sabato 18 gennaio 2014

MILITARI: l’obbligo al rilascio dell’alloggio militare sussiste indipendentemente dalla presenza di un eventuale provvedimento formale (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I bis, sentenza 21.10.2013 n. 9032).


MILITARI
l’obbligo al rilascio dell’alloggio militare 
sussiste indipendentemente
 dalla presenza di un eventuale provvedimento formale (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I bis
sentenza 21.10.2013 n. 9032).


T.A.R. e Consiglio di Stato sono decisamente molto duri ormai sugli alloggi dati ai militari non più in servizio in concessione "reiterata" ed a canoni "calmierati".


Massima

1.  Gli alloggi di servizio del personale militare sono beni patrimoniali indisponibili e, per loro natura, possono formare oggetto di concessioni di diritto pubblico, e non di negozi di diritto privato; pertanto, legittimamente l'Amministrazione emana ordini di rilascio in via di autotutela, a nulla rilevando la presenza di una prestazione patrimoniale a carico dell'utente, quali che siano la misura e le modalità di accertamento e di pagamento della medesima ed ancorché tale pagamento continui pur dopo la perdita del titolo ad occupare l'alloggio.
2.  Del problema dei canoni concessori si è occupato in particolare il legislatore sin dal 1995.
Infatti, con l’art. 43 della legge finanziaria del medesimo anno sono state dettate due norme che, pur concernendo entrambe i canoni concessori degli alloggi di servizio delle FF.AA., si riferivano, la prima agli alloggi occupati da militari con titolo in corso di validità e la seconda agli alloggi occupati sine titulo ovvero in regime di proroga della concessione.
3.  In relazione al discorso generale sul regime concessorio dei beni appartenenti al patrimonio alloggiativo del Ministero della Difesa appare evidente che, in caso di cessazione a qualsiasi titolo del rapporto di servizio tra il militare e l’amministrazione di appartenenza, venga meno di per sé la condizione indispensabile di efficacia del provvedimento concessorio originario.
Pertanto, l’obbligo al rilascio dell’alloggio sussiste indipendentemente dalla presenza di un eventuale provvedimento formale.


Sentenza per esteso


INTESTAZIONE
 Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5147 del 2011, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Giacomo Capizzi, Angelo Scotti, Gianfranco Rossi, Pasquale Saltarelli, Ferruccio Signoretti, Ermanno Ficorilli, Luigi Scavo, Luciano Simoni, Lucio Cipriano, Flavio Doria, Aldo Rampelli, Galeazzo Germani, Antonio Alemanni, Claudio Coltelli, rappresentati e difesi dall'avv. Giulio Murano, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, via A. Brofferio N. 7; 
contro
Ministero della Difesa, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
Pier Paolo Pellone, Amedeo Maci, Armando Cavotta, Filippo Bonsignore, Gaetano Casale, Bruno D'Ettorre, Roberto Sacchetti, Giuliano Fontana, Ferdinando Zito, Ferrara Anacleto, Maria Morana, Gaetano Ambrosino, Claudio Castellari, Angelo Perna, Giuseppina D'Addone, Antonio Lamusta, Massimo Di Mauro e Serenella Paone, rappresentati e difesi dall'avv. Giulio Murano, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, via A. Brofferio N. 7;
per l'annullamento
con il ricorso principale,
- del Decreto Direttoriale della Direzione Generale dei Lavori e del Demanio n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010 con cui si dispone il trasferimento al patrimonio disponibile degli alloggi da alienare ai sensi dell'art. 2 co. 628 della L. n. 244/07;
con separati atti contenenti motivi aggiunti,
- del Decreto del Ministero della Difesa del 16 marzo 2011 di rideterminazione del canone degli alloggi di servizio militari occupati da utenti senza titolo, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 122 del 27 maggio 2011;
- degli atti, emanati a seguito del procedimento ex L. n. 241 del 1990 e ricevuti dagli attuali istanti nel mese di ottobre 2011 con i quali è stato comunicato che si è provveduto ad adeguare al prezzo di mercato il canone di occupazione relativo all’alloggio utilizzato senza titolo ai sensi del D.M. 16 marzo 2011, già impugnato con il precedente atto contenente motivi aggiunti;
ed in relazione alla domanda di impugnazione in tema di accesso in pendenza di ricorso,
del silenzio rigetto dello Stato Maggiore dell’Aeronautica e dello Stato Maggiore dell’Esercito maturato sulla richiesta ostensiva degli atti di propria competenza descritti alle lettere sub a), b), c), d), e), f) e g) della predetta istanza inoltrata il 23 gennaio 2013, nonché in via subordinata del provvedimento di diniego dello Stato Maggiore dell’Aeronautica emesso in data 1 marzo 2013 nonostante la previsione contraria del comma 4 dell’art. 25 della legge n. 241 del 1990;

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 luglio 2013 il dott. Francesco Riccio e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
Con il ricorso principale indicato in epigrafe, notificato il 25 maggio 2011 e depositato il successivo 15 giugno, le parti istanti, quali occupanti sine titulo di alloggi di servizio dell’Amministrazione militare ed interessati ad una procedura di alienazione degli immobili inseriti nel patrimonio disponibile del Ministero della Difesa, hanno impugnato il Decreto Direttoriale della Direzione Generale dei Lavori e del Demanio n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010 con cui si dispone il predetto trasferimento degli alloggi da alienare ai sensi dell'art. 2, comma 628, della L. n. 244/07.
Al riguardo i ricorrenti prospettano i seguenti motivi di doglianza:
1) Violazione dell’art. 2, comma 628 lett. b), della legge 24.12.2007 n. 244. Violazione specifica dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990: principi di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa;
2) Violazione del medesimo art. 2. Eccesso di potere per sviamento e travisamento dei fatti, nonché omessa attuazione di norme di legge. Illogicità e contraddittorietà;
3) Violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà. Violazione dell’art. 306, comma 3, del D.Lgs. n. 66 del 2010 e dell’art. 403, comma 3, del D.P.R. n. 90 del 2010. Difetto di istruttoria, travisamento dei fatti. Eccesso di potere per sviamento, disparità di trattamento;
4) Violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione riguardante il comma 631 dell’art. 2 della legge n. 244 del 2007.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione della Difesa la quale si richiama ad ogni buon fine alle relazioni predisposte dai competenti uffici e debitamente depositate in giudizio.
In particolare, nella relazione depositata il 12 novembre 2012, si eccepisce l’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum dei soggetti indicati in epigrafe atteso che la loro posizione legittimante consentirebbe soltanto la proposizione di autonomi giudizi impugnatori.
Si sono costituiti in giudizio vari soggetti, anche essi occupanti sine titulo di alloggi di servizio del Ministero della Difesa, prospettando come doglianze gli stessi argomenti dedotti dai ricorrenti principali.
A seguito della pubblicazione del Decreto del Ministero della difesa del 16 marzo 2011 (Gazzetta Ufficiale n. 122 del 27 maggio 2011), con cui sono stati fissati i criteri di rideterminazione del canone degli alloggi di servizio militari, le parti istanti hanno proposto con atto, notificato il 30 giugno 2011 e depositato il successivo 15 luglio, ulteriori motivi di doglianza diretti a contestare l’atto regolamentare sopra descritto, in particolare sono stati prospettati i seguenti motivi di censura:
1) Violazione dell’art. 6, comma 21-quater, della legge 30 luglio 2010 n. 122. Travisamento dei fatti ed omessa attuazione di norme di legge. Illogicità e contraddittorietà;
2) Eccesso di potere per sviamento.
Rispetto alle censure prospettate con il descritto atto contenente motivi aggiunti, l’Amministrazione resistente ha eccepito, in rito, l’inammissibilità dell’azione proposta per mancanza di un collegamento funzionale con il provvedimento impugnato con il ricorso principale e per assenza di un pregiudizio concreto subito dai ricorrenti per effetto della semplice emanazione del citato D.M. del 16 marzo 2011.
In esecuzione ed in applicazione del richiamato e gravato atto regolamentare, i competenti Comandi Militari territoriali, nel corso del mese di ottobre 2011, hanno comunicato alle parti istanti il nuovo e diverso canone di occupazione relativo all’alloggio utilizzato senza titolo.
Per l’annullamento di tali singole e separate determinazioni, le parti hanno inoltrato un secondo atto contenente motivi aggiunti, notificato il 16 novembre 2011 e depositato il successivo 30 novembre, prospettando al riguardo i seguenti ulteriori motivi di impugnazione:
1) Violazione dell’art. 3, comma 3, del D.M. 16 marzo 2011. Falsa applicazione. Travisamento ed erronea valutazione dei fatti;
2) Violazione eventuale dell’art. 6, comma 21-quater, della legge 30 luglio 2010 n. 122. Falsa applicazione. Travisamento ed erronea valutazione dei fatti.
Riguardo alle censure contenute negli atti contenenti i motivi aggiunti sopra indicati, l’Amministrazione ha eccepito la relativa infondatezza nel merito.
Con apposita istanza indirizzata al Presidente della Sez. I/bis, notificata all’Amministrazione resistente in data 22 marzo 2013 e depositata il successivo 27 marzo, i ricorrenti hanno proposto una domanda giudiziale per far valere il proprio diritto di accesso agli atti amministrativi indicati in una specifica richiesta ostensiva del 23 gennaio 2013 diretta allo Stato Maggiore dell’Aereonautica ed allo Stato Maggiore dell’Esercito, nonché per chiedere l’annullamento del provvedimento di diniego espresso dallo Stato Maggiore dell’Esercito e del silenzio rigetto adottato dallo Stato Maggiore dell’Aereonautica.
Rispetto a tale ultima domanda giudiziale, il Ministero della Difesa ha eccepito l’inammissibilità dell’istanza di accesso poiché la stessa - in contrasto con il disposto dell’art. 24, comma 3, della legge n. 241 del 1990 – sarebbe finalizzata ad un controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione.
Con ordinanza collegiale n. 5853/2013 dell’11 giugno 2013, questa Sezione in relazione alla domanda proposta ai sensi dell’art. 116, commi 1 e 2, del c.p.a. ha ritenuto che la stessa non possa essere risolta disgiuntamente da un approfondito esame dei motivi di doglianza, trattandosi di una istanza di accesso che si innesta in seno ad un processo già pendente e finalizzata alla definizione del contenzioso già in atto.
All’udienza del 16 luglio 2013 la causa è stata posta in decisione.
Preliminarmente ed in aderenza all’eccezione in rito - sollevata dalla difesa erariale - di inammissibilità degli interventi ad adiuvandum formalizzati dai soggetti indicati in epigrafe, il Collegio condivide le argomentazioni dedotte nelle apposite memorie di parte avversa.
Infatti, in relazione all’azione principale rivolta all’annullamento di una serie complessa di atti preordinati da un lato alla possibile vendita di beni immobili appartenenti al patrimonio (disponibile o indisponibile del Ministero della Difesa) e dall’altro al recupero delle utilità economiche connesse all’occupazione sine titulo degli alloggi del citato Ministero, si sono inseriti altri soggetti, quali parti interventori ad adiuvandum, che fanno valere per l’impugnazione dei medesimi atti delle posizioni giuridiche soggettive che andavano tutelate con appositi ricorsi da avviare nei termini di decadenza. Sotto tale aspetto queste posizioni processuali vanno escluse dal presente giudizio in applicazione di una pacifica e costante giurisprudenza.
Nel processo amministrativo, è inammissibile l'intervento ad adiuvandum da parte di chi sia legittimato a proporre direttamente il ricorso giurisdizionale in via principale, posto che in tale ipotesi l'interveniente non fa valere un mero interesse di fatto, bensì un interesse personale all'impugnazione di provvedimenti immediatamente lesivi, che può essere introdotto solo mediante proposizione di ricorso principale nei termini decadenziali (Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 21 dicembre 2011 n. 6777).
Al riguardo è opportuno precisare che gli interventi proposti, almeno per ciò che concerne l’azione di annullamento del decreto direttoriale n. 14/2/5/2010 del 23.11.2010, risultano essere anche palesemente tardivi rispetto alla data di pubblicazione del provvedimento citato nella Gazzetta Ufficiale del 26 marzo 2011.
Come rilevato e comunicato alle parti presenti nel corso dell’odierna udienza pubblica, ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, comma 3, del c.p.a., la domanda di impugnazione del Decreto Direttoriale della Direzione Generale dei Lavori e del Demanio n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010 - con cui si dispone il trasferimento al patrimonio disponibile degli alloggi da alienare ai sensi dell'art. 2, comma 628, della L. n. 244/07 - è del tutto inammissibile per difetto di legittimazione ad agire in capo alle parti ricorrenti.
L’atto in questione è stato adottato in applicazione dell’art. 306, comma 3, del D.Lgs. 15 marzo 2010 n. 66 (nel teso in vigore dal 9 ottobre 2010 al 26 marzo 2012, cioè antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. 24 febbraio 2012, n. 20) che ha sostanzialmente riprodotto la disposizione normativa contenuta nell’art. 2, comma 628 lett. b), della legge n. 244 del 2007.
La norma vigente al momento dell’adozione del decreto dirigenziale generale, impugnato con il ricorso principale, disponeva testualmente che:
“Al fine della realizzazione del programma pluriennale di cui all’articolo 297, il Ministero della difesa provvede all’alienazione della proprietà, dell’usufrutto o della nuda proprietà di alloggi non più ritenuti utili nel quadro delle esigenze dell'amministrazione, in numero non inferiore a tremila, compresi in interi stabili da alienare in blocco, con diritto di prelazione per il conduttore e, in caso di mancato esercizio da parte dello stesso, per il personale militare e civile del Ministero della difesa non proprietario di altra abitazione nella provincia, con prezzo di vendita determinato d’intesa con l’Agenzia del demanio, ridotto nella misura massima del 25 per cento e minima del 10 per cento, tenendo conto del reddito del nucleo familiare, della presenza di portatori di handicap tra i componenti di tale nucleo e dell’eventuale avvenuta perdita del titolo alla concessione e assicurando la permanenza negli alloggi dei conduttori delle unità immobiliari e del coniuge superstite, alle condizioni di cui al comma 2, con basso reddito familiare, non superiore a quello determinato con il decreto ministeriale di cui al comma 2, ovvero con componenti familiari portatori di handicap, dietro corresponsione del canone in vigore all’atto della vendita, aggiornato in base agli indici ISTAT. Gli acquirenti degli alloggi non possono rivenderli prima della scadenza del quinto anno dalla data di acquisto. I proventi derivanti dalle alienazioni sono versati all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati in apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della difesa.”.
Al fine di individuare una loro posizione giuridica differenziata, nonché legittimante l’impugnazione proposta, le parti istanti sostengono che la stessa possa trovare fondamento nella previsione del programma pluriennale del 1 dicembre 2008 e nei provvedimenti per la vendita manifestatisi nel D.M. 28 gennaio 2010 e nel D.M. 23 giugno 2010, concernenti il piano annuale di gestione del patrimonio abitativo della difesa rispettivamente per il 2008 e per il 2009, adottati ai sensi dell’art. 9, comma 7, della legge n. 537 del 1993.
A tal proposito si sostiene che le norme da ultimo richiamate abilitavano la predetta Amministrazione ad alienare gli alloggi militari non ubicati nelle infrastrutture militari o, se invece ubicati in tali infrastrutture non operativamente posti al loro diretto e funzionale servizio, secondo quanto previsto da un emanando decreto ministeriale.
In tale contesto, i ricorrenti ritengono che il decreto impugnato con il ricorso principale sia gravemente lesivo della loro legittima aspettativa di acquisto.
L’assunto posto a fondamento della posizione legittimante dei ricorrenti, oltre a basarsi su elementi alquanto incerti e presuntivi, non trova conforto nei precedenti decreti richiamati poiché gli stessi sono finalizzati a determinare strumenti di pianificazione risalenti al 1993.
Lo stesso art. 2, comma 631, della legge n. 244 del 2007 ha chiaramente stabilito che nessuna rilevanza giuridica dovesse accordarsi a qualsiasi procedura di alienazione che avesse, eventualmente e precedentemente, coinvolto gli immobili alloggiativi della Difesa.
Infatti la norma testualmente dispone che:
“L’articolo 26, comma 11-quater, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, è abrogato. Gli immobili originariamente individuati per essere destinati alle procedure di vendita di cui al citato decreto-legge rimangono nelle disponibilità del Ministero della difesa per l’utilizzo o per l’alienazione”
Giova, altresì, rilevare che la stessa disciplina normativa abrogata, nella sua articolazione, escludeva in radice la possibile acquisizione con diritto di prelazione a favore degli occupanti sine titulo degli alloggi di servizio.
Il comma 11-quater dell’art. 26 del D.L. n. 269/2003 stabiliva che: “Con le modalità ed alle condizioni previste al capo I del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, e successive modificazioni, sono alienati gli alloggi di cui alla legge 18 agosto 1978, n. 497, non ubicati nelle infrastrutture militari (139) o, se ubicati, non operativamente posti al loro diretto e funzionale servizio, secondo quanto previsto con decreto del Ministero della difesa, né classificati quali alloggi di servizio connessi all'incarico occupati dai titolari dell'incarico in servizio. La disposizione di cui al presente comma non si applica agli alloggi che, alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, si trovino in una delle seguenti situazioni: a) sono effettivamente assegnati a personale in servizio per attuali esigenze abitative proprie o della famiglia, nel rispetto delle condizioni e dei criteri di cui al regolamento di cui al D.M. 16 gennaio 1997, n. 253 del Ministro della difesa;
b) sono in corso di manutenzione per avvicendamento dei titolari;
c) sono occupati da soggetti ai quali sia stato notificato, anche eventualmente a mezzo ufficiale giudiziario, il provvedimento amministrativo di recupero forzoso.”.
Invece, con l’entrata in vigore dell’art. 306, comma 2, del D.Lgs. n. 66 del 2010, si è data attuazione all’intento del legislatore di predisporre una pianificazione pluriennale prevista dall’art. 297 del medesimo decreto legislativo.
La pianificazione pluriennale è, secondo la lettera di quest’ultimo articolo, funzionale alle esigenze derivanti dalla riforma strutturale connessa al nuovo modello delle Forze armate, conseguito alla sospensione del servizio obbligatorio di leva. Per perseguire tale scopo il Ministero della Difesa ha il potere di predisporre, con criteri di semplificazione, di razionalizzazione e di contenimento della spesa, un programma pluriennale per la costruzione, l’acquisto e la ristrutturazione di alloggi di servizio di cui all’ articolo 231, comma 4.
Il predetto programma pluriennale presuppone l’individuazione di tre categorie di alloggi di servizio:
a) alloggi da assegnare al personale per il periodo di tempo in cui svolge particolari incarichi di servizio richiedenti la costante presenza del titolare nella sede di servizio;
b) alloggi da assegnare per una durata determinata e rinnovabile in ragione delle esigenze di mobilità e abitative;
c) alloggi da assegnare con possibilità di opzione di acquisto mediante riscatto.
E’ vero che secondo l’art. 26, comma 11 quinquies, del citato D.L. n. 269 del 2003, il diritto di opzione previsto dai commi 3 e 6 dell'articolo 3 del decreto-legge n. 351 del 2001, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 410 del 2001, spettava solo a coloro che comunque corrispondono allo Stato un canone o una indennità per l'occupazione dell'alloggio, ma tale disposizione normativa ha trovato anche essa un’esplicita abrogazione per opera dell’art. 2268, comma 1, n. 1018), D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, a decorrere dal 9 ottobre 2010.
In un diverso assetto normativo si colloca, pertanto, l’adozione del decreto dirigenziale impugnato con il ricorso principale in esame.
Ne consegue che, dalla disamina delle norme applicate e dei provvedimenti adottati, non è possibile ricavare alcuna aspettativa giuridicamente tutelata di acquisto degli immobili occupati dai ricorrenti.
Nè la stessa poteva sorgere dai piani annuali di gestione del patrimonio abitativo che, essendo uno strumento di pianificazione, non potevano assurgere a provvedimento diretto a orientare ed a condizionare le possibili procedure di alienazione.
Infatti, a titolo esemplificativo, è sufficiente notare che l’art. 2 del richiamato D.M. del 28 gennaio 2010 dispone soltanto che “Gli utenti di alloggi AST non aventi più titolo alla concessione, ancorché si tratti di personale in quiescenza o di vedove non legalmente separate né divorziate, possono mantenere la conduzione dell'alloggio, qualora il reddito annuo lordo complessivo dei componenti il nucleo familiare conviventi non superi la somma di euro 40.167,54, incrementata di euro 1.259,59, per ogni familiare a carico oltre il terzo, purché né gli utenti, né i loro familiari conviventi siano proprietari di altro alloggio abitabile sul territorio nazionale. Tali somme sono comprensive della variazione percentuale dell'indice ISTAT per l'anno 2009. L'utente dichiara, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, la situazione reddituale del proprio nucleo familiare ed altresì che lo stesso nucleo non è proprietario di altro alloggio abitabile sul territorio nazionale.”.
Né l’esame della vigente normativa di settore pone a favore degli occupanti sine titulo di alloggi di servizio del Ministero della Difesa una posizione giuridicamente qualificata che possa definirsi, in rapporto agli atti generali, ampiamente discrezionali, come interesse legittimo di natura pretensiva da farsi valere avanti i competenti organi della giustizia amministrativa.
Ciò induce a ritenere inammissibile il ricorso principale per difetto di una legittimazione ad agire, normativamente qualificata.
La predetta questione pregiudiziale pone il Collegio nella condizione di respingere il ricorso proposto per accertare il diritto all’accesso agli atti amministrativi posti a fondamento dell’adozione del più volte richiamato Decreto Direttoriale della Direzione Generale dei Lavori e del Demanio n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010.
Al riguardo, è sufficiente richiamare il principio di ordine processuale già enunciato da questa sezione nella ordinanza n. 5853/2013 dell’11 giugno 2013, dove con richiamo ad una conferente giurisprudenza (Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10 ottobre 2002 n. 5450), la domanda giudiziale legata all’accesso è stata qualificata come attività giurisdizionale che si innesta in un processo già pendente e può essere risolta positivamente soltanto laddove l’acquisizione sia utile a dirimere la controversia già instaurata.
Prima di procedere all’esame dei motivi aggiunti riferiti all’impugnazione del Decreto del Ministero della Difesa del 16 marzo 2011 di rideterminazione del canone degli alloggi di servizio militari occupati da utenti senza titolo, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 122 del 27 maggio 2011, il Collegio ritiene, stante l’infondatezza delle doglianze prospettate, di poter prescindere dall’esame delle pregiudiziali in rito sollevate dalla difesa dell’Amministrazione resistente.
In ogni caso, è necessario premettere una sintetica analisi della situazione giuridica e di fatto dei singoli ricorrenti, in particolare in riferimento al rapporto che gli stessi hanno con l’immobile appartenete al patrimonio dell’Amministrazione della difesa, detenuto senza il rilascio di un titolo astrattamente idoneo a giustificare la situazione di fatto che in alcuni casi si protrae da più di vent’anni con grave nocumento per l’organizzazione dell’Amministrazione tenuta a gestire il patrimonio alloggiativo e con una perdita notevole per le entrate dello Stato nella misura in cui gli immobili sono rimasti nella disponibilità dei soggetti, privi di titolo alla concessione in uso, a fronte di un canone che è risultato essere di gran lunga inferiore ai prezzi dettati dal mercato delle locazioni di immobili destinati ad uso abitativo
Come descritto chiaramente nella relazione del Comando Militare della Capitale – Ufficio Affari Generali, Sezione Alloggi – gli alloggi di servizio che sono investiti dalla presente controversia sono soggetti alla concessione in uso, ricevendo allo scopo un vincolo di destinazione finalizzato a consentire all’assegnatario, in quanto dipendente dell’Amministrazione della Difesa in servizio, la permanenza nella sede di lavoro per sé ed il proprio nucleo familiare. Da ciò discende che la causa tipica (o meglio l’interesse pubblico perseguito nei casi di specie) non è quella di soddisfare un’esigenza abitativa del singolo dipendente, bensì quella di assicurare la piena efficienza nella prestazione del pubblico servizio attraverso una idonea collocazione funzionale del militare concessionario.
Sul punto risulta rilevante e significativo un precedente di questa Sezione (decisione del 10 maggio 2006 n. 3432), secondo la quale gli alloggi di servizio del personale militare sono beni patrimoniali indisponibili e, per loro natura, possono formare oggetto di concessioni di diritto pubblico, e non di negozi di diritto privato; pertanto, legittimamente l'Amministrazione emana ordini di rilascio in via di autotutela, a nulla rilevando la presenza di una prestazione patrimoniale a carico dell'utente, quali che siano la misura e le modalità di accertamento e di pagamento della medesima ed ancorché tale pagamento continui pur dopo la perdita del titolo ad occupare l'alloggio.
Del problema dei canoni concessori si è occupato in particolare il legislatore sin dal 1995.
Infatti, con l’art. 43 della legge finanziaria del medesimo anno sono state dettate due norme che, pur concernendo entrambe i canoni concessori degli alloggi di servizio delle FF.AA., si riferivano, la prima agli alloggi occupati da militari con titolo in corso di validità e la seconda agli alloggi occupati sine titulo ovvero in regime di proroga della concessione.
Nei confronti della prima categoria di militari la norma disponeva che "Ai fini dell’adeguamento dei canoni di concessione degli alloggi costituenti il patrimonio abitativo della Difesa, fermo restando la gratuità degli alloggi di cui al n. 1 dell’art. 6 della legge n. 497 del 1978 e l’esclusione di quelli di cui al n. 2 dello stesso articolo, il cui importo sarà determinato dal Ministro della difesa con proprio decreto da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, si applica un canone determinato su base nazionale ai sensi dell’articolo 13 della legge 18 agosto 1978, n. 497 (n.d.r: che demanda al Ministro della Difesa, di concerto con quello dei Lavori pubblici, di stabilire con propri decreti i criteri per la determinazione dei canoni di concessione, sulla base delle disposizioni vigenti in materia di definizione dell’equo canone), ovvero, se più favorevole all’utente, un canone pari a quello derivante dall’applicazione della normativa vigente in materia di equo canone".
Nei confronti della seconda categoria di militari, invece, la norma dispone che: "Alla data di entrata in vigore della presente legge, agli utenti non aventi titolo alla concessione dell’alloggio, fermo restando per l’occupante l’obbligo di rilascio, viene applicato, anche se in regime di proroga, un canone pari a quello risultante dalla normativa sull’equo canone maggiorato del 20 per cento per un reddito annuo lordo complessivo del nucleo familiare fino a 60 milioni di lire e del 50 per cento per un reddito lordo annuo complessivo del nucleo familiare oltre i 60 milioni di lire. L’Amministrazione della difesa ha facoltà di concedere proroghe temporanee secondo le modalità che saranno definite con apposito regolamento da emanare, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministro della difesa".
Due regolamentazioni dunque sensibilmente diverse (Cfr. sul punto TAR Lazio, Sez. I/bis, 5 luglio 2006 n. 5429).
In relazione al discorso generale sul regime concessorio dei beni appartenenti al patrimonio alloggiativo del Ministero della Difesa appare evidente che, in caso di cessazione a qualsiasi titolo del rapporto di servizio tra il militare e l’amministrazione di appartenenza, venga meno di per sé la condizione indispensabile di efficacia del provvedimento concessorio originario.
Pertanto, l’obbligo al rilascio dell’alloggio sussiste indipendentemente dalla presenza di un eventuale provvedimento formale.
Nella relazione dell’Amministrazione resistente sopra riportata si pone in evidenza una circostanza alquanto significativa: nonostante l’inoltro agli occupanti sine titulo di un formale “avviso di rilascio” - nel quale, in ottemperanza a quanto previsto dai vari regolamenti emanati nel corso degli anni (dal D.M. del 2 maggio 1980 sino al D.M. 23 gennaio 2004 n. 88), veniva indicato il motivo di estinzione del titolo concessorio, nonché l’esatta indicazione del giorno entro il quale l’alloggio doveva essere riconsegnato all’Amministrazione militare – la p.a. non ha poi intrapreso le attività di recupero forzoso dei suddetti alloggi a causa dei continui provvedimenti “sospensivi” che più delle volte hanno ricevuto una copertura legislativa, come da ultimo avvenuto con la legge 244 del 2007.
Fatta questa premessa di ordine storico sistematico, è chiaro dunque il quadro normativo e provvedimentale in cui va ad inserirsi l’adozione del contestato D.M. del 16 marzo 2011.
Tale decreto vede la luce in ragione della disposizione dell’art. 6, comma 21-quater, del D.L. 31 maggio 2010 n. 78 [comma abrogato dall'art. 2268, comma 1, n. 1085-bis) del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, come modificato dall'art. 9, comma 1, lett. p), n. 13) del D.Lgs. 24 febbraio 2012, n. 20], il quale cosi dispone (va):
“Con decreto del Ministero della difesa, adottato d’intesa con l’Agenzia del demanio, sentito il Consiglio centrale della rappresentanza militare, si provvede alla rideterminazione, a decorrere dal 1° gennaio 2011, del canone di occupazione dovuto dagli utenti non aventi titolo alla concessione di alloggi di servizio del Ministero della difesa, fermo restando per l’occupante l’obbligo di rilascio entro il termine fissato dall’Amministrazione, anche se in regime di proroga, sulla base dei prezzi di mercato, ovvero, in mancanza di essi, delle quotazioni rese disponibili dall’Agenzia del territorio, del reddito dell’occupante e della durata dell’occupazione. Le maggiorazioni del canone derivanti dalla rideterminazione prevista dal presente comma affluiscono ad apposito capitolo dell’entrata del bilancio dello Stato, per essere riassegnate per le esigenze del Ministero della difesa”
Anche la previsione normativa di riferimento, laddove espressamente collega l’occupazione sine titulo all’obbligo di rilascio dell’immobile, non manifesta alcun intento di sanatoria. Per cui rimane impregiudicato il potere dell’Amministrazione di procedere al recupero forzoso degli alloggi di servizio in questione.
Venendo al merito del primo atto contenete motivi aggiunti, con la prima doglianza le parti prospettano la violazione dell’art. 6, comma 21-quater, della legge 30 luglio 2010 n. 122, nella misura in cui il gravato D.M. del 2011 non rispetta la volontà del legislatore di sottoporre ad alienazione quei beni occupati senza titolo, ma persegue un mero intento di raggiungere un guadagno di tipo economico con contestuale conferma dell’obbligo al rilascio dell’immobile appartenente al patrimonio indisponibile e/o disponibile del Ministero della Difesa.
Sul punto si ribadisce che i ricorrenti hanno chiesto, con apposita diffida, di conoscere la destinazione di ogni singolo alloggio occupato sine titulo in quanto la corresponsione di un fitto di mercato pregiudicherebbe la legittima aspettativa a sanare la loro posizione attraverso una procedura di acquisto.
In disparte le questioni di inammissibilità della doglianza sopra descritta, in ragione degli argomenti sopra illustrati in merito all’inammissibilità del ricorso principale per difetto di legittimazione ad agire, la stessa è priva di fondamento poiché, come indicato nelle premesse generali di ordine sistematico, il D.M. costituisce la diretta esecuzione dell’art. 6, comma 21-quater D.L. 31 maggio 2010 n. 78, senza affatto stravolgere il sistema dettato dal legislatore.
In tale articolo, la posizione dei soggetti occupanti sine titulo gli alloggi delle Forze armate è correttamente qualificata e nessuna aspettativa di acquisto viene loro assegnata.
Con il secondo motivo aggiunto i ricorrenti prospettano un vizio di eccesso di potere sotto la forma dello sviamento, ritenendo che con l’adozione del D.M. del 16 marzo 2011 il Ministero della Difesa abbia in pratica perseguito un interesse pubblico diverso da quello previsto dalla legge, che è quello di ottenere, imponendo dei canoni di affitto non sostenibili dai ricorrenti, la disponibilità degli alloggi senza porre in essere le pertinenti azioni esecutive di rilascio e senza giungere alla determinazione degli immobili destinati all’alienazione a terzi.
In sostanza le parti istanti sostengono che la gestione degli alloggi di servizio, occupati da soggetti non aventi titolo, è finalizzata ad indurre gli stessi occupanti a rilasciare l’immobile rispetto al quale non vi è stata alcuna valutazione di utilità contraria alla loro vendita.
Anche tale censura è infondata poiché per ciò che riguarda l’interesse pubblico perseguito e le modalità ad esso connesse il gravato decreto è del tutto coerente con la norma di legge che lo prevede, la quale si preoccupa, invece, di provvedere sin dal 1 gennaio 2011 alla rideterminazione del canone di occupazione dovuto dagli utenti non aventi titolo alla concessione di alloggi di servizio del Ministero della Difesa, fermo restando per l’occupante l’obbligo di rilascio entro il termine fissato dall’Amministrazione.
Ciò implica che, a prescindere dal D.M. del 2011 e come ribadito dal legislatore, è immanente in capo ai ricorrenti l’obbligo del rilascio dell’alloggio di servizio.
Quindi nessuno sviamento di potere è in qualche modo ipotizzabile.
Con il secondo atto contenete motivi aggiunti si impugnano gli atti emanati a seguito del procedimento ex L. n. 241 del 1990 e ricevuti dagli attuali istanti nel mese di ottobre 2011, con i quali è stato comunicato che si è provveduto ad adeguare al prezzo di mercato il canone di occupazione relativo all’alloggio utilizzato senza titolo ai sensi del D.M. 16 marzo 2011, già impugnato con il precedente atto contenente motivi aggiunti.
Trattandosi di rideterminazione definitiva del canone di occupazione per gli utenti degli alloggi dell’Aereonautica Militare, le parti si riportano ai motivi addotti con il primo atto contenente motivi aggiunti, i quali, per le argomentazioni illustrate in precedenza, sono del tutto infondati.
Limitatamente agli alloggi dell’Esercito, per i quali vi è stata da parte dell’Amministrazione soltanto un rideterminazione provvisoria dei canoni di occupazione, le parti deducono anche altri motivi di doglianza.
Con la prima ulteriore censura le parti contestano la violazione dell’art. 3, comma 3, del D.M. del 16 marzo 2011, nonché dell’art. 6, 21-quater, della citata legge n. 122/2010.
Si tratterebbe di una rideterminazione sperequata atteso che il quantum del canone è stato calcolato al lordo di quattro coefficienti di abbattimento (determinazione della superficie convenzionale, età e stato di manutenzione, piano, posizione ed esposizione dell’immobile in questione).
Quanto alla provvisorietà, espressamente dichiarata dagli atti in argomento, si osserva che – come rilevato in ricorso - né nell’articolo 6, comma 21 quater, del decreto-legge n. 78/2010, né nel decreto ministeriale 16 marzo 2011 è dato di rinvenire la previsione di un canone provvisorio, in sostituzione di quello che risulta già - e pure provvisoriamente - corrisposto da buona parte degli occupanti senza titolo. Anzi, l’art. 3, comma 3, del decreto ministeriale 16 marzo 2011 prevede espressamente che al termine della procedura di determinazione del canone i Comandi o gli organismi competenti emanino “i definitivi provvedimenti amministrativi di rideterminazione del canone” e provvedano “alla notifica agli interessati, dalla quale decorre l'applicazione del nuovo canone”.
Né invero il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi consentirebbe l’adozione di un atto limitativo della sfera giuridica dei destinatari al di fuori di una previsione normativa primaria.
Da ciò deriva la fondatezza della doglianza, conformemente a quanto da ultimo stabilito da questa sezione (Cfr. decisione 7925/2012 del 20 settembre 2012).
Con l’ultima censura le parti istanti ritengono che la rideterminazione del canone di occupazione, nei casi di specie (ed in particolar modo per quei casi di calcolo definitivo), siano viziati per violazione del già citato art. 6, comma 21-quater, della legge n. 122/2010 e per travisamento ed erronea valutazione dei fatti, nella parte in cui, ai sensi del comma 1 dell’art. 2 del D.M. del 2011, sia stato computato il periodo di occupazione senza titolo come indice della determinazione del reddito complessivo.
Tale criterio di ordine generale sarebbe contrastante con la mancata cessazione della sussistenza del diritto a detenere l’alloggio.
Secondo il comma 3 dell’art. 2 del D.M. del 16 marzo 2011, il «reddito di riferimento» di cui al comma 2 è:
a)……
b) aumentato per ogni mensilità intera di conduzione dell'alloggio con decorrenza dalla data della perdita del titolo alla conduzione dell'alloggio occupato sino alla data del 31 dicembre 2010, con le seguenti modalità:
1) euro 100 se il reddito di riferimento è compreso tra euro 40.000 ed euro 55.000;
2) euro 150 se il reddito di riferimento è compreso tra euro 55.001 ed euro 75.000;
3) euro 200 se il reddito di riferimento è compreso tra euro 75.001 ed euro 90.000;
4) euro 300 se il reddito di riferimento è superiore ad euro 90.001.
L’argomento è privo di qualsiasi rilevanza poiché la durata dell’occupazione sine titulo è posta dalla norma di legge di riferimento, laddove si dispone, come criterio generale da seguire in sede di regolamentazione specifica e di secondo grado, che il canone di occupazione è stabilito anche in base al reddito dell’occupante e della durata dell’occupazione.
Nè, allo stesso modo, per tutte le argomentazioni sopra enunciate, è possibile ricavare una disposizione di legge che, nei casi all’esame, abbia previsto a favore degli occupanti un diritto a detenere gli alloggi.
Come chiarito in precedenza la disposizione dell’art. 26, comma 11-quater, della legge n. 326 del 2003 (rectius del D.L. 30 settembre 2003 n. 269), lungi dall’affermare o costituire un diritto alla detenzione degli immobili a favore degli occupanti senza titolo, risulta essere stata abrogata dal comma 631 dell'art. 2, L. 24 dicembre 2007, n. 244 con successiva conferma da parte dell'art. 2268, comma 1, n. 1018), D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66.
Per tutte le argomentazioni sopra si dovrà estromettere dal giudizio tutti i soggetti interventori ad adiuvandum, dichiarare inammissibile il ricorso principale per difetto di legittimazione ad agire - respingendo nel contempo la connessa azione per far valere il diritto di accesso agli atti, respingere il primo atto contenente motivi aggiunti perché infondato ed accogliere, in parte, il secondo atto di motivi aggiunti, limitatamente alla prima doglianza, per violazione dell’art. 3 del D.M. 16 marzo 2011 e, conseguentemente, annullare i provvedimenti di rideterminazione provvisoria del canone di occupazione degli alloggi dell’Esercito, facendo comunque salvi gli ulteriori provvedimenti della p.a.
La complessità delle questioni affrontate induce a ritenere sussistenti giusti motivi per compensare fra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, estromette dal giudizio gli interventori, dichiara inammissibile il ricorso principale, respinge il ricorso per l’accesso agli atti, respinge, in parte, i motivi aggiunti ed accoglie la prima censura contenuta nel secondo atto di motivi aggiunti e, per l’effetto, annulla i provvedimenti con tale ultimo atto impugnati nei sensi e nei modi di cui in motivazione.
Compensa fra le parti le spese di giudizio
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 luglio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Silvio Ignazio Silvestri, Presidente
Francesco Riccio, Consigliere, Estensore
Floriana Rizzetto, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 21/10/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

venerdì 17 gennaio 2014

PROCEDIMENTO & IMMIGRAZIONE: il cittadino extracomunitario che richiede il visto d’ingresso per turismo e l'art. 21 octies della L. n. 241/1990 (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III ter, sentenza 19 dicembre 2013 n. 10971).


PROCEDIMENTO & IMMIGRAZIONE: 
il cittadino extracomunitario 
che richiede il visto d’ingresso per turismo 
e l'art. 21 octies della L. n. 241/1990 
(T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III ter
sentenza 19 dicembre 2013 n. 10971).


Massima

1.  È irrilevante l'omissione della comunicazione delle ragioni ostative all'accoglimento dell'istanza di rilascio del visto di ingresso per turismo nel caso in cui sia inidonea a modificare l'esito del procedimento, essendo il provvedimento di diniego finale atto dovuto alla stregua dell'art. 21 octies della L. n. 241 del 1990 come modificata dalla L. n. 15 del 2005.
2.  Deve essere considersi che la disciplina in tema di rilascio dei visti di ingresso di cittadini di Stati terzi entro l'area Schengen complessivamente costituita dal Codice dei visti e dal relativo Manuale deve intendersi di stretta applicazione, stante la responsabilità internazionale che l'Italia si è assunta rispetto agli altri Stati membri aderendo alla relativa Convenzione, con la conseguenza che anche la minima mancanza dei requisiti previsti in capo al richiedente il visto d'ingresso giustifica ex se l'adozione, da parte dell'Autorità competente, del conseguente provvedimento di reiezione della relativa domanda (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, n. 1207/2013 del 19 febbraio 2013).
3.  Da ciò discende che lo straniero che richiede il visto d’ingresso per turismo non deve limitarsi a dimostrare la disponibilità dei mezzi necessari ad assicurarne la sussistenza per la durata del soggiorno ed il ritorno in patria ma, più in generale, deve esibire quegli atti necessari a comprovare "lo scopo e le condizioni del soggiorno" (art. 5 del trattato di Schengen e art. 4 comma 3 d. lgs. n. 286/98) e le finalità dello stesso (art. 5 d.p.r. n. 394/99).
4.  A tal fine, l'interessato deve fornire all'amministrazione la prova delle condizioni che giustificano le finalità del soggiorno e, nella fattispecie, trattandosi di visto d’ingresso per turismo caratterizzato da necessaria temporaneità (confermata dalla durata del soggiorno che non può essere superiore a novanta giorni: artt. 10, 11 e 15 trattato di Schengen), dei presupposti dai quali si possa ragionevolmente ritenere l'interesse dello straniero a fare rientro nel Paese d'origine onde scongiurare il c.d. "rischio migratorio", con l’ulteriore necessaria precisazione che, al fine della dimostrazione dello scopo del soggiorno, la documentazione esibita deve essere, oltre che idonea, anche attendibile, dovendosi astenere la competente autorità, in caso contrario, dal rilascio del visto (cfr. art. 32, lett. b), Codice dei visti, e art. 4, d.m. 11.05.2011).


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Terza Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5169 del 2013, proposto da: Jameel Fatima, rappresentata e difesa dall'avv. M. Beatrice Zammit, presso il cui studi è domiciliata elettivamente in Roma, via Alessandria, 130;
contro
il Ministero degli Affari Esteri - Ambasciata di Islamabad – in persona del Ministro p. t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
per l'annullamento
del provvedimento in data 19.03.2013 recante il rigetto istanza volta ad ottenere il visto di ingresso per motivi di turismo;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero degli Affari Esteri;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 novembre 2013 il Cons. Donatella Scala e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO
I. Con il ricorso in epigrafe la ricorrente, cittadina pakistana, impugna il provvedimento emarginato in epigrafe con cui l’intimato Ministero degli affari esteri ha respinto la richiesta di visto d’ingresso per turismo, prodotta al fine di visitare il Paese.
Deduce, al riguardo, la violazione dell’art. 10 bis, legge n. 241/1990 e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione (art. 3, legge n. 241/1990), e la violazione dell’art. 4, d.lgs. 286/98 e dell’art. 5, d.P.R. n. 394/99, eccesso di potere per carenza di presupposti.
Posto che il visto d’ingresso non poteva essere negato in presenza di tutti i requisiti di legge e, segnatamente, disponibilità dei mezzi di sussistenza, di un alloggio e idoneo titolo di viaggio, ha dedotto la violazione dell’art. 10 bis, legge n. 241/1990, essendo stata omessa la previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, ed ancora, l’insufficiente motivazione, attesa la sua genericità.
Deduce, infine, la violazione dell’art. 6, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, nonché degli artt. 24 e 117 della Costituzione, atteso che l’assenza d motivazione priverebbe la ricorrente di tutela giurisdizionale.
Si è costituita in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato per resistere al ricorso, senza peraltro, depositare documenti o spiegare memorie.
Con ordinanza n.6427/2013 del 28 giugno 2013 sono stati, pertanto, disposti incombenti istruttori a carico del resistente Ministero, che il 2 luglio 2013 ha provveduto a depositare i chiesti chiarimenti.
Alla pubblica udienza del 28 novembre 2013, fissata per la trattazione nel merito con ordinanza n. 3081/2013 del 31 luglio 2013, il Collegio ha trattenuto la causa a sentenza.
II. Il ricorso è infondato.
Occorre premettere una breve ricognizione della evoluzione della disciplina che regola l’ingresso nel territorio nazionale.
A mente dell’art. 5 del trattato di Schengen, ratificato dall'Italia con la legge n. 388/93, poi confermato dall'art. 5, comma 1, lettera c), Reg. CE n. 562/06, per l'ingresso nel territorio dei Paesi contraenti lo straniero deve esibire "i documenti che giustificano lo scopo e le condizioni del soggiorno previsto e disporre dei mezzi di sussistenza sufficienti, sia per la durata prevista del soggiorno, sia per il ritorno nel paese di provenienza"; tali formalità debbono, in particolare, essere rispettate per il rilascio del "visto uniforme" avente durata non superiore a tre mesi (artt. 10, 11 e 15 del trattato).
Sul fronte nazionale, l'art. 4, comma 3, d. lgs. n. 286/98, prevede che per conseguire il visto d’ingresso lo straniero deve dimostrare "di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza"; l'art. 5, comma 6, d.P.R. n. 394/99 stabilisce, in via applicativa, che al momento della domanda, oltre alla documentazione necessaria per il tipo di visto richiesto, lo straniero deve depositare quella concernente "la finalità del viaggio".
Occorre aggiungere che la materia dei visti è stata regolata a livello comunitario dal Codice Comunitario dei visti, istituito con il Reg. CE del 13.07.2009, n. 810/2009, il cui art. 32 indica i casi in cui il visto è rifiutato, e, specificamente, quando il richiedente: i) presenta un documento di viaggio falso, contraffatto o alterato; ii) non fornisce la giustificazione riguardo allo scopo e alle condizioni del soggiorno previsto; iii) non dimostra di disporre di mezzi di sussistenza sufficienti, sia per la durata prevista del soggiorno sia per il ritorno nel paese di origine o di residenza oppure per il transito verso un paese terzo nel quale la sua ammissione è garantita, ovvero non è in grado di ottenere legalmente detti mezzi; iv) abbia già soggiornato per 90 giorni nell'arco del periodo di 180 giorni in corso, sul territorio degli Stati membri in virtù di un visto uniforme o di un visto con validità territoriale limitata; v) è segnalato nel SIS al fine della non ammissione; vi) sia considerato una minaccia per l'ordine pubblico, la sicurezza interna o la salute pubblica, quale definita all'articolo 2, paragrafo 19, del codice frontiere Schengen, o per le relazioni internazionali di uno degli Stati membri e, in particolare, sia segnalato nelle banche dati nazionali degli Stati membri ai fini della non ammissione per gli stessi motivi; vii) non dimostra di possedere un'adeguata e valida assicurazione sanitaria di viaggio, ove applicabile (lett. a); oppure, qualora vi siano ragionevoli dubbi sull'autenticità dei documenti giustificativi presentati dal richiedente o sulla veridicità del loro contenuto, sull'affidabilità delle dichiarazioni fatte dal richiedente o sulla sua intenzione di lasciare il territorio degli Stati membri prima della scadenza del visto richiesto (lett. b).
In attuazione del Regolamento ora richiamato è stata poi adottata la decisione della Commissione C(2010) 1620 del 19 marzo 2010 che istituisce il "Manuale per il trattamento delle domande di visto e la modifica dei visti già rilasciati", a sua volta modificato con la decisione di esecuzione C(2011) 5501 del 4 agosto 2011 della Commissione medesima; nelle premesse della decisione C(2010) 1620 del 19 marzo 2010 si afferma, per quanto d’interesse, che il Manuale, adottato sulla base di apposita previsione contenuta nell'art. 51 del Codice dei visti, "non stabilisce obblighi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri né definisce nuovi diritti e doveri per i soggetti eventualmente interessati, ma mira a garantire un'applicazione armonizzata delle disposizioni giuridiche. Soltanto gli atti giuridici su cui il manuale si basa, o a cui fa riferimento, producono effetti giuridicamente vincolanti e possono essere invocati dinanzi ad un giudice nazionale….”
Il Par. 7.12 della decisione in esame impone, peraltro, alle Autorità consolari dei Paesi membri di valutare, nelle istruttorie da loro svolte ai fini del rilascio dei visti di ingresso nei rispettivi Stati, e dunque implicanti l'ingresso in tutti gli Stati della c.d. "area Schengen", gli elementi che sono di fondamentale importanza per la stessa affidabilità ed efficienza del "sistema" sul quale si regge la politica comune del rilascio dei visti medesimi, ossia: "1) il rischio che il richiedente il visto di ingresso emigri clandestinamente nel territorio degli Stati membri, avvalendosi pertanto della formale dichiarazione del fine turistico, professionale o di visita ai familiari quale pretesto per stabilirsi illegalmente e in modo permanente sul territorio anzidetto; 2) la sussistenza di un'effettiva intenzione del richiedente di lasciare il territorio degli Stati membri prima della scadenza del visto da lui chiesto; impone, altresì, di effettuare tale valutazione con riguardo, in particolare, alla situazione socioeconomica del richiedente il visto, peraltro con la precisazione che deve essere considerata una serie di fattori, quali " i vincoli familiari o altri legami personali nel paese di residenza; - i vincoli familiari o altri legami personali negli Stati membri; lo stato civile; la situazione lavorativa (livello salariale, se lavoratore dipendente); la regolarità delle entrate (lavoro dipendente, lavoro autonomo, pensione, redditi da investimenti, ecc.) del richiedente o del coniuge, dei figli o delle persone a carico; il livello del reddito; lo status sociale nel paese di residenza (ad esempio eletto a una carica pubblica, rappresentante di una ONG, professione di alto status sociale come avvocato, medico, docente universitario); il possesso di una casa o di un bene immobile".
In coerenza con le disposizioni ora riportate, sovviene il decreto del Ministero degli Affari Esteri del 11/05/2001, recante la definizione delle tipologie dei visti d'ingresso e dei requisiti per il loro ottenimento; rileva, in proposito l’art. 4, del d.m. in esame, che richiama le prescrizioni contenute nel Codice comunitario dei visti, da osservare in occasione dell'esame delle richieste di visto di breve durata e rivolte alle autorità ritenute esclusivamente competenti in siffatta materia, ossia alle rappresentanze diplomatico-consolari, che devono prestare particolare attenzione alla valutazione se il richiedente presenti un rischio di immigrazione illegale ed offra adeguate garanzie sull'uscita dal territorio degli Stati membri alla scadenza del visto richiesto, potendosi avvalere, a tali fini, della richiesta di apposita documentazione, relativa anche allo scopo del viaggio ed alla condizione socio-economica del richiedente, e di un colloquio con il richiedente il visto, con l’avvertenza che “In caso di negativo riscontro sull'autenticità e sull'affidabilità della documentazione presentata, nonché sulla veridicità e sull'attendibilità delle dichiarazioni rese, la rappresentanza diplomatico-consolare si asterrà dal rilascio del visto”.
Con riferimento alla specifica tipologia di provvedimento oggetto di controversia, il punto 19 dell’allegato A del decreto del Ministro degli Affari Esteri del 11/05/2001, dispone che il visto d’ingresso per ragioni di turismo è subordinato al possesso dei seguenti requisiti e condizioni:
a) adeguati mezzi finanziari di sostentamento, non inferiori all'importo stabilito dal Ministero dell'interno con la direttiva di cui all'art. 4, comma 3, del testo unico n. 286/1998 e successive modifiche ed integrazioni;
b) il titolo di viaggio di andata e ritorno (o prenotazione), ovvero la disponibilità di autonomi mezzi di viaggio;
c) la disponibilità di un alloggio: prenotazione alberghiera o dichiarazione di ospitalità, prestata da cittadino italiano o straniero regolarmente residente in Italia. Questa, che dovrà riportare la disponibilità del dichiarante ad offrire un alloggio in territorio nazionale al richiedente il visto, riveste valore esclusivamente ai fini della dimostrazione del possesso del requisito della disponibilità di un alloggio;
d) assicurazione sanitaria, di cui alla Decisione del Consiglio del 22 dicembre 2003.
III. Dal complesso delle disposizioni in esame si evince che alle richieste di ingresso per il soggiorno di breve durata nel territorio nazionale sono connessi obblighi assunti inderogabilmente dallo Stato italiano nei riguardi di tutti gli Stati anche non appartenenti all'Unione Europea ma partecipanti all'area Schengen; onde consentirne il pieno rispetto, alle rappresentanze diplomatiche presenti nei Paesi terzi sono affidati in via esclusiva delicati apprezzamenti discrezionali, circa il c.d. rischio migratorio, in modo che sia scongiurato il pericolo di flussi illegali di cittadini extracomunitari attraverso un uso distorto della normativa regolante i controlli di accesso alla frontiera.
Deve essere, infatti, considerato che la disciplina in tema di rilascio dei visti di ingresso di cittadini di Stati terzi entro l'area Schengen complessivamente costituita dal Codice dei visti e dal relativo Manuale deve intendersi di stretta applicazione, stante la responsabilità internazionale che l'Italia si è assunta rispetto agli altri Stati membri aderendo alla relativa Convenzione, con la conseguenza che anche la minima mancanza dei requisiti previsti in capo al richiedente il visto d'ingresso giustifica ex se l'adozione, da parte dell'Autorità competente, del conseguente provvedimento di reiezione della relativa domanda (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, n. 1207/2013 del 19 febbraio 2013).
Da quanto sopra discende che lo straniero che richiede il visto d’ingresso per turismo non deve limitarsi a dimostrare la disponibilità dei mezzi necessari ad assicurarne la sussistenza per la durata del soggiorno ed il ritorno in patria ma, più in generale, deve esibire quegli atti necessari a comprovare "lo scopo e le condizioni del soggiorno" (art. 5 del trattato di Schengen e art. 4 comma 3 d. lgs. n. 286/98) e le finalità dello stesso (art. 5 d.p.r. n. 394/99).
A tal fine, l'interessato deve fornire all'amministrazione la prova delle condizioni che giustificano le finalità del soggiorno e, nella fattispecie, trattandosi di visto d’ingresso per turismo caratterizzato da necessaria temporaneità (confermata dalla durata del soggiorno che non può essere superiore a novanta giorni: artt. 10, 11 e 15 trattato di Schengen), dei presupposti dai quali si possa ragionevolmente ritenere l'interesse dello straniero a fare rientro nel Paese d'origine onde scongiurare il c.d. "rischio migratorio", con l’ulteriore necessaria precisazione che, al fine della dimostrazione dello scopo del soggiorno, la documentazione esibita deve essere, oltre che idonea, anche attendibile, dovendosi astenere la competente autorità, in caso contrario, dal rilascio del visto (cfr. art. 32, lett. b), Codice dei visti, e art. 4, d.m. 11.05.2011).
IV. Tanto premesso, e venendo al caso in controversia, il provvedimento richiama, quale motivo posto a fondamento del diniego, le seguenti cause: i) le informazioni fornite per giustificare lo scopo e le condizioni del soggiorno previsto non sono attendibili; ii) l’intenzione di lasciare il territorio degli Stati membri prima della scadenza del visto richiesto non può essere stabilita con certezza.
Il provvedimento indica, dunque, le ragioni a base del diniego di visto, sia pure attraverso l’utilizzo di un modulo prestampato, atteso che le rappresentanze diplomatiche utilizzano motivazioni standard di diniego, mediante l’apposizione di un segno su una o più caselle che indicano ognuna le diverse ragioni che escludono la ricorrenza delle condizioni necessarie per il rilascio di un visto d’ingresso, dovendosi avvalere del modello contemplato dall'allegato VI al Codice CE dei visti, sopra richiamato.
Il Collegio ritiene, peraltro, che l’utilizzo di formule standardizzate, ancorché necessario per le ragioni sopra indicate, non esime il giudice dall’esercizio del proprio sindacato di legittimità della motivazione medesima, dovendo verificare che le formule utilizzate non siano generiche e siano idonee a disvelare l’iter logico seguito dalla P.A. attraverso l’indicazione di quale sia il requisito ritenuto insussistente e tale da giustificare il provvedimento negativo.
Nel caso in esame, invero, le cause ritenute ostative dal resistente Ministero corrispondono in modo preciso alle ipotesi che già la normativa qualifica come inibitrici del rilascio del visto d’ingresso, in ragione della inattendibilità delle dichiarazioni rese a tali fini (art. 32, lett. b) del Codice CE dei visti).
Come evidenziato nella nota dell’Ambasciata d’Italia a Islamabad, versata in atti dall’Avvocatura Generale dello Stato, la ricorrente, che pure sostiene di svolgere attività lavorativa, ha richiesto il visto d’ingresso per visitare il Paese per un periodo di ben novanta giorni, circostanza questa che risulta all’evidenza in contraddizione con le dichiarazioni rese circa l’occupazione lavorativa.
Ritiene il Collegio che nessuna censura può essere mossa all’Amministrazione che ha correttamente desunto l'esistenza del c.d. "rischio migratorio" proprio dalla inattendibilità delle dichiarazioni rese alla competente autorità, cui la normativa riserva il potere valutativo dei requisiti necessari per ottenere il visto, tra cui la ragionevolezza della intenzione di lasciare il territorio alla scadenza del visto.
In considerazione di tutto ciò, non sono stati dimostrati in modo attendibile, come richiesto dalla normativa, i requisiti contemplati dalla normativa sopra esaminata ai fini del rilascio del visto d'ingresso, con ogni effetto in ordine alle conseguenti valutazioni in merito riservate al competente Ufficio diplomatico.
In conclusione, la rilevata assenza dei requisiti necessari per ottenere il visto, con particolare riferimento alla affidabilità delle dichiarazioni fatte dal richiedente ed ai dubbi sulla sua intenzione di lasciare il territorio degli Stati membri prima della scadenza del visto richiesto, alla stregua di quanto contempla l’art. 32, lett. b), Codice Ce dei visti che, si ribadisce, conforma precettivamente gli obblighi assunti dallo Stato italiano nei riguardi di tutti gli Stati anche non appartenenti all'Unione Europea ma partecipanti all'area Schengen, e di quanto prevede l’art. 4, del d.m. del 2011, non poteva dunque che comportare la reiezione della domanda presentata dalla ricorrente per il rilascio del visto d’ingresso.
Da quanto ora osservato emerge, per l’effetto, anche l’infondatezza del vizio dedotto, sotto il profilo della omessa comunicazione delle ragioni ostative all'accoglimento dell'istanza, per il suo carattere “formale” e per la evidente inidoneità a modificare l'esito del procedimento nel caso di specie, e dunque è inidoneo a determinare ex se l'illegittimità del provvedimento di diniego finale, alla stregua dell'art. 21 octies, l. n. 241 del 1990, come modificata dalla l. n. 15 del 2005.
Sussistono motivi, con riferimento alla materia oggetto di controversia, per compensare le spese di lite.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza Ter, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Daniele, Presidente
Carlo Taglienti, Consigliere
Donatella Scala, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 19/12/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)