sabato 15 febbraio 2014

ENTI LOCALI: la condanna penale non definitiva dell'amministratore locale comporta la sua sospensione; quella definitiva la decadenza (Cons. St., Sez. III, sentenza 14 febbraio 2014, n. 730).


ENTI LOCALI: 
la condanna penale non definitiva 
dell'amministratore locale  
comporta la sua sospensione; 
quella definitiva la decadenza 
(Cons. St., Sez. III, 
sentenza 14 febbraio 2014, n. 730). 



Massima per esteso

1.  La “sospensione” non può che dipendere, per sua stessa natura, che da una condanna non definitiva. Se invece la condanna è definitiva, vi è la decadenza, non la sospensione. Se la legge n. 190/2012 avesse veramente inteso accomunare la sospensione e la decadenza nel riferimento alla condanna “definitiva” avrebbe fatto un non senso; si sarebbe trattato, in realtà, della soppressione dell’istituto della “sospensione” e tanto valeva dirlo apertamente.
2. Ciò appare ancor più evidente se si considera che nel disposto del d.lgs. n. 235/2012 (come del resto nella normativa anteriore) le fattispecie penali che dànno luogo alla sospensione sono un campo più ristretto di quello delle fattispecie che comportano la decadenza. Questa differenza si spiega ed appare perfettamente logica se si correla la sospensione ad una condanna non definitiva: proprio perché la posizione penale dell’interessato è ancora sub iudice la sospensione si giustifica solo per le ipotesi più gravi di reato; quando invece l’illecito penale è definitivamente accertato la decadenza si giustifica anche per ipotesi relativamente meno gravi.
3. Lo sviluppo della normativa in materia, anteriormente alla legge delega del 2012, attuata dalla L. n. 190/2012 (c.d. "legge anticorruzione") e a partire dalla legge n. 55/1990, è stato sempre, difatti coerente, nel prevedere lo strumento della sospensione dalla carica, in presenza di un procedimento penale per fattispecie penali di una certa gravità, pur in assenza di una condanna definitiva; sopravvenendo la quale alla sospensione subentra la decadenza. Anzi i vari passaggi hanno affinato la disciplina della sospensione, nel trasparente scopo di rendere tale strumento maggiormente efficace, e non già di renderlo evanescente.


Excursus storico-normativo

1. L’istituto della sospensione degli amministratori regionali e degli enti locali assoggettati a un procedimento penale ha avuto la prima manifestazione nell’art. 15 della legge n. 55/1990. La sospensione si verificava al momento del rinvio a giudizio, peraltro limitatamente al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) ovvero al favoreggiamento dello stesso. La sospensione si trasformava in decadenza al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
2. E’ poi intervenuta la legge n. 16/1992, art. 1, che ha modificato radicalmente il citato art. 15, introducendovi la nuova figura della “incandidabilità” alle elezioni amministrative e regionali. La norma disponeva l’incandidabilità in caso di condanna “anche non definitiva” per una serie di fattispecie penali di una certa gravità; per altre fattispecie meno gravi prevedeva che l’incandidabilità sorgesse per effetto di una condanna definitiva, o anche di una condanna in primo grado confermata in appello. Sin qui la norma si riferiva alle sentenze penali pronunciate prima dell’elezione. Nel caso che le condanne in questione sopravvenissero dopo l’elezione, la norma prevedeva la sospensione dalla carica, convertita di diritto in decadenza al momento del passaggio in giudicato.
3. Queste disposizioni sono state trasfuse, con qualche modifica, nel testo unico enti locali (d.lgs. n. 267/2000), articoli 58 e 59. L’art. 58 concerneva l’incandidabilità conseguente alla condanna definitiva (era eliminato ogni riferimento alle condanne non definitive; l’art. 59 la sospensione conseguente alla condanna non definitiva (e, per talune fattispecie, alla condanna in primo grado confermata in appello).
4. Il testo degli artt. 58 e 59 del t.u.e.l. è stato a sua volta trasfuso, senza rilevanti variazioni, nel testo degli artt. 10 e 11 del d.lgs. n. 235/2012.



venerdì 14 febbraio 2014

AUTHORITIES & UNIONE EUROPEA: il diritto comunitario permette il trattamento privilegiato dei dipendenti di Bankitalia (Corte Cost., sentenza 23 gennaio 2014 n. 7).


AUTHORITIES & UNIONE EUROPEA: 
il diritto comunitario permette
 il trattamento privilegiato 
dei dipendenti di Bankitalia 
(Corte Cost., sentenza 23 gennaio 2014 n. 7).


Massima

1.  Il diverso trattamento riservato dall’art. 3, co. 3, del d.l. n. 78 del 2010 alla Banca d’Italia rispetto all’AGCOM è giustificato dall’esigenza imposta dalla disciplina dell’Unione di previa consultazione della Banca centrale europea da parte delle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative concernenti, tra l’altro, le banche centrali nazionali. Poiché analoga esigenza non viene in rilievo con riferimento alle altre autorità amministrative indipendenti, la disciplina riservata alla Banca d’Italia non può costituire, sotto questo profilo, un utile tertium comparationis per una pretesa disparità di trattamento e la prospettata questione di legittimità costituzionale è priva di fondamento in riferimento all’art. 3 Cost.
2.  Pur godendo tanto la Banca d’Italia che l’AGCOM di una speciale autonomia organizzativa e funzionale a tutela della loro indipendenza, occorre tuttavia affermare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari che la differenziano da ogni altra autorità amministrativa indipendente.
3. La scelta del legislatore di prevedere un meccanismo di adeguamento della Banca d’Italia alla normativa introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 corrisponde all’esigenza, imposta dai Trattati relativi alle modalità di funzionamento dell’Unione europea, di consultare preventivamente la Banca centrale europea per ogni modifica che riguardi una banca centrale nazionale.

La normativa

L’art. 3, comma 3 del d.l. n. 78/2010 dispone che «La Banca d’Italia tiene conto, nell’ambito del proprio ordinamento, dei principi di contenimento della spesa per il triennio 2011-2013 contenuti nel presente titolo. A tal fine, qualora non si raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali sulle materie oggetto di contrattazione in tempo utile per dare attuazione ai suddetti princìpi, la Banca d’Italia provvede sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva eventuale sottoscrizione dell’accordo».


Sentenza per esteso


INTESTAZIONE
EPIGRAFE
[...]

SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con ordinanze del 10, del 9 e dell’8 maggio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 184, 185 e 194 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 38, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di Abbonato Rosa ed altri, di Falvella Lina ed altro, di Liberatore Benedetta Alessia ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi gli avvocati Aristide Police per Abbonato Rosa ed altri e per Falvella Lina ed altro, Mario Sanino per Liberatore Benedetta Alessia ed altri e l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1.− Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con tre ordinanze di identico tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 36425397 e 117 della Costituzionequestione di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
1.1.− Il rimettente premette che i giudizi a quibus hanno ad oggetto la richiesta di annullamento: 1) della delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011, pubblicata il 23 marzo 2011, con la quale sono state individuate le modalità di attuazione delle disposizioni previste dal d.l. n. 78 del 2010, nonché di ogni altro atto presupposto, ivi compresi: a) il Parere del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato in data 11 gennaio 2011, reso su apposita richiesta dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato prot. n. 0068665 del 17 dicembre 2010 in merito all’applicabilità delle disposizioni di cui ald.l. n. 78 del 2010; b) l’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196; c) i singoli provvedimenti individuali adottati in esecuzione della predetta delibera n. 114/11/CONS del 2011 nei confronti dei singoli ricorrenti; 2) il nuovo elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge n. 196 del 2009 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 228, del 30 settembre 2011; 3) la delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 498/11/CONS del 13 settembre 2011, pubblicata in data 11 novembre 2011, con la quale, in attuazione dell’art. 12, commi 7, 8, 9 e 10 del d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 7 della suddetta delibera n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011, è stata ridefinita la disciplina del trattamento di fine rapporto del personale dell’Autorità.
Il rimettente riferisce che gli atti impugnati sono tutti diretti a dare attuazione alle norme censurate.
1.2.− Il TAR del Lazio evidenzia, in primo luogo, l’infondatezza dei motivi di ricorso sollevati dai ricorrenti nei giudizi a quibus per l’annullamento degli atti impugnati e il cui accoglimento priverebbe di rilevanza le questioni.
Il TAR del Lazio afferma la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie in materia di impiego alle dipendenze dell’Autorità garante delle comunicazioni richiamando la pronuncia della Corte di cassazione sezioni unite, ordinanza 23 giugno 2005, n. 13446, e la successiva evoluzione legislativa e giurisprudenziale.
Sempre in via preliminare, il TAR ritiene che, ai fini dell’interesse ad agire dei ricorrenti e della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, non assuma rilievo assorbente − a differenza di quanto affermato dai ricorrenti nella memoria depositata in data 18 febbraio 2012 − la circostanza che la sezione III-quater del medesimo Tribunale amministrativo regionale con la sentenza 11 gennaio 2012, n. 226, abbia annullato l’elenco ISTAT pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 228 del 30 settembre 2011, nella parte in cui inserisce anche l’AGCOM fra le predette Amministrazioni.
Secondo il rimettente, tale annullamento non sarebbe rilevante perché il legislatore ha operato un rinvio recettizio al provvedimento dell’ISTAT e da ciò deriverebbe che il suddetto annullamento non può dispiegare effetti sul provvedimento legificato
Il TAR, sempre motivando in punto di rilevanza, ritiene infondato il motivo di ricorso che attiene alla presunta non applicabilità all’Autorità delle comunicazioni della disciplina del d.l. n. 78 del 2010. Il Collegio ritiene che la prova della volontà del legislatore di includere anche l’AGCOM nel campo di applicazione degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010 si rinvenga: a) nel fatto che il legislatore quando ha menzionato espressamente le autorità indipendenti (come, per l’appunto, nell’art. 6, commi 8, 9, 12, 13 e 14 del d.l. n. 78 del 2010) ha utilizzato la formula «incluse le autorità indipendenti», così limitandosi a specificare un dato − quale l’inclusione di tali enti nell’elenco ISTAT − chiaramente evincibile da una semplice lettura del predetto elenco; b) nel fatto che lo stesso legislatore, laddove ha inteso garantire la specialità di determinati soggetti pubblici, ha introdotto una disciplina speciale in materia di contenimento della spesa, come ha fatto, ad esempio, con l’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge, che riguarda soltanto la Banca d’Italia e non le altre autorità indipendenti.
Infine, a differenza di quanto affermato dai ricorrenti, non assumerebbe rilievo decisivo il parere del Consiglio di Stato, commissione speciale, 26 gennaio 2012, n. 385. In tale sede, infatti, il Consiglio di Stato − chiamato a chiarire l’applicabilità dell’art. 6, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 all’AGCOM, sul presupposto che il sistema di finanziamento dell’Autorità è quasi interamente autonomo, essendo affidato al contributo versato dai soggetti regolati, mentre solo una minima ed irrilevante parte delle entrate è a carico del bilancio dello Stato − dopo aver ribadito «il principio di corrispondenza tra gli oneri imposti agli operatori e i costi amministrativi sostenuti per l’esercizio dei compiti svolti dall’Autorità», ha affermato che le somme ricavate da economie di gestione dall’Autorità possono essere destinate al bilancio statale solo relativamente alla parte imputabile ai contributi ricevuti dallo Stato, ossia nella misura corrispondente al valore percentuale di tali contributi sul complesso delle entrate finanziarie dell’Autorità. Secondo il rimettente, il parere citato confermerebbe ulteriormente l’applicabilità delle norme di cui al d.l. n. 78 del 2010 all’AGCOM.
1.3.− Dopo aver evidenziato, ai fini della rilevanza, l’infondatezza dei motivi di ricorso proposti nell’ambito dei giudizi a quibus, il TAR motiva in ordine alla non manifesta infondatezza delle singole questioni di costituzionalità.
La prima, sollevata dal rimettente d’ufficio, è relativa all’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui introduce un contributo di solidarietà per i dipendenti pubblici pari alla decurtazione del 5% dei trattamenti economici complessivi superiori a € 90.000 e del 10% per i trattamenti economici complessivi superiori a € 150.000. Secondo il rimettente la norma violerebbe gli artt. 3 e 53, Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di universalità dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina riservata al contributo di solidarietà, oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri cittadini, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
In via subordinata, il rimettente solleva questione di costituzionalità anche con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. in quanto, rideterminando «in senso ablativo un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo», inciderebbe in pejus sullo status economico dei lavoratori, alterando quel sinallagma che è il fondamento dei rapporti di durata ed, in particolare, proprio dei rapporti di lavoro, trasmodando in un regolamento irrazionale con riguardo a situazioni fondate su leggi precedenti e così frustrando il principio del legittimo affidamento, da intendersi quale elemento costitutivo dello Stato di diritto.
Il TAR del Lazio ritiene violato anche l’art. 42 Cost. perché, una volta che fosse esclusa la natura tributaria del prelievo dovrebbe necessariamente riconoscersi la sua natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che verrebbe a costituire una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna indennità, attraverso una norma-provvedimento priva della fase del procedimento e senza neanche la partecipazione degli interessati, cui è negato il diritto di interloquire sulla legittimità ed opportunità delle scelte cui sono chiamati a contribuire con il loro sacrificio.
Inoltre il rimettente evoca la violazione dell’art. 97, Cost., perché sarebbe completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.4.− Il rimettente ritiene di dover sollevare, d’ufficio – con riferimento agli articoli 2, 3, 42, 53 e 97 Cost. − anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, secondo il quale: a «titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita, dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, con riferimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche come individuate dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 il riconoscimento dell’indennità di buonuscita, dell’indennità premio di servizio, del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennità equipollente corrisposta una tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego è effettuato: a) in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 90.000 euro; b) in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 90.000 euro ma inferiore a 150.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 90.000 curo e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo; c) in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 150.000 euro, in tal caso il primo importo annuale è pari a 90.000 curo, il secondo importo annuale è pari a 60.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo».
Il rimettente, nel motivare la non manifesta infondatezza della questione, fa riferimento ad altra questione di costituzionalità dell’art. 12, comma 7, del predetto decreto-legge sollevata dal TAR Calabria (ordinanza n. 89 del 1° febbraio 2012). In tale ordinanza si evidenzia che la disposizione in esame comporta lo scaglionamento − in favore del solo datore di lavoro pubblico − dell’onere di corresponsione delle indennità, comunque denominate, di fine rapporto con differenti modalità a seconda dell’ammontare complessivo delle prestazioni. Ciò comporta una diminuzione patrimoniale certa, che si identifica nella mancata corresponsione di interessi per la dilazione del pagamento. La misura determinerebbe anche una più profonda compromissione del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e dipendente pubblico, giacché le somme di cui trattasi hanno pacificamente natura retributiva, sia pure differita, e si tratterebbe di una misura strutturale, non limitata − nella sua vigenza − ad un periodo di tempo predefinito.
Inoltre, il TAR osserva che «il mero differimento della retribuzione non risponde ad alcuna logica di riduzione di spesa, né può essere apprezzato in sede comunitaria, atteso che non si tratta di una misura strutturale ma di un mero rinvio della spesa, di talché la razionalità del “prelievo” mascherato cede innanzi alle esigenze di trasparenza dello Stato con il cittadino, oltre che di lealtà dello Stato-datore di lavoro con il dipendente che esige la giusta remunerazione di una vita di lavoro; analogo rilievo vale per la nuova e diversa incisione del computo dei trattamenti di fine servizio».
In tal modo, verrebbe leso − senza che lo richieda il soddisfacimento di altri e più pregnanti principi costituzionali, nell’ottica di un ragionevole bilanciamento − il principio di affidamento del pubblico dipendente nell’ordinario sviluppo economico della carriera, comprensivo del trattamento collegato alla cessazione del rapporto di impiego.
Si lamenta anche la discriminazione che subirebbero in peius i pubblici dipendenti rispetto a tutti gli altri lavoratori, con palese violazione dell’art. 3 Cost., posto che il datore di lavoro privato non è legittimato ad effettuare alcuna rateizzazione del trattamento di fine rapporto.
Sarebbe palese anche «la violazione dell’art. 36 Cost., tenuto conto che il trattamento di fine rapporto, e gli istituti equivalenti, altro non sono se non una retribuzione differita, i cui importi devono pertanto essere restituiti al lavoratore al momento della cessazione del rapporto.
Infine, anche in questo caso verrebbe completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbero normalmente potersi esprimere pur in riferimento allo stato economico del personale, secondo i generali principi espressi dall’art. 97 Cost.
1.5.− Il Tribunale rimettente considera rilevante e non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale sollevata con il secondo motivo del ricorso introduttivo, ove viene denunciata l’incostituzionalità degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., sul presupposto della ritenuta inapplicabilità all’AGCOM dello speciale regime previsto per la Banca d’Italia dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010.
In punto di rilevanza di quest’ultima questione, il Collegio osserva che la tesi secondo la quale l’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 sarebbe implicitamente applicabile anche all’AGCOM,  sostenuta dai ricorrenti, sulla scorta del combinato disposto dell’art. 2, comma 28, della legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e per la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità), e dell’art. 11, comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), non può essere condivisa perché, a fronte della già evidenziata inclusione delle autorità indipendenti (ivi compresa 1’AGCOM) nell’elenco ISTAT, la disposizione dell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 si presenta come una norma eccezionale e, come tale, non suscettibile di essere applicata in ambiti diversi da quelli espressamente indicati dal legislatore.
In punto di non manifesta infondatezza, in aggiunta alle considerazioni svolte dai ricorrenti nel primo motivo sulla autonomia ed indipendenza organizzativa e finanziaria (considerazioni che il rimettente richiama integralmente), il Collegio ritiene sufficiente evidenziare che la mancata applicazione all’AGCOM del regime speciale previsto dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 per la Banca d’Italia, oltre a comportare un’ingiustificata disparità di trattamento tra enti appartenenti alla medesima categoria (quella delle autorità indipendenti), finisce per pregiudicare gravemente l’autonomia e l’indipendenza organizzativa e finanziaria riconosciuta all’AGCOM dall’ordinamento comunitario e da quello nazionale, in contrasto con gli articoli 3, 97 e 117, primo comma, Cost.
2.− Si è costituito nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura dello Stato premette che le disposizioni censurate si inseriscono nell’ambito dell’articolata ed organica manovra di contenimento delle spese nel settore del pubblico impiego effettuata nell’anno 2010. Tale manovra economica è stata determinata dall’eccezionalità della situazione economica internazionale e dall’esigenza prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea. In tale contesto, uno dei settori di intervento per il contenimento della spesa, è stato, necessariamente, quello dell’impiego pubblico.
In tal modo si è fornita una risposta anticipata a quanto è stato espressamente richiesto, successivamente, con lettera della Banca centrale europea (BCE).
Il legislatore ha ritenuto che anche il personale dell’AGCOM dovesse concorrere al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, in termini non dissimili da quanto avvenuto per tutti i pubblici dipendenti con l’art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438.
L’Avvocatura dello Stato ricorda che le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento a quest’ultima disposizione legislativa sono state dichiarate manifestamente infondate (ordinanza n. 299 del 1999). Peraltro, quando s’impone l’esigenza di effettuare manovre correttive di finanza pubblica incisive e si deve intervenire con misure che attengono direttamente al rapporto di impiego, anche il personale dell’AGCOM è tenuto a contribuirvi. Sarebbe non ragionevole chiedere sacrifici ai dipendenti di tutti i settori della pubblica amministrazione (sia in regime privatistico che pubblicistico) esentandone alcuni.
Secondo la difesa dello Stato, l’intervento legislativo non avrebbe natura tributaria, perché altrimenti avrebbe dovuto riguardare tutti i cittadini, si tratterebbe invece di un intervento adottato al fine di ridurre la spesa di quel determinato settore (la pubblica amministrazione) che è stato individuato anche in sede europea quale elemento distorsivo in eccesso del debito pubblico. In materia fiscale, d’altronde, il legislatore non si è mai fatto carico di salvaguardare gli effetti previdenziali dell’emolumento oggetto di imposizione, come, invece, è previsto dalla norma oggetto di censura, nella quale si è precisato che «tale riduzione non opera ai fini previdenziali». Pertanto, dovrebbe ritenersi infondata la prospettata violazione dell’art. 53 Cost.
L’intervento normativo in questione dunque sarebbe, secondo l’Avvocatura, ragionevole e sostanzialmente equo, e non violerebbe né l’art. 2 né l’art. 3 Cost. Esso non violerebbe nemmeno l’artt. 97 Cost., pure richiamato dal giudice rimettente, perché il predetto «precetto costituzionale non può essere invocato al fine di giustificare la pretesa al conseguimento di miglioramenti economici» (Corte costituzionale, ordinanza n. 290 del 2006).
Non sembrerebbe fondata neanche la questione relativa alla violazione dell’art. 36 Cost., giacché, per valutare se una riduzione del trattamento economico incida sul principio dell’adeguatezza del trattamento economico, bisogna avere riguardo al trattamento economico complessivo del dipendente e non alle singole componenti di esso: e la misura della riduzione prevista, nel caso di specie, non può dirsi che comprometta l’adeguatezza della retribuzione (sentenza n. 287 del 2006).
Secondo la difesa dello Stato, le considerazioni svolte in relazione alla prima questione sono riferibili anche alle censure formulate, per ragioni sostanzialmente analoghe, nei riguardi dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, che ha previsto uno scaglionamento del pagamento della indennità di buonuscita e delle indennità analoghe spettanti ai dipendenti pubblici per importi superiori ad euro 90.000,00.
In particolare, si osserva che non sussiste la violazione dell’art. 36 Cost., perché le indennità dovute non sono negate o decurtate, ma solo in parte differite. Non sussiste violazione dei principi di solidarietà, di uguaglianza, di legalità e di buona amministrazione, perché la misura adottata si applica in egual modo per tutti i dipendenti pubblici e risponde ad esigenze di solidarietà sociale, essendo finalizzata a fronteggiare la grave situazione di crisi della finanza pubblica insorta nella recente fase di integrazione europea. Né può dirsi che sussista disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, che sono soggetti a diverso trattamento giuridico ed economico.
Neppure sarebbero fondate le censure di illegittimità costituzionale formulate dai ricorrenti e recepite dal TAR, secondo cui l’art. 9, commi l, 2 e 21, e l’art. 12, commi 7 e 10, del d.l. in esame, sarebbero illegittimi per violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost., in quanto determinerebbero una disparità di trattamento dei dipendenti dell’AGCOM rispetto a quelli della Banca d’Italia.
Sebbene si possa riconoscere che la Banca d’Italia e l’AGCOM costituiscano autorità indipendenti e godano, pertanto, di una speciale autonomia organizzativa e funzionale, occorre tuttavia evidenziare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari, che la differenziano da ogni altra autorità. Ne consegue che, con riferimento alla Banca d’Italia, non è possibile configurare una identità di situazioni che costituisca presupposto dell’eccepita violazione del principio di uguaglianza.
Invero, osserva l’Avvocatura dello Stato, mentre le autorità indipendenti di regolazione sono enti nazionali, preposti a dare concreta attuazione alle direttive europee nei mercati di riferimento, le banche centrali − come la Banca d’Italia − costituiscono ormai organi del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) previsto dagli artt. 127 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esse, pertanto, non possono essere considerate come autorità indipendenti nazionali, bensì come enti federati di un ente federale europeo. Per queste ragioni, si è reso necessario adottare una normativa di carattere speciale per i dipendenti della Banca d’Italia, sottoposta al parere obbligatorio della Banca centrale europea ai sensi della decisione del Consiglio 98/15/CE del 29 giugno 1998, allo scopo di salvaguardare la particolare autonomia delle istituzioni comunitarie. Dunque, la previsione di un regime specifico per la Banca d’Italia concerne la sua veste di Banca centrale nazionale, che è propria solo della Banca d’Italia e non certamente dell’AGCOM.
Neppure sussisterebbe violazione degli artt. 97 e 117 Cost. Invero, l’indipendenza delle autorità di regolazione − qual è l’AGCOM − non implica che esse siano dotate di un’assoluta autonomia patrimoniale e finanziaria e di una totale autarchia nel governo del personale. Viceversa, esse costituiscono parte della pubblica amministrazione e sono soggette al principio di legalità stabilito dall’art. 97 Cost., con la conseguenza che giustamente il trattamento economico e retributivo del proprio personale viene regolato per legge, così come avviene per tutte le altre categorie del pubblico impiego, e non è invece riservato agli autonomi poteri delle singole autorità.
3.− Con riferimento alle ordinanze di rimessione n. 184 e n. 185 del 2012 si sono costituiti nel giudizio costituzionale i ricorrenti nei giudizi a quibus riservandosi di illustrare in un secondo momento le proprie difese.
4.− Con riferimento all’ordinanza di rimessione n. 194 del 2012 si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio a quo chiedendo che la Corte, in accoglimento delle questioni sollevate dal TAR del Lazio, dichiari l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010.
In particolare, le parti private compiono una ricostruzione completa del quadro normativo nazionale e comunitario in materia di autorità indipendenti al fine di evidenziare che tali autorità devono godere di piena autonomia, anche con riferimento al potere di autoregolamentarsi in relazione al personale dipendente.
Quanto alle singole censure, vengono sviluppate argomentazioni analoghe a quelle dell’ordinanza di rimessione.
5.− Con memorie depositate in prossimità dell’udienza tutti i ricorrenti nei giudizi a quibus ribadiscono le proprie richieste, insistendo nell’accoglimento delle questioni e, in particolare, sostenendo l’equiparabilità della disciplina delle autorità indipendenti a quella prevista per la Banca d’Italia a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza.
6.− Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato insiste nella proprie richieste. In particolare, l’Avvocatura sottolinea che, successivamente alla proposizione dell’ordinanza, è intervenuta la sentenza n. 223 del 2012 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010. Pertanto, in relazione a tali norme, le questioni di costituzionalità sono divenute inammissibili per mancanza di oggetto.
Con riferimento alla questione relativa all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione in conformità con quanto deciso da questa Corte nella citatasentenza n. 223 del 2012. Nel merito tale questione sarebbe comunque infondata per le ragioni già esposte nell’atto di costituzione.
Infine, con riferimento alla questione relativa agli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista per la Banca d’Italia per l’adeguamento ai principi contenuti nel medesimo decreto-legge, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle censure relative alla violazione degli artt. 97 e 117, primo comma, Cost. perdifetto di motivazione.
L’ordinanza di rimessione omette, infatti, di esplicitare i motivi per i quali, a suo avviso, sarebbe violato il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, ed omette altresì di indicare le norme comunitarie che costituirebbero parametro di riferimento interposto e che sarebbero state violate nel caso di specie.
Quanto alla violazione dell’art. 3 per disparità di trattamento con la Banca d’Italia, l’Avvocatura ribadisce i motivi di infondatezza già evidenziati nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto
1.− Con tre ordinanze di identico tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del 2012) il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per violazione degli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117 della Costituzione.
1.1.− In considerazione dell’identità delle questioni, deve essere disposta la riunione dei giudizi, al fine di definirli con un’unica pronuncia.
Va, preliminarmente, affermato che è da condividere l’argomentazione con cui il TAR ritiene di respingere la tesi, che priverebbe di rilevanza la questione di costituzionalità, con cui i ricorrenti nel giudizio principale sostengono che sussisterebbe un limite non superabile delle somme da destinare al bilancio dello Stato, rappresentato dai soli importi corrispondenti ai contributi da quest’ultimo direttamente versati all’AGCOM. Lo Stato non potrebbe, con un atto di normazione primaria avente ad oggetto le retribuzioni di coloro che vi lavorano, eccedere rispetto a tale importo, che, per gli esercizi finanziari rientranti nel periodo di vigenza delle misure in oggetto, sarebbe di entità irrilevante e non potrebbe, quindi, estendere il prelievo alla parte relativa ai contributi versati dai soggetti regolati, anche se tale contribuzione deriva da scelte di finanziamento coattivo operate dalla legislazione statale. Poiché a fondamento di tale tesi viene invocato un parere emesso nell’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato (n. 385 del 26 gennaio 2012), deve rilevarsi che, anche prescindendo dalla condivisibilità delle conclusioni cui perviene, esso riguardava un aspetto diverso, vale a dire la destinazione al bilancio dello Stato delle somme provenienti dalle riduzioni di spesa conseguenti all’applicazione dell’art. 6, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, e che, quindi, esso si riferiva ad una fase successiva che presupponeva proprio l’applicazione della normativa contestata.
1.2.− La prima questione posta dal rimettente riguarda l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010 nella parte in cui dispone che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonchè del 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro».
La citata disposizione violerebbe gli artt. 3 e 53 Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di universalità dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina relativa al contributo di solidarietà previsto per gli altri cittadini, che fa riferimento ai redditi oltre i 300.000 euro, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio,prevederebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
Inoltre, in via subordinata, il Tribunale rimettente ritiene violati gli artt. 2 e 3 Cost. in quanto la norma rideterminerebbe, «in senso ablativo, un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo» e, in tal modo, verrebbe ad incidere in pejus sullo status economico dei lavoratori, alterando quel sinallagma che è il proprium dei rapporti di durata ed, in particolare, caratteristica non eliminabile dei rapporti di lavoro, trasmodando in un regolamento irrazionale con riguardo a situazioni fondate su leggi precedenti e così frustrando il principio del legittimo affidamento, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto.
Infine, il TAR del Lazio ritiene che, qualora si escludesse la natura tributaria dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, in questo caso la norma si porrebbe in contrasto in primo luogo con l’art. 42 Cost., avendo natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che determinerebbe una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna indennità, e, in secondo luogo, con l’art. 97, Cost., perché verrebbe ad essere completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.3.– La seconda questione di costituzionalità riguarda l’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone lo scaglionamento della corresponsione del trattamento di fine rapporto fino a tre importi annuali, a seconda dell’ammontare complessivo della prestazione.
Secondo il rimettente, la citata disposizione violerebbe gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto sarebbe irragionevole imporre ai soli dipendenti pubblici lo scaglionamento dell’indennità di buonuscita e, una tale previsione costituirebbe anche una violazione del principio di adeguatezza della retribuzione, caratterizzandosi la buonuscita come «retribuzione differita».
Il TAR del Lazio ritiene sussistere anche la violazione dell’art. 97 Cost. perché risulta svuotata la capacità auto organizzativa della pubblica amministrazione, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.4.– La terza e ultima questione ha ad oggetto gli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge per la Banca d’Italia.
Secondo il Tribunale rimettente, la mancata applicazione all’AGCOM del regime speciale previsto per la Banca d’Italia violerebbe gli articoli 3, 97 e 117, primo comma, Cost. in quanto, oltre a comportare una ingiustificata disparità di trattamento tra enti appartenenti alla medesima categoria delle autorità indipendenti, pregiudicherebbe gravemente l’autonomia e l’indipendenza organizzativa e finanziaria riconosciuta all’AGCOM dall’ordinamento comunitario e da quello nazionale.
2.− Le questioni relative agli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 sono inammissibili.
Questa Corte, con sentenza n. 223 del 2012, successiva alla proposizione delle ordinanze in esame, ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, in quanto, integrando una decurtazione patrimoniale con i caratteri del tributo, si pone in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost.
In tale occasione si è anche affermato che l’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione víola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale violazione si manifesta sotto due diversi profili: da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici; d’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura.
L’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo.
Con la medesima sentenza n. 223 del 2012 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 con la seguente motivazione «a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determina un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della Costituzione».
Da quanto detto consegue che le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, dopo la sentenza n. 223 del 2012, sono divenute prive di oggetto e vanno, quindi, dichiarate inammissibili in relazione ai profili prospettati con le ordinanze di rimessione.
3.− Le questioni relative all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 sono pur esse, anche se per diverso motivo, inammissibili.
Deve nuovamente richiamarsi la sentenza n. 223 del 2012 con la quale le medesime questioni di costituzionalità sono state dichiarate inammissibili perché non risulta «individuato alcun immediato pregiudizio subito dai dipendenti in servizio, diverso dalla rateizzazione, che essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per anzianità di servizio, ovvero per dimissioni» (sentenza n. 223 del 2012).
Anche nel caso in esame deve evidenziarsi che in nessuna delle ordinanze il Tribunale rimettente riferisce di essere investito di una domanda da parte di un dipendente in quiescenza che, per qualunque causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, abbia subito gli effetti della norma. L’assenza di un pregiudizio e di un interesse attuale a ricorrere rende evidente che il rimettente non deve fare applicazione della norma impugnata.
4.− Anche la questione relativa all’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010 sollevata con riferimento ai parametri di cui agli artt. 97 e 117, primo comma, Cost. è inammissibile.
L’ordinanza di rimessione, infatti, è del tutto carente sulle ragioni della non manifesta infondatezza della violazione dei suddetti parametri costituzionali. Sul punto la motivazione si è limitata ad un mero richiamo alle argomentazioni dei ricorrenti, senza riprodurle.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi non è ammessa la cosiddetta motivazione per relationem. Il rimettente deve rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza e non può limitarsi ad un mero richiamo di quelli evidenziati dalle parti nel corso del giudizio (ex plurimis, sentenze n. 234 del 2011 e n. 143 del 2010, ordinanze n. 175 del 2013n. 239 e n. 65 del 2012).
Inoltre, poiché tali argomenti, prospettati dalle parti private, riguardano i motivi dell’invocata illegittimità amministrativa dei provvedimenti impugnati, gli stessi non possono essere utilizzati, con un mero richiamo, per sostenere la violazione dei parametri di costituzionalità che si pretendono violati.
5.− La questione relativa all’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione dell’art. 3 Cost. non è fondata.
Il TAR del Lazio ritiene che l’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge per la Banca d’Italia, determinino un’ingiustificata disparità di trattamento, trattandosi in entrambi i casi di autorità amministrative indipendenti, e sussistendo le medesime esigenze di salvaguardia dell’autonomia delle stesse.
5.1.− L’art. 3, comma 3, ora richiamato dispone che «La Banca d’Italia tiene conto, nell’ambito del proprio ordinamento, dei principi di contenimento della spesa per il triennio 2011-2013 contenuti nel presente titolo. A tal fine, qualora non si raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali sulle materie oggetto di contrattazione in tempo utile per dare attuazione ai suddetti princìpi, la Banca d’Italia provvede sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva eventuale sottoscrizione dell’accordo».
La scelta del legislatore di prevedere un meccanismo di adeguamento della Banca d’Italia alla normativa introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 corrisponde all’esigenza, imposta dai Trattati relativi alle modalità di funzionamento dell’Unione europea, di consultare preventivamente la Banca centrale europea per ogni modifica che riguardi una banca centrale nazionale.
La Banca d’Italia, infatti, è parte integrante del Sistema europeo di banche centrali (SEBC). L’art. 130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione prevede che: «Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti», principio ribadito ed esplicitato anche dall’art. 7 dello statuto del SEBC e della BCE.
Inoltre, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, terzo alinea, della decisione del Consiglio 98/15/CE del 29 giugno 1998 «Le autorità degli Stati membri consultano la BCE su ogni progetto di disposizioni legislative che rientri nelle sue competenze ai sensi del trattato e, in particolare, per quanto riguarda […] le banche centrali nazionali».
Deve riconoscersi che la normativa comunitaria tende ad un rafforzamento dell’indipendenza anche delle autorità nazionali di regolazione. A tal fine, tuttavia, si ritiene sufficiente che sia garantito mediante una previsione esplicita che l’autorità nazionale responsabile della regolazione ex ante del mercato o della risoluzione di controversie tra imprese sia al riparo, nell’esercizio delle sue funzioni, da qualsiasi intervento esterno o pressione politica che possa compromettere la sua imparzialità di giudizio nelle questioni che è chiamata a dirimere.
In particolare, per il settore in esame, la direttiva 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (cosiddetta direttiva quadro), prevede all’undicesimo “considerando” che: «In conformità al principio della separazione delle funzioni di regolamentazione dalle funzioni operative, gli Stati membri sono tenuti a garantire l’indipendenza delle autorità nazionali di regolamentazione in modo da assicurare l’imparzialità delle loro decisioni. Il requisito dell’indipendenza lascia impregiudicata l’autonomia istituzionale e gli obblighi costituzionali degli Stati membri, come pure il principio della neutralità rispetto alla normativa sul regime di proprietà esistente negli Stati membri sancito nell’articolo 295 del trattato. Le autorità nazionali di regolamentazione dovrebbero essere dotate di tutte le risorse necessarie, sul piano del personale, delle competenze e dei mezzi finanziari, per l’assolvimento dei compiti loro assegnati». Si richiede, inoltre, in base al tredicesimo considerando della direttiva n. 2009/140/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009, che siano stabilite preventivamente le norme riguardanti i motivi di licenziamento del responsabile dell’Autorità nazionale di regolazione in modo da dissipare ogni dubbio circa la neutralità di tale ente e la sua impermeabilità ai fattori esterni e che le autorità dispongano di un bilancio proprio che permetta loro di assumere sufficiente personale qualificato.
Dall’esame della disciplina europea risulta evidente la differenza che esiste tra le banche centrali nazionali e le autorità di regolazione dei mercati ex ante e di risoluzione delle controversie tra imprese.
Pertanto, pur godendo tanto la Banca d’Italia che l’AGCOM di una speciale autonomia organizzativa e funzionale a tutela della loro indipendenza, occorre tuttavia affermare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari che la differenziano da ogni altra autorità amministrativa indipendente.
In conclusione, il diverso trattamento riservato dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 alla Banca d’Italia rispetto all’AGCOM è giustificato dall’esigenza imposta dalla disciplina dell’Unione di previa consultazione della Banca centrale europea da parte delle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative concernenti, tra l’altro, le banche centrali nazionali. Poiché analoga esigenza non viene in rilievo con riferimento alle altre autorità amministrative indipendenti, la disciplina riservata alla Banca d’Italia non può costituire, sotto questo profilo, un utile tertium comparationis per una pretesa disparità di trattamento e la prospettata questione di legittimità costituzionale è priva di fondamento in riferimento all’art. 3 Cost.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 97 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 gennaio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2014.