sabato 16 novembre 2013

AFORISMI: la vera forza.



AFORISMI: 
la vera forza.


La vera forza sta non nel vincere sull'altro,
ma nel saper proteggere chi è più debole.

PROCEDIMENTO: niente art. 7 della L. n. 241/1990 in caso di procedimento su istanza di parte esitato in un provvedimento vincolato (Cons. St., Sez. VI, sentenza 4 novembre 2013 n. 5289).



PROCEDIMENTO: 
niente art. 7 della L. n. 241/1990
in caso di procedimento su istanza di parte 
esitato in un provvedimento vincolato
 (Cons. St., Sez. VI, 
sentenza 4 novembre 2013 n. 5289).


Massima

1. In via generale, non sussiste un obbligo di avviso di avvio del procedimento in caso di procedimento promosso su istanza di parte e culminato in un provvedimento vincolato.
2.  In via particolare, deve predicarsi il suesposto principio in merito alla rivalutazione dei canoni demaniali marittimi ex L. n. 296/2006, procedimento speciale finalizzato a superare canoni risalenti e da adeguare invece, secondo una ragione di bilanciamento dei valori più attuale, alla capacità di reddito e alla utilità economica del bene, che comunque è e resta un bene pubblico, per il concessionario, secondo i criteri, i parametri e gli importi a metro quadrato direttamente predeterminati dalla predetta legge finanziaria.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6540 del 2011, proposto da
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; 
contro
Porto di San Foca s.p.a., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'avv. Rodolfo Barsi, con domicilio eletto presso Marco Gardin in Roma, via Laura Mantegazza, n. 24; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE I n. 00814/2011, resa tra le parti, concernente canone concessione area demaniale marittima nel Comune di Melendugno.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della società appellata;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 luglio 2013 il Cons. Vito Carella e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Clemente e Cerceo per delega di Barsi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
La società per azioni “Porto di San Foca”, concessionaria di area demaniale marittima nel Comune di Melendugno finalizzata alla realizzazione e gestione del porto turistico per il canone annuo di € 21.734,49 salvo aggiornamento annuale, con l’atto introduttivo e i successivi motivi aggiunti ha impugnato i provvedimenti specificati nella sentenza oggetto di appello, a mezzo dei quali l’amministrazione le ha richiesto il pagamento della annualità 2006-2007-2008, rispettivamente rideterminata e incrementata in applicazione dell'art. 4 della legge 4 dicembre 1993, n. 494, e dell’art. 1, commi 251 e 252, della legge finanziaria 29 dicembre 2006, n. 296 (€ 24.100,57 - € 128.491,12 - € 131.767,64).
A questi atti ha fatto seguito il decreto in data 1 settembre 2008, anch’esso gravato unitamente al prospetto di riliquidazione dell’esposizione complessiva (€ 231.481,40), con cui è stata applicata la riduzione del 50% della misura del canone per la concessione demaniale in argomento per il periodo 2002-2006 (in accoglimento dell'istanza del concessionario datata 7 aprile 2008) ed è stato rideterminato il canone dovuto per gli anni 2007 e 2008, ai sensi della sopravvenuta normativa innanzi citata.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Lecce, ritenuta la giurisdizione e con condanna alle spese, ha statuito, in affinità a quanto accade nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1623 Cod. civ., che l’imprevisto e consistente aumento del canone, pur a seguito della doverosa applicazione di norme di legge, comporti obbligo per l’amministrazione pubblica di preavviso del relativo procedimento di aggiornamento, al fine di consentire al concessionario una adeguata rinegoziazione delle condizioni economiche ovvero in termini di scioglimento dal vincolo assunto.
Il Ministero appellante, con due motivi di censura, ha denunziato l’erroneità della sentenza con riferimento alla affermata giurisdizione del giudice amministrativo e per quanto concerne l’asserita assenza della comunicazione di avvio del procedimento in ordine alla rideterminazione di legge del canone ed alla sua incidenza sulla redditività della concessione.
Con il controricorso la società appellata ha opposto la natura non meramente patrimoniale della controversia e come la statuizione di omissione partecipativa sia stata sorretta da una più poderosa motivazione censurante la unilaterale rideterminazione e la stima sulla redditività del bene in concessione.
Le parti hanno presentato rispettive memorie e repliche.
All’udienza del 2 luglio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO
Con il gravame in esame, il Ministero appellante nega la giurisdizione del giudice amministrativo e contesta l’obbligo di una preventiva comunicazione di avvio del procedimento alla società ingiunta nella rideterminazione del canone concessorio in applicazione dell'art. 4 della legge 4 dicembre 1993, n. 494, e dell’art. 1, commi 251 e 252, della legge finanziaria 29 dicembre 2006, n. 296.
Relativamente alla questione della giurisdizione, da rigettare, va ribadita la competenza del giudice amministrativo in materia di rivalutazione dei canoni concessori demaniali marittimi, alla stregua di consolidati precedenti di questa VI Sezione del Consiglio di Stato (3 febbraio 2011, n. 787; 14 ottobre 2010, n. 7505; 26 maggio 2010, n. 3348).
In ordine al contestato onere di preavviso, censura invece meritevole di accoglimento, è sufficiente osservare che l’impugnato d.m. 1 settembre 2008 è stato emanato su istanza di parte datata 7 aprile 2008 e reca nel suo dispositivo esplicito riferimento all’art. 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, al fine di eventuali osservazioni da parte della concessionaria, che non risulta averle presentate e che, pertanto, non può ora venire contro il fatto proprio.
Con il predetto decreto, rispetto al quale gli atti di riliquidazione si pongono in chiave di esecuzione, si è proceduto alla riduzione del canone per la concessione in argomento per il periodo 2002-2006 del 50 % e alla rideterminazione dello stesso, a decorrere dal 1 gennaio 2007, come previsto dalle specifiche norme della citata legge finanziaria nonché, nel contempo, sono stati annullati e sostituiti i decreti anteriormente emanati in vicenda.
Orbene, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente in primo grado, merita osservare a conseguenza che, se la censura di omesso preavviso è riferita ai provvedimenti antecedenti, questi sono stati oggetto di ritiro e, quindi, non più lesivi; se, invece, la relativa doglianza è da rapportare al conclusivo d.m. 1 settembre 2008, essa risulta inesistente per le ragioni dinanzi precisate, sia perché la partecipazione è stata sollecitata e sia perché l’atto è stato adottato su istanza di parte.
Non sussiste un obbligo di avviso di avvio del procedimento in caso di procedimento promosso su istanza di parte e culminato in un provvedimento vincolato, come è quello in esame, finalizzato a superare canoni risalenti e da adeguare invece, secondo una ragione di bilanciamento dei valori più attuale, alla capacità di reddito e alla utilità economica del bene, che comunque è e resta un bene pubblico, per il concessionario, secondo i criteri, i parametri e gli importi a metro quadrato direttamente predeterminati dalla richiamata legge finanziaria.
Rispetto a tali previsioni legali, non compatibile e neppure conferente è il richiamo all’art. 1623 (Modificazioni sopravvenute del rapporto contrattuale) Cod. civ., che prevede la (ontologicamente contrastante ai fini che ne occupano) riduzione ad equità o la risoluzione del contratto per notevole onerosità sopravvenuta a causa di legge: facoltà del resto non esercitate dal ricorrente originario e a tutto concedere praticabili solo quando la legge vada ad incidere sulla “gestione produttiva” e non anche se la legge intervenga indirettamente sulla “gestione corrente” con la nuova disciplina del settore.
Del resto, vale al contrario rilevare che la legge finanziaria in questione ha operato un adattamento del canone, che era sproporzionato in danno dello Stato a causa della sua patente inadeguatezza in relazione al tempo trascorso e ai fenomeni di deprezzamento maturati riguardo al valore del bene in concessione e alla redditività ordinariamente ritraibile dal concessionario.
Alla luce delle considerazioni innanzi svolte, deriva quindi l'accertata fondatezza dell’appello, che va pertanto parzialmente accolto quanto alla questione originaria del dedotto omesso preavviso, con conseguente riforma in parte qua della sentenza appellata.
Sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di lite relative al doppio grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, a riforma parziale della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Lecce, n. 814 del 5 maggio 2011, respinge il ricorso in primo grado.
Compensa interamente tra le parti le spese di lite relative al doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Aldo Scola, Consigliere
Vito Carella, Consigliere, Estensore
Claudio Contessa, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

giovedì 14 novembre 2013

NOVITA': il "nuovo Codice Deontologico Forense di Sant'Alfonso Maria de' Liguori.


NOVITA':
 il "nuovo Codice Deontologico Forense 
di Sant'Alfonso Maria de' Liguori.


Ieri sono intervenuto ad un Convegno in materia deontologica.
Ho parlato della "pubblicità", ossia del nuovo art. 10 del Legge di Riforma Professionale (la n. 247/2012).
Poi mi sono ricordato di un "nuovo" Codice, redatto più di due secoli fa da un Avvocato.
Che era pure Santo.
E mi è sembrato davvero attuale.



  • 1. Non bisogna accettare mai Cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscienza, e pel decoro.
  • 2. Non si deve difendere una Causa con mezzi illeciti, ed ingiusti.
    3. Non si deve aggravare il Cliente di spese indoverose, altrimenti resta all’Avvocato l’obbligo della restituzione.
  • 4. Le Cause dei Clienti si devono trattare con quell’impegno, con cui si trattano le Cause proprie.
  • 5. E necessario lo studio dei Processi per dedurne gli argomenti validi alla difesa della Causa.
  • 6. La dilazione, e la trascuratezza negli Avvocati spesso dannifica i Clienti, e si devono rifare i danni, altrimenti si pecca contro la giustizia.
  • 7. L’Avvocato deve implorare da Dio l’ajuto nella difesa, perché Iddio e il primo Protettore della giustizia.
  • 8. Non è lodevole un Avvocato, che accetta molte Cause superiori a suoi talenti, alle sue forze, ed al tempo, che spesso gli mancherà per prepararsi alla difesa.
  • 9. La Giustizia, e l’Onestà non devono mai separarsi dagli Avvocati Cattolici, anzi si devono sempre custodire come la pupilla degli occhi.
  • 10. Un Avvocato, che perde una Causa per sua negligenza si carica dell’obbligazione di rifar tutt’i danni al suo Cliente.
  • 11. Nel difendere le Cause bisogna essere veridico, sincero, rispettoso, e ragionato.
  • 12. Finalmente, diceva Alfonso, i requisiti di un Avvocato sono la Scienza, la Diligenza, la Verità, la Fedeltà, e la Giustizia ”.

mercoledì 13 novembre 2013

SERVIZI PUBBLICI LOCALI & SOCIETA' PUBBLICHE: ottimo "excursus" sulle modifiche legislative in materia di società pubbliche e servizi pubblici locali (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza 6 ottobre 2013).


SERVIZI PUBBLICI LOCALI 
& SOCIETA' PUBBLICHE: 
ottimo "excursus" sulle modifiche legislative 
in materia di società pubbliche 
e servizi pubblici locali 
(Cass. Civ., Sez. Lav., 
sentenza 6 ottobre 2013)



"Excursus" storico-legislativo

1. Sul piano legislativo deve premettersi che la L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22, recante l'ordinamento delle autonomie locali, prevedeva che comuni e province, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedessero alla gestione dei servizi pubblici aventi ad oggetto la realizzazione di fini sociali e la promozione dello sviluppo economico e civile delle comunità locali (comma 1), mediante varie forme giuridiche (in economia, in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, di istituzione o di società per azioni a prevalente capitale pubblico, comma 3).
1.1  Il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 recante il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, nella sua originaria formulazione, ribadì che questi ultimi avrebbero dovuto provvedere alla gestione dei servizi pubblici di interesse delle comunità locali nelle stesse forme già individuate dalla L. n. 142, art. 22 (artt. 112 e 113). 
1.2  A breve distanza di tempo, tuttavia, l'impostazione del D.Lgs. n. 267 del 2000 fu rivista dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 35 nell'ambito del patto di stabilità interno per gli enti pubblici (previsto dal capo terzo del titolo terzo della legge).
Tale art. 35 modificò detto art. 113 ed introdusse l'art. 113 bis, distinguendo la gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza industriale (art. 113) dalla gestione dei servii pubblici locali privi di rilevanza industriale (art. 113 bis).
1.3  Deve richiamarsi la formulazione dell'art. 113 adottata in tale occasione, la quale, sotto la rubrica Gestione delle reti ed erogazione dei servici pubblici locali di rilevanza industriale, prevedeva che la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, ove separata dall'attività di erogazione dei servizi, dovesse essere effettuata dagli enti locali, anche in forma associata, mediante a) "soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati, cui può essere affidata direttamente tale attività", b) "imprese idonee, da individuare mediante procedure ad evidenza pubblica ..." (comma 4). 
1.4  Lo stesso art. 113 prevedeva, inoltre, che l'erogazione del servizio, dovesse avvenire in regime di concorrenza, secondo le apposite discipline di settore "con conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica" (comma 5). In particolare, era previsto il divieto di "ogni forma di differenziazione nel trattamento dei gestori di pubblico servizio in ordine al regime tributario, nonché alla concessione da chiunque dovuta di contribuzioni o agevolazioni per la gestione del servizio" (comma 10).
2.  Si tratta, in altre parole di una vera e propria opzione di carattere gestionale, in relazione alla onerosità dell'attività, tanto è vero che gli enti in questa ipotesi sono posti dinanzi all'alternativa di avvalersi o di soggetti economici costituiti in forma societaria partecipata dagli enti interessati, oppure di idonee imprese da scegliere attraverso pubblica gara (comma 4). Dunque, la forma societaria di diritto privato è per l'ente locale una modalità di gestione degli impianti consentita dalla legge e prescelta dall'ente stesso per la duttilità dello strumento giuridico, in cui il perseguimento dell'obiettivo pubblico è caratterizzato dall'accettazione delle regole del diritto privato.
2.1  Le disposizioni in esame definiscono il proprio ambito di applicazione non secondo il titolo giuridico in base al quale le società operano, ma in relazione all'oggetto sociale di queste ultime. Tali disposizioni sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse.
Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza.
2.2  Questi concetti sono ben presenti nella giurisprudenza costituzionale la quale, soprattutto al fine di individuare il corretto discrimine tra la legislazione regionale e quella statuale, considera la legislazione ora in esame quale frutto di disposizioni che mirano a separare la sfera di attività amministrativa da quella privata per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è, dunque, negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza (Corte Cost. 1.08.08 n. 326).
3.  Giova ricordare il principio enunziato dalle Sezioni unite con la sentenza 19.12.09 n. 26806 che - nello statuire che spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti - ha affermato che non è configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. 
Tale principio è stato adottato da tutta la giurisprudenza successiva delle Sezioni Unite anche in relazione a società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totalitaria, anche se sottoposte a penetranti poteri di controllo dell'ente pubblico ed anche se la s.p.a. gestisce un servizio pubblico essenziale (SS.UU. 07.07.11 n. 14957; SS.UU. 12.10.11 n. 20940; 5.07.11 n. 14655).


Sentenza per esteso

Intestazione
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
[…]
  
FATTO
1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Torino Iride s.p.a.proponeva opposizione avverso cartella esattoriale ad essa notificata da Equitalia Nomos s.p.a., con la quale era stato ingiunto il pagamento della somma di cui alla cartella per omesso versamento all'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), nel periodo indicato dei contributi per cassa integrazione straordinaria e ordinaria, mobilità e indennità di malattia dovuti per i propri dipendenti, oltre le relative somme aggiuntive e gli interessi di mora. Sosteneva l'opponente che la sua ragione societaria privata era trasposizione solo formale delle originarie aziende municipali di erogazione di pubblici servizi e che essa conservava la sua originaria natura di azienda pubblica e rimaneva soggetta alla normativa pubblicistica. Il Tribunale di Torino accoglieva l'opposizione proposta da Iride Servizi s.p.a. ed annullava la cartella.
2.- Proposto appello dall'INPS, la Corte d'appello di Torino con sentenza 30.11.2010 accoglieva l'impugnazione e rigettava l'opposizione. Ritiene la Corte d'appello che Iride spa non gode dell'esenzione contributiva riservata dalla legge alle imprese pubbliche, essendo assoggettata alla comune disciplina delle società per azioni. Pertanto, essa non rientra fra le imprese esonerate dall'applicazione della cassa integrazione guadagni (D.L.C.P.S. 12 agosto 1947, n. 869, art. 3 e della L. 5 novembre 1968, n. 1115, art. 2 e della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 16) ed è tenuta al pagamento della contribuzione relativa, nonchè della contribuzione conseguente per la mobilità dei lavoratori rientranti nel campo di applicazione della cassa integrazione. La società appellante per la Corte torinese non rientra neppure nella categoria delle aziende di pubblici servizi, che, al pari delle aziende pubbliche, non sono soggette all'assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria (R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 40, n. 2 e D.P.R. 24 aprile 1957, n. 818, art. 36), nè gode del regime derogatorio previsto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 20 (conv. dalla L. 5 agosto 2008, n. 133), che ha stabilito che l'obbligo assicurativo in questione sia applicato alle dette aziende solo a decorrere dall'1.01.09. Veniva invece respinta la domanda concernente l'indennità di malattia
3.- Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione Iren s.p.a. (già Iride spa). Risponde l'INPS con controricorso, in proprio e quale mandatario della SCCI s.p.a. Non svolge attività difensiva Equitalia Nomos sp.a. La ricorrente ha depositato memoria.
DIRITTO
4.- I motivi di impugnazione della società ricorrente sono i seguenti.
4.1.- Primo motivo: violazione dell'art. 132 c.p.c. e nullità della sentenza di appello per erroneità delle indicazioni riportate nella sua motivazione, riferita a società diversa dalla ricorrente.
4.2.- Secondo motivo: quanto alla contribuzione CIGO-CIGS, violazione di legge e carenza di motivazione, in quanto alla presente controversia (relativa alla contribuzione dovuta negli anni 2006 e 2007) trova applicazione il D.Lgs. n. 448 del 2001, art. 35 e, pertanto, a differenza che sotto il vigore della L. n. 142 del 1990 (art. 22), gli enti locali per la gestione di servizi, reti, impianti e beni non hanno più la facoltà, ma l'obbligo di valersi di "soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati" (L. n. 142, art. 113, come modificato dal D.Lgs. n. 448, art. 35), di modo la società di capitali partecipata assume la funzione di ente strumentale dell'ente locale per l'esercizio dei servizi pubblici. Iride Servizi, dunque, rientrerebbe tra le imprese escluse dall'applicazione delle norme sull'integrazione dei guadagni degli operai dell'industria, ai sensi dell'art. 3, comma 1, nel testo vigente, risultante dalle modifiche apportate dalla L. 8 agosto 1972, n. 464, art. 1 e dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, art. 4, comma 1.
Del resto, il D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 3 considera impresa pubblica il soggetto economico su cui un soggetto pubblico può esercitare un'influenza dominante, quale, nella forma del controllo, consegue alla proprietà della maggioranza della società e il diritto di nominare più della metà dei componenti del consiglio di amministrazione.
4.3.- Terzo motivo, quanto alla contribuzione per la mobilità violazione della L. n. 223 del 1991, art. 16, commi 1 e 2, atteso che l'accoglimento del secondo motivo comporterebbe l'automatico esonero da tale contribuzione, che è dovuta solo per le aziende tenute alla contribuzione CIGS-CIGO. 4.4.- Quarto motivo: si allega l'illogicità e contraddittorietà della motivazione (nella quale si ritiene equa la compensazione integrale delle spese di lite) rispetto al dispositivo di condanna alle spese di entrambi i gradi di merito.
5. Il primo motivo è inaccoglibile dovendo, l'errata indicazione (in motivazione) della società interessata considerarsi frutto di una mera improprietà che non altera la sostanza della pronunzia, posto che, comunque la Corte di appello ha individuato e risolto tutte le questioni giuridiche proposta dalla odierna ricorrente al suo esame.
6.- Sul piano legislativo deve premettersi che la L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22, recante l'ordinamento delle autonomie locali, prevedeva che comuni e province, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedessero alla gestione dei servizi pubblici aventi ad oggetto la realizzazione di fini sociali e la promozione dello sviluppo economico e civile delle comunità locali (comma 1), mediante varie forme giuridiche (in economia, in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, di istituzione o di società per azioni a prevalente capitale pubblico, comma 3).
Il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (emanato in forza della delega conferita dalla L. 3 agosto 1999, n. 265, art. 31), recante il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, nella sua originaria formulazione, ribadì che questi ultimi avrebbero dovuto provvedere alla gestione dei servizi pubblici di interesse delle comunità locali nelle stesse forme già individuate dalla L. n. 142, art. 22 (artt. 112 e 113). A breve distanza di tempo, tuttavia, l'impostazione del D.Lgs. n. 267 del 2000 fu rivista dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 35 nell'ambito del patto di stabilità interno per gli enti pubblici (previsto dal capo terzo del titolo terzo della legge).
7.- Tale art. 35 modificò detto art. 113 ed introdusse l'art. 113 bis, distinguendo la gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza industriale (art. 113) dalla gestione dei servii pubblici locali privi di rilevanza industriale (art. 113 bis).
Deve richiamarsi, ai fini della presente controversia, la formulazione dell'art. 113 adottata in tale occasione, la quale, sotto la rubrica Gestione delle reti ed erogazione dei servici pubblici locali di rilevanza industriale, prevedeva che la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, ove separata dall'attività di erogazione dei servizi, dovesse essere effettuata dagli enti locali, anche in forma associata, mediante a) "soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati, cui può essere affidata direttamente tale attività", b) "imprese idonee, da individuare mediante procedure ad evidenza pubblica ..." (comma 4). Lo stesso art. 113 prevedeva, inoltre, che l'erogazione del servizio, dovesse avvenire in regime di concorrenza, secondo le apposite discipline di settore "con conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica" (comma 5). In particolare, era previsto il divieto di "ogni forma di differenziazione nel trattamento dei gestori di pubblico servizio in ordine al regime tributario, nonchè alla concessione da chiunque dovuta di contribuzioni o agevolazioni per la gestione del servizio" (comma 10).
8.- Emerge che la società ricorrente è derivata dall'Azienda Energetica Municipalizzata (AEM) del Comune di Torino, la quale, ai sensi della L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22 (ordinamento delle autonomia locali), si trasformò in AEM Torino s.p.a., a capitale dapprima interamente pubblico e in seguito, dopo la quotazione in Borsa, parzialmente privato, pur restando di proprietà del Comune di Torino la maggioranza assoluta delle azioni. A decorrere dal 31.10.06 AEM Torino s.p.a. incorporò AMGA (Azienda Municipalizzata Gas e Acqua) Genova s.p.a. e si trasformò in Iride s.p.a., partecipata al 51% da Finanziaria Sviluppo Utilities s.r.l., le cui quote appartengono per metà ciascuno al Comune di Torino ed al Comune di Genova. Lo stesso 31.10.06 l'attività societaria fu disarticolata in quattro società controllate al 100% da Iride s.p.a., alle quali, per trasferimento di ramo di azienda, furono trasferiti gli specifici settori di attività delle due originarie aziende municipalizzate.
8.- Con i motivi secondo e terzo la parte ricorrente afferma, in ragione della detenzione maggioritaria del capitale sociale da parte dei Comuni di Genova e Torino, la sua natura di impresa pubblica, dato che la formula della società partecipata imposta dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 113 (nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 35) consente al soggetto pubblico di esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante in ragione della maggioritaria partecipazione azionaria. Iride spa rientrerebbe, dunque, tra le imprese escluse dall'applicazione delle norme sull'integrazione dei guadagni degli operai dell'industria, ai sensi del D.L.C.P.S. 12 agosto 1947, n. 869, art. 3, comma 1, nel testo vigente (risultante dalle modifiche apportate dalla L. 8 agosto 1972, n. 464, art. 1 e dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, art. 4, comma 1) e di conseguenza tra quelle escluse dal pagamento dell'indennità di mobilità ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 16, comma 1.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha già preso in considerazione tali obiezioni rilevando che nella specie non può identificarsi la società partecipata con "le imprese industriali degli enti pubblici" esonerate, trattandosi di società di natura essenzialmente privata nella quale l'amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato; dovendosi altresì escludere, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, che la mera partecipazione - pur maggioritaria, ma non totalitaria - da parte dell'ente pubblico sia idonea a determinare la natura dell'organismo attraverso cui la gestione del servizio pubblico viene attuata (Cass. 24.06.09 n. 14847, 10.03.10 n. 5816 e, da ultimo, 13.05.13 n. 11417).
Tale principio è posto in discussione dalla odierna ricorrente in quanto, a suo avviso, basato su un presupposto legislativo non più attuale, quale il riferimento alla norma della L. n. 142 del 1990, art. 23 che non comprende l'ente societario tra quelli che sono qualificati strumentali degli enti locali. La norma applicabile ratione temporis alla fattispecie, infatti, prevedrebbe ormai l'obbligatorietà del ricorso all'ente societario (T.U. n. 267 del 2000, art. 113, comma 4, come modificato dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 35) e prescinderebbe da ogni più o meno dichiarato carattere di strumentalità.
L'obiezione è infondata. Innanzitutto, anche dopo la modifica di detto art. 113 ad opera della L. n. 448, art. 35, il successivo art. 114, non toccato dalla modifica, continua a non prevedere l'ente societario tra quelli strumentali dell'ente locale. Inoltre, il ricorso alla forma societaria è considerato dal nuovo testo dell'art. 113 frutto di una vera e propria scelta economica imposta all'ente locale, atteso che detta forma societaria è consentita solo nel caso esista separazione dell'erogazione dalla gestione del servizio e solo per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali. Si tratta, in altre parole di una vera e propria opzione di carattere gestionale, in relazione alla onerosità dell'attività, tanto è vero che gli enti in questa ipotesi sono posti dinanzi all'alternativa di avvalersi o di soggetti economici costituiti in forma societaria partecipata dagli enti interessati, oppure di idonee imprese da scegliere attraverso pubblica gara (comma 4). Dunque, la forma societaria di diritto privato è per l'ente locale una modalità di gestione degli impianti consentita dalla legge e prescelta dall'ente stesso per la duttilità dello strumento giuridico, in cui il perseguimento dell'obiettivo pubblico è caratterizzato dall'accettazione delle regole del diritto privato.
Le disposizioni impugnate definiscono il proprio ambito di applicazione non secondo il titolo giuridico in base al quale le società operano, ma in relazione all'oggetto sociale di queste ultime. Tali disposizioni sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse.
Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza.
Questi concetti sono ben presenti nella giurisprudenza costituzionale la quale, soprattutto al fine di individuare il corretto discrimine tra la legislazione regionale e quella statuale, considera la legislazione ora in esame quale frutto di disposizioni che mirano a separare la sfera di attività amministrativa da quella privata per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è, dunque, negata nè limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza (Corte cost. 1.08.08 n. 326).
9.- Nulla aggiunge a questa impostazione il richiamo effettuato dalla società ricorrente alla definizione di impresa pubblica accolta dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, recante il codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (attuativo delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) per il quale "imprese pubbliche sono le imprese su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante o perchè ne sono proprietarie, o perchè vi hanno una partecipazione finanziaria, o in virtù delle norme che disciplinano dette imprese", e "l'influenza dominante è presunta quando le amministrazioni aggiudicatrici, direttamente o indirettamente, riguardo all'impresa, alternativamente o cumulativamente: a) detengono la maggioranza del capitale sottoscritto; b) controllano la maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni emesse dall'impresa; c) hanno il diritto di nominare più della metà dei membri del consiglio di amministrazione, di direzione o di vigilanza dell'impresa" (art. 3, comma 28). Il D.Lgs. n. 103 del 2006, infatti, non è la fonte dello statuto dell'impresa pubblica, ma è una disposizione che, in attuazione del dettato comunitario, enuclea una nozione convenzionale da adottare nel suo campo di azione, che è quello della disciplina dei contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatoli e dei soggetti aggiudicatoli, aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori ed opere (art. 1, comma 1). In questo campo l'attività di impresa è comunque considerata una proiezione delle potestà dei soggetti pubblici (territoriali e non), atteso che, ove consentito, la scelta di un eventuale socio privato è sottoposta all'espletamento di procedure di evidenza pubblica (art. 1, comma 2).
10.- Nessun significato interpretativo può, infine, attribuirsi al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, conv. dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, il quale ha previsto, solo con decorrenza 1.01.09 l'obbligo del versamento dei contributi per malattia e maternità nei confronti delle "imprese dello Stato, degli enti pubblici e degli enti locali, privatizzate ed a capitale misto" (art. 20, comma 2). Infatti, la contribuzione disciplinata da tale norma è diversa da quella inerente i titoli vantali dall'INPS nella presente controversia e non implica una "razionalizzazione" dell'intera materia dell'obbligazione contributiva delle imprese pubbliche, privatizzate e a capitale misto, ovvero una assimilazione di tali imprese a qualunque fine previdenziale o assistenziale, dato che, piuttosto, la omogeneità è solo nel senso della estensione dell'obbligo contributivo per la malattia a tutte le imprese, comprese quelle privatizzate e a capitale misto (v. la già citata sentenza Cass. n. 5816 del 2010).
11.- Giova pure richiamare il principio enunziato dalle Sezioni unite con la sentenza 19.12.09 n. 26806 che - nello statuire che spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti - ha affermato che non è configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, nè un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, nè un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Tale principio è stato adottato da tutta la giurisprudenza successiva delle Sezioni Unite anche in relazione a società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totalitaria, anche se sottoposte a penetranti poteri di controllo dell'ente pubblico ed anche se la s.p.a. gestisce un servizio pubblico essenziale (S.u. 7.07.11 n. 14957; S.u. 12.10.11 n. 20940;
5.07.11 n. 14655).
In questa sede deve essere rimarcato che a dette conclusioni le Sezioni Unite sull'onda della già menzionata sentenza n. 26806 del 2009 sono pervenute proprio sulla base del rilievo - che questo Collegio ha più sopra già affermato - che le disposizioni del codice civile sulle società per azioni a partecipazione pubblica non valgono a configurare uno statuto speciale delle stesse e che la scelta della Pubblica Amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica l'assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta.
12. Fondato è invece il quarto motivo stante la evidente incompatibilità delle affermazioni contenute in motivazione rispetto al dispositivo di condanna alle spese. Mentre quindi sono da rigettare i primi tre motivi di ricorso, quest'ultimo motivo va accolto, conseguendone - limitatamente ad esso - la cassazione della sentenza impugnata. La Corte può, tuttavia, decidere direttamente sul punto (art. 384 c.p.c. statuendo nel senso della integrale compensazione tra le parti ivi costituite delle spese di entrambi i gradi di merito, tenuto conto della complessità e peculiarità delle questioni di quelle sedi trattate. Per le stesse ragioni ritiene equo compensare le spese del giudizio di legittimità tra le parti costituite nulla statuendo, invece, nei confronti di Equitalia Nomos spa, in difetto di attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte accoglie l'ultimo motivo di ricorso e rigetta gli altri.
Cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e decidendo nel merito compensa tra le parti costituite le spese di giudizio di merito e del giudizio di legittimità. Nulla nei confronti delle altre parti.
Così deciso in Roma, il 15 aprile 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2013


martedì 12 novembre 2013

PROCEDIMENTO: il mancato rispetto del termine procedimentale ed i riflessi sulla legittimità del provvedimento finale (Cons. St., Sez. V, sentenza 11 ottobre n. 4980).


PROCEDIMENTO: 
il mancato rispetto del termine procedimentale
ed i riflessi sulla legittimità 
del provvedimento finale 
(Cons. St., Sez. V, 
sentenza 11 ottobre n. 4980). 


Massima

1.  Il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento, ai sensi dell'art. 2, della L. n. 241/1990, non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo. 
2.  L’esercizio della funzione pubblica è difatti connotato dai requisiti della doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (art. 1, co. 1, L. n. 241/1990), e non già perentorio.
3.  "Ergo" la loro scadenza non priva l’amministrazione del dovere di curare l’interesse pubblico, né rende l’atto sopravvenuto di per sé invalido con la conseguenza che la violazione del termine per la conclusione del procedimento non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo, ma è fonte di responsabilità patrimoniale.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5065 del 2002, proposto da:
D'Onofrio Francesco, rappresentato e difeso dall'avv. Nicola Colacino, con domicilio eletto presso Vincenzo Colacino in Roma, via Nicola Ricciotti, 9; 
contro
Comune di Rotondi; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – SEDE DI NAPOLI, SEZIONE IV, n. 05185/2001, resa tra le parti, concernente concessione edilizia per costruzione fabbricato

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 aprile 2013 il Cons. Fabio Franconiero, nessuno essendo comparso per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Oggetto del presente giudizio è il diniego di concessione edilizia opposto dal Comune di Rotondi con nota di prot. 4285 del 5 luglio 1996 all’istanza presentata in data 23 dicembre 1991 da Francesco D’Onofrio per la costruzione di un fabbricato alla via Appia (S.S. 7).
Il diniego veniva motivato sul contrasto del progetto di cui all’istanza con il sopravvenuto P.R.G., che aveva assegnato alla zona su cui l’intervento edilizio avrebbe dovuto essere realizzato la incompatibile destinazione ad attività terziarie.
2. Contro questa determinazione D’Onofrio insorgeva davanti al TAR Campania – sede di Napoli, sostenendo, per quanto qui ancora di interesse, che il titolo concessorio si sarebbe formato in virtù del parere favorevole della Commissione edilizia, espresso il 9 gennaio 1992, che il successivo diniego, qualificabile come ritiro in autotutela, è carente di motivazione ed adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento ex art. 2 l. n. 241/1990.
3. Nel respingere l’impugnativa, il TAR adito osservava che:
- il parere favorevole della commissione edilizia non poteva essere equiparato al titolo concessorio, difettando dei necessari elementi strutturali, quali l’indicazione dei termini di inizio e conclusione dei lavori e la quantificazione del contributo di costruzione;
- l’atto impugnato non si sostanziava in un ritiro in autotutela di una precedente determinazione favorevole, costituendo invece una “sospensione soprassessoria di ogni decisione in merito all’istanza” alla luce del sopravvenuto strumento urbanistico e della conseguente operatività delle misure di salvaguardia;
- il superamento dei termini di conclusione del procedimento non si traduce nell’illegittimità dell’atto amministrativo.
4. Nel presente appello D’Onofrio, pur dichiarandosi consapevole che il parere della commissione edilizia non equivale a concessione ad edificare, evidenzia innanzitutto che l’abnorme lasso temporale intercorso tra la presentazione dell’istanza ed il provvedimento impugnato avrebbe dovuto condurre il TAR a ritenere quest’ultimo illegittimo, in quanto sintomatico di una preordinazione dell’amministrazione resistente diretta a negare il titolo abilitativo richiesto.
In secondo luogo, deduce che il diniego si fonda su un falso presupposto, visto che il P.R.G. adottato nel 1995 non è mai stato approvato, cosicché la situazione di pendenza determinata dalle misure di salvaguardia, della durata di 5 anni, ormai scaduti all’epoca della decisione di primo grado, deve ritenersi superata, cosicché il giudice di primo grado avrebbe potuto accertare “il diritto del ricorrente all’ottenimento della richiesta concessione”.
5. Così sintetizzata la prospettazione alla base del presente appello, il Collegio ritiene che la stessa non possa condurre ad una pronuncia di accoglimento.
5.1 Premesso che l’azione da cui trae origine il presente giudizio è di tipo impugnatorio, avverso il suddetto diniego di concessione, deve innanzitutto essere disattesa la prima censura, nella quale si sostiene che la stessa sarebbe inficiata da “un comportamento illegittimo”dell’amministrazione resistente, consistito nell’abnorme durata del procedimento, ed in particolare dell’atteggiamento inerte tenuto da quest’ultima successivamente al rilascio del parere favorevole da parte della Commissione edilizia. Per costante orientamento di questo Consiglio di Stato, infatti, il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo (ex plurimis: Sez. IV, 12 giugno 2012, n. 2264; 10 giugno 2010 n. 3695; Sez. VI, 1 dicembre 2010, n. 8371; 14 gennaio 2009, n. 140; 25 giugno 2008 n. 3215).
5.1.1 All’indirizzo ora richiamato deve essere data continuità, perché esso si fonda sull’applicazione di consolidate categorie di teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze rispettivamente discendenti dalla violazione dell’une o delle altre, nel senso che solo in quest’ultimo caso la sanzione ricade sull’atto medesimo, determinandone a seconda dei casi la nullità o l’annullabilità, laddove nella prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio (cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725). Ora, se è vero che per effetto della legislazione di origine europea questa fondamentale distinzione tende ad affievolirsi in alcuni settori dell’ordinamento giuridico, in particolare in quello dei contratti caratterizzati da uno squilibrio economico delle parti, la stessa rimane tuttora valida nel diritto amministrativo, nel quale l’atto amministrativo è annullabile se carente dei requisiti di legittimità per esso previsti. Questi ultimi, a loro volta, sia che derivino dalla violazione di precetti normativi (violazione di legge ed incompetenza), sia che concernano il perseguimento del fine pubblico costituente la causa del potere autoritativo (eccesso di potere), attengono al concreto svolgimento della funzione amministrativa sfociata nella determinazione provvedimentale. Il cattivo esercizio del potere che si compendia nei tre tradizionali vizi di legittimità ora ricordati (art. 3, comma 1, l. 1034/1971, vigente all’epoca dei fatti e ora art. 21-octies, comma 1, l. n. 241/1990) è in altri termini una qualificazione normativa scaturente dal rapporto tra il precetto normativo astratto e l’atto provvedimentale, il cui riscontro implica un accertamento che non può prescindere da una verifica intrinseca a quest’ultimo.
Lo stesso è del resto a dirsi per l’eccezionale categoria della nullità dell’atto amministrativo (art. 21-septies l. n. 241/1990 e 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006) e dei contratti di diritto comune. Per questi ultimi, in particolare, la nullità costituisce la sanzione apprestata per i casi di contrasto con norme inderogabili dall’autonomia privata o che comunque la prevedano (nullità virtuale e testuale di cui, rispettivamente, ai commi 1 e 3 dell’art. 1418 cod. civ.), o ancora per carenza di un elemento strutturale del contratto stesso (nullità strutturale di cui all’art. 1418, comma 2).
Le fattispecie passate in rassegna esibiscono quindi un minimo comune denominatore, rappresentato dal fatto che i precetti normativi che presiedono alla manifestazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici ne costituiscono elementi costitutivi necessari, la cui mancanza ne rende inconfigurabile la fattispecie (nel caso della nullità) o ne determina la successiva invalidazione (nel caso dell’annullabilità).
5.1.2 Il rispetto del termine per la conclusione del procedimento si pone al di fuori di questo schema.
Benché con la legge generale sul procedimento amministrativo si sia assistito alla generalizzazione del dovere di rispettare il suddetto termine (art. 2, l. n. 241/1990), nessuna disposizione di legge lo ha elevato a requisito di validità dell’atto amministrativo, rimanendo dunque lo stesso confinato sul piano dei comportamenti dell’amministrazione, il quale ha dato luogo all’elaborazione da parte di questo Consesso dell’istituto del silenzio (sin dalla pronuncia della IV Sezione 22 agosto 1922, n. 429). Detto in altri termini, non si è assistito in questo campo a quel fenomeno di trascinamento di obblighi di comportamento sul terreno del giudizio di validità dell’atto, registratosi invece in alcuni settori del diritto civile (come ad esempio per gli obblighi di informativa precontrattuale per i contratti in materia di servizi finanziari conclusi a distanza: art. 67-septies decies, comma 4, cod. consumo).
E’ ciò è agevolmente spiegabile ricordando che l’esercizio della funzione pubblica è connotato dai requisiti della doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già perentorio. Conseguentemente, la loro scadenza non priva l’amministrazione del dovere di curare l’interesse pubblico, né rende l’atto sopravvenuto di per sé invalido.
A conferma di quanto ora osservato si può richiamare la successiva evoluzione normativa, segnata fondamentalmente dall’introduzione di un rito accelerato contro il silenzio (art. 2 l. n. 205/2000, aggiuntivo dell’art. 21-bis l. n. 241/1990; ora art. 117 cod. proc. amm.) e della regola della risarcibilità del danno da ritardo (mediante l’art. 2-bis l. n. 241/1990, introdotto con l. n. 69/2009: ora ), fino alla previsione per esso di una tutela di carattere indennitario (art. 2, comma 1-bis, aggiunto dal d.l. n. 69/2013, conv. dalla l. n. 98/2013). Il costante indirizzo di politica legislativa che si ricava dai citati interventi normativi è in sostanza quello di mantenere l’obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento sul piano dei comportamenti, fonte di responsabilità patrimoniale in caso di violazione, ma giammai requisito di validità degli atti.
5.1.3 Le stesse osservazioni possono essere fatte in chiave retrospettiva. Se infatti le ricordate innovazioni normative sono intervenute in epoca ampiamente successiva ai fatti oggetto del presente giudizio, non può nondimeno sottacersi come grazie all’opera pretoria di questo Consesso, il privato non risultasse anche allora sfornito di mezzi di tutela contro l’inerzia dell’amministrazione. Sin dal 1978, infatti, in epoca dunque antecedente alla generalizzazione dell’obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento, l’Adunanza plenaria (decisione del 10 marzo 1978, n. 10) aveva affermato in generale l’applicabilità dello strumento della diffida e messa in mora prevista dall’art. 25 del testo unico degli impiegati civili dello Stato (l. n. 3/1957), e dunque uno strumento valevole per proporre l’azione civile di risarcimento danni contro il funzionario inerte, al fine di fare constare il rifiuto dell’amministrazione di provvedere ed il conseguente silenzio-inadempimento, mediante la relativa azione davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, con specifico riguardo ai procedimenti di rilascio della concessione edilizia, l’art. 4, comma 1, l. n. 10/1977 opera(va) un rinvio all’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942, in particolare per riguardo concerne la “procedura”. La norma richiamata, a sua volta, impone(va) all’amministrazione di provvedere entro 60 giorni dal ricevimento della domanda (comma 6), consentendo al privato istante di “ricorrere contro il silenzio rifiuto” (comma 7).
5.1.4 Pertanto, l’odierno ben avrebbe potuto avvalersi di quest’ultimo rimedio, per giunta senza dovere provvedere alla notifica di alcuna diffida.
Non può lo stesso, invece, dolersi dell’illegittimità del diniego sopravvenuto alla scadenza del suddetto termine. La verifica di conformità a legge di tale atto, in cui si sostanzia il giudizio di validità, come detto sopra, risulta infatti positiva, visto che il citato art. 4, comma 1, l. n. 10/1977 prescrive(va) che la concessione edilizia sia rilasciata “in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici”. Il che è proprio quanto avvenuto nel caso di specie, essendo il diniego motivato sulla base dell’incompatibile destinazione impressa dal sopravvenuto strumento urbanistico alla zona su cui l’intervento oggetto di domanda avrebbe dovuto essere realizzato.
5.1.4.1 Tanto meno l’appellante può dolersi del fatto che la regolamentazione urbanistica dell’area in senso impeditivo dell’intervento edilizio progettato sia stata possibile proprio a causa dell’abnorme durata del procedimento e inferire da ciò una dolosa preordinazione dell’amministrazione di negare in ogni caso il necessario titolo concessorio.
Infatti, come sopra detto, la legittimità di un atto amministrativo è data dalla sua oggettiva rispondenza alle norme di legge ed ai principi generali che presiedono all’esercizio della funzione amministrativa, mentre non rilevano a tal fine atteggiamenti meramente soggettivi dei funzionari inseriti nell’organizzazione dell’ente pubblico. Tramontate le ricostruzioni pan-civilistiche, la teoria generale dell’atto amministrativo si è ormai affrancata dagli elementi costitutivi di più diretta matrice contrattualistica ed in particolare dall’elemento della volontà e dalle relative connotazioni soggettivistiche. Più precisamente, nel campo dell’amministrazione la volontà rileva unicamente nella misura in cui si è estrinsecata nella determinazione autoritativa e non già quale espressione di uno stato psicologico dell’organo autore dell’atto.
6. Non può essere accolto nemmeno il secondo motivo d’appello.
6.1 Non si può fondatamente addebitare al TAR di non avere tenuto conto della scadenza dell’effetto di salvaguardia derivante dalla mancata approvazione del P.R.G. adottato nelle more del procedimento di rilascio della concessione edilizia e dal conseguente venir meno di tale situazione di pendenza.
Un simile accertamento esula dal giudizio di legittimità dell’atto amministrativo proprio dell’azione impugnatoria, quale invece esperita dall’odierno appellante. Oggetto di quest’ultima è – giova ancora ripeterlo – la verifica della corrispondenza dell’atto amministrativo rispetto alle norme di legge o ai principi generali che regolano l’esercizio della funzione amministrativa e non già l’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale coinvolta nel rapporto tra pubblico potere e privato che ha dato luogo all’emanazione dell’atto impugnato.
Per contro, sin dalla ricordata pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 10/1978 si è ritenuta ammissibile, sia pure entro certi limiti, la verifica al fondo della pretesa in questione nell’ambito del giudizio sul silenzio-rifiuto, che l’appellante avrebbe potuto esperire.
Inoltre, la regola sopra enunciata a proposito dell’azione di impugnazione va tanto più riaffermata nel caso di specie, nel quale la determinazione amministrativa sfavorevole sia legittimamente fondata su ragioni di diritto effettivamente sussistenti al momento della sua emanazione, ma venuti meno in epoca successiva.
6.2 Nel caso di specie, peraltro, il TAR ha debitamente dato conto del fatto che il diniego costituisce in realtà una sospensione soprassessoria sulla domanda di concessione edilizia, in attesa della conclusione del procedimento di approvazione dello strumento urbanistico generale.
Di ciò D’Onofrio risulta avere preso atto, sottolineando tuttavia che la perdita di efficacia della misura di salvaguardia derivante dall’adozione del P.R.G., a causa dello spirare del termine di legge per la sua conclusione, dovrebbe condurre al rilascio della concessione: “se la misura soprassessoria perde efficacia […] la concessione deve essere rilasciata”. Ma evidentemente questa richiesta deve essere indirizzata all’amministrazione e non già al giudice amministrativo, che non può sostituirsi alla prima, quand’anche non residuino margini di apprezzamento discrezionale.
L’appello deve dunque essere respinto.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese in assenza di costituzione dell’amministrazione resistente.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:
Alessandro Pajno, Presidente
Francesco Caringella, Consigliere
Doris Durante, Consigliere
Antonio Bianchi, Consigliere
Fabio Franconiero, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/10/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)