamento
materiale espressione di poteri autoritativi e conseguente ad atti della p.a.
di cui sia denunciata la illegittimità, in materie riservate alla giurisdizione
esclusiva dei giudici amministrativi, come quella della gestione del territorio
– compete a detti giudici la cognizione esclusiva delle relative controversie
in ordine alla sussistenza in concreto dei diritti vantati, al contemperamento
o alla limitazione di tali diritti in rapporto all’interesse generale pubblico
all’ambiente salubre, nonché alla emissione dei relativi provvedimenti
cautelari, che siano necessari per assicurare provvisoriamente gli effetti
della futura decisione finale sulle richieste inibitorie, demolitorie ed
eventualmente risarcitorie dei soggetti che deducono di essere danneggiati da
detti comportamenti o provvedimenti” (Cass., Sez. Un., 5.3.2010, n. 5290, in
Dir. proc. amm., 2010, 4, 1370).
25.3. La dottrina, anche nel prendere
spunto da tale pronuncia, non ha mancato di auspicare che si prosegua in questa
direzione e che la giurisprudenza prenda il coraggio di compiere l’ultimo passo
e, abbandonando la teoria dell’indegradabilità, attribuisca finalmente al g.a.
il ruolo che gli è assegnato dalla Costituzione: quello di titolare del potere
di attuare nel giudizio l’effettività dell’ordinamento.
25.4. Tale secondo orientamento, che
appare preferibile, è del resto avvalorato anche dalla normativa sopravvenuta –
pur non applicabile ratione temporis alla presente controversia, ma recettiva
della giurisprudenza costituzionale cristallizzatasi nelle sentenze n. 204 del
2004 e n. 191 del 2006 – e, in particolare, dal codice del processo
amministrativo, il cui art. 7, comma 1, radica la giurisdizione, di legittimità
ed esclusiva, del g.a. nelle controversie, nelle quali si faccia questione di
interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di
diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere
amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti
riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di tale potere, posti in
essere da pubbliche amministrazioni.
25.5. Non ignora nemmeno il Collegio che
in una vicenda amministrativa, che pure presenta innegabili e interessanti
profili di connessione al presente contenzioso, vicenda concernente
l’impugnazione dell’atto del Ministero del Lavoro, della Salute e delle
Politiche Comunitarie, con il quale sono state dettate ai Presidenti delle
Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano disposizioni ed indirizzi
volti a garantire che le strutture sanitarie pubbliche e private si uniformino
al principio di garantire sempre la nutrizione e l’idratazione artificiale nei
confronti di soggetti in stato vegetativo persistente, il T.A.R. Lazio, con la
sentenza n. 8650 del 12.9.2009 (in Foro amm., T.A.R., 2009, 2471-2476), ha
dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo proprio richiamandosi
alla teoria dei diritti indegradabili.
25.6. Non si è mancato tuttavia di
osservare, rispetto a tale pronuncia declinatoria della giurisdizione e, più in
generale, in ordine alla teoria dei cc.dd. diritti indegradabili, che
l’affermazione secondo cui taluni diritti non sarebbero suscettibili di
affievolimento nel contatto con il potere pubblico, in passato formulata, a
partire da Cass., Sez. Un., 9.3.1979, n. 1463, proprio per giustificare
interventi del giudice ordinario, ha avuto un effetto boomerang contro i
titolari di questi diritti, che si troverebbero sprovvisti della tutela
demolitoria, somministrata dal giudice amministrativo, proprio di fronte alle
violazioni più gravi di diritti costituzionalmente rilevanti.
25.7. E questo stesso Consiglio, nella
sentenza della sez. VI, 13.2.2006, n. 556, riguardante la pur complessa vicenda
dei crocefissi presenti nelle aule scolastiche, ha ricordato che “la concezione
dei diritti “perfetti” o “non degradabili” è stata elaborata per riconoscere
ulteriori possibilità di tutela per il cittadino, non certo per escludere forme
di tutela preesistenti” e che “di conseguenza da tale concezione non si può
desumere alcuna riduzione della legittimazione a ricorrere avanti al giudice
amministrativo”.
26. Ritiene il Collegio che il giudice
amministrativo, ai sensi dell’art. 33, comma 1, del d. lgs. 80/1998, nel testo
risultante dalla pronuncia della Corte cost. n. 204 del 2004, abbia
giurisdizione esclusiva, in materia di pubblici servizi, allorché
l’amministrazione rifiuti la prestazione sanitaria richiesta dal privato
mediante l’esercizio di un potere autoritativo, come è avvenuto nel caso di
specie, e all’esito di un procedimento iniziatosi ad istanza di parte.
26.1. Non giova invocare, in senso
contrario, la categoria dei cc.dd. diritti incomprimibili, poiché tale
categoria, sviluppata trentacinque anni or sono, ad opera delle Sezioni Unite
della Cassazione nella sentenza del 9.3.1979, n. 1463, in ordine alla
localizzazione delle centrali nucleari, e successivamente riaffermata dalle
Sezioni Unite per la tutela di diritti fondamentali quali quello alla salute e
all’ambiente, ha consentito al giudice ordinario di pronunciarsi su domande
tese ad ottenere sentenza di condanna nei confronti della pubblica amministrazione
nell’ambito di rapporti segnati dall’adozione di provvedimenti amministrativi.
26.2. Il presupposto teorico è che tali
diritti, pur nel contatto con il potere pubblico, non siano suscettibili di
essere degradati ad interessi legittimi: il provvedimento amministrativo non
avrebbe la forza di subordinare interessi così intimamente legati alla
realizzazione della persona e a cui l’ordinamento riconosce la protezione più
intensa.
26.3. Si è anche detto che l’espansione
dei poteri del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione
si basa sull’idea che il provvedimento che incida sui diritti fondamentali sia
il frutto di uno sconfinamento dell’Amministrazione dalla sfera di potere
attribuitale dall’ordinamento e delimitata anche dalle garanzie costituzionali
delle posizioni soggettive.
26.4. L’Amministrazione che adotti
provvedimenti lesivi di tali diritti agisce, secondo tale impostazione, “nel
fatto” e non è in grado, appunto, di affievolirne il contenuto inviolabile e
incomprimibile, sicché anche il preteso esercizio del potere, da parte
dell’Amministrazione, non radicherebbe la giurisdizione del giudice
amministrativo.
26.5. La dottrina dei diritti
incomprimibili deve ormai ritenersi priva di un solido e convincente sostegno
in un’ampia attenta e attenta ricognizione del nostro ordinamento e alla luce,
soprattutto, dei fondamentali principi affermati dalla Corte costituzionale
nelle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 in tema di riparto di
giurisdizione.
26.6. Essa non solo presuppone l’ormai
obsoleta teoria della degradazione, che non è in grado di descrivere
appropriatamente la dinamica delle situazioni giuridiche soggettive nel
confronto con il pubblico potere, ma non risponde più nemmeno al tradizionale
criterio che regola il riparto della giurisdizione e, cioè, il petitum
sostanziale e la natura sostanziale della situazione giuridica soggettiva lesa,
criterio che, a suo volta, necessita di essere letto e compreso alla luce delle
coordinate interpretative delineate dalla Corte costituzionale.
26.7. La “consistenza” di tale situazione,
che radica, a seconda dei casi, la giurisdizione del g.o. o del g.a., non può
essere aprioristicamente affermata sulla base dell’astratto suo contenuto od
oggetto – la salute o l’ambiente – ma deve essere apprezzata, in concreto e
nella mutevole dinamica del rapporto con l’amministrazione, rispetto
all’esercizio, seppur in forma mediata, del pubblico potere.
27. L’esercizio del pubblico potere non
“degrada” la situazione giuridica soggettiva del privato, con una sorta di
capitis deminutio, così come, per converso, la “forza” della situazione
giuridica soggettiva non annulla l’esercizio del potere.
27.1. Il nucleo sostanziale di tale
situazione giuridica soggettiva lesa, diritto soggettivo o interesse legittimo,
resta il medesimo, sul piano dell’ordinamento generale, e non può essere inciso
dall’esercizio del potere, se lo stesso ordinamento non riconosce
all’Amministrazione, per un superiore fine pubblico, la potestà di conformarlo.
27.2. Laddove l’Amministrazione vulneri
tale situazione del privato con un mero comportamento materiale o con una mera
inerzia, non legati in alcun modo, nemmeno mediato, all’esercizio di tale
potere, tale situazione di diritto soggettivo rientra nella cognizione del
giudice ordinario, al quale compete la tutela di tutti i rapporti tra il
privato e l’Amministrazione nei quali quest’ultima non abbia assunto la veste
di autorità, bensì abbia svolto un ruolo paritetico, a seconda dei casi, di
contraente o di danneggiante o, comunque, di soggetto assimilabile a
qualsivoglia parte di un normale rapporto giuridico iure privatorum.
27.3. Quando invece l’Amministrazione
pretenda di incidere sul rapporto mediante l’esercizio di un potere
pubblicistico, la situazione del privato che “dialoga” col potere e vi si
contrappone assume la configurazione dell’interesse legittimo, tutelabile
avanti al giudice amministrativo.
27.4. Il sostrato sostanziale della
situazione giuridica soggettiva è sempre il medesimo e non è degradato
dall’esercizio del potere né, per converso, potenziato dal ruolo di
superdiritto o diritto inaffievolibile.
28. Diverso è, invece, il modo con il
quale l’ordinamento considera e tutela tale situazione a seconda che essa debba
misurarsi con un mero comportamento dell’Amministrazione o, invece, con un
potere attribuito a questa dalla legge per il perseguimento di una determinata
finalità di interesse pubblico.
28.1. L’ordinamento disegna la medesima
situazione secondo “geometrie variabili”, pur nella garanzia di uno stesso
“nucleo” irriducibile, e ciò perché esso, nella sua totalità e nella sua
complessità, deve contemperare, su diversi e spesso interferenti livelli,
molteplici esigenze e proteggere, in un difficile bilanciamento, gli interessi
di diversi attori, pubblici e privati, sacrificando ora gli uni ora gli altri
alla luce di difficili e molteplici valutazioni, anzitutto di rilievo e di
impatto costituzionale.
28.2. La variabilità o, se si vuole, la
convertibilità di tali situazioni, rispetto alle quali appare improprio e fuorviante
predicare l’esistenza di diritti assoluti e “incomprimibili”, si rivela proprio
nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva e, in particolare, in quelle materie
nelle quali la distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo,
proprio per l’intima compenetrazione e “convertibilità” tra tali situazioni, è
così intesa e inestricabile che, per ragioni di effettività e di concentrazione
della tutela giurisdizionale, il legislatore ha ritenuto di doverne affidare la
cognizione ad un solo giudice, quello amministrativo, a condizione però, come
ha ben chiarito la Corte costituzionale, che tale cognizione si fondi
sull’esercizio, seppur in forma mediata, del potere, ragione vera, prima ed
ultima, che giustifica la giurisdizione del giudice amministrativo chiamato a
garantire la legalità nell’azione amministrativa
28.3. In questo quadro, pertanto, è il
concreto esercizio del potere pubblico a connotare la correlativa situazione
del privato e non viceversa.
28.4. La pretesa natura di “diritto
indegradabile” non può rendere nullo, tamquam si non esset, l’esercizio del
potere, sì da far affermare che l’Amministrazione, a fronte di esso, agisca
senza alcuna prerogativa pubblicistica e solo “nel fatto”, poiché il diritto
indegradabile non ha uno statuto “ontologico”, ma implica già un giudizio di
valore, un bilanciamento tra gli interessi in gioco, quello, pur fondamentale,
fatto valere dal privato e quello tutelato dall’Amministrazione con l’esercizio
del potere.
29. Discende da queste considerazioni che
il diritto alla salute, di cui il tutore di-OMISSIS- ha inteso far valere
l’attuazione con la sua richiesta, volta ad ottenere l’indicazione di una
struttura sanitaria ove ricoverare la figlia per la sospensione del trattamento
sanitario, ha incontrato nel caso di specie l’esercizio di un potere
autoritativo, da parte della Regione, inteso a negare tale pretesa e che, a
fronte di tale spendita del pubblico potere, non può che radicarsi la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di un pubblico
servizio come quello sanitario, ai sensi dell’art. 33 del d. lgs. 80/1998,
indipendentemente dalla natura, pur complessa e variabile per le ragioni sopra
dette, della situazione giuridica dedotta.
29.1. A tale conclusione non osta, come si
è detto, la natura “inviolabile” o “incomprimibile” di tale diritto, posto che,
come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 140 del 2007, “non
v’è alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi al giudice
ordinario la tutela dei diritti costituzionalmente protetti”, essendo anzi
evidente, proprio nell’evoluzione dello stesso ordinamento a partire dal d.
lgs. 80/1998, passando dalle riforme della l. 205/2000, sino alla l. 69/2009 e,
infine, all’adozione del vigente codice del processo amministrativo, la linea
evolutiva del nostro ordinamento che ha consentito di riconoscere al giudice
amministrativo, accanto alla tradizionale, ma pur sempre fondamentale, tutela
demolitoria, una pienezza e una varietà di strumenti e di poteri processuali
atti a garantire la effettività della tutela giurisdizionale.
29.2. Né giova opporre infine, come fa la
Regione, la circostanza che tale controversia atterrebbe comunque ad un
rapporto individuale di utenza ai sensi dell’art. 33, comma 2, lett. e), del d.
lgs. 80/1998, spettante alla cognizione del giudice ordinario chiamato a
verificarne solo se ne sussistano le condizioni previste ex lege, poiché tale
giurisdizione si radica e si giustifica appunto nell’ambito di un rapporto di
mera prestazione da parte dell’amministrazione in favore dell’utente, ove non
venga in rilievo l’esercizio di poteri pubblicistici, di stampo autoritativo e
organizzatorio.
29.3. Anche prescindendo dal rilievo
formale che l’art. 33, comma 2, del d. lgs. 80/1998 è stato dichiarato
illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004, più
volte richiamata, l’Amministrazione sostanzialmente non si presenta qui nella
veste privatistica di mera esecutrice di una prestazione dovuta, limitandosi ad
adempierla (o a non adempierla) materialmente secondo canoni e parametri
predefiniti ex lege, bensì in quella pubblicistica di autorità che esercita un
potere organizzatorio che si oppone al reclamato esercizio di un diritto.
30. In altri termini, per riassumere e
concludere sul punto, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, nel
caso di specie esclusiva ai sensi dell’art. 33, comma 2, lett. f), del d. lgs.
80/1998 applicabile ratione temporis, laddove l’Amministrazione, nell’ambito di
un pubblico servizio, si contrapponga al privato, come ha inteso fare la
Regione Lombardia, assumendo la veste autoritativa.
31. Nel merito, tutto ciò premesso sulle
questioni pregiudiziali, l’appello della Regione Lombardia è infondato.
32. Il provvedimento della Direzione
Centrale Sanità della Regione Lombardia non ha accolto l’istanza formulata da
-OMISSIS-, tutore di-OMISSIS-, sulla base di due distinti, per quanto connessi,
ordini di motivazioni.
32.1. Secondo la Regione, anzitutto, le
strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico
diagnostico-assistenziale dei pazienti e in tali strutture, hospice compresi,
deve essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione,
nell’’idratazione e nell’accudimento delle persone.
33.2. In particolare, ha soggiunto la nota
regionale, negli hospice possono essere accolti solo malati in fase terminale.
33.3. La Regione ha poi evidenziato una
seconda ragione ostativa all’accoglimento dell’istanza e, cioè, che il
personale sanitario, che procedesse, in una delle strutture del Servizio
Sanitario, alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali
verrebbe meno ai propri obblighi professionali e di servizio, anche in
considerazione del fatto che il provvedimento giurisdizionale, di cui il tutore
chiedeva l’esecuzione, non conterrebbe alcun obbligo formale di adempiere a
carico di soggetti o enti individuati.
34. Il T.A.R. lombardo, accogliendo il
ricorso proposto da -OMISSIS-, ha annullato il provvedimento regionale poiché
ha ritenuto che il diritto costituzionale di rifiutare le cure, riconosciuto
ad-OMISSIS- dalla sentenza della Cassazione e, in sede di rinvio, dalla Corte
d’Appello di Milano, è un diritto di libertà assoluto, efficace erga omnes e,
quindi, nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di
cura, sia nell’ambito di strutture sanitarie pubbliche che private.
34.1. La manifestazione di tale
consapevole rifiuto renderebbe doverosa la sospensione dei mezzi terapeutici,
il cui impiego non dia alcuna speranza di uscita dallo stato vegetativo in cui
versa la paziente e non corrisponda alla sua volontà.
34.2. Tale obbligo sussiste anche ove sia
sospeso il trattamento di sostegno vitale, con conseguente morte del paziente,
giacché tale ipotesi non costituisce, secondo il nostro ordinamento, una forma
di eutanasia, bensì la scelta insindacabile del malato di assecondare il
decorso naturale della malattia sino alla morte.
34.3. Il primo giudice ha anche rilevato,
sotto altro profilo, che rifiutare il ricovero ospedaliero, dovuto in linea di
principio da parte del Servizio Sanitario Nazionale a chiunque sia affetto da
patologie mediche, per il sol fatto che il malato abbia preannunciato la
propria intenzione di avvalersi del suo diritto alla interruzione del
trattamento, significa di fatto limitare indebitamente tale diritto.
34.4. L’accettazione presso la struttura
sanitaria pubblica non può, infatti, essere condizionata alla rinuncia del
malato ad esercitare un suo diritto fondamentale.
34.5. Né il rifiuto opposto
dall’Amministrazione alla richiesta del tutore, secondo il T.A.R., può
giustificarsi con ragioni attinenti all’obiezione di coscienza, poiché spetta
alla legge disciplinare compiutamente le modalità e i limiti entro i quali
possono assumere rilevanza i convincimenti intimi del singolo medico, ferma la
necessità che la struttura ospedaliera garantisca, comunque, la doverosità del
satisfacere officio.
35. La Regione appellante osserva,
anzitutto, che il T.A.R. non considera che la natura di trattamento sanitario
dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, pur dopo la pronuncia della
Cass., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, resta asserzione più che dubbia ed oggetto
di controversie scientifiche (pp. 22-25).
35.1. A sostegno di tale assunto la
Regione menziona il parere del Comitato nazionale per la bioetica del 30.9.2005
– secondo cui alimentare e idratare una persona, anche se assistita da una
struttura sanitaria, costituisce sostentamento ordinario di base, sicché
interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiale sarebbe una forma, dal
punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di abbandono del
malato – nonché la nota del 16.12.2008 del Ministro delle Politiche Sociali,
che invitava le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano ad adottare
le misure necessarie affinché l’ammalato non sia mai abbandonato e, se
disabile, non sia discriminato.
35.2. Le persone che versano, come si
trovava-OMISSIS-, in uno stato vegetativo permanente non necessiterebbero,
normalmente, di apparecchiature sofisticate o di specifiche terapie, ma solo di
accudimento (care), tanto che deve esser loro soltanto garantito il semplice
sostentamento ordinario di base e, cioè, la nutrizione e l’idratazione, sia che
vengano fornite per via naturale sia che vengano somministrate per vie
artificiali.
35.3. In conclusione, sostiene
l’appellante, errerebbe il T.A.R. nell’affermare che, nel caso di idratazione e
di alimentazione artificiale, ci si troverebbe in presenza di “atti medici” o
“trattamenti medici in senso proprio”.
36. La tesi dell’appellante è infondata.
36.1. Essa contrasta anzitutto, e
inammissibilmente, con quanto ha stabilito, ormai con autorità di giudicato, la
Suprema Corte di Cassazione, laddove ha ritenuto che “non v’è dubbio che l’idratazione
e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un
trattamento sanitario” e che “esse, infatti, integrano un trattamento che
sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi
proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come
composto chimico implicanti procedure tecnologiche” (Cass., sez. I, 16.10.2007,
n. 21478).
36.2. Siffatta qualificazione è, del
resto, convalidata dalla comunità scientifica internazionale, come ha osservato
la Suprema Corte.
36.3. Per questo, se anche si volesse per
absurdum prescindere, come pretende la Regione, dalla valutazione della
Cassazione, la tesi dell’appellante non meriterebbe condivisione.
37. La nutrizione e l’idratazione
artificiale costituiscono trattamenti medici.
37.1. La tesi della Regione appellante è,
in tal senso, destituita di fondamento scientifico né può trovare solido
conforto nel parere, per quanto autorevole sul piano morale, di una commissione
che non ha per legge competenze scientifiche in materia o di un mero atto di
indirizzo del Ministro delle Politiche Sociali, che proprio a tale parere si
richiama e che non può certo, per factum principis, imporre una definizione
scientifica di trattamento sanitario.
37.2. Il richiamo a tali atti, basterebbe
qui solo aggiungere, integra del resto una motivazione postuma, non presente
nel provvedimento impugnato, del tutto inammissibile, al di là della sua totale
inattendibilità sul piano scientifico.
37.3. Questo Consiglio già in una propria
precedente pronuncia ha chiarito che la nutrizione artificiale è un complesso
di procedure mediante le quali è possibile soddisfare i fabbisogni nutrizionali
di pazienti che non sono in grado di alimentarsi sufficientemente per la via
naturale (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 2.9.2013, n. 4364).
37.4. La società scientifica di
riferimento in Italia, la Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed
Enterale (SINPE), nelle sue Precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche
della nutrizione artificiale del gennaio 2007, ha definito appunto tale forma
di nutrizione come “un complesso di procedure mediante le quali è possibile
soddisfare i fabbisogni nutrizionali di pazienti non in grado di alimentarsi
sufficientemente per via naturale”.
37.5. Si distinguono, in particolare, due
tipi di nutrizione artificiale (NA): la forma parenterale, in cui i nutrienti
(acqua, glucosio, aminoacidi, elettroliti, grassi, vitamine, oligoelementi)
vengono immessi direttamente nella circolazione sanguigna attraverso una vena
di grosso calibro, e la forma enterale, in cui i nutrienti sono somministrati
direttamente nel tubo digerente mediante apposite sonde inserite dal naso
oppure attraverso orefizi creati chirurgicamente nell’addome (le cc.dd. stomie
e, tipicamente, la PEG, Percutaneous Endoscopic Gastronomy).
37.6. Nel caso di-OMISSIS- la nutrizione
artificiale era di tipo enterale e veniva somministrata tramite un sondino
naso-gastrico.
38. La SINPE, che ha fatto propria la
posizione di omologhe società internazionali, ha chiarito che “la NA è da
considerarsi, a tutti gli effetti, un trattamento medico fornito a scopo
terapeutico o preventivo” e che “la NA non è una misura ordinaria di assistenza
(come lavare o imboccare il malato non autosufficiente)” poiché essa ha, come
tutti i trattamenti medici, indicazioni, controindicazioni ed effetti
indesiderati.
38.1. L’attuazione della NA, proprio per
questo, presuppone e prevede il consenso informato del paziente o del suo
delegato, secondo le norme del codice deontologico.
38.2. La NA è dunque una procedura medica
complessa, che richiede un intervento invasivo sul corpo del malato – sia esso
l’inserimento del sondino dal naso-gastrico sino al lume gastrico o consista
esso nella creazione chirurgica di un orifizio attraverso il quale il sondino
stesso passa – e, con esso, la somministrazione, di regola mediante apposite
pompe, di nutrienti calibrati per qualità e quantità secondo la massa corporea
del paziente e le sue patologie e, infine, il periodico monitoraggio della situazione
nutrizionale e metabolica, tanto più necessario nell’ipotesi di paziente che da
lunghi anni versi in stato vegetativo permanente.
38.3. La decisione di somministrare al
paziente l’alimentazione e l’idratazione artificiale è, in tutto e per tutto,
il frutto di una strategia terapeutica che il medico, con il consenso informato
del paziente, adotta, valutando costi e benefici di tale cura per il paziente,
ed è particolarmente invasiva, per il corpo del paziente stesso, poiché
prevede, nel caso della nutrizione enterale, addirittura l’inserimento di un
sondino che dal naso discende sino allo stomaco o l’apertura di un orefizio,
attraverso un intervento chirurgico, nell’addome.
38.4. L’inserimento, il mantenimento e la
rimozione del sondino naso-gastrico o della PEG sono dunque atti medici,
previsti e attuati nell’ambito e in funzione di una precisa e consapevole
strategia terapeutica adottata con il necessario consenso del paziente.
38.5. L’alimentazione e l’idratazione
artificiale non possono in alcun modo essere considerati una forma di
alimentazione sui generis, quasi un regime dietetico a parte, un surrogato
della normale alimentazione e idratazione naturale.
38.6. Essi richiedono l’impiego di
particolari tecniche mediche, che devono essere poste in pratica da personale
specializzato, un costante monitoraggio della situazione nutrizionale e
metabolica, stante anche il particolare contenuto e gli eventuali effetti
indesiderati dei nutrienti forniti attraverso l’alimentazione e l’idratazione
artificiale, una valutazione della loro efficacia terapeutica che solo il
medico, e non altri, può compiere.
38.7. Tali osservazioni sono state
sostenute e fatte proprie dalle maggiori società scientifiche internazionali e
nelle conclusioni raggiunte dal Gruppo di Lavoro su nutrizione e idratazione
nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza, istituito con
Decreto del Ministro della Sanità del 20.10.2000 e rese pubbliche nel 2001.
39. La tesi della Regione, dunque, è
scientificamente infondata, oltre che giuridicamente inammissibile, e va
respinta.
40. Ancora, sviluppando un diverso ordine
di argomentazioni, la Regione appellante sostiene che, pur ammettendo che
l’idratazione e l’alimentazione costituiscano “cure mediche”, il richiamo,
decisivo, ai principi desumibili dall’art. 32 Cost. si rivelerebbe del tutto
improprio.
40.1. La disposizione costituzionale fissa
due principi fondamentali: quello di ricevere cure adeguate e quello di non
essere assoggettati a prestazione sanitarie non volute, se non nei casi
espressamente previsti dalla legge.
40.2. Nel caso in esame, invece, il tutore
non avrebbe richiesto per la figlia alcuna cura né avrebbe chiesto alla
pubblica amministrazione di prestare cure non volute, alle quali conseguirebbe
il vincolo del consenso informato, e neppure avrebbe richiesto di interrompere
cure inutili – o ritenute tali – che avrebbero sostanziato un accanimento
terapeutico.
40.3. -OMISSIS-, al contrario, avrebbe
richiesto al Servizio Sanitario Regionale di effettuare una prestazione –
distacco del sondino naso-gastrico accompagnato da ulteriori misure quali la
sedazione – che, come hanno dimostrato i fatti successivi, avrebbero condotto
fatalmente-OMISSIS- alla morte.
40.4. La difesa regionale assume che il
T.A.R. lombardo, nella propria decisione, abbia omesso di considerare che la
condizione in cui versava-OMISSIS- non potesse in alcun modo comportare
l’accoglimento della richiesta di un ricovero ai fini indicati nel decreto
della Corte d’Appello di Milano e dalla richiesta di -OMISSIS-.
40.5. L’obbligo del ricovero, da parte del
Sistema Sanitario Regionale, sussisterebbe infatti, secondo tale assunto, solo
nei casi in cui si debba (e si possa) curare una determinata patologia.
40.6. Ma lo stato vegetativo permanente in
cui versava la ragazza non poteva essere oggetto di una specifica prestazione,
quale quella richiesta, in una struttura del Servizio Sanitario Regionale.
40.7. Presso una struttura di tale
Servizio-OMISSIS-, sostiene la Regione, avrebbe potuto semmai essere assistita
e accudita, in conformità al suo stato persistente.
40.8. Ne sarebbe conferma il fatto che una
prestazione, come quella richiesta da -OMISSIS-, non solo non è prevista tra i
LEA (livelli essenziali di assistenza) o da qualsiasi altra norma, ma al
contrario risulta vietata in quanto contraria ai principi di accudimento e di
sostegno vitali sopra ricordati.
41. In assenza di una disposizione di
legge, che preveda una determinata prestazione a carico del Servizio Sanitario
Regionale, il T.A.R. non avrebbe quindi potuto imporre tale prestazione in capo
alla Regione Lombardia.
41.1. Ulteriore conferma di ciò si
trarrebbe dal fatto che, a carico dei sanitari che avessero ottemperato alla
richiesta, si sarebbe potuto configurare – e nei confronti dell’équipe di volontari
che ha accompagnato-OMISSIS- alla morte effettivamente si è configurata –
persino la fattispecie p. e p. dall’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente),
in quanto nell’ordinamento italiano non è previsto il “diritto di morire”,
essendo al contrario costituzionalmente e legislativamente consacrata
l’indisponibilità del bene alla vita.
41.2. Poiché-OMISSIS- si trovava, ormai da
17 anni, in stato vegetativo permanente, la Regione Lombardia aveva ritenuto
che interrompere l’accudimento – tanto più in una struttura del servizio
sanitario pubblico – avrebbe finito, oggettivamente e nonostante il contrario
convincimento del T.A.R., per integrare un comportamento non solo riconducibile
alla fattispecie dell’art. 579 c.p., ma contrario ai principi secondo cui, in
tutte le strutture del Servizio Sanitario Nazionale, deve essere garantita
l’assistenza di base, che si sostanzia nella nutrizione, nell’idratazione e
nell’accudimento delle persone.
42. La tesi della Regione non può essere
condivisa.
42.1. La complessa questione posta dal
motivo di censura, nell’assenza di una specifica regolamentazione legislativa
della materia, attiene al fondamentale diritto di autodeterminazione
terapeutica del paziente e al suo delicato rapporto con le strutture del
servizio pubblico deputate all’assistenza sanitaria.
42.2. La Regione muove da un presupposto
di principio e, cioè, che sotteso al concetto di “cura”, di cui
l’amministrazione deve farsi carico, vi sia un fondamentale principio di
beneficialità, alla stregua del quale le strutture del Servizio Sanitario
Nazionale devono garantire la vita e assicurare la salute del malato, sicché
l’obbligo del ricovero, da parte di questo, sussisterebbe solo nei casi in cui
si debba (e si possa) curare una determinata patologia.
42.3. Quando il malato decide e richiede,
invece, di interrompere un trattamento sanitario, come quello di cui si
discute, e di non ricevere più l’alimentazione e l’idratazione artificiale,
l’Amministrazione non sarebbe tenuta in alcun modo a soddisfare tale richiesta,
poiché compito di questa è, in sostanza, solo quello di garantire che il malato
sia mantenuto in vita, accudito e “curato”, nel senso appena precisato, e non
certo quello di assecondarne la volontà di interrompere la prestazione
sanitaria, mediante il distacco del sondino naso-gastrico, e di accompagnarlo
ad una “serena morte”.
42.4. Ciò configurerebbe, secondo tale
tesi, un “diritto a morire” che non trova spazio nel nostro ordinamento e,
soprattutto, non è contemplato dalla complessa disciplina di settore, che
regolamenta il Servizio Sanitario Nazionale, e tra i LEA, i livelli essenziali
di assistenza sanitaria.
42.5. La Regione trascura in questo modo
di considerare, però, che a base del proprio rifiuto di ricoverare l’assistito
essa ha inteso porre e imporre d’imperio una visione assolutizzante,
autoritativa, della “cura”, in termini di necessario beneficio per il paziente,
che si è illegittimamente sostituita alla volontà del paziente, al suo
specifico bisogno di cura e, in ultima analisi, al suo fondamentale e
incomprimibile diritto di autodeterminazione terapeutica, quale massima
espressione della sua personalità.
43. La Suprema Corte di Cassazione,
proprio nel caso di-OMISSIS-, ha affermato il fondamentale principio che il
consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le
diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare
la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi
della vita, anche in quella terminale.
43.1. Ciò è conforme al principio
personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona
umana un valore etico in sé; vieta ogni strumentalizzazione della medesima per
alcun fine eteronomo ed assorbente; concepisce l’intervento solidaristico e sociale
in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al
limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo,
in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in
considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e
filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.
43.2. Ed è altresì coerente, ha soggiunto
la Cassazione, con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa
come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e
psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha
di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal
soggetto nella sua esperienza.
43.3. Deve escludersi, ha stabilito ancora
la Suprema Corte, che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del
paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene
della vita.
43.4. Benché sia stato talora prospettato
un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un
divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti
vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di
essa, la Suprema Corte ha ritenuto che la salute dell’individuo non possa
essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.
43.5. Di fronte al rifiuto della cura da
parte del diretto interessato, ha chiarito ancora la Cassazione, c’è spazio –
nel quadro della c.d. “alleanza terapeutica”, che tiene uniti il malato ed il
medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi
culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito
dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà
concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il
dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale.
43.6. Ma, allorché il rifiuto abbia tali
connotati, non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi
come principio di ordine pubblico.
43.7. Lo si ricava dallo stesso testo
dell’art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei
soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che
li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno
alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi
utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte cost., sentenze n. 258 del 1994
e n. 118 del 1996).
43.8. Soltanto in questi limiti è
costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla
salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo
risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non
curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di
dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.
44. Ora è evidente che la pronuncia della
Suprema Corte, le cui argomentazioni salienti sono state sin qui richiamate e
riassunte, segna un momento decisivo nell’affermazione dell’autodeterminazione
terapeutica del paziente e, nel contempo, manifesta l’intervenuta acquisizione
della consapevolezza della centralità del paziente nel percorso di cura.
44.1. Dall’antico paternalismo medico, che
vedeva informazione e consenso del paziente rimessi integralmente
all’apprezzamento del medico, unico sostanzialmente a sapere e decidere cosa
fosse “bene”, in termini curativi, per il paziente, anche la nostra giurisprudenza,
dopo un lungo e travagliato percorso, è pervenuta così all’affermazione del
moderno principio dell’alleanza terapeutica, snodo decisivo sul piano culturale
prima ancor che giuridico, poiché riporta il singolo paziente, la sua volontà,
il suo consenso informato e, quindi, il singolo paziente quale soggetto e non
oggetto di cura al centro del percorso sanitario, nel quale medico e paziente
concorrono nella scelta della strategia terapeutica più rispondente alla
visione della vita e della salute propria della persona che si sottopone alla
cura.
44.2. La “cura” non è più quindi più un
principio autoritativo, un’entità astratta, oggettivata, misteriosa o sacra,
calata o imposta dall’alto o dall’esterno, che ciò avvenga ad opera del medico,
dotato di un elevato e inaccessibile sapere specialistico, o della struttura
sanitaria nel suo complesso, che accoglie e “ingloba” nei suoi impenetrabili
ingranaggi l’ignaro e anonimo paziente, ma si declina e si struttura, secondo
un fondamentale principium individuationis che è espressione del valore
personalistico tutelato dalla Costituzione, in base ai bisogni, alle richieste,
alle aspettative, alla concezione stessa che della vita ha il paziente.
44.3. La decisione terapeutica ha nel
consenso informato e nell’autodeterminazione del paziente il suo principio e la
sua fine, poiché è il paziente, il singolo paziente, e non un astratto concetto
di cura, di bene, di “beneficialità”, il valore primo ed ultimo che
l’intervento medico deve salvaguardare.
44.4. Nessuna visione della malattia e
della salute, nessuna concezione della sofferenza e, correlativamente, della
cura, per quanto moralmente elevata o scientificamente accettata, può essere
contrapposta o, addirittura, sovrapposta e comunque legittimamente opposta
dallo Stato o dall’amministrazione sanitaria o da qualsivoglia altro soggetto
pubblico o privato, in un ordinamento che ha nel principio personalistico il
suo fondamento, alla cognizione che della propria sofferenza e,
correlativamente, della propria cura ha il singolo malato.
44.5. Ciò non deve naturalmente comportare
un pericoloso soggettivismo curativo o un relativismo terapeutico nel quale è
“cura” tutto ciò che il singolo malato vuole o crede, perché nell’alleanza
terapeutica è e resta fondamentale l’insostituibile ruolo del medico nel
selezionare e nell’attuare le opzioni curative scientificamente valide e
necessarie al caso, ma solo ribadire che la nozione statica e “medicale” di
salute, legata cioè ad una dimensione oggettiva e fissa del benessere
psico-fisico della persona, deve cedere il passo ad una concezione soggettiva e
dinamica del concreto contenuto del diritto alla salute, che si costruisce
nella continua e rinnovata dialettica medico-paziente, di modo che tale
contenuto, dal suo formarsi, al suo manifestarsi sino al suo svolgersi,
corrisponda effettivamente all’idea che di sé e della propria dignità,
attraverso il perseguimento del proprio benessere, ha il singolo paziente per
realizzare pienamente la sua personalità, anzitutto e soprattutto nelle scelte,
come quelle di accettare o rifiutare le cure, che possono segnarne il destino.
44.6. Nella sentenza n. 438 del 2008 la
Corte costituzione ha ben sottolineato, al riguardo, che il consenso informato,
che legittima il trattamento medico, abbia fra l’altro la “funzione di sintesi”
proprio tra autodeterminazione e salute.
44.7. Si tratta di diritti fondamentali
che proprio nella sintesi del consenso informato, nell’ambito dell’alleanza
terapeutica, trovano il loro indefettibile, irriducibile, incomprimibile equilibrio
a tutela della persona quale valore in sé nell’ambito del nostro ordinamento
(art. 2 Cost.).
45. Il Collegio non ignora che
l’affermazione di tale principio, proprio nel caso di-OMISSIS-, mentre ha posto
fine, almeno in via generale, alle complesse questioni che investono il diritto
alla salute e il consenso informato, altre ne ha aperte, più complesse e
spinose, sul piano civilistico, penalistico e, come mostra la presente vicenda,
anche amministrativo, nella ricostruzione del rapporto tra consenso informato e
responsabilità del medico, singolarmente, o del servizio sanitario nel suo
complesso.
45.1. L’assenza di una specifica
disciplina legislativa, che sia intervenuta, almeno attraverso una normazione
di principio, a regolamentare le cc.dd. direttive anticipate di trattamento e a
chiarire il contenuto di tale complesso rapporto, aggrava certo la risoluzione
di tale questioni e rende arduo all’interprete ricostruire, in un’operazione
ricognitiva di più vasto e sistematico respiro, il quadro ordinamentale.
45.2. Un intervento legislativo è tanto
più necessario e indilazionabile per i delicati profili connessi alla
vincolatività delle direttive anticipate di trattamento date dal paziente nei
confronti del medico, che in altre esperienze giuridiche, come quello tedesca e
spagnola, ha ricevuto una risposta positiva, ad esempio, con la previsione
della c.d. Patientenverfügung (§ 1901a del BGB) o con la legge n. 41 del
14.11.2002 nell’ordinamento iberico; per la eventuale responsabilità penale del
medico, a titolo di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), che con una
condotta attiva e non solo omissiva, seppure su richiesta espressa del
paziente, interrompa le cure e ne determini la morte, che si ritiene, seppur
non senza contrasti, sia scriminata, ai sensi dell’art. 51 c.p., proprio
dall’adempimento di un dovere; sull’eventuale previsione dell’obiezione di
coscienza, dovendosi comunque garantire la libertà di coscienza che ciascun
medico, nella propria autonomia professionale, indubbiamente ha; sull’organizzazione,
da ultimo ma non per ultimo, della struttura sanitaria e del personale medico
chiamato a ricevere e ad attuare le direttive anticipate di trattamento e sui
relativi protocolli, come è avvenuto, ad esempio, nelle modifiche normative di
recente apportate al Code de la santé publique in Francia.
45.3. Si tratta di problemi di enorme
ampiezza e complessità, che richiedono e attendono, ormai da troppo tempo, un
intervento legislativo a colmare quello che è stato definito un inquietante
“spazio libero dal diritto” (rechtsfreier Raum), nel quale, in mancanza di
specifiche previsioni circa la effettività, la serietà e la consapevolezza del
consenso informato espresso dal paziente, specialmente nei casi in cui questo
versi ormai in uno stato di incapacità o di incoscienza, e circa la correttezza
delle procedure mediche da adottarsi per accertarlo ed attuarlo, come ha
avvertito la più sensibile dottrina penalistica (e non solo), potrebbero
trovare – e talvolta drammaticamente trovano – fertile terreno, una volta
riconosciuto il principio dell’autodeterminazione e sulla linea di un temuto
c.d. pendio scivoloso (slippery slope), forme silenti o striscianti di non
consentita eutanasia.
45.4. Ma nell’attuale situazione
dell’ordinamento, che ai principi costituzionali e alla loro diretta efficacia
deve uniformarsi, e sul piano dell’azione amministrativa e di un corretto o
meno esercizio del potere, che qui solo rileva, il vuoto normativo, come anche
la mancata previsione di specifiche misure organizzative nella legislazione del
servizio sanitario nazionale o nei livelli essenziali di assistenza, non può
certo risolversi nel diniego di eseguire la prestazione sanitaria e ancor meno,
a fronte di tale illegittimo rifiuto, in un diniego di tutela giurisdizionale e
conseguentemente, per il principio ubi ius, ibi remedium, nella sostanziale
negazione di un diritto fondamentale, come quello di cui si discute, anzi del
più fondamentale e inviolabile dei diritti, quello sulla propria vita e sul
proprio corpo, nella concezione e nella proiezione che ciascuno ha di sé e
della propria dignità, anche rifiutando le cure, giacché il diritto alla salute
ha un nucleo irriducibile, protetto dalla Costituzione “come ambito inviolabile
della dignità umana” (Corte cost., sentenza n. 309 del 1999).
45.5. Indubbiamente l’affermazione di un
principio, come quello del diritto alla salute e del consenso informato, non
può non tener conto che esso, oltre ad essere un diritto assoluto e inviolabile
e, come tale, efficace erga omnes e, in particolare, nei riguardi del medico, è
anche un diritto soggettivo pubblico o diritto sociale che, nella dinamica del
suo svolgersi e del suo concreto attuarsi, ha per oggetto una prestazione
medica che ha quali necessari e primari interlocutori le strutture sanitarie e,
in primo luogo, il Servizio Sanitario Nazionale.
45.6. Esso ha una natura ancipite, per
così dire, ed è un diritto che ha una indubbia valenza privatistica, in quanto
massima ed inviolabile espressione della personalità individuale, ma anche una innegabile
connotazione pubblicistica, perché può e deve, se lo richiede la sua
soddisfazione, trovare adeguata collocazione e necessaria attuazione
all’interno del servizio sanitario, non potendo dimenticarsi che la salute,
anche nella declinazione personalistica che è venuta ad assumere nel nostro
ordinamento, è pur sempre, insieme, diritto fondamentale dell’individuo e
interesse della collettività (art. 32 Cost.).
45.7. Bene è stato osservato in dottrina
che tuttavia, riguardato solo sul versante “privatistico” e ambientato
unicamente nella relazione medico-paziente, il consenso informato presenta la
duplice e paradossale caratteristica di essere un diritto fortemente affermato,
ma debolmente tutelato, mentre solo la diretta responsabilizzazione dell’organizzazione
sanitaria consente di non vedere sacrificato, nell’eventuale conflitto tra
medico e paziente, il diritto fondamentale di quest’ultimo.
45.8. In questa prospettiva non si deve
perciò trascurare, come ha osservato la Corte costituzionale, che “organizzazione
e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri
implicandosi e condizionandosi reciprocamente” e che “non c’è organizzazione
che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così
come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l’organizzazione” (Corte
cost., sentenza n. 383 del 1998).
46. Ora proprio la vicenda qui in esame è
esemplare di tale stretta e vitale interrelazione, interrelazione che, come si
è già accennato, radica la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
46.1. A fronte del diritto, inviolabile,
che il paziente ha, e – nel caso di specie – si è visto dal giudice ordinario
definitivamente riconosciuto, di rifiutare le cure, interrompendo il
trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da
parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale
diritto possa essere concretamente esercitato, non potendo essa contrapporre a
tale diritto una propria nozione di prestazione sanitaria né subordinare il
ricovero del malato alla sola accettazione delle cure.
46.2. “Cura” non è infatti ciò che
l’Amministrazione ritiene di proporre o imporre al paziente, in una visione
autoritativa di salute che coincida solo con il principio di beneficialità –
poiché è la cura a dover adattarsi, nei limiti in cui ciò sia scientificamente
possibile, ai bisogni del singolo malato e non il singolo malato ad un astratto
e monolitico concetto di cura – ma il contenuto, concreto e dinamico,
dell’itinerario umano, prima ancor che curativo, che il malato ha deciso di
costruire, nell’alleanza terapeutica con il medico e secondo scienza e
coscienza di questo, per il proprio benessere psico-fisico, anche se tale
benessere, finale e transeunte, dovesse preludere alla morte.
46.3. Opzione curativa, strategia
terapeutica e cura è anche, in questo senso, il diritto e la possibilità di
interrompere il trattamento sanitario, già intrapreso e non più voluto o
tollerato; la decisione di vivere sul proprio corpo la propria malattia al di
là o al di fuori di un pregresso o anche di un qualsivoglia percorso
terapeutico; la scelta consapevole e informata, per quanto tragica, di
accettare serenamente, anche sol lenendo l’acuirsi della sofferenza, la
progressione inarrestabile del male fisico sino alla morte; l’applicazione
delle fondamentali cure palliative, ora disciplinate dalla l. 15 marzo 2010, n.
38, e non a caso collocate dall’art. 1 di tale legge, con una previsione che ha
un indubbio valore sistematico, nell’ambito dei livelli essenziali di
assistenza, e la c.d. terapia del dolore, l’accompagnamento del paziente nella
fase terminale della malattia.
46.4. Non è giuridicamente accettabile né
scientificamente corretto, prima ancor che contrario ad ogni senso e principio dell’umanità,
che esso sia di stampo personalistico o solidaristico, affermare o anche
implicitamente ritenere che, anche dopo il rifiuto di un trattamento sanitario
da parte del paziente, il tratto terminale della vita, che lo separa
dall’interruzione della cura alla più che probabile morte, non possa e non
debba anch’esso essere bisognoso e, quindi, meritevole di cura e di presa in
carico da parte del Servizio Sanitario Nazionale, seppur nella declinazione di
un concetto di “cura” diverso, nel mutato intendimento del paziente, da quello
seguito sino a quel momento.
46.5. Non può dunque l’Amministrazione
sanitaria sottrarsi al suo obbligo di curare il malato e di accettarne il
ricovero, anche di quello che rifiuti un determinato trattamento sanitario
nella consapevolezza della certa conseguente morte, adducendo una propria ed
autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria che, in termini
di necessaria beneficialità, contempli e consenta solo la prosecuzione della
vita e non, invece, l’accettazione della morte da parte del consapevole
paziente.
46.6. Tale condotta, illegittima, non è
soltanto contraria all’inviolabile principio personalistico, di cui è
espressione l’informata e volontaria scelta di rifiutare le cure da parte del
paziente, ma anche all’altrettanto fondamentale principio solidaristico, poiché,
come si è già supra chiarito, il richiesto distacco del sondino naso-gastrico
voluto dal paziente, ancor prima e più delle pur invocate successive cure
palliative e della sedazione, è – al pari del suo posizionamento e, appunto,
quale contrarius actus di questo – un atto medico, che richiede la necessaria
cooperazione della struttura sanitaria.
46.7. Non è qui solo questione di un
paziente incapace, perché in stato vegetativo permanente, quale era-OMISSIS-,
poiché qualsivoglia paziente, anche quello capace, non è in grado, da solo e
senza procurarsi ulteriori e gratuite sofferenze, di estrarre il sondino dal
naso, ponendo termine definitivamente all’alimentazione e all’idratazione
artificiale, e di predisporre le necessarie cautele atte ad evitare che tale
operazione avvenga senza pericoli immediati o atroci dolori.
46.8. L’interruzione del trattamento
sanitario non è quindi e soltanto, nell’ambito di un rapporto obbligatorio,
preciso adempimento di un obbligo giuridico, quello di interrompere cure non
volute in presenza di un espresso rifiuto del paziente, ma anche preciso
adempimento di un più generale dovere solidaristico, che impone
all’Amministrazione sanitaria di far cessare tale trattamento, senza cagionare
sofferenza aggiuntiva al paziente, laddove egli non voglia più accettarlo, ma
non sia tecnicamente in grado di farlo da sé.
46.9. Non vi è dubbio, in tale
prospettiva, che l’attuazione del diritto alla salute, proprio per la sua
peculiare conformazione e anche nella sua forma di libertà negativa dalla cura,
passa attraverso la necessaria intermediazione dell’attività prestata
dall’Amministrazione sanitaria e, quindi, attraverso la doverosità di tale
prestazione e il contenuto obbligatorio di questa, non essendo il paziente,
anche quello capace di esprimere la sua volontà, in grado di soddisfarlo da sé,
senza la obbligatoria collaborazione del Servizio Sanitario Nazionale, se si
eccettuano quelle ipotesi in cui egli, per la (almeno apparente) semplicità
tecnica dell’attività richiesta, è in grado di soddisfarla da sé (come, ad
esempio, smettere di prendere un farmaco salvavita).
47. In capo all’Amministrazione sanitaria,
dunque, sussiste un vero e proprio obbligo di facere, poiché solo mediante la
prestazione della struttura sanitaria è possibile che il diritto del paziente,
di fronte al rifiuto del singolo medico, trovi attuazione, né rileva che tale
obbligo non sia espressamente affermato dal provvedimento giurisdizionale a
carico dell’Amministrazione, poiché esso discende direttamente dalla natura e dall’oggetto
del diritto riconosciuto al paziente alla luce dei principi costituzionali
direttamente applicabili.
48. Il rifiuto opposto dalla Regione,
d’altro canto, si pone in contrasto anche con il principio di imparzialità
(art. 97 Cost.), poiché fa dipendere l’accettazione del malato in una struttura
sanitaria, come ha correttamente rilevato il T.A.R., dal suo atteggiamento nei
confronti della cura, dalla sua accettazione di un certo standard terapeutico,
quasi sia la cura in sé e non il malato, singolarmente, il valore giuridico
difeso e il precipuo fine del potere esercitato dall’Amministrazione.
49. Non può condividersi nemmeno la tesi
della Regione appellante nella parte in cui essa deduce che i sanitari che
avessero acceduto alla richiesta del tutore avrebbero posto in essere una
fattispecie delittuosa e, più precisamente, l’omicidio del consenziente p. e p.
dall’art. 579 c.p.
50. La Regione solleva certo un problema
delicato, quello della responsabilità penale del personale medico che proceda
materialmente al distacco del sondino o all’interruzione di un trattamento
sanitario di sostegno vitale, che è stato variamente affrontato e risolto dalla
giurisprudenza e dalla dottrina, pur non senza dubbi e contrasti, pervenendosi
perlopiù all’affermazione che il medico, proprio per la sua posizione di
garanzia nei confronti del paziente, nel rispettare la volontà di interrompere
le cure, manifestata da questi, adempia un dovere, ai sensi dell’art. 51 c.p.,
e che pertanto il suo comportamento sia scriminato e, quindi, non
antigiuridico, ma al contrario doveroso in ossequio a superiori precetti
costituzionali.
51. Proprio nel caso del personale
sanitario che procedette al distacco del sondino naso-gastrico di-OMISSIS-, pur
citato dalla Regione appellante, il G.I.P. di Udine ha disposto l’archiviazione
nei confronti del personale sanitario che procedette all’interruzione del
trattamento sanitario, ritenendo sussistente la scriminante dell’adempimento
del dovere prevista dall’art. 51 c.p.
52. La questione, certo grave e complessa,
non può essere affrontata e risolta nella presente sede, ma rende sempre più
necessario e urgente un intervento del legislatore, che contribuisca a
dissipare tutte le contestazioni sorte, anche sul piano penalistico, rispetto a
simili condotte, anche per un principio di non contraddizione dell’ordinamento
che, da un lato, non può consentire il diritto di rifiutare le cure e,
dall’altro, incriminare chi tale diritto materialmente attui, interrompendole,
come pure fu già rilevato dal G.U.P. del Tribunale di Roma, per il noto caso di
-OMISSIS-, nella sentenza n. 2049 del 17.10.2007 (in Riv. it. dir. proc. pen.,
2008, p. 437 e ss.).
53. Certo – ed è quanto solo rileva ai
fini del presente giudizio – non compete alla Regione far valere, rivestendo
anticipatamente un ruolo difensivo, presunti profili di responsabilità del
personale medico, con l’affermazione, implicita ma chiara, che eseguire la
volontà del tutore significherebbe compiere un delitto, poiché tale
affermazione, oltre che impropria, è errata, essendo tale comportamento
scriminato, proprio come dimostra la vicenda in questione.
54. La Regione contesta ancora, al punto
c) del proprio appello (pp. 27-29), che nel caso di-OMISSIS- non vi era una
richiesta finalizzata alla presa in carico assistenziale del paziente, al fine
di sottoporlo a cura o terapia, bensì la richiesta di ricovero al solo
esclusivo fine, diretto e automatico, di determinarne la morte mediante
l’interruzione assistita del sostegno vitale, come i fatti successivi hanno dimostrato.
54.1. L’appellante ha inteso ribadire che
le strutture del Servizio Sanitario Regionale sono deputate alla presa in
carico diagnostico-assistenziale dei pazienti e non a prestazioni che si
sostanzino nell’interruzione attiva dell’assistenza di base.
54.2. Ciò significherebbe, come si legge
nel ricorso (p. 28), che su un piano generale un paziente, o chi per esso, può
decidere di andare o meno in ospedale e di sottoporsi o meno ad un trattamento
(c.d. autodeterminazione terapeutica), ma non può chiedere ad una struttura del
Servizio Sanitario Nazionale di praticargli un trattamento, attivo o passivo,
che ne determini la morte.
54.3. Non condivisibile sarebbe, infine,
il rilievo del T.A.R. concernente l’obiezione di coscienza, poiché, secondo
l’appellante, il giudice di prime cure avrebbe affermato, in modo del tutto
tautologico, che la legge non prevede, in questi casi, la possibilità per il
medico e infermieristico di astenersi dalle prestazioni per ragioni
etico-morali.
54.4. Ma la legge, sottolinea la Regione
Lombardia, non prevede questa specifica situazione di astensione per il
semplice motivo, più volte rammentato dallo stesso T.A.R., che la fattispecie
non è positivamente disciplinata dalla legge.
54.5. L’appellante censura la sentenza per
aver usato “due pesi e due misure” (p. 29 del ricorso) e rileva che il fatto
che non ci sia una legge sul fine vita non ha impedito al T.A.R. di ritenere
sussistente un obbligo di facere della p.a. in nome di pronunce
giurisprudenziali particolarmente controverse, mentre lo stesso fatto che una
legge non ci sia impedirebbe, invece, di riconoscere un diritto del medico
all’obiezione di coscienza.
54.6. Si tratterebbe di “due pesi e due
misure inspiegabili”, secondo la Regione Lombardia, poiché formalmente la situazione
giuridica sarebbe sempre la stessa, sicché da un lato si deduce dall’art. 32
Cost. il preteso diritto alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione
artificiali e, dall’altro, si nega l’esistenza di un diritto all’obiezione di
coscienza che, invece, potrebbe a buon diritto e pianamente dedursi
direttamente dall’art. 21 Cost., secondo lo stesso procedimento interpretativo
seguito nel primo caso.
55. Anche queste ulteriori argomentazioni
critiche, sviluppate dall’appellante, non sono meritevoli di positivo
apprezzamento da parte del Collegio.
55.1. Ancora una volta la Regione
appellante intende riproporre, con esse, e imporre al paziente una visione
autoritativa di “cura” che, in nome di una riduttiva e unilaterale visione
della “presa in carico diagnostico-assistenziale”, trascura di considerare la
volontà del paziente e le sue inviolabili aspettative di vita, anche in
relazione alla malattia e alla cura, e nell’infondato timore del c.d. abbandono
terapeutico, che invece proprio la richiesta di ricovero mira a scongiurare,
concretizza nei fatti un rifiuto di cura e un tradimento di quell’alleanza
terapeutica nella quale può solo correttamente esplicarsi, secondo il
fondamentale principio del consenso informato, la dialettica medico/paziente, costringendo
quest’ultimo a subire, nella propria vita e sul proprio corpo, le strategie di
intervento medico e, in fin dei conti, le decisioni sul proprio percorso
esistenziale-curativo da lui non volute né più, comunque, condivise.
55.2. Altro e più complesso problema,
naturalmente, è quello della c.d. obiezione di coscienza e dell’eventuale
rifiuto, da parte del singolo medico, di effettuare una prestazione, ritenuta
in scienza e coscienza contraria alle sue più profonde convinzioni etiche e/o
ai suoi doveri professionali, come quella di interrompere l’alimentazione e
l’idratazione artificiale, provocando la morte del paziente.
55.3. È questo indubbiamente un punto
critico e uno snodo fondamentale del rapporto tra autodeterminazione del
paziente e autonomia professionale del medico, nel quale tali fondamentali
principi, che devono essere entrambi preservati in un ragionevole punto di
equilibrio, possono venire a conflitto.
55.4. La ricerca di tale punto di
equilibrio rende tanto più indispensabile ed urgente un intervento legislativo
che, eventualmente, preveda l’obiezione di coscienza del personale sanitario, a
tutela della sua incomprimibile sfera di autonomia professionale e del suo foro
“interno”, predisponendo nel contempo le misure atte a garantire che l’interruzione
del trattamento medico sia comunque garantita al paziente che ne faccia
legittima richiesta dal Servizio Sanitario Nazionale, nel suo complesso, e
dalle strutture e dal personale all’uopo designati.
55.5. Non spetta comunque alla Regione sollevare
un’obiezione di coscienza della struttura sanitaria nel suo complesso,
attenendo l’obiezione di coscienza, per sua stessa natura, al foro interno del
singolo e non certo all’istituzione pubblica nel suo complesso, che al
contrario deve attrezzarsi, nonostante il rifiuto del singolo sanitario dovuto
a ragioni di autonomia professionale e morale, per garantire l’effettuazione di
una prestazione doverosa.
55.6. Bene è stato osservato in dottrina,
al riguardo, che a chi avanza motivi di coscienza si può e si deve obiettare
che solo gli individui hanno una “coscienza”, mentre la “coscienza” delle
istituzioni è costituita dalle leggi che le regolano.
55.7. La risoluzione del potenziale
conflitto tra libertà del paziente e coscienza del medico, anche prescindendo
dal ruolo della “coscienza” di cui la Regione intende impropriamente farsi
portavoce, non può del resto trovare il proprio punto di equilibrio nella
totale compressione della prima, come assume la Regione, assegnando una
aprioristica prevalenza alla seconda e determinando, perciò, l’illegittimo
rifiuto della struttura sanitaria o dell’intero Servizio Sanitario Regionale,
nella sua totalità, a ricoverare il paziente che ne faccia richiesta.
55.8. L’assolutizzazione dell’autonomia
professionale e l’enfatizzazione della coscienza medica, che la Regione intende
difendere, annullano infatti la libertà di autodeterminazione del paziente,
rimettendone la concreta attuazione alla mercé delle ragioni, pur moralmente
elevate, del medico, con una regressione a quel paternalismo medico e a quel
“dovere di cura” che, invece, la Suprema Corte ha inteso superare,
nell’attuazione dei principi costituzionali, con la sentenza del 16.10.2007, n.
21748.
55.9. Si può quindi prescindere in questa
sede dalla delicata questione se l’obiezione di coscienza, per essere ammessa,
richieda o meno l’interpositio legislatoris, poiché tale questione, che pure
dovrebbe o dovrà essere al più presto oggetto di meditazione in sede
parlamentare e, quindi, di previsione in sede normativa, non è decisiva ai fini
del presente giudizio, non potendo certo l’obiezione di coscienza, ammissibile
o meno che sia anche per la sola invocata efficacia immediata dell’art. 21
Cost., essere opposta, a tutela dei singoli, dalla struttura sanitaria nella
sua totalità.
56. La Regione appellante, con un
ulteriore ordine di argomentazioni sviluppate al punto d) (pp. 29-31 del
ricorso), assume che l’obbligo, imposto dal T.A.R., di indicare la struttura
per eseguire il trattamento interruttivo dell’idratazione e dell’alimentazione
di-OMISSIS- sia stato emanato, al di là degli eventuali profili penalistici, in
violazione delle norme che prevedono i doveri del Servizio Sanitario Nazionale,
dal d. lgs. 502/1992 al d.P.C.M. sui LEA del 29.11.2001).
56.1. Secondo il primo giudice è
l’assolutezza del diritto costituzionale di rifiutare il trattamento sanitario
a giustificare la determinazione, contenuta in sentenza, di tale obbligo in
capo al Servizio Sanitario Nazionale.
56.2. È opinabile, secondo la Regione, che
dall’art. 32 Cost., il quale contempla un diritto individuale alla salute, si
possa non solo desumere un diritto assoluto a rifiutare ogni sostegno vitale e
a disporre così della propria vita, ma anche un corrispondente obbligo delle
strutture pubbliche a prestarsi, senza alcuna eccezione, a soddisfare questo
desiderio, espresso, per di più, tramite il tutore.
56.3. La Regione dubita fortemente che
tale incondizionato obbligo di facere possa desumersi non già da una fonte
legislativa, ma da una regola di diritto ricavata in via interpretativa,
proprio in una materia caratterizzata dall’assenza di una legislazione
specifica.
56.4. La sentenza impugnata afferma
nettamente che una tale regola di diritto non avrebbe minore effetto
conformativo, sull’Amministrazione, di una disposizione legislativa esplicita.
56.5. Ma la difesa regionale respinge in
toto una simile affermazione, soprattutto in materie tanto delicate, che
coinvolgono diritti fondamentali.
57. Anche tali ragioni sono destituite di
fondamento.
57.1. Non è pertinente e, comunque, non
decisivo il richiamo, peraltro generico, alle norme che disciplinano il
Servizio Sanitario Nazionale e i LEA, che secondo tale tesi sarebbero state
violate dal T.A.R.
57.2. Tale argomentazione, che costituisce
peraltro una inammissibile motivazione postuma da parte dell’Amministrazione,
tralascia di considerare che le prestazioni richieste, per espressa ammissione
della stessa Regione, attengono al sostegno vitale dell’ammalato e dunque il
loro contenuto e grado di essenzialità, sul piano assistenziale, non mutano
certo a seconda della richiesta del paziente (o del suo tutore), sì che esse
paradossalmente rientrano nei LEA, se tale richiesta abbia ad oggetto la loro
somministrazione, e ne sono escluse, invece, se il paziente domandi di
sospendere tale somministrazione.
57.3. Nemmeno appaiono condivisibili i
motivi critici dell’appellante incentrati sulla portata dell’art. 32 Cost.
57.4. L’impostazione seguita dalla Regione
non risponde e non si attiene, infatti, al fondamentale principio che anima
l’art. 32 Cost. e, cioè, l’idea stessa di salute individuale come profilo
attraverso il quale l’ordinamento contribuisce alla realizzazione della
personalità del singolo.
57.5. Questo principio, di immediata
efficacia e di diretta applicazione, dà diritto ad una prestazione positiva da
parte dell’Amministrazione, prestazione complessa che va dall’accoglimento del
malato alla comprensione delle sue esigenze e dei suoi bisogni, dall’ascolto
delle sue richieste alla diagnosi del male, dall’incontro medico/paziente alla
nascita all’elaborazione di una strategia terapeutica condivisa, alla
formazione del consenso informato all’attuazione delle cure previste e volute,
nella ricerca di un percorso anzitutto esistenziale prima ancor che curativo,
all’interno della struttura sanitaria, che abbia nella dimensione identitaria
del malato, nella sua persona e nel perseguimento del suo benessere
psico-fisico, il suo fulcro e il suo fine.
57.6. Al centro di questa complessa
prestazione sta infatti il malato, in tutta la sua complessa e spesso fragile
umanità, non certo un concetto astratto e, comunque, imposto di cura.
57.7. Questa nuova dimensione della
prestazione sanitaria risponde alle esigenze più profonde di un moderno diritto
amministrativo prestazionale (c.d. Leistungsverwaltungsrecht), volto
all’erogazione, cioè, di un servizio pubblico fondamentale e di essenziali
livelli di assistenza sanitaria (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III,
17.12.2013, n. 6024).
57.8. In questi livelli rientrano e devono
rientrare, pena l’incostituzionalità di un simile sistema, anche le cure
connesse e conseguenti alla volontà di interrompere un trattamento sanitario di
sostegno vitale, come l’alimentazione e l’idratazione artificiale, né la
carenza del quadro normativo in materia, che non si è posto ancora al passo dei
principi costituzionali, l’insufficienza o l’arretratezza della legislazione
sanitaria o l’assenza di normae agendi o di adeguate misure organizzative può
esimere l’Amministrazione sanitaria dall’erogare un doveroso servizio, come
quello di cura del malato nel senso sopra inteso.
57.9. L’obbligo di facere in capo
all’Amministrazione non discende solo dall’espressa volontà di interrompere il
trattamento sanitario, manifestato dal malato, e quindi nell’attuazione
dell’inviolabile principio personalistico, ma anche dall’adempimento di un
indefettibile dovere solidaristico, che impone allo Stato e, per esso,
all’amministrazione sanitaria di aiutare la persona a rimuovere gli ostacoli di
fatto, di ordine fisico o psichico, che non le consentono di realizzare
pienamente la sua personalità, anzitutto nel suo percorso di sofferenza, anche
attraverso il rifiuto e l’interruzione di cure non avvertite più rispondenti
alla visione della propria vita e della propria dignità.
58. Proprio per questa sua insopprimibile
e inviolabile dimensione intima e individuale, che muove dalla pura coscienza
di sé, del proprio corpo e della propria individualità, il diritto alla
autodeterminazione terapeutica del paziente non può incontrare un limite, di
fatto o di diritto, nemmeno allorché da esso consegua il sacrificio del bene
della vita.
59. La Suprema Corte, nella sentenza del
16.10.2007, n. 21748, ha chiarito che la salute dell’individuo non può essere
oggetto di imposizione autoritativo-coattiva o di un astratto dovere di cura in
nome di superiori principi.
60. All’obiezione di principio secondo cui
tale concezione individualistica della salute sarebbe velleitaria e illusoria,
non avendo in realtà l’individuo alcuna consapevolezza e, comunque, alcuna
signoria, men che mai di natura medica, sul sé e sul proprio corpo, si può e
deve rispondere che tale critica, quand’anche fondata, mai potrebbe costituire
un motivo per espropriare l’individuo, ad opera dello Stato, dell’autorità
sanitaria o del medico, di quel poco o tanto dominio, che pur gli sia concesso,
sulla sua vita, sulla sua sofferenza e sulla speranza e sul bisogno di vivere
secondo la propria visione dell’esistenza finanche l’esperienza più dolorosa
della malattia.
61. Vengono pertanto a cadere e a perdere
di fondamento tutti i motivi di censura mossi dalla Regione, motivi che mirano
a criticare, in realtà, l’affermazione del principio da parte della Cassazione,
affermazione che, diversamente da quanto sostiene la Regione, non è
l’arbitraria creazione, in via interpretativa, di una regola non rinvenibile
all’interno del nostro ordinamento, ma diretta emanazione dei principi
costituzionali, sicché deve escludersi, come ha chiarito la stessa Corte
costituzionale in sede di conflitto di attribuzione sollevato dalle Camere
proprio nella vicenda che ne interessa, la sussistenza di indici atti a
dimostrare che i giudici – in particolare la Suprema Corte di Cassazione e la
Corte d’Appello di Milano – abbiano utilizzato i loro provvedimenti come meri
schemi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa o per
menomare l’esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento, che ne è
sempre e comunque il titolare (Corte cost., ord. n. 334 dell’8.10.2008).
62. Certamente l’assenza di una chiara
disciplina legislativa, esistente in altri ordinamenti, fa avvertire tutta la
necessità di un intervento da parte del legislatore, come questo Collegio ha
più volte ribadito, ma altrettanto certamente tale assenza non può e non deve
comportare né giustificare la mortificazione di inviolabili diritti
costituzionali.
63. Proprio questo hanno inteso fare la
Corte di Cassazione e la Corte d’Appello di Milano, nonostante l’assenza di
tale disciplina, e le pur velate critiche della Regione si risolvono, come già
accade per il conflitto di attribuzione sollevato dalle Camere e per usare le
parole della Corte costituzionale nella citata ordinanza n. 334 dell’8.10.2008,
in altrettante e molteplici critiche rivolte al modo in cui la Suprema Corte ha
selezionato ed utilizzato il materiale normativo rilevante per la decisione o a
come lo ha interpretato, critiche che, condivisibili o meno sul piano
dell’argomentazione giuridica, non sono certo ammissibili in questa sede e, a
maggior ragione, da parte della Regione Lombardia.
64. Con il quinto motivo di appello (pp.
31-33), infine, la Regione Lombardia censura la sentenza del T.A.R., anche alla
luce degli sviluppi, successivi al deposito della sentenza impugnata, che hanno
condotto alla morte di-OMISSIS-.
64.1. Sostiene l’appellante che la Corte
d’Appello di Milano non solo non aveva posto un obbligo a carico dei sanitari
del servizio pubblico, ma aveva lasciato chiaramente intendere che
l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione potesse realizzarsi solo
tramite l’accordo, vale a dire il consenso e la disponibilità, “del personale
medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato ad
assistere-OMISSIS-”.
64.2. La Corte d’Appello di Milano, in
altri termini, non aveva posto alcun ordine di facere a carico delle strutture
del Servizio Sanitario, già prefigurando, quale soluzione, quella che -OMISSIS-
ha poi effettivamente perseguito ad Udine anche dopo la sentenza del T.A.R.,
avvalendosi di personale volontario e non nell’ambito del Servizio Sanitario
Nazionale.
64.3. La sentenza impugnata, argomenta
ancora la Regione, deduce inoltre la sussistenza di tale obbligo dall’autorità
di giudicato riconosciuta alla pronuncia della Corte d’Appello, autorità che,
come tale, si imporrebbe anche all’Amministrazione.
64.4. Eccepisce tuttavia la Regione che il
provvedimento della Corte d’Appello è stato emanato al termine di un
procedimento di volontaria giurisdizione e che, per definizione, i
provvedimenti assunti in quella sede non hanno forza di giudicato, ma sono anzi
revocabili e modificabili in ogni momento, proprio perché preordinati
all’esigenza prioritaria della tutela dei diritti e degli interessi dei
soggetti deboli.
64.5. Il T.A.R. lombardo sostiene, invece,
che il provvedimento in questione avrebbe forza di giudicato, opponibile
all’Amministrazione, perché sarebbe scaturito da un procedimento in
contraddittorio, concluso con una decisione che incide sulle contrapposte
posizioni di diritto soggettive.
64.6. La Regione si interroga,
criticamente, sulla effettiva sussistenza del contradditorio nel procedimento
definito dal decreto della Corte d’Appello di Milano, contraddittorio definito
“finto” (p. 33 del ricorso), poiché il curatore speciale, nominato proprio per
dare spazio a interessi divergenti rispetto a quelli del tutore, ha sempre
appoggiato le scelte di quest’ultimo, sicché sarebbe, secondo l’appellante,
“paradossale” richiamare tale contraddittorio per giustificare l’effetto
conformativo della decisione adottata dalla Corte d’Appello di Milano
sull’Amministrazione.
65. La censura è destituita di fondamento.
65.1. Il decreto della Corte d’Appello di
Milano, nell’impartire disposizioni pratiche e cautelative (pp. 63-64), ha
precisato che “in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente
assiste o verrà chiamato ad assistere-OMISSIS-, occorrerà fare in modo che
l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con
sondino naso-gastrico, la sospensione dell’erogazione di presidi medici
collaterali (antibiotici o antinfiammatori, etc.) o di altre procedure d
assistenza strumentale, avvengano, in hospice o altro luogo di ricovero
confacente, ed eventualmente – se ciò sia opportuno ed indicato in fatto dalla
miglior pratica della scienza medica – con perdurante somministrazione di quei
soli presidi già attualmente utilizzati atti prevenire o eliminare reazioni
neuromuscolari paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio
funzionale a tale scopo”.
65.2. Il provvedimento non ha inteso
minimamente subordinare la sospensione del trattamento al volere dei sanitari,
come assume la Regione, ma ha semplicemente dettato alcune misure cautelative,
nell’attuazione della sospensione, che vedevano il necessario concorso del
personale medico e paramedico chiamato ad attuarle.
65.3. Ciò risponde ovviamente alla natura
di tali misure, inattuabili senza la positiva volontà, la competenza
professionale e l’ausilio tecnico del personale medico e paramedico, che
avrebbe dovuto provvedervi.
65.4. Tali misure rientrano anch’esse in
quell’obbligo di prestazione, a carico della struttura sanitaria nel suo
complesso (tramite, come specifica il decreto, “hospice o altro luogo di
ricovero confacente), e il fatto che il provvedimento ne abbia rimesso
l’attuazione al consenso del personale medico e paramedico nulla toglie alla
doverosità della prestazione da parte del Servizio Sanitario nel suo complesso,
doverosità che è ben scolpita dal verbo “occorrerà”, riferentesi proprio alla
natura necessaria di tali misure cautelative a tutela del paziente.
65.5. La circostanza che ad Udine,
dove-OMISSIS- fu infine ricoverata, tali misure furono adottate dal personale
volontario non avvalora certo ex post la tesi dell’appellante, ma anzi dimostra
che ciò si rese necessario anche per l’illegittimo rifiuto opposto dalla
Regione al ricovero della paziente in adeguata struttura del suo Servizio
Sanitario.
66. Nemmeno appaiono condivisibili le
censure mosse dalla Regione all’autorità di cosa giudicata riconosciuta al
decreto.
66.1. La Regione mostra di ben conoscere,
invero, il consolidato orientamento secondo il quale nelle procedure camerali
il provvedimento di natura decisoria pronunciato, anche in sede di reclamo, su
contrapposte posizioni di diritto soggettivo e destinato ad incidere in via
definitiva su tali posizioni è suscettibile di acquistare autorità di giudicato
(Cass., sez. I, 16.4.2003, n. 6011), come è avvenuto nel caso di specie
all’esito del giudizio di rinvio celebratosi avanti alla Corte d’Appello di
Milano, ma contesta che tale giudicato si sia formato correttamente, nel
conflitto su una posizione di diritto soggettivo quale quella fatta valere dal
tutore nel (preteso) interesse dell’interdetta, in un giudizio che ha visto un
contraddittorio fittizio, “finto”, in quanto la curatrice speciale, nominata
per tutelare la posizione di-OMISSIS-, si sarebbe supinamente adagiata alla
posizione processuale assunta dal padre nonché tutore, -OMISSIS-.
66.2. Si tratta di contestazione che,
oltre ad essere del tutto inammissibile in questa sede e ad opera, peraltro, di
soggetto palesemente privo di legittimazione a sollevarla, è comunque errata,
in diritto, poiché la rituale instaurazione del contraddittorio, sul piano
della corretta dialettica processuale, non dipende certo, secundum eventum
litis, dalle posizioni rispettivamente assunte dalle parti necessarie del
giudizio in ordine alla res iudicanda.
66.3. Non può seriamente contestarsi,
pertanto, che il decreto della Corte d’Appello di Milano, chiamato a
pronunciarsi, nel contraddittorio necessario con la curatrice speciale
di-OMISSIS- all’uopo nominata, sull’istanza del tutore, abbia acquisito
pertanto efficacia di giudicato.
66.4. Anche tale motivo d’appello, pertanto,
deve essere disatteso.
67. In conclusione, per tutte le esposte
ragioni, l’appello della Regione Lombardia deve essere respinto.
68. L’eccezionalità del caso e la gravità
delle ragioni esposte giustificano l’integrale compensazione delle spese tra le
parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello,
come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando per l’effetto la sentenza
impugnata.
Compensa interamente tra le parti le spese
del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall’autorità amministrativa.
Manda alla Segreteria di procedere, in
qualsiasi ipotesi di diffusione del provvedimento, all’oscuramento delle
generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle
parti o di persone comunque citate nel provvedimento.
Così deciso in Roma nella camera di
consiglio del giorno 17 luglio 2014 con l’intervento dei magistrati:
Carlo Deodato, Presidente FF
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Dante D'Alessio, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Massimiliano Noccelli, Consigliere,
Estensore
L'ESTENSORE
|
IL PRESIDENTE
|
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/09/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)