lunedì 29 settembre 2014

CONCESSIONI E BENI DEMANIALI: il TAR di Milano rimette alla Corte di Giustizia la proroga sino al 2030 delle concessioni demaniali marittime (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, sentenza 26 settembre 2014 n. 2401).


CONCESSIONI E BENI DEMANIALI: 
il TAR di Milano rimette 
alla Corte di Giustizia 
la proroga sino al 2030 
delle concessioni demaniali marittime
(T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 
sentenza 26 settembre 2014 n. 2401)


Ma direi che il quesito è retorico...


Quesito

I principi della libertà di stabilimento, di non discriminazione e di tutela della concorrenza, di cui agli articoli 49, 56, e 106 del TFUE, nonché il canone di ragionevolezza in essi racchiuso, ostano ad una normativa nazionale che, per effetto di successivi interventi legislativi, determina la reiterata proroga del termine di scadenza di concessioni di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale di rilevanza economica, la cui durata viene incrementata per legge per almeno undici anni, così conservando in via esclusiva il diritto allo sfruttamento a fini economici del bene in capo al medesimo concessionario, nonostante l’intervenuta scadenza del termine di efficacia previsto dalla concessione già rilasciatagli, con conseguente preclusione per gli operatori economici interessati di ogni possibilità di ottenere l’assegnazione del bene all’esito di procedure ad evidenza pubblica?



Sentenza per esteso


INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2154 del 2011, proposto da:
Promoimpresa S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Ermanno Vaglio, presso lo studio del quale ha eletto domicilio in Milano, via Vittorio Pisani, 20; 
contro
Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Mauro Ballerini e Carlo Cerami, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Milano, Galleria S.Babila, 4/A;
Regione Lombardia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Maria Lucia Tamborino, con domicilio eletto presso la sede dell’avvocatura regionale in Milano, piazza Città di Lombardia, 1; 
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
- del provvedimento n. 5637, datato 6 maggio 2011, con il quale il Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del lago di Garda e del lago di Idro ha negato il rinnovo della concessione di area demaniale extraportuale nel Comune di San Felice del Benaco di cui alla determinazione n. 432 datata 16 giugno 2006;
- della delibera della Giunta Regionale (D.G.R.) Lombardia datata 6 agosto 2008 n. 7967 nella parte in cui prevede che le concessioni demaniali possono essere rilasciate "a seguito di apposita procedura di selezione comparativa ispirata ai principi di libera circolazione dei servizi”, senza prevedere alcun regime transitorio o adeguate forme di tutela degli intestatari di concessioni demaniali anteriori alla entrata in vigore della medesima D.G.R. n. 7967/2008;
- nonché di ogni altro atto presupposto, consequenziale e comunque connesso..

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago D'Idro e di Regione Lombardia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Designato relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 marzo 2014 il dott. Fabrizio Fornataro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
La società ricorrente ha impugnato i provvedimenti indicati in epigrafe, deducendone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, sotto diversi profili, chiedendone l’annullamento.
Si è costituito in giudizio il Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro, eccependo l’infondatezza del ricorso avversario, di cui ha chiesto il rigetto.
Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, eccependo l’infondatezza del ricorso avversario e chiedendone il rigetto.
Con ordinanza n. 1362/2011, depositata in data 26 settembre 2011, il Tribunale ha respinto la domanda cautelare contenuta nel ricorso e tale decisione è stata confermata dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 4811/2011, depositata in data 31 ottobre 2011, all’esito dell’appello cautelare.
Le parti hanno prodotto memorie e documenti.
All’esito dell’udienza pubblica del 5 marzo 2014, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1) Con provvedimento n. 432, datato 16 giugno 2006 e successivo disciplinare n. 117, datato 17 agosto 2006, il Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro rilasciava alla società Promoimpresa s.r.l. la concessione per l’occupazione di un’area demaniale, di estensione pari a complessivi 222,24 mq, ad uso chiosco, bar, veranda, bagni, banchina e pontile, compresa nel demanio del Lago di Garda e sita nel territorio del Comune di San Felice del Benaco (località “Porto”).
2) L’art. 3 della concessione limitava la durata del rapporto sino al 31 dicembre 2010, prevedendone la cessazione di diritto alla maturazione di detto termine, senza necessità di atti di diffida o di messa in mora e senza possibilità per il concessionario di invocare usi o consuetudini per continuare nel godimento del titolo concessorio, che poteva essere rilasciato nuovamente a giudizio insindacabile dell’amministrazione e solo dopo la presentazione di una nuova formale istanza secondo le procedure vigenti al tempo della nuova domanda.
3) Promoimpresa s.r.l. presentava in data 14 aprile 2010 un’istanza di rinnovo della concessione, che il Consorzio respingeva con il provvedimento n. 5637, datato 6 maggio 2011, in quanto: a) la nuova concessione non poteva essere ottenuta sulla base di una mera domanda di rinnovo, ma solo nel rispetto dei principi di imparzialità, di libera concorrenza, di trasparenza, ossia mediante l’aggiudicazione della concessione all’esito di una procedura ad evidenza pubblica basata sul principio di massima partecipazione, secondo quanto previsto dal’art. 27 della D.G.R. Regione Lombardia datata 6 agosto 2008, n. 7967; b) la concessione scaduta era limitata ad una durata di 5 anni con esclusione di qualunque forma di rinnovo automatico.
4) Avverso il provvedimento di diniego del rinnovo della concessione e avverso la D.G.R. Lombardia n. 7967/2008, la società Promoimpresa s.r.l. proponeva impugnazione dinanzi al Tar per la Lombardia, articolando tre motivi di ricorso, così riassumibili: a) il primo, diretto a contestare la violazione dell’art. 1, comma 18, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, convertito con legge del 26 febbraio 2010, n. 25, nella parte in cui dispone la proroga del termine di durata delle concessioni sino al 31 dicembre 2020, intesa come norma che, seppure dettata con riferimento alle concessioni demaniali marittime, deve essere riferita anche alle concessioni demaniali lacuali, perché diretta a tutelare gli investimenti del concessionario in termini di ammortamento dei costi gestione, in diretta applicazione del principio comunitario di proporzionalità, che esige che la concorrenza si concili con l’equilibrio finanziario del concessionario; b) il secondo, diretto a contestare la violazione degli artt. 50 e 58 della D.G.R. datata 6 agosto 2008 nella parte in cui impongono di commisurare la durata delle concessione alla “proficua realizzabilità dell’investimento”, così giustificando la possibile estensione della durata della singola concessione, in coerenza con il principio di proporzionalità da applicare a ciascun caso concreto; c) il terzo, diretto a contestare la disparità di trattamento rispetto alla disciplina delle concessioni del demanio lacuale insistenti sulla sponda Veneta del Lago di Garda, in quanto la D.G.R. Regione Veneto del 7 aprile 2009, n. 880, attribuisce al concessionario un diritto di prelazione in caso di nuova assegnazione della medesima area, non previsto dalla D.G.R. Regione Lombardia n. 7967/2008 ; 4) il quarto, diretto a contestare proprio la D.G.R. Regione Lombardia n. 7967/2008, se intesa come ostativa al rinnovo della concessione, per contrasto con il principio di proporzionalità a causa della omessa previsione di un regime transitorio favorevole ai concessionari.
5) Il Tribunale evidenzia, in primo luogo, che il rapporto intercorrente tra Promoimpresa S.r.l. e il Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro presenta i caratteri della concessione, come definita dal diritto comunitario. Esso si sostanzia nell’attribuzione a Promoimpresa srl del diritto ad un uso particolare di un bene pubblico demaniale, consistente nella gestione di un’attività economica ritenuta dall’amministrazione coerente con la funzione pubblicistica del bene. Inoltre, l’attività di Promoimpresa srl, rivolta all’utenza e non all’amministrazione, si remunera sfruttando il bene demaniale a fini economici, con conseguente permanenza del rischio di impresa in capo al gestore, obbligato a versare un canone periodico all’amministrazione proprietaria del bene.
6) Ne discende che Promoimpresa srl ricava un'utilità sfruttando economicamente l’area demaniale assegnata, ossia un bene pubblico determinato, che non è disponibile in quantità illimitata. Inoltre, l’amministrazione nel decidere di destinare tale area ad un uso particolare, economicamente rilevante, consistente nella gestione sia del pontile e della banchina affacciati sul lago, sia di un bar e delle connesse attività, offre un'occasione di guadagno e di ampliamento della sfera giuridica che interessa tutti i soggetti operanti sul mercato di riferimento.
Gli elementi appena riferiti rendono evidente la natura concessoria del rapporto in esame.
7) Quanto alla disciplina legislativa applicabile, sia le censure articolate dalla ricorrente, sia le difese formulate dall’amministrazione resistente conducono a portare l’attenzione sull’art. 1, comma 18, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, convertito con legge del 26 febbraio 2010, n. 25, norma originariamente non riferibile alle concessioni lacuali, cui è stata successivamente estesa dall’art. 1, comma 547, della legge n. 228/2012 (legge di stabilità 2013).
La norma, che per completezza espositiva viene riportata testualmente nella versione vigente, dispone che “Ferma restando la disciplina relativa all'attribuzione di beni a regioni ed enti locali in base alla legge 5 maggio 2009, n. 42, nonché alle rispettive norme di attuazione, nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi lacuali e fluviali con finalità turistico-ricreative, ad uso pesca, acquacoltura ed attività produttive ad essa connesse, e sportive, nonché quelli destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento di tali concessioni, sulla base di intesa in sede di Conferenza Stato-regioni ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, che è conclusa nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell'esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti, nonché in funzione del superamento del diritto di insistenza di cui all'articolo 37, secondo comma, secondo periodo, del codice della navigazione, il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2015 è prorogato fino al 31 dicembre 2020, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 03, comma 4-bis, del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494”.
8) Il tenore letterale della norma, contenuta in un testo legislativo diretto alla “proroga di termini previsti da disposizioni legislative”, evidenzia che essa, da un lato, si riferisce genericamente alle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico - ricreative, ad uso pesca, acquacoltura, attività produttive connesse e sportive, nonché di quelli destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da diporto, dall’altro, dispone in via legislativa la proroga automatica della durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del decreto legge n. 194/2009 e in scadenza entro il 31 dicembre 2015, fissando la nuova scadenza alla data del 31 dicembre 2020.
9) Vale precisare che la prima versione dell’art. 1, comma 18, del d.l. 2009 n. 194 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2009, n. 302, stabiliva una diversa durata della proroga, prevedendo che “il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2012 è prorogato fino a tale data”.
Quindi la norma, pur prevedendo la proroga automatica delle concessioni in scadenza, ne limitava la durata alla data del 31 dicembre 2012.
In sede di conversione in legge, il riferimento al termine del 31 dicembre 2012 è stato sostituito con quello del 31 dicembre 2015.
In particolare, l’allegato 1 della legge del 26 febbraio 2010, n. 25 ha disposto che “le parole: «entro il 31 dicembre 2012» sono sostituite dalle seguenti: «entro il 31 dicembre 2015».
Ne deriva che la proroga delle concessioni, fissata sino al 31 dicembre 2012 dall’art. 1, comma 18, del d.l. 2009 n. 194, è stata spostata in avanti, sino al 31 dicembre 2015, dalla legge di conversione del 26 febbraio 2010, n. 25.
Successivamente, l’art. 34-duodecies del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, introdotto in sede di conversione dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, ha modificato l’art. 1, comma 18, del d.l. 2009 n. 194, stabilendo che “le parole: «fino a tale data» sono sostituite dalle seguenti: «fino al 31 dicembre 2020»”.
Ne deriva che con l’art. 34-duodecies del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179 il legislatore nazionale ha reiterato per altri cinque anni la proroga delle concessioni demaniali in essere, già disposta per sei anni dall’art. 1, comma 18, del decreto legge 30 dicembre 2009, n. 194, nella versione risultante dalla relativa legge di conversione.
Pertanto, attraverso la successione tra il decreto legge 2009 n. 194 e la relativa legge di conversione 2010 n. 25, il successivo decreto legge 2012 n. 179 e la conseguente legge di conversione 2012, n. 221, il legislatore nazionale ha reiteratamente prorogato le concessioni in scadenza per complessivi undici anni.
9) Ai fini della completa ricostruzione dell’evoluzione della disciplina legislativa in esame, occorre precisare che con il citato art. 1, comma 18, del decreto legge n. 194 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25, il legislatore ha modificato le preesistenti modalità di accesso degli operatori economici alle concessioni relative a beni demaniali marittimi, in ragione dei rilievi formulati dalla Commissione Europea sull’incompatibilità comunitaria della disciplina previgente. In particolare, la Commissione ha aperto nei confronti dello Stato Italiano la procedura d'infrazione n. 2008/4908 in ragione del mancato adeguamento della legislazione nazionale all'art. 12, comma 2, della direttiva n. 2006/123/CE, in base al quale è vietata qualsiasi forma di automatismo che, alla scadenza del rapporto concessorio, possa favorire il precedente concessionario. La Commissione europea, con una lettera di costituzione in mora notificata il 2 febbraio 2009, aveva ritenuto che il dettato dell'art. 37 del codice della navigazione italiano fosse in contrasto con l'art. 43 del Trattato CE (ora art. 49 del Trattato sul funzionamento dell'unione Europea, TFUE) poiché, prevedendo un diritto di preferenza a favore del concessionario uscente nell'ambito della procedura di attribuzione delle concessioni del demanio pubblico marittimo (cosiddetto diritto di insistenza), configurava una restrizione alla libertà di stabilimento e comportava in particolare discriminazioni in base al luogo di stabilimento dell'operatore economico, rendendo estremamente difficile, se non impossibile, l'accesso di qualsiasi altro concorrente alle concessioni in scadenza.
A seguito di tali rilievi, il legislatore italiano è intervenuto con l'art. 1, comma 18, del decreto-legge n. 194 del 2009, che ha disposto la soppressione del secondo periodo del secondo comma dell'art. 37 cod. nav., nella parte in cui accordava una preferenza al concessionario in scadenza.
In sede di conversione del decreto legge n. 194 del 2009, da parte della legge n. 25 del 2010, si è aggiunto un rinvio indiretto (e non previsto nel testo originario del decreto legge) all'articolo 01, comma 2, del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, che produceva l'effetto di consentire il rinnovo automatico delle concessioni, di sei anni in sei anni.
La Commissione europea, con una lettera datata 5 maggio 2010, di messa in mora complementare nell'ambito della medesima procedura di infrazione 2008/4908, ha ritenuto che tale rinvio, che stabiliva il rinnovo automatico, di sei anni in sei anni, delle concessioni in scadenza, privasse, nella sostanza, di ogni effetto l'adeguamento ai principi comunitari effettuato con il decreto-legge n. 194 del 2009 e fosse contrario, sia all'articolo 12 della direttiva 2006/123/CE, sia all'articolo 49 del TFUE, che vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento.
In seguito a questi ulteriori rilievi, l'articolo 11, comma 1, lettera a), della legge 15 dicembre 2011, n. 217 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 2010), ha abrogato il già citato comma 2 dell'articolo 01 del decreto-legge n. 400 del 1993. Lo stesso articolo 11 ha, inoltre, delegato il Governo ad adottare, entro quindici mesi dalla data di entrata in vigore della legge, un decreto legislativo avente ad oggetto la revisione e il riordino della legislazione relativa alle concessioni demaniali marittime.
In conseguenza di questi interventi legislativi, la procedura di infrazione è stata chiusa il 27 febbraio 2012.
10) Ne consegue che la reiterazione della proroga della durata delle concessioni demaniali è stata disposta dal legislatore nazionale dopo la chiusura della procedura di infrazione, attraverso il citato art. 34-duodecies del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179.
11) Il Tribunale dubita che l’art. 1, comma 18, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 - nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 34-duodecies del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, articolo introdotto in sede di conversione con legge 17 dicembre 2012, n. 221 - nella parte in cui dispone la proroga del termine di durata delle concessioni sino al 31 dicembre 2020 sia compatibile con i principi comunitari di tutela della concorrenza e parità di trattamento tra operatori economici, rispetto alla possibilità di conseguire la titolarità di una concessione demaniale, nonché con quelli di proporzionalità e ragionevolezza.
12) La questione è sicuramente rilevante nel caso concreto, perché la richiesta di rinnovo della concessione presentata da Promoimpresa s.r.l. è stata respinta dall’amministrazione anche in ragione della ritenuta inapplicabilità alla fattispecie del citato art. 1, comma 18, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194. Del resto, Promoimpresa s.r.l. lamenta proprio la mancata applicazione della norma indicata, ritenendola di portata generale, in quanto rivolta a preservare l’equilibrio finanziario del concessionario in diretta applicazione del principio comunitario di proporzionalità. Infine, la concessione rilasciata a Promoimpresa s.r.l. rientra temporalmente nell’ambito di applicazione del citato art. 1, comma 18, essendo già efficace alla data di entrata in vigore del d.l. n. 194/2009 e presentando una scadenza anteriore al 31 dicembre 2015.
13) La concessione in questione presenta un interesse transfrontaliero certo, in considerazione dei criteri elaborati dalla Corte di Giustizia e, segnatamente, quelli del luogo geografico di collocazione del bene demaniale e del valore economico della concessione medesima, in correlazione con il tipo di attività da svolgere, nonché dell’assenza di elementi di specificità tali da concentrare l’interesse a conseguirla solo in capo alle imprese stabilite in un delimitato ambito territoriale (cfr. Corte di Giustizia UE, 15 maggio 2008, n.ri C-147 e C-148/06; Corte di giustizia UE, sez. II, 17 luglio 2008, n. 347 e comunicazione della Commissione europea del 2006, n. C–179/02).
14) La qualificazione come concessione del rapporto esistente tra Promoimpresa s.r.l. e il Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro comporta immediate conseguenze sul piano della disciplina comunitaria ad essa riferibile.
15) La giurisprudenza comunitaria e nazionale ha da tempo precisato che i principi posti dal Trattato sull’Unione Europea a garanzia del buon funzionamento del mercato unico sono di applicazione generale e devono essere osservati in relazione a qualunque tipologia contrattuale tale da suscitare l'interesse concorrenziale delle imprese e dei professionisti, ancorché diversa dagli appalti di lavori, servizi e forniture, disciplinati da specifiche direttive comunitarie, come accade per le concessioni di beni pubblici di rilevanza economica, oltre che per le concessioni di servizi e gli appalti sottosoglia comunitaria (cfr. Corte di Giustizia, ordinanza 3 dicembre 2001, C-59/00; Corte di Giustizia sentenza 7 dicembre 2000, C-324; Consiglio di Stato, sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 362; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 settembre 2010, n. 7239; nello stesso senso la comunicazione della Commissione europea del 12 aprile 2000, pubblicata in Gazzetta ufficiale n. C 121 del 29 aprile 2000, richiamata e sviluppata da un circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per le politiche Comunitarie n. 945 in data 1° marzo 2002). Del resto, la pacifica circostanza che le direttive comunitarie in materia di appalti siano attuative dell’art. 81 del Trattato porta a ritenere che le norme da esse poste siano puramente applicative, con riferimento a determinati appalti, di principi generali, che, essendo sanciti in modo universale dal Trattato, sono valevoli anche per contratti e fattispecie diverse da quelle concretamente contemplate e da ciò deriva l'immediata operatività dei principi con riferimento alle concessioni di beni di rilevanza economica.
16) In altre parole, l’ordinamento comunitario è indifferente al “nomen” assegnato dall’ordinamento nazionale alla singola fattispecie e ciò impone di applicare i principi comunitari alle concessioni di beni demaniali di rilevanza economica, trattandosi di un modello di organizzazione e gestione del bene pubblico che comporta un’occasione di guadagno per i soggetti operanti sul mercato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 17 febbraio 2009, n. 902).
Si tratta in particolare dei principi di libertà di stabilimento (art. 49 TFUE ex articolo 43 del TCE), libertà di prestazione dei servizi (art. 56 TFUE ex articolo 49 del TCE), parità di trattamento e divieto di discriminazione in base alla nazionalità (artt. 49 e 56 TFUE), trasparenza e non discriminazione (art. 106 TFUE ex articolo 86 del TCE) (cfr. in argomento Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 03 marzo 2008, n. 1).
17) La necessaria applicazione dei principi comunitari alle concessioni di beni demaniali di rilevanza economica ha immediate conseguenze sulle modalità con le quali deve essere individuato il concessionario.
In particolare, la giurisprudenza comunitaria e nazionale ha evidenziato come il principio di trasparenza, strettamente legato a quello di non discriminazione perché garantisce condizioni di concorrenza non falsate, esige che le amministrazioni concedenti rendano pubblica, con appropriati mezzi di pubblicità, la loro intenzione di assegnare una concessione demaniale. Le forme di pubblicità utilizzate dovranno contenere le informazioni necessarie affinché potenziali concessionari siano in grado di valutare il loro interesse a partecipare alla procedura, come l’indicazione dei criteri di selezione ed attribuzione, l’oggetto della concessione e delle prestazioni attese dal concessionario.
A sua volta, il principio di parità di trattamento implica che le amministrazioni concedenti, pur essendo libere di scegliere la procedura di aggiudicazione più appropriata alle caratteristiche del settore interessato e di stabilire i requisiti che i candidati devono soddisfare durante le varie fasi della procedura, debbano poi garantire che la scelta del candidato avvenga in base a criteri obiettivi e che la procedura si svolga rispettando le regole e i requisiti inizialmente stabiliti, così da garantire l’effettiva apertura alla concorrenza del settore delle concessioni di beni, nonché il controllo sull'imparzialità delle procedure di aggiudicazione (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 25 aprile 1996, causa C-87/94; Corte di Giustizia, sentenza 7 dicembre 2000, causa C-324/98 e giurisprudenza già richiamata).
18) E’, dunque, evidente che l’individuazione del concessionario di un bene demaniale di rilevanza economica, come nel caso di specie, soggiace ai principi comunitari, sicché deve essere effettuata all’esito di una procedura ad evidenza pubblica, che garantisca l’apertura al mercato e il confronto competitivo tra gli operatori del settore. Procedura che impone la previa determinazione e pubblicazione dell’oggetto e degli elementi essenziali della concessione da affidare, compresa la relativa durata, trattandosi di un elemento decisivo ai fini della valutazione da parte dei potenziali concorrenti del loro interesse a partecipare alla gara.
19) Ne consegue che una volta scaduta la concessione, l’amministrazione concedente, qualora ritenga ancora coerente con l’interesse pubblico disporre “ex novo” l’affidamento in concessione del bene demaniale, deve rispettare i ricordati principi comunitari, garantendo che la scelta del concessionario avvenga all’esito di una procedura ad evidenza pubblica, dotata dei caratteri già ricordati.
20) I principi comunitari non possono essere elusi attraverso l’utilizzo di moduli convenzionali che, al di fuori del necessario confronto competitivo e della necessaria apertura al mercato, abbiano l’effetto di conservare in capo al concessionario scaduto, ossia dopo il decorso del termine di durata della concessione, il diritto ad utilizzare per finalità economiche il bene demaniale, come accade nelle ipotesi di proroga o di rinnovo della concessione in favore dello stesso concessionario (cfr. in argomento Consiglio Stato, sez. VI, 30 settembre 2010, n. 7239; T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 24 aprile 2013, n. 721).
Allo stesso modo, anche la sostituzione nel corso del rapporto concessorio di un soggetto ad un altro nella concreta gestione del bene demaniale non può avvenire in elusione dei principi comunitari. Il subentro del terzo nella concessione può verificarsi nella forma del sub-contratto, quando dall’originaria concessione, che permane immutata, scaturisce un nuovo rapporto contrattuale fra concessionario e terzo, oppure nella forma della successione nel rapporto, con il terzo che succede nella concessione sostituendo l'originario concessionario. In entrambi i casi l’individuazione del terzo non può eludere il principio del confronto concorrenziale, sicché deve avvenire all’esito di una procedura ad evidenza pubblica (cfr. in argomento T.A.R. Liguria Genova, sez. II, 13 dicembre 2011, n. 1799).
21) Si tratta di principi che trovano pieno riscontro nella più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana.
Invero, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di norme di leggi regionali che prevedevano, in tema di demanio marittimo, una proroga automatica delle concessioni già esistenti, ribadendo che il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni contrasta con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, determinando, altresì, una disparità di trattamento tra operatori economici, in violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e) Cost., dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore se non nel caso in cui questi non chieda la proroga o la chieda senza un valido programma di investimenti. Al contempo, una disciplina siffatta impedisce l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato, ponendo barriere alla sua dilatazione tali da alterare la concorrenza (cfr. Corte Costituzionale, 4 luglio 2013, n. 171; Corte Costituzionale, 13 gennaio 2014, n. 2). Parimenti, con riferimento ai rinnovi e alle proroghe automatiche di contratti in concessione relativi al trasporto pubblico locale, la Corte ha reiteratamente affermato che non è consentito al legislatore regionale di disciplinare il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni alla loro scadenza - in contrasto con i principi di temporaneità e di apertura alla concorrenza - poiché, in tal modo, dettando vincoli all'entrata nel mercato, verrebbe ad alterare il corretto svolgimento della concorrenza nel settore del trasporto pubblico locale, determinando una disparità di trattamento tra operatori economici (cfr. Corte Costituzionale, 11 aprile 2011, n. 123)
Ne consegue che, rispetto alle concessioni di beni demaniali, cui si riferisce il caso in esame, è solo con l'affidamento mediante procedure concorsuali che si realizza un’effettiva apertura di tali settori al mercato così da garantire il superamento di assetti monopolistici. Invero, “la disciplina delle procedure di gara, la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione mirano a garantire che le medesime si svolgano nel rispetto delle regole concorrenziali e dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei principi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento. La gara pubblica, dunque, costituisce uno strumento indispensabile per tutelare e promuovere la concorrenza” (cfr. Corte Costituzionale, 22 dicembre 2011, n. 339; in argomento già Corte Costituzionale, 18 gennaio 2008, n. 1 e Corte Costituzionale, 23 novembre 2007, n. 401).
22) Sul punto, la Corte di giustizia UE ha evidenziato, in relazione alle concessioni di distribuzione del gas naturale e alla possibilità di prorogare con legge il periodo transitorio della loro durata, che: a) tali concessioni devono essere assegnate nel rispetto delle regole fondamentali del Trattato CE e, in particolare, del principio di non discriminazione sulla base della nazionalità; b) la proroga legale del termine di durata, “comportando il rinvio dell'assegnazione di una nuova concessione mediante procedura ad evidenza pubblica, costituisce, almeno durante il periodo del suddetto rinvio, una disparità di trattamento a danno delle imprese aventi sede in uno Stato membro diverso da quello dell'amministratore aggiudicatrice e che potrebbero essere interessate a tale concessione” (cfr. Corte giustizia UE, sez. II, 17 luglio 2008, n. 347).
Si tratta di affermazioni di portata generale, perché espressive dei principi generali del diritto comunitario e, pertanto, direttamente riferibili anche a concessioni diverse da quelle di servizi, come le concessioni di beni demaniali.
23) Le considerazioni appena espressa conducono il Tribunale ad evidenziare la contrarietà del vigente art. 1, comma 18, del d.l. 2009, n. 194, con la libertà di stabilimento garantita dal diritto comunitario, perché la reiterata proroga del termine di scadenza delle concessioni demaniali configura una restrizione ingiustificata di tale libertà ed in particolare una discriminazione in base al luogo di stabilimento dell’operatore economico, rendendo estremamente difficile, se non impossibile, l’accesso di qualsiasi altro concorrente alle concessioni in scadenza.
Nel contempo, la proroga sottrae, in modo reiterato, l’assegnazione in concessione del bene demaniale al confronto competitivo tra gli operatori, in palese violazione del principio di tutela della concorrenza.
Sotto altro profilo, il susseguirsi di norme legislative che spostano automaticamente in avanti il termine di scadenza delle concessioni demaniali determina la consolidazione di posizioni di sostanziale monopolio nello sfruttamento economico del bene stesso, in palese violazione dei principi sottesi alla realizzazione del mercato unico e del canone della parità di trattamento tra gli operatori economici del settore.
24) La reiterazione della proroga non può essere giustificata, nei casi in esame, da esigenze di certezza del diritto, principio che appartiene all’ordinamento comunitario e che si impone ad ogni autorità nazionale che debba applicare il diritto comunitario (cfr. Corte di Giustizia UE, 21 settembre 1983, cause riunite 205/82-215/82; Corte giustizia UE, sez. II, 17 luglio 2008, n. 347).
Invero, l’art. 1, comma 18, del d.l. 2009 n. 194 si riferisce a concessioni in scadenza entro il 31 dicembre 2015, per le quali viene disposta la proroga sino al 31 dicembre 2020. Non si tratta di un intervento diretto a modificare la disciplina della durata del rapporto concessorio in modo imprevedibile al tempo del rilascio della concessione o tale da sorprendere il concessionario. Una simile violazione della certezza del diritto può verificarsi in caso di anticipazione della scadenza programmata della concessione, ma non nelle ipotesi, cui è riconducibile la disciplina in esame, di prolungamento della durata del rapporto concessorio scaduto, ad esclusivo favore del concessionario.
25) Parimenti, la disciplina in esame non può essere giustificata dal principio di adeguatezza e proporzionalità, in relazione all’esigenza di preservare l’equilibrio finanziario del concessionario.
In primo luogo, perché si tratta di una disciplina che incide in modo indifferenziato su una pluralità di rapporti concessori tra loro diversi, che possono esprimere o meno esigenze di equilibrio finanziario del concessionario, ipotizzabili in astratto, ma non suffragate da concrete indicazioni.
Inoltre, la circostanza che l’equilibrio finanziario del concessionario debba essere necessariamente accertato in dipendenza delle caratteristiche del singolo rapporto concessorio e del tipo di investimenti effettuati dal gestore, conduce a ritenere che i casi di disequilibrio debbano essere valutati individualmente e possano giustificare al più misure di carattere amministrativo relative a ciascun rapporto, se connotato da squilibri finanziari e sulla base della disciplina convenzionale di ciascuna particolare concessione.
26) Le considerazioni ora svolte conducono il Tribunale ad evidenziare un ulteriore profilo di incompatibilità comunitaria dell’art. 1, comma 18, del d.l. 2009, n. 194.
La generalizzazione della proroga reiterata del termine di durata di tutte le concessioni di un certo tipo non si correla, come evidenziato, a concrete esigenze di salvaguardia della parità di trattamento tra operatori economici, in relazione al mantenimento dell’equilibrio finanziario del concessionario in scadenza, sicché risulta del tutto irragionevole e, per tale via, contrastante proprio con il canone della proporzionalità. Essa, infatti, non sottende una ratio comunitariamente compatibile ed anzi determina una situazione di sostanziale monopolio e di ingiustificato privilegio per gli operatori beneficiari delle concessioni demaniali cui si riferisce.
Inoltre, si tratta di una misura che, sottraendo al mercato, per un periodo tutt’altro che esiguo, concessioni di beni di rilevanza economica, incide in modo eccessivamente pregiudizievole e, pertanto, sproporzionato nella sfera giuridica degli operatori del settore, cui è preclusa la possibilità di conseguire simili utilità, nonostante l’assenza di ragionevoli e concrete esigenze a fondamento della reiterazione della proroga.
27) In definitiva, ai fini della decisione del ricorso indicato in epigrafe, il Tribunale ritiene di sollevare la seguente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE (ex articolo 234 del TCE), in relazione all’interpretazione della normativa comunitaria:
“I principi della libertà di stabilimento, di non discriminazione e di tutela della concorrenza, di cui agli articoli 49, 56, e 106 del TFUE, nonché il canone di ragionevolezza in essi racchiuso, ostano ad una normativa nazionale che, per effetto di successivi interventi legislativi, determina la reiterata proroga del termine di scadenza di concessioni di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale di rilevanza economica, la cui durata viene incrementata per legge per almeno undici anni, così conservando in via esclusiva il diritto allo sfruttamento a fini economici del bene in capo al medesimo concessionario, nonostante l’intervenuta scadenza del termine di efficacia previsto dalla concessione già rilasciatagli, con conseguente preclusione per gli operatori economici interessati di ogni possibilità di ottenere l’assegnazione del bene all’esito di procedure ad evidenza pubblica?”

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta)
Visto l'art. 267 del TFUE;
Visto l'art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione Europea;
Visto l'art. 3 della L. 13 marzo 1958, n. 204;
Vista la "Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte delle giurisdizioni nazionali", diramata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea e pubblicata sulla G.U.C.E. del 28 maggio 2011;
RIMETTE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale indicata in motivazione;
SOSPENDE il processo fino alla definizione della questione pregiudiziale;
DISPONE che il presente provvedimento, unitamente a copia del fascicolo della causa, sia trasmesso, in plico raccomandato, alla Cancelleria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 5 marzo 2014 con l'intervento dei magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Elena Quadri, Consigliere
Fabrizio Fornataro, Primo Referendario, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/09/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


domenica 28 settembre 2014

ACCESSO: il diritto d'accesso del datore di lavoro ai verbali ispettivi è recessivo rispetto alla tutela della riservatezza dei lavoratori (Cons. St., Sez. VI, sentenza 28 febbraio 2014, n. 863)


ACCESSO: 
il diritto d'accesso 
del datore di lavoro 
ai verbali ispettivi è recessivo
 rispetto alla tutela della riservatezza dei lavoratori (Cons. St., Sez. VI, 
sentenza 28 febbraio 2014, n. 863) 


Un caso di overrulling un materia d'accesso.
Direi ineccepibile.

Massima

1. La Sezione ritiene che il punto nodale di tale questione, relativa al corretto bilanciamento fra i contrapposti diritti costituzionalmente garantiti alla tutela dei propri interessi giuridici (art. 24 Cost. nonché art. 6 CEDU) ed alla riservatezza dei lavoratori e delle dichiarazioni da loro rese in sede ispettiva (artt. 4, 32 e 36 Cost. nonché art. 8 CEDU), risulta essere l’ambito di applicazione dell’art. 24, co. 7, della l. n. 241/1990 (nella parte in cui dispone che l’accesso deve “comunque” essere garantito ai soggetti che lo richiedono “per curare o per difendere i propri interessi giuridici”), rispetto alle esigenze prese in considerazione da altre disposizioni di legge, applicabili in materia.
2. Deve sottolinearsi, in proposito, come la predetta tutela - da intendersi come categoria che ricomprende, senza esaurirlo o assorbirlo, il diritto alla difesa giurisdizionale dei propri interessi ai sensi dell’art. 24 della Costituzione - per quanto privilegiata, non risulta di per se stessa garantita dall’ordinamento in via generale ed assoluta, ma va necessariamente contemperata con la tutela dei contrapposti interessi che trovano il loro fondamento in norme costituzionali e subcostituzionali, sia legislative che regolamentari, nell’ottica di un corretto bilanciamento fra tutele d’interessi di livello normativo quantomeno equiordinato, se non costituzionalmente sovraordinato.
In questo ambito assume una sicura e particolare rilevanza la tutela della riservatezza dei lavoratori che hanno reso dichiarazioni in sede ispettiva, volta sia a prevenire eventuali ritorsioni o indebite pressioni da parte del datore di lavoro, sia a preservare, in un contesto più ampio, l’interesse generale ad un compiuto controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro.
3. In relazione a questo profilo la Sezione ritiene di dover modificare il proprio orientamento.
Osserva, infatti, la Sezione che - così come la cura e la difesa degli “interessi giuridici” delle società che richiedono l'accesso risulta tutelata dall'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990 - allo stesso modo la tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva, quale controlimite rispetto al precitato diritto alla cura ed alla difesa dei propri interessi giuridici, trova il suo fondamento - oltre che nella normativa costituzionale ed europea precedentemente ricordata (artt. 4, 32 e 36 Cost. nonché art. 8 CEDU) - anche nell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 20 maggio 1970), il quale dispone che “è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale”.
Detta disposizione dello Statuto dei lavoratori - quale “espressione di un principio generale” dell’ordinamento (Cass. Civ., 12 giugno 1982, n. 3592) - nel precludere la possibilità per il datore di lavoro di entrare in possesso di informazioni sensibili e non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore, fornisce una tutela privilegiata alla riservatezza dei lavoratori rispetto alle ingerenze nella loro sfera privata.
In questo ambito trova logica collocazione - in ossequio al disposto dell’art. 24, comma 6, lettera d) della legge n. 241 del 1990 e come specificazione del precitato divieto legislativo - il decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale n. 757 del 4 novembre 1994 che, all’art. 2, comma 1, lettere b) e c), stabilisce che siano sottratti al diritto d’accesso i “documenti contenenti le richieste di intervento dell’Ispettorato del Lavoro” nonché quelli “contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi”.
4. Ritiene, pertanto, la Sezione che non può ritenersi sussistente una recessività generalizzata della tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva rispetto alle esigenze di tutela degli interessi giuridicamente rilevanti delle società che richiedono l'accesso, ma deve al contrario ritenersi in via generale prevalente, se non assorbente, la tutela apprestata dall'ordinamento alle esigenze di riservatezza delle suddette dichiarazioni, contenenti dati sensibili la cui divulgazione potrebbe comportare, nei confronti dei lavoratori, azioni discriminatorie o indebite pressioni.
4.1 Ciò, in primo luogo, alla luce della considerazione, rispondente ad esigenze di giustizia sostanziale, che i lavoratori risultano la “parte debole” del rapporto contrattuale esistente fra loro e le società istanti: è, infatti, lo stesso art. 24, comma 6, lettera d) della legge n. 241 del 1990 che impone di prendere atto delle realtà dei singoli settori della vita sociale e di riconoscere rilevanza alle esigenze di riservatezza delle “persone fisiche”, e ciò a maggior ragione quando le medesime siano potenzialmente esposte ad un danno o ad un pericolo di danno connesso all’ostensione di dati a loro riferibili.
In altri termini, i lavoratori devono essere posti in grado di collaborare con le autorità amministrative e giudiziarie, di presentare esposti e denunce, senza temere possibili ritorsioni nell’ambiente di lavoro nel quale vivono quotidianamente.
Sotto tale profilo, dunque, la stessa lettera d) del comma 6 del citato art. 24 deve ritenersi riferita, su un piano sistematico che procede dall’apice delle previsioni costituzionali, alla tutela della riservatezza di coloro che ragionevolmente risultano “più deboli” nell’ambito del rapporto di lavoro che, nell’ordine delle priorità costituzionali, sancite dagli stessi artt.1 e 4 Cost., è fatto oggetto di una tutela fondativa dell’intero sistema dei diritti fondamentali.
4.2 A quanto precede deve peraltro aggiungersi che, anche in assenza dell'accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori, la tutela degli interessi giuridici vantati dalle società medesime risulta “comunque” pienamente garantita dall'ordinamento.
Infatti, la preclusione dell'accesso alle dichiarazioni ispettive non consente di far ritenere sostanzialmente “affievolita” la tutela concessa alle società istanti al fine di difendere i propri interessi, soprattutto con riferimento alla cura ante causam degli stessi: la compiuta conoscenza dei fatti e delle allegazioni contestate alle società datrici di lavoro, necessaria al fine di non incorrere in violazioni dell'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, risulta di norma assicurata dal contenuto del verbale di accertamento relativo alle dichiarazioni de quibus - contenente il puntuale elenco delle violazioni contestate alle società istanti e dei fatti dai quali sono scaturite, in ossequio al generale principio dell'obbligo di motivazione delle contestazioni amministrative e/o penali - dalla documentazione che ogni datore di lavoro è tenuto a possedere nonché, in ultima istanza, dalla possibilità di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria.
Alla luce di quanto esposto, dunque, la documentazione a cui si richiede di accedere, contenente dichiarazioni senza dubbio sensibili, non risulta - come invece richiesto ai sensi dell'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, così come novellato dalla legge n. 15 del 2005 - “strettamente indispensabile” al fine di curare o difendere gli interessi giuridicamente rilevanti delle società datrici di lavoro, con la conseguenza che l’ostensione della medesima può essere negata qualora non ricorrano peculiari e comprovate situazioni, adeguatamente e specificamente motivate dalle società istanti.
5. A quanto precede va, peraltro, aggiunto che le predette conclusioni - relative alle istanze di accesso promosse da società datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive - per il principio di non contraddizione devono ritenersi estensibili anche nei confronti delle richieste di accesso avanzate da società non datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le citate dichiarazioni, ma alle medesime legate da un vincolo di coobbligazione solidale.
5.1 Ciò, in primo luogo, in quanto la prevalenza del diritto alla riservatezza dei lavoratori che hanno reso le dichiarazioni rispetto alla tutela garantita dall'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, come sopra rilevata, risulta un principio di carattere generale che, come tale, opera a prescindere dalla circostanza che l'istante sia o meno il datore di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni stesse.
5.2 In secondo luogo, la prevalenza del diritto alla riservatezza, così come sopra rilevata, è volta a garantire anche “l’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro”: tale interesse verrebbe, infatti, compromesso dalla reticenza dei lavoratori a rendere dichiarazioni ispettive, che potrebbe generarsi a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro diretto fra soggetto che ha reso le dichiarazioni e società istante.
5.3 A quanto precede va, peraltro, aggiunto che consentire l’accesso alle società non datrici di lavoro accorderebbe a soggetti terzi rispetto al vincolo contrattuale una tutela che non si garantisce agli stessi datori di lavoro, portatori di un interesse diretto all'acceso: ciò finirebbe per creare delle illogiche disparità di trattamento, garantendo al soggetto che ha maggior interesse all'accesso (il datore di lavoro) un tutela inferiore rispetto a quella concessa ai soggetti esterni rispetto al vincolo contrattuale.
5.4 Inoltre, sotto il profilo processuale, deve rilevarsi che in un eventuale giudizio relativo alla mancata esecuzione del “verbale di coobbligazione solidale” le posizioni delle società, sia di quella datrice di lavoro che di quella appaltante, risulterebbero in ogni caso sostanzialmente omogenee, stante la possibilità per la società appaltante di esperire un intervento ad adiuvandum nei confronti della società appaltatrice: ciò potrebbe implicare, dunque, che la società non datrice di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive potrebbe produrre in giudizio, a fini difensivi, proprio i documenti il cui accesso era stato precluso, in ragione di quanto sopra esposto, alla società datrice di lavoro.
Ne deriverebbe, dunque, una piena ostensione processuale delle identità e delle dichiarazioni dei dipendenti nei confronti della società datrice di lavoro, con conseguente elusione della prevalenza del diritto alla riservatezza dei lavoratori medesimi, come sopra evidenziata.
5.5 Infine, deve rilevarsi come si assista - peraltro non solo in ambito nazionale - ad una crescente tendenza all’esternalizzazione dei rapporti di lavoro, attuata tramite la creazione di società satelliti o comunque con la instaurazione di rapporti con soggetti erogatori di servizi di “manodopera” che sostituiscono, più o meno strutturalmente, le maestranze della società appaltante: tale tendenza non può, dunque, che creare forme di solidarietà de facto tra imprese, anche al di fuori di situazioni di effettivo controllo azionario della società appaltante sulla società appaltatrice.
Anche sotto un profilo meramente fattuale, quindi, consentire l’accesso alle società non datrici di lavoro, ma fruitrici della “esternalizzazione”, rischierebbe di rendere sostanzialmente inutiliter datum il divieto di ostensione ai datori di lavoro dei documenti riguardanti dichiarazioni ispettive dei propri lavoratori, così come in precedenza riconosciuto, in ragione della sempre più probabile esistenza di contatti e di confluenza di interessi operativi fra società coobbligate.


Precedenti orientamenti giurisprudenziali 

1. Sulla questione di merito relativa al diritto d’accesso agli atti ispettivi, contenenti dati riservati o quantomeno sensibili, da parte di società non collegate da un rapporto di lavoro diretto con i lavoratori che tali dichiarazioni hanno reso, nonché sulla questione, strettamente connessa alla precedente, relativa al corretto bilanciamento fra i contrapposti diritti costituzionalmente garantiti alla tutela dei propri interessi giuridici (art. 24 Cost. nonché art. 6 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) ed alla riservatezza dei lavoratori e delle dichiarazioni da loro rese in sede ispettiva (artt. 4, 32 e 36 Cost. nonché art. 8 CEDU) - si rinviene un orientamento giurisprudenziale della Sezione che - ritenendo prioritarie le necessità difensive delle società istanti, tutelate dall’art. 24 Cost. e dal disposto dell’art. 24, co. 7 della l. n. 241/1990, nella parte in cui dispone che l’accesso sia garantito “comunque” a chi debba acquisire determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti - ha concesso alle società istanti di accedere alle dichiarazioni rese in sede ispettiva da lavoratori non direttamente impiegati presso le società medesime.
Ciò anche in ragione dell'assunto secondo cui in assenza di un rapporto lavorativo diretto fra lavoratori e società istanti non sarebbe applicabile la normativa regolamentare che non consente l'accesso agli atti contenenti le dichiarazioni rese agli ispettori del lavoro, qualora dalle medesime possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni a carico dei lavoratori, ed in particolare il decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale n. 757 del 4 novembre 1994. 
2. Parallelamente a detto orientamento la giurisprudenza della Sezione, benché con indirizzo non univoco, si è anche orientata nel senso di non consentire l’accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori ai succitati ispettori del lavoro nell’ipotesi in cui il predetto accesso sia stato chiesto dalle società che hanno un rapporto lavorativo diretto con i medesimi lavoratori e ciò in ragione del fatto che - anche sulla base di una valutazione effettuata in merito alle singole fattispecie di causa - nel bilanciamento dei contrapposti interessi doveva ritenersi prevalente quello alla tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori al fine di proteggerli da eventuali ritorsioni o indebite pressioni che il datore di lavoro, con cui avevano un rapporto di diretta dipendenza, avrebbe potuto svolgere nei loro confronti.
3. In una recentissima sentenza della Sezione, infine, il tema del corretto bilanciamento fra i precitati diritti costituzionalmente garantiti è stato affrontato, pur senza decidere nel merito della questione, rilevando come - anche nella materia dell’accesso da parte di società non datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive così come in caso di accesso “diretto” da parte dei datori di lavoro - si potrebbe procedere ad una valutazione “caso per caso” delle richieste di accesso agli atti, in modo che si possa tener conto degli elementi di fatto e di diritto concretamente posti a fondamento delle richieste medesime, in quanto non potrebbe “affermarsi in modo aprioristico una generalizzata recessività dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori, a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al diritto di difesa” (Cons. di Stato, Sez. VI, 11 luglio 2013, n. 4035).


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3128 del 2013, proposto dalla:
società Sda Express Courier Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Angelo Vallefuoco e Valerio Vallefuoco, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, viale Regina Margherita, 294; 
contro
Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonino Sgroi, Lelio Maritato, Carla D'Aloisio ed Emanuele De Rose, con i quali domicilia in Roma, via Cesare Beccaria 29; Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
nei confronti di
Ditta Servizi 2011, Consorzio Ilc, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, non costituiti nella presente fase di giudizio; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III n. 743/2013, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’ Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2014 il Consigliere Claudio Boccia e uditi per le parti gli avvocati Filippo Loria per delega degli avvocati Angelo Vallefuoco e Valerio Vallefuoco, l’avvocato Carlo D'Aloisio e l’avvocato dello Stato Daniela Giacobbe;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Con il ricorso n. 7503 del 2012, proposto al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la società SDA Express Courier s.p.a. chiedeva l'accesso a tutti gli atti ed i documenti contenuti nel fascicolo del procedimento concluso con il “verbale di obbligazione solidale” del 9 maggio 2012, redatto nei confronti della ditta Servizi 2011 e del Consorzio ILC, entrambi legati alla società istante da un contratto di appalto di servizi.
La medesima società chiedeva, inoltre, l'annullamento del diniego espresso dall'Inps il 3 giugno 2012, comunicatole il successivo 2 luglio, sull'istanza di accesso agli atti presentata dalla società stessa il 22 maggio 2012, previo - ove necessario - annullamento ovvero disapplicazione in parte qua della normativa di natura regolamentare emanata dall'Inps in materia di accesso agli atti.
2. Con la sentenza n. 743 del 2013, il Tar per il Lazio accoglieva il predetto ricorso, annullando il diniego di accesso di cui alla nota del 3 giugno 2012, riconoscendo alla società istante il diritto di accedere alla documentazione richiesta e compensando le spese del giudizio in ragione dell'“oscillazione giurisprudenziale” in materia.
3. Avverso detta sentenza la società SDA Express Courier s.p.a. ha proposto appello (ricorso n. 3128 del 2013) lamentandone l'erroneità, limitatamente al profilo relativo alla statuizione sulla compensazione delle spese di giudizio, in quanto non vi sarebbe stata alcuna “oscillazione giurisprudenziale” nella materia di cui è causa al momento della presentazione del ricorso di primo grado, con la conseguenza che la compensazione delle spese legali sarebbe irragionevole e violerebbe quanto previsto dagli artt. 91 e 92, comma 2, c.p.c. e dall’art. 26, comma 1 c.p.a.
3.1. In data 10 maggio 2013 si costituiva in giudizio l'Inps.
3.2. In data 31 maggio 2013 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con un unico atto, presentava una memoria di costituzione in giudizio nella quale rilevava l’infondatezza della censura proposta dalla società appellante - in merito alla decisione del giudice sulla compensazione delle spese di giudizio - ed un appello incidentale avverso l'impugnata sentenza del Tar per il Lazio, in base ai seguenti motivi di diritto:
- erroneità della sentenza del giudice di prime cure nella parte in cui ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione passiva del Ministero, in ragione del fatto che la società appellante non avrebbe impugnato “né le determinazioni, né il silenzio serbato dal Ministero in ordine alla richiesta di accesso agli atti presentata” dalla società SDA Express Courier;
- erroneità dell'impugnata sentenza nella parte in cui non ha dichiarato il ricorso di primo grado irricevibile per tardività, in ragione della circostanza che il termine per la proposizione del ricorso avverso il silenzio serbato dal Ministero sarebbe scaduto, ai sensi dell'art. 116, comma 1 c.p.a., il 31 luglio 2012 e, quindi, prima della notificazione del ricorso di primo grado, avvenuta il 14 settembre 2012;
- erroneità dell'impugnata sentenza per non aver dichiarato la nullità del ricorso n. 7503 del 2012 in ragione dell’“incertezza assoluta sull'oggetto della domanda ai sensi dell'art. 44, comma 1 c.p.a.”;
- erroneità dell'impugnata sentenza nella parte in cui ha accolto il ricorso della società appellante, in quanto il giudice di prime cure avrebbe dovuto ritenere prevalenti le tutele costituzionali poste a difesa dei lavoratori (artt. 4, 32 e 36 Cost.) rispetto alla tutela del diritto alla difesa della predetta società SDA Express Courier.
4. Con le memorie del 7 giugno e dell’11 giugno 2013, la società appellante articolava ulteriormente le proprie difese, lamentando in particolare l’inammissibilità dell’appello incidentale proposto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
4.1. Con la memoria del 14 giugno 2013 l’Amministrazione contestava la fondatezza dell’eccezione sollevata dalla società SDA Express Courier in merito all’ammissibilità dell’appello incidentale proposto dall’Amministrazione stessa.
5. All’udienza del 25 giugno 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.
5.1. Dopo il passaggio in decisione della causa, con l'ordinanza n. 4165 del 2013, il Collegio ha rilevato la possibile mancata integrazione del contraddittorio in primo grado, in quanto il ricorso non risultava notificato ad alcuno dei controinteressati (ovvero i lavoratori di cui al verbale di obbligazione solidale del 9 maggio 2012), ed ha assegnato alle parti un termine di quindici giorni - decorrenti dalla notificazione o comunicazione in via amministrativa della succitata ordinanza - per presentare memorie vertenti su quest'unica questione.
5.2 Nelle more della decisione, con nota dell’11 settembre 2013, il Consigliere Antonio Malaschini, componente del Collegio decidente, ha rassegnato le proprie dimissioni da Consigliere di Stato: si è reso pertanto necessario, non essendo possibile riconvocare il Collegio decidente nella sua originaria composizione, fissare una nuova udienza camerale per la trattazione del ricorso.
All’udienza camerale fissata, con il decreto del Presidente della Sezione VI n. 9 del 7 gennaio 2014, per il 28 gennaio 2014, il Collegio ha confermato la statuizione di trattenere la causa in decisione.
6. Preliminarmente il Collegio, preso atto di un’ulteriore memoria depositata per il tramite dell’Avvocatura di Stato il 24 gennaio 2014 dal Ministero appellante, rileva che le parti in causa hanno adempiuto a quanto richiesto con la citata ordinanza di questo Consiglio di Stato n. 4165 del 2013.
Con memoria del 23 settembre 2013, infatti, la società SDA Express Courier ha rilevato, in punto di fatto, che in assenza del previo accesso ai documenti sarebbe stata nell’impossibilità di procedere all’integrazione del contraddittorio in favore di lavoratori dalla medesima non dipendenti, visto che nel verbale sono riportati solo il nome ed il cognome dei singoli lavoratori e che l’eccezione relativa alla mancata notifica ai controinteressati del ricorso di primo grado non risulta essere stata riproposta dall’Amministrazione con la memoria di costituzione e l’appello incidentale del 23 settembre 2013.
A quanto precede ha aggiunto, in punto di diritto, che proprio in ragione della posizione rivestita dai citati lavoratori ad essi non si sarebbe potuto attribuire - come statuito dal giudice di primo grado - la qualifica di controinteressati nel presente giudizio, in cui rileva la sola posizione di obbligato solidale pecuniario dell’appellante, in relazione al comportamento tenuto sotto il profilo previdenziale dal Consorzio ILC e dalla ditta Servizi 2011 e non quella - in realtà non sussistente - di “datore di lavoro dei lavoratori coinvolti, ai fini di eventuali esigenze di riservatezza, per evitare ritorsioni o comportamenti discriminatori”.
Ne deriverebbe, a giudizio della società appellante, che il contraddittorio in primo grado risulterebbe correttamente costituito anche in assenza della notifica del ricorso di primo grado ai lavoratori dipendenti dal Consorzio ILC e dalla ditta Servizi 2011 e che, conseguentemente, l’appello dalla medesima proposto dovrebbe essere accolto con contestuale rigetto dell’appello incidentale presentato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
La società SDA Express Courier ha, infine, chiesto di rimettere la presente causa, ai sensi dell’art. 99, commi 1 e 2 c.p.a., all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, qualora il Collegio ritenesse di discostarsi dai precedenti univoci nella materia de qua del giudice di primo grado e di quello d’appello.
6.1. Con le memorie del 21 agosto 2013 e del 24 gennaio 2014 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha chiesto l'annullamento dell'impugnata sentenza del Tar per il Lazio, oltre che per le ragioni già prospettate nella memoria di costituzione ed appello incidentale del 31 maggio 2013, anche per la carenza di contraddittorio inficiante il giudizio di prime cure, dal momento che il ricorso di primo grado non è stato notificato ad alcuno dei lavoratori di cui al verbale d’obbligazione solidale del 9 maggio 2012 di cui è pacifica la qualifica di controinteressati.
6.2. Osserva il Collegio che, come rilevato dalla società SDA Courier Express, la questione relativa all'errata formazione del contraddittorio ed alla natura di controinteressati in senso tecnico dei lavoratori di cui al “verbale di obbligazione solidale” del 9 maggio 2012, è stata sollevata dall'Amministrazione dinanzi al giudice di prime cure, che ha respinto la relativa istanza, ma non è stata riproposta con l'appello incidentale promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Non si è dunque avuto, nel caso di specie, l'effetto devolutivo tipico dell'appello, con la conseguenza che sul relativo capo della sentenza impugnata - con cui il giudice di prime cure ha stabilito che ai citati lavoratori non si può attribuire la qualifica di controinteressati nel presente giudizio - si è formato il giudicato che preclude l’esame della succitata questione nel corso del presente giudizio d'appello.
6.3. Ciò posto il Collegio ritiene di esaminare le eccezioni di rito sollevate dalla società appellante con la memoria dell'11 giugno 2013.
In primo luogo non può essere condiviso l’assunto secondo cui nel rito dell’accesso non sarebbe configurabile l’appello incidentale, in ragione del particolare oggetto del giudizio, con la conseguenza che sarebbe inammissibile l’appello incidentale presentato dall’Amministrazione.
Osserva, infatti, il Collegio che la tesi della società appellante non trova riscontro nelle disposizioni di cui all’art. 116 c.p.a. né in alcun altra disposizione del c.p.a. dove viceversa viene stabilito (art. 97) che “può intervenire nel giudizio d’impugnazione…. chi vi ha interesse”.
In secondo luogo non può essere condivisa la censura, presentata dalla società appellante, secondo cui l’appello incidentale presentato dall’Amministrazione sarebbe configurabile come “appello sostanzialmente autonomo”, con la conseguenza che il medesimo - soggiacendo ai termini ordinari di impugnazione previsti dall’art. 92, comma 1 c.p.a. - sarebbe inammissibile in quanto tardivo.
Osserva il Collegio che ai sensi dell’art. 96, comma 5, c.p.a. “l’impugnazione incidentale di cui all’art. 334 del codice di procedura civile deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla data in cui si è perfezionata nei suoi confronti la notificazione dell’impugnazione principale…” e che ai sensi dell’art. 87 comma 3, c.p.a. nei giudizi in materia di accesso ai documenti amministrativi i termini per la presentazione dell’appello sono dimezzati, risultando pari a trenta giorni.
Da quanto esposto deriva, dunque, che l’appello incidentale proposto dall’Amministrazione doveva essere notificato nel termine di cui all’art. 96 c.p.a. ma dimezzato ai sensi dell’art. 87, comma 3 c.p.a., ovvero entro 30 giorni dall’avvenuta notificazione dell’appello principale.
Orbene, nel caso di specie, l’appello principale è stato notificato all’Amministrazione in data 23 aprile 2013: risulta, dunque, in termini l’appello incidentale presentato dal Ministero, in quanto notificato alla società appellante in data 23 maggio 2013.
7. Il Collegio ritiene che, definite le questioni di rito nei termini che precedono, si possa passare all’esame del merito della controversia, iniziando dall’appello incidentale proposto dall’Amministrazione, in ragione del fatto che quest’ultimo contiene una questione sostanziale di carattere dirimente da cui dipende la definizione della causa in oggetto.
Con il precitato atto l’Amministrazione ha, infatti, lamentato l'erroneità dell'impugnata sentenza del Tar per il Lazio nella parte in cui ha accolto il ricorso della società appellante, in quanto il giudice di prime cure avrebbe dovuto ritenere prevalenti le tutele costituzionali poste a difesa dei lavoratori (artt. 4, 32 e 36 Cost.) rispetto alla tutela del diritto alla difesa della predetta società SDA Express Courier.
7.1. In proposito va rilevato che - sulla questione di merito relativa al diritto d’accesso agli atti ispettivi, contenenti dati riservati o quantomeno sensibili, da parte di società non collegate da un rapporto di lavoro diretto con i lavoratori che tali dichiarazioni hanno reso, nonché sulla questione, strettamente connessa alla precedente, relativa al corretto bilanciamento fra i contrapposti diritti costituzionalmente garantiti alla tutela dei propri interessi giuridici (art. 24 Cost. nonché art. 6 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) ed alla riservatezza dei lavoratori e delle dichiarazioni da loro rese in sede ispettiva (artt. 4, 32 e 36 Cost. nonché art. 8 CEDU) - si rinviene un orientamento giurisprudenziale della Sezione che - ritenendo prioritarie le necessità difensive delle società istanti, tutelate dall’art. 24 della Costituzione e dal disposto dell’art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, nella parte in cui dispone che l’accesso sia garantito “comunque” a chi debba acquisire determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti - ha concesso alle società istanti di accedere alle dichiarazioni rese in sede ispettiva da lavoratori non direttamente impiegati presso le società medesime (Cons. di Stato, Sez. VI, 26 marzo 2013, n. 1684; 12 dicembre 2012, n. 6380; 9 maggio 2011, n. 2747; 16 dicembre 2010, nn. 9102 e 9103).
Ciò anche in ragione dell'assunto - peraltro logicamente subordinato rispetto alla valutazione precedentemente citata - secondo cui in assenza di un rapporto lavorativo diretto fra lavoratori e società istanti non sarebbe applicabile la normativa regolamentare che non consente l'accesso agli atti contenenti le dichiarazioni rese agli ispettori del lavoro, qualora dalle medesime possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni a carico dei lavoratori, ed in particolare il decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale n. 757 del 4 novembre 1994. Parallelamente a detto orientamento la giurisprudenza della Sezione, benché con indirizzo non univoco, si è anche orientata nel senso di non consentire l’accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori ai succitati ispettori del lavoro nell’ipotesi in cui il predetto accesso sia stato chiesto dalle società che hanno un rapporto lavorativo diretto con i medesimi lavoratori e ciò in ragione del fatto che - anche sulla base di una valutazione effettuata in merito alle singole fattispecie di causa - nel bilanciamento dei contrapposti interessi doveva ritenersi prevalente quello alla tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori al fine di proteggerli da eventuali ritorsioni o indebite pressioni che il datore di lavoro, con cui avevano un rapporto di diretta dipendenza, avrebbe potuto svolgere nei loro confronti (Cons. di Stato, Sez. VI, 7 dicembre 2009, n. 7678; 9 febbraio 2009, n. 736; 22 aprile 2008, n. 1842; 27 gennaio 1999 n. 65; 4 luglio 1997, n. 1066; 19 novembre 1996, n. 1604).
In una recentissima sentenza della Sezione, infine, il tema del corretto bilanciamento fra i precitati diritti costituzionalmente garantiti è stato affrontato, pur senza decidere nel merito della questione, rilevando come - anche nella materia dell’accesso da parte di società non datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive così come in caso di accesso “diretto” da parte dei datori di lavoro - si potrebbe procedere ad una valutazione “caso per caso” delle richieste di accesso agli atti, in modo che si possa tener conto degli elementi di fatto e di diritto concretamente posti a fondamento delle richieste medesime, in quanto non potrebbe “affermarsi in modo aprioristico una generalizzata recessività dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori, a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al diritto di difesa” (Cons. di Stato, Sez. VI, 11 luglio 2013, n. 4035).
8. In ragione dell'indubbia rilevanza dei sopracitati diritti costituzionalmente garantiti, la Sezione ha ritenuto necessario procedere ad un approfondimento della questione di diritto in esame per stabilire un orientamento uniforme su una tematica oggetto di ampio dibattito.
Ad un più maturo esame, la Sezione ritiene che il punto nodale di tale questione, relativa al corretto bilanciamento fra i contrapposti diritti costituzionalmente garantiti alla tutela dei propri interessi giuridici (art. 24 Cost. nonché art. 6 CEDU) ed alla riservatezza dei lavoratori e delle dichiarazioni da loro rese in sede ispettiva (artt. 4, 32 e 36 Cost. nonché art. 8 CEDU), risulta essere l’ambito di applicazione dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 (nella parte in cui dispone che l’accesso deve “comunque” essere garantito ai soggetti che lo richiedono “per curare o per difendere i propri interessi giuridici”), rispetto alle esigenze prese in considerazione da altre disposizioni di legge, applicabili in materia.
Deve sottolinearsi, in proposito, come la predetta tutela - da intendersi come categoria che ricomprende, senza esaurirlo o assorbirlo, il diritto alla difesa giurisdizionale dei propri interessi ai sensi dell’art. 24 della Costituzione - per quanto privilegiata, non risulta di per se stessa garantita dall’ordinamento in via generale ed assoluta, ma va necessariamente contemperata con la tutela dei contrapposti interessi che trovano il loro fondamento in norme costituzionali e subcostituzionali, sia legislative che regolamentari, nell’ottica di un corretto bilanciamento fra tutele d’interessi di livello normativo quantomeno equiordinato, se non costituzionalmente sovraordinato.
In questo ambito assume una sicura e particolare rilevanza la tutela della riservatezza dei lavoratori che hanno reso dichiarazioni in sede ispettiva, volta sia a prevenire eventuali ritorsioni o indebite pressioni da parte del datore di lavoro, sia a preservare, in un contesto più ampio, l’interesse generale ad un compiuto controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro.
In relazione a questo profilo la Sezione ritiene di dover modificare il proprio orientamento, così come in precedenza ricordato.
Osserva, infatti, la Sezione che - così come la cura e la difesa degli “interessi giuridici” delle società che richiedono l'accesso risulta tutelata dall'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990 - allo stesso modo la tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva, quale controlimite rispetto al precitato diritto alla cura ed alla difesa dei propri interessi giuridici, trova il suo fondamento - oltre che nella normativa costituzionale ed europea precedentemente ricordata (artt. 4, 32 e 36 Cost. nonché art. 8 CEDU) - anche nell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 20 maggio 1970), il quale dispone che “è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale”.
Detta disposizione dello Statuto dei lavoratori - quale “espressione di un principio generale” dell’ordinamento (Cass. Civ., 12 giugno 1982, n. 3592) - nel precludere la possibilità per il datore di lavoro di entrare in possesso di informazioni sensibili e non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore, fornisce una tutela privilegiata alla riservatezza dei lavoratori rispetto alle ingerenze nella loro sfera privata.
In questo ambito trova logica collocazione - in ossequio al disposto dell’art. 24, comma 6, lettera d) della legge n. 241 del 1990 e come specificazione del precitato divieto legislativo - il decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale n. 757 del 4 novembre 1994 che, all’art. 2, comma 1, lettere b) e c), stabilisce che siano sottratti al diritto d’accesso i “documenti contenenti le richieste di intervento dell’Ispettorato del Lavoro” nonché quelli “contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che - alla luce del quadro normativo sopra esposto e nell'ottica di un corretto bilanciamento fra contrapposte esigenze costituzionalmente e legislativamente garantite - non può ritenersi sussistente una recessività generalizzata della tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva rispetto alle esigenze di tutela degli interessi giuridicamente rilevanti delle società che richiedono l'accesso, ma deve al contrario ritenersi in via generale prevalente, se non assorbente, la tutela apprestata dall'ordinamento alle esigenze di riservatezza delle suddette dichiarazioni, contenenti dati sensibili la cui divulgazione potrebbe comportare, nei confronti dei lavoratori, azioni discriminatorie o indebite pressioni.
Ciò, in primo luogo, alla luce della considerazione, rispondente ad esigenze di giustizia sostanziale, che i lavoratori risultano la “parte debole” del rapporto contrattuale esistente fra loro e le società istanti: è, infatti, lo stesso art. 24, comma 6, lettera d) della legge n. 241 del 1990 che impone di prendere atto delle realtà dei singoli settori della vita sociale e di riconoscere rilevanza alle esigenze di riservatezza delle “persone fisiche”, e ciò a maggior ragione quando le medesime siano potenzialmente esposte ad un danno o ad un pericolo di danno connesso all’ostensione di dati a loro riferibili.
In altri termini, i lavoratori devono essere posti in grado di collaborare con le autorità amministrative e giudiziarie, di presentare esposti e denunce, senza temere possibili ritorsioni nell’ambiente di lavoro nel quale vivono quotidianamente.
Sotto tale profilo, dunque, la stessa lettera d) del comma 6 del citato art. 24 deve ritenersi riferita, su un piano sistematico che procede dall’apice delle previsioni costituzionali, alla tutela della riservatezza di coloro che ragionevolmente risultano “più deboli” nell’ambito del rapporto di lavoro che, nell’ordine delle priorità costituzionali, sancite dagli stessi artt.1 e 4 Cost., è fatto oggetto di una tutela fondativa dell’intero sistema dei diritti fondamentali.
A quanto precede deve peraltro aggiungersi che, anche in assenza dell'accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori, la tutela degli interessi giuridici vantati dalle società medesime risulta “comunque” pienamente garantita dall'ordinamento.
Infatti, la preclusione dell'accesso alle dichiarazioni ispettive non consente di far ritenere sostanzialmente “affievolita” la tutela concessa alle società istanti al fine di difendere i propri interessi, soprattutto con riferimento alla cura ante causam degli stessi: la compiuta conoscenza dei fatti e delle allegazioni contestate alle società datrici di lavoro, necessaria al fine di non incorrere in violazioni dell'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, risulta di norma assicurata dal contenuto del verbale di accertamento relativo alle dichiarazioni de quibus - contenente il puntuale elenco delle violazioni contestate alle società istanti e dei fatti dai quali sono scaturite, in ossequio al generale principio dell'obbligo di motivazione delle contestazioni amministrative e/o penali - dalla documentazione che ogni datore di lavoro è tenuto a possedere nonché, in ultima istanza, dalla possibilità di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria.
Alla luce di quanto esposto, dunque, la documentazione a cui si richiede di accedere, contenente dichiarazioni senza dubbio sensibili, non risulta - come invece richiesto ai sensi dell'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, così come novellato dalla legge n. 15 del 2005 - “strettamente indispensabile” al fine di curare o difendere gli interessi giuridicamente rilevanti delle società datrici di lavoro, con la conseguenza che l’ostensione della medesima può essere negata qualora non ricorrano peculiari e comprovate situazioni, adeguatamente e specificamente motivate dalle società istanti.
A quanto precede va, peraltro, aggiunto che le predette conclusioni - relative alle istanze di accesso promosse da società datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive - per il principio di non contraddizione devono ritenersi estensibili anche nei confronti delle richieste di accesso avanzate da società non datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le citate dichiarazioni, ma alle medesime legate da un vincolo di coobbligazione solidale.
Ciò, in primo luogo, in quanto la prevalenza del diritto alla riservatezza dei lavoratori che hanno reso le dichiarazioni rispetto alla tutela garantita dall'art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, come sopra rilevata, risulta un principio di carattere generale che, come tale, opera a prescindere dalla circostanza che l'istante sia o meno il datore di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni stesse.
In secondo luogo, la prevalenza del diritto alla riservatezza, così come sopra rilevata, è volta a garantire anche “l’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro”: tale interesse verrebbe, infatti, compromesso dalla reticenza dei lavoratori a rendere dichiarazioni ispettive, che potrebbe generarsi a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro diretto fra soggetto che ha reso le dichiarazioni e società istante.
A quanto precede va, peraltro, aggiunto che consentire l’accesso alle società non datrici di lavoro accorderebbe a soggetti terzi rispetto al vincolo contrattuale una tutela che non si garantisce agli stessi datori di lavoro, portatori di un interesse diretto all'acceso: ciò finirebbe per creare delle illogiche disparità di trattamento, garantendo al soggetto che ha maggior interesse all'accesso (il datore di lavoro) un tutela inferiore rispetto a quella concessa ai soggetti esterni rispetto al vincolo contrattuale.
Inoltre, sotto il profilo processuale, deve rilevarsi che in un eventuale giudizio relativo alla mancata esecuzione del “verbale di coobbligazione solidale” le posizioni delle società, sia di quella datrice di lavoro che di quella appaltante, risulterebbero in ogni caso sostanzialmente omogenee, stante la possibilità per la società appaltante di esperire un intervento ad adiuvandum nei confronti della società appaltatrice: ciò potrebbe implicare, dunque, che la società non datrice di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive potrebbe produrre in giudizio, a fini difensivi, proprio i documenti il cui accesso era stato precluso, in ragione di quanto sopra esposto, alla società datrice di lavoro.
Ne deriverebbe, dunque, una piena ostensione processuale delle identità e delle dichiarazioni dei dipendenti nei confronti della società datrice di lavoro, con conseguente elusione della prevalenza del diritto alla riservatezza dei lavoratori medesimi, come sopra evidenziata.
Infine, deve rilevarsi come si assista - peraltro non solo in ambito nazionale - ad una crescente tendenza all’esternalizzazione dei rapporti di lavoro, attuata tramite la creazione di società satelliti o comunque con la instaurazione di rapporti con soggetti erogatori di servizi di “manodopera” che sostituiscono, più o meno strutturalmente, le maestranze della società appaltante: tale tendenza non può, dunque, che creare forme di solidarietà de facto tra imprese, anche al di fuori di situazioni di effettivo controllo azionario della società appaltante sulla società appaltatrice.
Anche sotto un profilo meramente fattuale, quindi, consentire l’accesso alle società non datrici di lavoro, ma fruitrici della “esternalizzazione”, rischierebbe di rendere sostanzialmente inutiliter datum il divieto di ostensione ai datori di lavoro dei documenti riguardanti dichiarazioni ispettive dei propri lavoratori, così come in precedenza riconosciuto, in ragione della sempre più probabile esistenza di contatti e di confluenza di interessi operativi fra società coobbligate.
9.In ragione di quanto precede il motivo all'esame della Sezione risulta fondato.
Pertanto, l'appello incidentale presentato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, assorbito ogni ulteriore motivo, risulta fondato e va, quindi, accolto e, conseguentemente, va respinto l'appello principale promosso dalla società SDA Courier Express s.p.a. .
10. Il Collegio ritiene che la complessità delle questioni affrontate ed i particolari profili giuridici della causa consentono la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Accoglie l’appello incidentale proposto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio del 25 giugno 2013 e 28 gennaio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere
Claudio Boccia, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 24/02/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)