AUTHORITIES & UNIONE EUROPEA:
il diritto comunitario permette
il trattamento privilegiato
dei dipendenti di Bankitalia
(Corte Cost., sentenza 23 gennaio 2014 n. 7).
Massima
1. Il diverso trattamento riservato dall’art. 3, co. 3, del d.l. n. 78 del 2010 alla Banca d’Italia rispetto all’AGCOM è giustificato dall’esigenza imposta dalla disciplina dell’Unione di previa consultazione della Banca centrale europea da parte delle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative concernenti, tra l’altro, le banche centrali nazionali. Poiché analoga esigenza non viene in rilievo con riferimento alle altre autorità amministrative indipendenti, la disciplina riservata alla Banca d’Italia non può costituire, sotto questo profilo, un utile tertium comparationis per una pretesa disparità di trattamento e la prospettata questione di legittimità costituzionale è priva di fondamento in riferimento all’art. 3 Cost.
2. Pur godendo tanto la Banca d’Italia che l’AGCOM di una speciale autonomia organizzativa e funzionale a tutela della loro indipendenza, occorre tuttavia affermare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari che la differenziano da ogni altra autorità amministrativa indipendente.
3. La scelta del legislatore di prevedere un meccanismo di adeguamento della Banca d’Italia alla normativa introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 corrisponde all’esigenza, imposta dai Trattati relativi alle modalità di funzionamento dell’Unione europea, di consultare preventivamente la Banca centrale europea per ogni modifica che riguardi una banca centrale nazionale.
La normativa
L’art. 3, comma 3 del d.l. n. 78/2010 dispone che «La Banca d’Italia tiene conto, nell’ambito del proprio ordinamento, dei principi di contenimento della spesa per il triennio 2011-2013 contenuti nel presente titolo. A tal fine, qualora non si raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali sulle materie oggetto di contrattazione in tempo utile per dare attuazione ai suddetti princìpi, la Banca d’Italia provvede sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva eventuale sottoscrizione dell’accordo».
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
EPIGRAFE
[...]
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio con ordinanze del 10, del 9 e
dell’8 maggio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 184, 185 e 194 del registro ordinanze 2012 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 38,
prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli
atti di costituzione di Abbonato Rosa ed altri, di Falvella Lina ed
altro, di Liberatore Benedetta Alessia ed altri, nonché gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 5 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi gli
avvocati Aristide Police per Abbonato Rosa ed altri e per Falvella Lina
ed altro, Mario Sanino per Liberatore Benedetta Alessia ed altri e l’avvocato
dello Stato Maria Letizia Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.− Il
Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con tre ordinanze di identico
tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del 2012), ha
sollevato, in riferimento agli artt.
2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117
della Costituzionequestione di legittimità costituzionale degli
artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010,
n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio
2010, n. 122.
1.1.−
Il rimettente premette che i giudizi a quibus hanno ad
oggetto la richiesta di annullamento: 1) della delibera dell’Autorità per le Garanzie
nelle Comunicazioni n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011, pubblicata il 23 marzo
2011, con la quale sono state individuate le modalità di attuazione delle
disposizioni previste dal d.l. n. 78 del 2010, nonché di ogni altro
atto presupposto, ivi compresi: a) il Parere del Dipartimento della Ragioneria
Generale dello Stato in data 11 gennaio 2011, reso su apposita richiesta
dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato prot. n. 0068665
del 17 dicembre 2010 in merito all’applicabilità delle disposizioni di cui ald.l. n.
78 del 2010; b) l’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto
economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3,
della legge 31 dicembre 2009, n. 196; c) i singoli provvedimenti individuali
adottati in esecuzione della predetta delibera n. 114/11/CONS del 2011 nei
confronti dei singoli ricorrenti; 2) il nuovo elenco delle Amministrazioni
pubbliche inserite nel conto economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi
dell’art. 1, comma 3, della legge n. 196 del 2009 e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 228, del 30 settembre
2011; 3) la delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n.
498/11/CONS del 13 settembre 2011, pubblicata in data 11 novembre 2011, con la
quale, in attuazione dell’art. 12, commi 7, 8, 9 e 10 del d.l. n. 78
del 2010 e dell’art. 7 della suddetta delibera n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011,
è stata ridefinita la disciplina del trattamento di fine rapporto del personale
dell’Autorità.
Il
rimettente riferisce che gli atti impugnati sono tutti diretti a dare
attuazione alle norme censurate.
1.2.− Il
TAR del Lazio evidenzia, in primo luogo, l’infondatezza dei motivi di ricorso
sollevati dai ricorrenti nei giudizi a quibus per
l’annullamento degli atti impugnati e il cui accoglimento priverebbe di
rilevanza le questioni.
Il
TAR del Lazio afferma la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo sulle controversie in materia di impiego alle dipendenze
dell’Autorità garante delle comunicazioni richiamando la pronuncia della Corte
di cassazione sezioni unite, ordinanza 23 giugno 2005, n. 13446, e la
successiva evoluzione legislativa e giurisprudenziale.
Sempre
in via preliminare, il TAR ritiene che, ai fini dell’interesse ad agire dei
ricorrenti e della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, non
assuma rilievo assorbente − a differenza di quanto affermato dai ricorrenti
nella memoria depositata in data 18 febbraio 2012 − la circostanza che la
sezione III-quater del medesimo Tribunale amministrativo regionale
con la sentenza 11 gennaio 2012, n. 226, abbia annullato l’elenco ISTAT
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 228
del 30 settembre 2011, nella parte in cui inserisce anche l’AGCOM fra le
predette Amministrazioni.
Secondo
il rimettente, tale annullamento non sarebbe rilevante perché il legislatore ha
operato un rinvio recettizio al provvedimento dell’ISTAT e da ciò deriverebbe
che il suddetto annullamento non può dispiegare effetti sul provvedimento legificato
Il
TAR, sempre motivando in punto di rilevanza, ritiene infondato il motivo di
ricorso che attiene alla presunta non applicabilità all’Autorità delle
comunicazioni della disciplina del d.l. n. 78 del 2010. Il Collegio
ritiene che la prova della volontà del legislatore di includere anche l’AGCOM
nel campo di applicazione degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10,
del d.l. n. 78 del 2010 si rinvenga: a) nel fatto che il legislatore
quando ha menzionato espressamente le autorità indipendenti (come, per
l’appunto, nell’art. 6, commi 8, 9, 12, 13 e 14 del d.l. n. 78 del
2010) ha utilizzato la formula «incluse le autorità indipendenti», così
limitandosi a specificare un dato − quale l’inclusione di tali enti nell’elenco
ISTAT − chiaramente evincibile da una semplice lettura del predetto elenco; b)
nel fatto che lo stesso legislatore, laddove ha inteso garantire la specialità
di determinati soggetti pubblici, ha introdotto una disciplina speciale in
materia di contenimento della spesa, come ha fatto, ad esempio, con l’art. 3,
comma 3, del medesimo decreto-legge, che riguarda soltanto la Banca d’Italia e
non le altre autorità indipendenti.
Infine,
a differenza di quanto affermato dai ricorrenti, non assumerebbe rilievo
decisivo il parere del Consiglio di Stato, commissione speciale, 26 gennaio
2012, n. 385. In tale sede, infatti, il Consiglio di Stato − chiamato a
chiarire l’applicabilità dell’art. 6, comma 21, del d.l. n. 78 del
2010 all’AGCOM, sul presupposto che il sistema di finanziamento dell’Autorità è
quasi interamente autonomo, essendo affidato al contributo versato dai soggetti
regolati, mentre solo una minima ed irrilevante parte delle entrate è a carico
del bilancio dello Stato − dopo aver ribadito «il principio di corrispondenza
tra gli oneri imposti agli operatori e i costi amministrativi sostenuti per l’esercizio
dei compiti svolti dall’Autorità», ha affermato che le somme ricavate da
economie di gestione dall’Autorità possono essere destinate al bilancio statale
solo relativamente alla parte imputabile ai contributi ricevuti dallo Stato,
ossia nella misura corrispondente al valore percentuale di tali contributi sul
complesso delle entrate finanziarie dell’Autorità. Secondo il rimettente, il
parere citato confermerebbe ulteriormente l’applicabilità delle norme di cui al d.l. n.
78 del 2010 all’AGCOM.
1.3.− Dopo
aver evidenziato, ai fini della rilevanza, l’infondatezza dei motivi di ricorso
proposti nell’ambito dei giudizi a quibus, il TAR
motiva in ordine alla non manifesta infondatezza delle singole questioni di
costituzionalità.
La
prima, sollevata dal rimettente d’ufficio, è relativa all’art. 9, comma 2, del d.l. n.
78 del 2010, nella parte in cui introduce un contributo di solidarietà per i
dipendenti pubblici pari alla decurtazione del 5% dei trattamenti economici
complessivi superiori a € 90.000 e del 10% per i trattamenti economici
complessivi superiori a € 150.000. Secondo il rimettente la norma violerebbe
gli artt. 3 e 53, Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti
pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di universalità dell’imposizione
a parità di reddito, creando un effetto discriminatorio, reso evidente dalla
diversa disciplina riservata al contributo di solidarietà, oltre i 300.000 euro
di reddito, previsto per gli altri cittadini, il quale, sebbene giustificato
dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota
inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
In
via subordinata, il rimettente solleva questione di costituzionalità anche con
riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. in quanto, rideterminando «in senso ablativo
un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub
specie di diritto soggettivo», inciderebbe in pejus sullo status economico
dei lavoratori, alterando quel sinallagma che è il fondamento dei rapporti di
durata ed, in particolare, proprio dei rapporti di lavoro, trasmodando in un
regolamento irrazionale con riguardo a situazioni fondate su leggi precedenti e
così frustrando il principio del legittimo affidamento, da intendersi quale
elemento costitutivo dello Stato di diritto.
Il TAR del Lazio ritiene violato anche
l’art. 42 Cost. perché, una volta che fosse esclusa la natura tributaria del
prelievo dovrebbe necessariamente riconoscersi la sua natura sostanzialmente
espropriativa, dal momento che verrebbe a costituire una vera e propria
ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna
indennità, attraverso una norma-provvedimento priva della fase del procedimento
e senza neanche la partecipazione degli interessati, cui è negato il diritto di
interloquire sulla legittimità ed opportunità delle scelte cui sono chiamati a
contribuire con il loro sacrificio.
Inoltre il rimettente evoca la violazione
dell’art. 97, Cost., perché sarebbe completamente svuotata la capacità autorganizzativa
delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbe normalmente potersi esprimere
anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.4.− Il
rimettente ritiene di dover sollevare, d’ufficio – con riferimento agli
articoli 2, 3, 42, 53 e 97 Cost. − anche la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010,
secondo il quale: a «titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici
attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto
degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma
di stabilità e crescita, dalla data di entrata in vigore del presente
provvedimento, con riferimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche
come individuate dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ai sensi del
comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 il riconoscimento
dell’indennità di buonuscita, dell’indennità premio di servizio, del
trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennità equipollente corrisposta una
tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario
titolo dall’impiego è effettuato: a) in un unico importo annuale se l’ammontare
complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è
complessivamente pari o inferiore a 90.000 euro; b) in due importi annuali se
l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute
fiscali, è complessivamente superiore a 90.000 euro ma inferiore a 150.000
euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 90.000 curo e il secondo
importo annuale è pari all’ammontare residuo; c) in tre importi annuali se
l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute
fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 150.000 euro, in tal caso il
primo importo annuale è pari a 90.000 curo, il secondo importo annuale è pari a
60.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo».
Il
rimettente, nel motivare la non manifesta infondatezza della questione, fa
riferimento ad altra questione di costituzionalità dell’art. 12, comma 7, del
predetto decreto-legge sollevata dal TAR Calabria (ordinanza n. 89 del 1°
febbraio 2012). In tale ordinanza si evidenzia che la disposizione in esame
comporta lo scaglionamento − in favore del solo datore di lavoro pubblico −
dell’onere di corresponsione delle indennità, comunque denominate, di fine
rapporto con differenti modalità a seconda dell’ammontare complessivo delle
prestazioni. Ciò comporta una diminuzione patrimoniale certa, che si identifica
nella mancata corresponsione di interessi per la dilazione del pagamento. La
misura determinerebbe anche una più profonda compromissione del rapporto
sinallagmatico tra datore di lavoro e dipendente pubblico, giacché le somme di
cui trattasi hanno pacificamente natura retributiva, sia pure differita, e si
tratterebbe di una misura strutturale, non limitata − nella sua vigenza − ad un
periodo di tempo predefinito.
Inoltre,
il TAR osserva che «il mero differimento della retribuzione non risponde ad
alcuna logica di riduzione di spesa, né può essere apprezzato in sede
comunitaria, atteso che non si tratta di una misura strutturale ma di un mero
rinvio della spesa, di talché la razionalità del “prelievo” mascherato cede
innanzi alle esigenze di trasparenza dello Stato con il cittadino, oltre che di
lealtà dello Stato-datore di lavoro con il dipendente che esige la giusta
remunerazione di una vita di lavoro; analogo rilievo vale per la nuova e
diversa incisione del computo dei trattamenti di fine servizio».
In
tal modo, verrebbe leso − senza che lo richieda il soddisfacimento di altri e
più pregnanti principi costituzionali, nell’ottica di un ragionevole
bilanciamento − il principio di affidamento del pubblico dipendente
nell’ordinario sviluppo economico della carriera, comprensivo del trattamento
collegato alla cessazione del rapporto di impiego.
Si
lamenta anche la discriminazione che subirebbero in peius i
pubblici dipendenti rispetto a tutti gli altri lavoratori, con palese
violazione dell’art. 3 Cost., posto che il datore di lavoro privato
non è legittimato ad effettuare alcuna rateizzazione del trattamento di fine
rapporto.
Sarebbe
palese anche «la violazione dell’art. 36 Cost., tenuto conto che il
trattamento di fine rapporto, e gli istituti equivalenti, altro non sono se non
una retribuzione differita, i cui importi devono pertanto essere restituiti al
lavoratore al momento della cessazione del rapporto.
Infine,
anche in questo caso verrebbe completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle
pubbliche amministrazioni, che dovrebbero normalmente potersi esprimere pur in
riferimento allo stato economico del personale, secondo i generali principi espressi
dall’art. 97 Cost.
1.5.−
Il Tribunale rimettente considera rilevante e non manifestamente infondata
anche la questione di legittimità costituzionale sollevata con il secondo
motivo del ricorso introduttivo, ove viene denunciata l’incostituzionalità degli
artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del
2010, per violazione degli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., sul
presupposto della ritenuta inapplicabilità all’AGCOM dello speciale regime
previsto per la Banca d’Italia dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78
del 2010.
In
punto di rilevanza di quest’ultima questione, il Collegio osserva che la tesi
secondo la quale l’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 sarebbe
implicitamente applicabile anche all’AGCOM, sostenuta dai
ricorrenti, sulla scorta del combinato disposto dell’art. 2, comma 28, della
legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e per la regolazione
dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei
servizi di pubblica utilità), e dell’art. 11, comma 2, della legge 10 ottobre
1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), non può
essere condivisa perché, a fronte della già evidenziata inclusione delle
autorità indipendenti (ivi compresa 1’AGCOM) nell’elenco ISTAT, la disposizione
dell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 si presenta come una
norma eccezionale e, come tale, non suscettibile di essere applicata in ambiti
diversi da quelli espressamente indicati dal legislatore.
In
punto di non manifesta infondatezza, in aggiunta alle considerazioni svolte dai
ricorrenti nel primo motivo sulla autonomia ed indipendenza organizzativa e
finanziaria (considerazioni che il rimettente richiama integralmente), il
Collegio ritiene sufficiente evidenziare che la mancata applicazione all’AGCOM
del regime speciale previsto dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del
2010 per la Banca d’Italia, oltre a comportare un’ingiustificata disparità di
trattamento tra enti appartenenti alla medesima categoria (quella delle
autorità indipendenti), finisce per pregiudicare gravemente l’autonomia e
l’indipendenza organizzativa e finanziaria riconosciuta all’AGCOM
dall’ordinamento comunitario e da quello nazionale, in contrasto con gli
articoli 3, 97 e 117, primo comma, Cost.
2.− Si
è costituito nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura
dello Stato premette che le disposizioni censurate si inseriscono nell’ambito
dell’articolata ed organica manovra di contenimento delle spese nel settore del
pubblico impiego effettuata nell’anno 2010. Tale manovra economica è stata
determinata dall’eccezionalità della situazione economica internazionale e
dall’esigenza prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza
pubblica concordati in sede europea. In tale contesto, uno dei settori di
intervento per il contenimento della spesa, è stato, necessariamente, quello
dell’impiego pubblico.
In
tal modo si è fornita una risposta anticipata a quanto è stato espressamente
richiesto, successivamente, con lettera della Banca centrale europea (BCE).
Il
legislatore ha ritenuto che anche il personale dell’AGCOM dovesse concorrere al
conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, in termini non dissimili da
quanto avvenuto per tutti i pubblici dipendenti con l’art. 7 del decreto-legge
19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e
di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438.
L’Avvocatura
dello Stato ricorda che le questioni di legittimità costituzionale sollevate
con riferimento a quest’ultima disposizione legislativa sono state dichiarate
manifestamente infondate (ordinanza n. 299 del 1999). Peraltro, quando
s’impone l’esigenza di effettuare manovre correttive di finanza pubblica
incisive e si deve intervenire con misure che attengono direttamente al
rapporto di impiego, anche il personale dell’AGCOM è tenuto a contribuirvi.
Sarebbe non ragionevole chiedere sacrifici ai dipendenti di tutti i settori
della pubblica amministrazione (sia in regime privatistico che pubblicistico)
esentandone alcuni.
Secondo
la difesa dello Stato, l’intervento legislativo non avrebbe natura tributaria,
perché altrimenti avrebbe dovuto riguardare tutti i cittadini, si tratterebbe
invece di un intervento adottato al fine di ridurre la spesa di quel
determinato settore (la pubblica amministrazione) che è stato individuato anche
in sede europea quale elemento distorsivo in eccesso del debito pubblico. In
materia fiscale, d’altronde, il legislatore non si è mai fatto carico di
salvaguardare gli effetti previdenziali dell’emolumento oggetto di imposizione,
come, invece, è previsto dalla norma oggetto di censura, nella quale si è
precisato che «tale riduzione non opera ai fini previdenziali». Pertanto,
dovrebbe ritenersi infondata la prospettata violazione dell’art. 53 Cost.
L’intervento
normativo in questione dunque sarebbe, secondo l’Avvocatura, ragionevole e
sostanzialmente equo, e non violerebbe né l’art. 2 né l’art. 3 Cost. Esso non
violerebbe nemmeno l’artt. 97 Cost., pure richiamato dal giudice
rimettente, perché il predetto «precetto costituzionale non può essere invocato
al fine di giustificare la pretesa al conseguimento di miglioramenti economici»
(Corte costituzionale, ordinanza n. 290 del 2006).
Non
sembrerebbe fondata neanche la questione relativa alla violazione dell’art. 36
Cost., giacché, per valutare se una riduzione del trattamento economico incida
sul principio dell’adeguatezza del trattamento economico, bisogna avere
riguardo al trattamento economico complessivo del dipendente e non alle singole
componenti di esso: e la misura della riduzione prevista, nel caso di specie,
non può dirsi che comprometta l’adeguatezza della retribuzione (sentenza n. 287 del 2006).
Secondo
la difesa dello Stato, le considerazioni svolte in relazione alla prima
questione sono riferibili anche alle censure formulate, per ragioni
sostanzialmente analoghe, nei riguardi dell’art. 12, comma 7, del d.l. n.
78 del 2010, che ha previsto uno scaglionamento del pagamento della indennità
di buonuscita e delle indennità analoghe spettanti ai dipendenti pubblici per
importi superiori ad euro 90.000,00.
In
particolare, si osserva che non sussiste la violazione dell’art. 36 Cost., perché
le indennità dovute non sono negate o decurtate, ma solo in parte differite.
Non sussiste violazione dei principi di solidarietà, di uguaglianza, di
legalità e di buona amministrazione, perché la misura adottata si applica in
egual modo per tutti i dipendenti pubblici e risponde ad esigenze di
solidarietà sociale, essendo finalizzata a fronteggiare la grave situazione di
crisi della finanza pubblica insorta nella recente fase di integrazione
europea. Né può dirsi che sussista disparità di trattamento tra dipendenti
pubblici e privati, che sono soggetti a diverso trattamento giuridico ed
economico.
Neppure
sarebbero fondate le censure di illegittimità costituzionale formulate dai
ricorrenti e recepite dal TAR, secondo cui l’art. 9, commi l, 2 e 21, e l’art.
12, commi 7 e 10, del d.l. in esame, sarebbero illegittimi per
violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost., in quanto determinerebbero
una disparità di trattamento dei dipendenti dell’AGCOM rispetto a quelli della
Banca d’Italia.
Sebbene
si possa riconoscere che la Banca d’Italia e l’AGCOM costituiscano autorità
indipendenti e godano, pertanto, di una speciale autonomia organizzativa e
funzionale, occorre tuttavia evidenziare che la Banca d’Italia presenta
caratteri del tutto peculiari, che la differenziano da ogni altra autorità. Ne
consegue che, con riferimento alla Banca d’Italia, non è possibile configurare
una identità di situazioni che costituisca presupposto dell’eccepita violazione
del principio di uguaglianza.
Invero,
osserva l’Avvocatura dello Stato, mentre le autorità indipendenti di
regolazione sono enti nazionali, preposti a dare concreta attuazione alle
direttive europee nei mercati di riferimento, le banche centrali − come la
Banca d’Italia − costituiscono ormai organi del Sistema europeo di banche
centrali (SEBC) previsto dagli artt. 127 e seguenti del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea. Esse, pertanto, non possono essere considerate come
autorità indipendenti nazionali, bensì come enti federati di un ente federale
europeo. Per queste ragioni, si è reso necessario adottare una normativa di
carattere speciale per i dipendenti della Banca d’Italia, sottoposta al parere
obbligatorio della Banca centrale europea ai sensi della decisione del
Consiglio 98/15/CE del 29 giugno 1998, allo scopo di salvaguardare la
particolare autonomia delle istituzioni comunitarie. Dunque, la previsione di
un regime specifico per la Banca d’Italia concerne la sua veste di Banca
centrale nazionale, che è propria solo della Banca d’Italia e non certamente
dell’AGCOM.
Neppure
sussisterebbe violazione degli artt. 97 e 117 Cost. Invero, l’indipendenza
delle autorità di regolazione − qual è l’AGCOM − non implica che esse siano
dotate di un’assoluta autonomia patrimoniale e finanziaria e di una totale
autarchia nel governo del personale. Viceversa, esse costituiscono parte della
pubblica amministrazione e sono soggette al principio di legalità stabilito
dall’art. 97 Cost., con la conseguenza che giustamente il trattamento
economico e retributivo del proprio personale viene regolato per legge, così
come avviene per tutte le altre categorie del pubblico impiego, e non è invece
riservato agli autonomi poteri delle singole autorità.
3.− Con
riferimento alle ordinanze di rimessione n. 184 e n. 185 del 2012 si sono
costituiti nel giudizio costituzionale i ricorrenti nei giudizi a quibus riservandosi
di illustrare in un secondo momento le proprie difese.
4.− Con
riferimento all’ordinanza di rimessione n. 194 del 2012 si sono costituiti i
ricorrenti nel giudizio a quo chiedendo che la Corte, in
accoglimento delle questioni sollevate dal TAR del Lazio, dichiari
l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e
10, del d.l. n. 78 del 2010.
In
particolare, le parti private compiono una ricostruzione completa del quadro
normativo nazionale e comunitario in materia di autorità indipendenti al fine
di evidenziare che tali autorità devono godere di piena autonomia, anche con
riferimento al potere di autoregolamentarsi in relazione al personale
dipendente.
Quanto
alle singole censure, vengono sviluppate argomentazioni analoghe a quelle
dell’ordinanza di rimessione.
5.− Con
memorie depositate in prossimità dell’udienza tutti i ricorrenti nei giudizi a quibus ribadiscono
le proprie richieste, insistendo nell’accoglimento delle questioni e, in
particolare, sostenendo l’equiparabilità della disciplina delle autorità
indipendenti a quella prevista per la Banca d’Italia a tutela dell’autonomia e
dell’indipendenza.
6.− Con
memoria depositata in prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato insiste
nella proprie richieste. In particolare, l’Avvocatura sottolinea che,
successivamente alla proposizione dell’ordinanza, è intervenuta la sentenza n. 223 del 2012 con la quale è
stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12,
comma 10, del d.l. n. 78 del 2010. Pertanto, in relazione a tali
norme, le questioni di costituzionalità sono divenute inammissibili per
mancanza di oggetto.
Con
riferimento alla questione relativa all’art. 12, comma 7, del d.l. n.
78 del 2010, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della
questione in conformità con quanto deciso da questa Corte nella citatasentenza n. 223 del 2012. Nel merito tale
questione sarebbe comunque infondata per le ragioni già esposte nell’atto di
costituzione.
Infine,
con riferimento alla questione relativa agli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12,
commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non estendono
anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista per la Banca d’Italia per
l’adeguamento ai principi contenuti nel medesimo decreto-legge, l’Avvocatura
dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle censure relative alla violazione
degli artt. 97 e 117, primo comma, Cost. perdifetto di motivazione.
L’ordinanza
di rimessione omette, infatti, di esplicitare i motivi per i quali, a suo
avviso, sarebbe violato il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione, ed omette altresì di indicare le norme comunitarie che
costituirebbero parametro di riferimento interposto e che sarebbero state
violate nel caso di specie.
Quanto
alla violazione dell’art. 3 per disparità di trattamento con la Banca d’Italia,
l’Avvocatura ribadisce i motivi di infondatezza già evidenziati nell’atto di
costituzione.
Considerato
in diritto
1.− Con
tre ordinanze di identico tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del
2012) il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10,
del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per violazione degli artt.
2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117 della Costituzione.
1.1.− In
considerazione dell’identità delle questioni, deve essere disposta la riunione
dei giudizi, al fine di definirli con un’unica pronuncia.
Va,
preliminarmente, affermato che è da condividere l’argomentazione con cui il TAR
ritiene di respingere la tesi, che priverebbe di rilevanza la questione di
costituzionalità, con cui i ricorrenti nel giudizio principale sostengono che
sussisterebbe un limite non superabile delle somme da destinare al bilancio
dello Stato, rappresentato dai soli importi corrispondenti ai contributi da
quest’ultimo direttamente versati all’AGCOM. Lo Stato non potrebbe, con un atto
di normazione primaria avente ad oggetto le retribuzioni di coloro che vi
lavorano, eccedere rispetto a tale importo, che, per gli esercizi finanziari
rientranti nel periodo di vigenza delle misure in oggetto, sarebbe di entità
irrilevante e non potrebbe, quindi, estendere il prelievo alla parte relativa
ai contributi versati dai soggetti regolati, anche se tale contribuzione deriva
da scelte di finanziamento coattivo operate dalla legislazione statale. Poiché
a fondamento di tale tesi viene invocato un parere emesso nell’Adunanza della
commissione speciale del Consiglio di Stato (n. 385 del 26 gennaio 2012), deve
rilevarsi che, anche prescindendo dalla condivisibilità delle
conclusioni cui perviene, esso riguardava un aspetto diverso, vale a dire la
destinazione al bilancio dello Stato delle somme provenienti dalle riduzioni di
spesa conseguenti all’applicazione dell’art. 6, comma 21, del d.l. n.
78 del 2010, e che, quindi, esso si riferiva ad una fase successiva che
presupponeva proprio l’applicazione della normativa contestata.
1.2.−
La prima questione posta dal rimettente riguarda l’art. 9, comma 2, del d.l. n.
78 del 2010 nella parte in cui dispone che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e
sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli
dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi
ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto
nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge
31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del
5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonchè del
10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro».
La
citata disposizione violerebbe gli artt. 3 e 53 Cost., poiché, colpendo la sola
categoria dei dipendenti pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di
universalità dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto
discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina relativa al contributo
di solidarietà previsto per gli altri cittadini, che fa riferimento ai redditi
oltre i 300.000 euro, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio,prevederebbe una
soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito
complessivo.
Inoltre,
in via subordinata, il Tribunale rimettente ritiene violati gli artt. 2 e 3
Cost. in quanto la norma rideterminerebbe, «in senso ablativo, un trattamento
economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di
diritto soggettivo» e, in tal modo, verrebbe ad incidere in pejus sullo status economico
dei lavoratori, alterando quel sinallagma che è il proprium dei
rapporti di durata ed, in particolare, caratteristica non eliminabile dei
rapporti di lavoro, trasmodando in un regolamento irrazionale con riguardo a
situazioni fondate su leggi precedenti e così frustrando il principio del
legittimo affidamento, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di
diritto.
Infine,
il TAR del Lazio ritiene che, qualora si escludesse la natura tributaria
dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, in questo caso la
norma si porrebbe in contrasto in primo luogo con l’art. 42 Cost., avendo
natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che determinerebbe una vera e
propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna
indennità, e, in secondo luogo, con l’art. 97, Cost., perché verrebbe ad essere
completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche
amministrazioni, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in
riferimento allo stato economico del personale.
1.3.– La
seconda questione di costituzionalità riguarda l’art. 12, comma 7, del d.l. n.
78 del 2010, nella parte in cui dispone lo scaglionamento della corresponsione
del trattamento di fine rapporto fino a tre importi annuali, a seconda
dell’ammontare complessivo della prestazione.
Secondo
il rimettente, la citata disposizione violerebbe gli artt. 3 e 36 Cost., in
quanto sarebbe irragionevole imporre ai soli dipendenti pubblici lo
scaglionamento dell’indennità di buonuscita e, una tale previsione
costituirebbe anche una violazione del principio di adeguatezza della retribuzione,
caratterizzandosi la buonuscita come «retribuzione differita».
Il
TAR del Lazio ritiene sussistere anche la violazione dell’art. 97 Cost. perché risulta
svuotata la capacità auto organizzativa della pubblica amministrazione, che
dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato
economico del personale.
1.4.– La
terza e ultima questione ha ad oggetto gli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12,
commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non
estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista dall’art. 3,
comma 3, del medesimo decreto-legge per la Banca d’Italia.
Secondo
il Tribunale rimettente, la mancata applicazione all’AGCOM del regime speciale
previsto per la Banca d’Italia violerebbe gli articoli 3, 97 e 117, primo
comma, Cost. in quanto, oltre a comportare una ingiustificata
disparità di trattamento tra enti appartenenti alla medesima categoria delle
autorità indipendenti, pregiudicherebbe gravemente l’autonomia e l’indipendenza
organizzativa e finanziaria riconosciuta all’AGCOM dall’ordinamento comunitario
e da quello nazionale.
2.− Le
questioni relative agli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n.
78 del 2010 sono inammissibili.
Questa
Corte, con sentenza n. 223 del 2012, successiva alla
proposizione delle ordinanze in esame, ha ritenuto costituzionalmente
illegittimo l’art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, in quanto,
integrando una decurtazione patrimoniale con i caratteri del tributo, si pone
in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost.
In
tale occasione si è anche affermato che l’introduzione di una imposta speciale,
sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro
dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione víola il principio della
parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante.
Tale violazione si manifesta sotto due diversi profili: da un lato, a parità di
reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli
dipendenti pubblici; d’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con
l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di
indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00
euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha
inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima
finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura.
L’irragionevolezza
non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata
limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei
differenti interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa stessa ad un giudizio
di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai
pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe
potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore
avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà
economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo.
Con
la medesima sentenza n. 223 del 2012 è stata
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n.
78 del 2010 con la seguente motivazione «a fronte dell’estensione del regime di
cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di
fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º
gennaio 2011, determina irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del
6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della
trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della
buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di
buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973,
n. 1032.
Nel
consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché
non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché – a parità
di retribuzione – determina un ingiustificato trattamento deteriore dei
dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da
parte del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli
articoli 3 e 36 della Costituzione».
Da
quanto detto consegue che le questioni di legittimità costituzionale degli artt.
9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, dopo la sentenza n. 223 del 2012, sono divenute prive
di oggetto e vanno, quindi, dichiarate inammissibili in relazione ai profili prospettati
con le ordinanze di rimessione.
3.− Le
questioni relative all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 sono
pur esse, anche se per diverso motivo, inammissibili.
Deve
nuovamente richiamarsi la sentenza n. 223 del 2012 con la quale le
medesime questioni di costituzionalità sono state dichiarate inammissibili
perché non risulta «individuato alcun immediato pregiudizio subito dai dipendenti
in servizio, diverso dalla rateizzazione, che essi subiranno nel momento del
collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il giorno successivo a
quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato nel
provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per anzianità di servizio,
ovvero per dimissioni» (sentenza n. 223 del 2012).
Anche
nel caso in esame deve evidenziarsi che in nessuna delle ordinanze il Tribunale
rimettente riferisce di essere investito di una domanda da parte di un
dipendente in quiescenza che, per qualunque causa, in epoca successiva al 30
novembre 2010, abbia subito gli effetti della norma. L’assenza di un
pregiudizio e di un interesse attuale a ricorrere rende evidente che il
rimettente non deve fare applicazione della norma impugnata.
4.− Anche
la questione relativa all’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del
2010 sollevata con riferimento ai parametri di cui agli artt. 97 e 117, primo
comma, Cost. è inammissibile.
L’ordinanza
di rimessione, infatti, è del tutto carente sulle ragioni della non manifesta
infondatezza della violazione dei suddetti parametri costituzionali. Sul punto
la motivazione si è limitata ad un mero richiamo alle argomentazioni dei
ricorrenti, senza riprodurle.
Secondo
la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nei giudizi incidentali di
costituzionalità delle leggi non è ammessa la cosiddetta motivazione per relationem.
Il rimettente deve rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non
manifesta infondatezza e non può limitarsi ad un mero richiamo di quelli
evidenziati dalle parti nel corso del giudizio (ex plurimis,
sentenze n. 234 del 2011 e n. 143 del 2010, ordinanze n. 175 del 2013, n. 239 e n. 65 del 2012).
Inoltre,
poiché tali argomenti, prospettati dalle parti private, riguardano i motivi
dell’invocata illegittimità amministrativa dei provvedimenti impugnati, gli
stessi non possono essere utilizzati, con un mero richiamo, per sostenere la
violazione dei parametri di costituzionalità che si pretendono violati.
5.− La
questione relativa all’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010,
per violazione dell’art. 3 Cost. non è fondata.
Il
TAR del Lazio ritiene che l’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del
2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la
disciplina prevista dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge per la
Banca d’Italia, determinino un’ingiustificata disparità di trattamento,
trattandosi in entrambi i casi di autorità amministrative indipendenti, e
sussistendo le medesime esigenze di salvaguardia dell’autonomia delle stesse.
5.1.− L’art.
3, comma 3, ora richiamato dispone che «La Banca d’Italia tiene conto,
nell’ambito del proprio ordinamento, dei principi di contenimento della spesa
per il triennio 2011-2013 contenuti nel presente titolo. A tal fine, qualora
non si raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali sulle materie
oggetto di contrattazione in tempo utile per dare attuazione ai suddetti
princìpi, la Banca d’Italia provvede sulle materie oggetto del mancato accordo,
fino alla successiva eventuale sottoscrizione dell’accordo».
La
scelta del legislatore di prevedere un meccanismo di adeguamento della Banca
d’Italia alla normativa introdotta dal d.l. n. 78 del 2010
corrisponde all’esigenza, imposta dai Trattati relativi alle modalità di
funzionamento dell’Unione europea, di consultare preventivamente la Banca
centrale europea per ogni modifica che riguardi una banca centrale nazionale.
La
Banca d’Italia, infatti, è parte integrante del Sistema europeo di banche
centrali (SEBC). L’art. 130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione prevede
che: «Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri
loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca
centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi
organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle
istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli
Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli
organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a
rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli
organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali
nazionali nell’assolvimento dei loro compiti», principio ribadito ed esplicitato
anche dall’art. 7 dello statuto del SEBC e della BCE.
Inoltre,
ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, terzo alinea, della decisione del Consiglio
98/15/CE del 29 giugno 1998 «Le autorità degli Stati membri consultano la BCE
su ogni progetto di disposizioni legislative che rientri nelle sue competenze
ai sensi del trattato e, in particolare, per quanto riguarda […] le banche
centrali nazionali».
Deve
riconoscersi che la normativa comunitaria tende ad un rafforzamento
dell’indipendenza anche delle autorità nazionali di regolazione. A tal fine,
tuttavia, si ritiene sufficiente che sia garantito mediante una previsione
esplicita che l’autorità nazionale responsabile della regolazione ex
ante del mercato o della risoluzione di controversie tra imprese sia
al riparo, nell’esercizio delle sue funzioni, da qualsiasi intervento esterno o
pressione politica che possa compromettere la sua imparzialità di giudizio
nelle questioni che è chiamata a dirimere.
In
particolare, per il settore in esame, la direttiva 2002/21/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo
comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (cosiddetta
direttiva quadro), prevede all’undicesimo “considerando” che: «In conformità al
principio della separazione delle funzioni di regolamentazione dalle funzioni
operative, gli Stati membri sono tenuti a garantire l’indipendenza delle
autorità nazionali di regolamentazione in modo da assicurare l’imparzialità
delle loro decisioni. Il requisito dell’indipendenza lascia impregiudicata
l’autonomia istituzionale e gli obblighi costituzionali degli Stati membri,
come pure il principio della neutralità rispetto alla normativa sul regime di
proprietà esistente negli Stati membri sancito nell’articolo 295 del trattato.
Le autorità nazionali di regolamentazione dovrebbero essere dotate di tutte le
risorse necessarie, sul piano del personale, delle competenze e dei mezzi
finanziari, per l’assolvimento dei compiti loro assegnati». Si richiede,
inoltre, in base al tredicesimo considerando della direttiva n. 2009/140/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009, che siano stabilite
preventivamente le norme riguardanti i motivi di licenziamento del responsabile
dell’Autorità nazionale di regolazione in modo da dissipare ogni dubbio circa
la neutralità di tale ente e la sua impermeabilità ai fattori esterni e che le
autorità dispongano di un bilancio proprio che permetta loro di assumere
sufficiente personale qualificato.
Dall’esame
della disciplina europea risulta evidente la differenza che esiste tra le
banche centrali nazionali e le autorità di regolazione dei mercati ex
ante e di risoluzione delle controversie tra imprese.
Pertanto,
pur godendo tanto la Banca d’Italia che l’AGCOM di una speciale autonomia
organizzativa e funzionale a tutela della loro indipendenza, occorre tuttavia
affermare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto peculiari che la
differenziano da ogni altra autorità amministrativa indipendente.
In
conclusione, il diverso trattamento riservato dall’art. 3, comma 3, del d.l. n.
78 del 2010 alla Banca d’Italia rispetto all’AGCOM è giustificato dall’esigenza
imposta dalla disciplina dell’Unione di previa consultazione della Banca
centrale europea da parte delle autorità nazionali sui progetti di disposizioni
legislative concernenti, tra l’altro, le banche centrali nazionali. Poiché
analoga esigenza non viene in rilievo con riferimento alle altre autorità amministrative
indipendenti, la disciplina riservata alla Banca d’Italia non può costituire,
sotto questo profilo, un utile tertium comparationis per
una pretesa disparità di trattamento e la prospettata questione di legittimità
costituzionale è priva di fondamento in riferimento all’art. 3 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili
le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, commi
7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento
agli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in
epigrafe;
2) dichiara inammissibili
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n.
78 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 97 e 117, primo comma, Cost., dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in
epigrafe;
3) dichiara non
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21,
del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in
epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
15 gennaio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 gennaio
2014.