venerdì 31 gennaio 2014

ESPROPRIAZIONI: l'invalidità c.d. "caducante" dell'annullamento del decreto di esproprio, ma anche della sentenza civile sull'opposizione alla stima (T.A.R. Campania, Napoli, 21 gennaio 2014 n. 385).


ESPROPRIAZIONI: 
l'invalidità c.d. "caducante" 
dell'annullamento del decreto di esproprio, 
ma anche della sentenza civile 
sull'opposizione alla stima 
(T.A.R. Campania, Napoli, 
sentenza 21 gennaio 2014 n. 385)    


Massima

1. La sussistenza di un decreto di esproprio è condizione dell'azione di determinazione dell' indennità, di talché se nel corso del giudizio inerente a tale determinazione venga prodotta una sentenza del giudice amministrativo di annullamento del decreto di esproprio si determina una sopravvenuta carenza d'interesse del ricorrente alla definizione del giudizio, in quanto, appunto, l'annullamento del decreto di esproprio comporta il venir meno della stessa condizione fondamentale dell'azione di determinazione indennitaria.
2. Tale dipendenza del cosiddetto “giudizio di opposizione alla stima” dall’esistenza degli atti di occupazione e di esproprio infatti non può essere riservata alla sfera processuale ma interessa anche la sfera sostanziale, in considerazione dell'indissolubile collegamento che esiste tra indennità di espropriazione e trasferimento del bene attraverso l'espropriazione per pubblica utilità e allo stesso modo tra decreto di occupazione dell’area e indennità di occupazione.
La sentenza del giudice ordinario che operi tale determinazione non si  difatti, pone, come titolo autonomo di accertamento della spettanza delle suddette somme al soggetto che subisce la procedura espropriativa (facendo nascere un autonomo diritto di credito), avendo il suindicato giudizio solo natura di quantificazione degli importi dovuti ad altri titolo (il decreto di occupazione e il decreto di esproprio).


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4684 del 2012, proposto da:
Angela Buonanno, rappresentata e difesa dall'avv. Francesco Martino, con domicilio eletto presso lo Studio legale Manasse, in Napoli, via Ponti Rossi, n. 37; 
contro
Consorzio A.S.I., rappresentato e difeso dall'avv. Stefano Casertano, con domicilio eletto presso il suo studio, in Napoli, via P. Colletta n.12; 
per l'ottemperanza
della sentenza n. 3232/2010 resa dalla Corte d'Appello di Napoli

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Consorzio A.S.I. Caserta;
Viste le memorie difensive;
Visto l 'art. 114 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 27 novembre 2013 il dott. Fabrizio D'Alessandri e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
La parte ricorrente adiva la Corte di Appello di Napoli, convenendo il Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Caserta (A.S.I.), in un giudizio di opposizione all'indennità offerta per la procedura espropriativa di un proprio fondo.
Con sentenza n. 3232/2010, depositata in data 5/10/2010, la Corte di Appello di Napoli ha determinato la giusta indennità di espropriazione in euro 223.470,00 e l’indennità di occupazione legittima in euro 53.074,12, oltre interessi, ordinando al convenuto Consorzio A.S.I. di versare presso la Cassa depositi e prestiti, in favore dell’odierna ricorrente, le suddette somme meno quanto già depositato.
La medesima ricorrente, deducendo che il Consorzio A.S.I. non aveva provveduto al pagamento, ha presentato ricorso per l’ottemperanza, chiedendo che il T.A.R. voglia disporre l’esecuzione in suo favore della sentenza in epigrafe indicata, nominando a tal fine un commissario ad acta che provveda al pagamento delle somme dovute, a cura e spese del Comune intimato.
Si è costituito in giudizio il Consorzio A.S.I. che innanzitutto ha chiesto la riunione del presente giudizio con quello pendente dinanzi al medesimo T.A.R. iscritto con R.G. 4680/2012.
Ha chiesto, nel merito, il rigetto del ricorso per l’ottemperanza, deducendo che questo T.A.R., con sentenza n. 6883/2002, ha annullato gli atti della procedura espropriativa riguardanti i suoli in questione e dichiarato l’illeicità degli atti di occupazione per assenza di una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità per le opere, con conseguente obbligo del Consorzio A.S.I. di risarcire i danni dell’illecito commesso e restituire i suoli occupati.
Tale sentenza è stata confermata dalla pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, 28/04/2008, n. 1885, sia pure in base ad una motivazione in parte diversa, in considerazione della rilevata incostituzionalità della normativa posta a base degli atti impugnati in primo grado.
Faceva presente altresì che, successivamente, per le medesime aree la Regione ha proceduto ad avviare un procedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis D.P.R. n. 327/2001.
La causa veniva chiamata all’udienza in camera di consiglio del 27 novembre 2013 e trattenuta in decisione

DIRITTO
1) In primo luogo il Collegio ritiene non vi siano ragioni per disporre la riunione del presente giudizio con quello, sempre di ottemperanza, iscritto dinanzi a questo T.A.R. con R.G. 4680/2012.
I due giudizi, pur derivando dalla richiesta di ottemperanza dalla medesima sentenza n. 3232/2010 della Corte di Appello di Napoli, hanno diverse parti e differenti oggetti, presentandosi quindi come del tutto autonomi.
Il giudizio di cui qui è causa ha come ricorrente la parte attrice nel giudizio dinanzi alla Corte di Appello e riguarda l’ottemperanza della sentenza per quanto concerne il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti delle differenze dell’indennità di esproprio e dell’indennità di occupazione.
Il giudizio di cui al R.G. 4592/2012 è stato, invece, intentato dall’avvocato antistatario nel giudizio di Corte d’Appello ed è volto ad azionare la sentenza del giudice ordinario per quel che riguarda il pagamento delle spese di giudizio distratte in suo favore.
La sola circostanza che i due giudizi abbiano come riferimento la medesima sentenza non costituisce motivo di riunione, trattandosi di due situazioni sostanziali e processuali del tutto distinte.
2) Nel merito il ricorso non può essere accolto.
A fronte dell’azionata sentenza passata giudicato della Corte di Appello inerente ad un giudizio di quantificazione delle indennità di occupazione legittima e di esproprio parte resistente ha eccepito, come indicato nella parte in fatto, l’esistenza di una precedente sentenza del Consiglio di Stato (n. 1885/2008) che, confermando con altre motivazioni la sentenza di primo grado del T.A.R. Campania, ha annullato gli atti della procedura esecutiva e, in particolare, ha affermato l’insussistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità e annullato il decreto di occupazione dell’area.
Le questioni teoriche che si pongono ai fini della risoluzione della controversia sono gli effetti della sentenza del Consiglio di Stato sul decreto finale di esproprio (che non risulta essere stato oggetto di impugnativa) e l’effettiva valenza della sentenza di Corte di Appello di determinazione dell’indennità.
Quanto alla prima questione il Collegio esprime l’avviso che, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (Cons. Stato, sez. IV, 3/10/2012, n. 5189; Cons. Stato, Sez. IV, 29/1/2008, n. 258; T.A.R. Sardegna, sez. II, 18/4/2005, n. 776).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto.
Si invera, allora, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio, (Cons. Stato, sez. IV, 3/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV, 29/1/2008 n.258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n.9155; Cons. Stato Sez. IV, 30/6/2003 n.3896).
Una volta quindi acclarato che, in seguito alla sentenza del Consiglio di Stato 1885/2008, il decreto di esproprio riguardante le aree in questione è venuto meno, si devono verificare gli effetti di tale caducazione sulla statuizione della Corte d’Appello che ha determinato la misura dell’indennità di occupazione legittima e di esproprio. A tali fini si deve, peraltro, tener presente anche l’ulteriore circostanza che la sentenza del Consiglio di Stato (e il relativo effetto caducatorio) non possono essere neanche considerati un fatto sopravvenuto al giudicato azionato, in quanto la decisione del Consiglio di Stato è precedente di quasi due anni alla decisione del giudice ordinario di determinazione della giusta indennità.
Ora, indubbiamente, la sussistenza di un decreto di esproprio è condizione dell'azione di determinazione dell' indennità, di talché se nel corso del giudizio inerente a tale determinazione venga prodotta una sentenza del giudice amministrativo di annullamento del decreto di esproprio si determina una sopravvenuta carenza d'interesse del ricorrente alla definizione del giudizio, in quanto, appunto, l'annullamento del decreto di esproprio comporta il venir meno della stessa condizione fondamentale dell'azione di determinazione indennitaria (Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2007, n. 6026; Cass. 11 luglio 2005, n. 14537; Cass. ord. 15 marzo 2006, n. 5679; Cass. 27 aprile 2006, n. 9689; Cass. 16 giugno 2006, n. 13961; Cass. 30 giugno 2006, n. 15113).
Tale rapporto di dipendenza dell'azione di determinazione dell' indennità dall’esistenza di un decreto di espropriazione (considerato presupposto per l'esercizio del potere determinativo da parte del giudice) è evidenziato ancora da quella giurisprudenza secondo cui l'impugnazione in sede di giurisdizione amministrativa della dichiarazione di pubblica utilità, dal cui annullamento discenderebbe l'invalidazione degli atti conseguenti tra cui il decreto di espropriazione, si traduce in una pregiudizialità di quella controversia su quella indennitaria, della quale, pertanto, può essere disposta la sospensione in attesa della definizione della prima (Cass. civ. Sez. I Ord., 07-03-2007, n. 5272).
Così come sottolinea tale stretto collegamento quella giurisprudenza secondo cui l'azione di determinazione dell'indennità di esproprio trova causa nella procedura espropriativa definita mediante la pronuncia del relativo decreto ablativo che attribuisce la proprietà dell'immobile, a titolo originario, dall'espropriato all'ente espropriante, e opera la trasformazione del diritto reale del primo in quello a percepire il giusto indennizzo ex art. 42 Cost.; tale azione ha nel provvedimento di esproprio la sua condizione indefettibile, rappresentandone un fatto indispensabile per integrarne la fattispecie costitutiva, sicché non è consentito addivenire, in sua assenza, ad una statuizione definitiva sull' indennità (Cass. civ. Sez. I, 18-07-2013, n. 17604).
Stesso discorso vale per l’indennità di occupazione legittima rispetto alla caducazione degli atti che autorizzano l'occupazione (Cass. civ. Sez. I, 21-02-2006, n. 3784).
Il fatto però che la circostanza dell’intervenuta caducazione del decreto di esproprio non sia stata dedotta in sede di giudizio di Corte di Appello (e che la relativa sentenza non sia stata impugnata) non comporta che essa sia irrilevante in ordine alla spettanza delle indennità di occupazione e di esproprio e che non possa essere eccepita in sede di ottemperanza della sentenza che tale determinazione ha operato ordinando il deposito delle relative somme presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Tale dipendenza del cosiddetto “giudizio di opposizione alla stima” dall’esistenza degli atti di occupazione e di esproprio infatti non può essere riservata alla sfera processuale ma interessa anche la sfera sostanziale, in considerazione dell'indissolubile collegamento che esiste tra indennità di espropriazione e trasferimento del bene attraverso l'espropriazione per pubblica utilità e allo stesso modo tra decreto di occupazione dell’area e indennità di occupazione.
La sentenza del giudice ordinario che operi tale determinazione non si pone come titolo autonomo di accertamento della spettanza delle suddette somme al soggetto che subisce la procedura espropriativa (facendo nascere un autonomo diritto di credito), avendo il suindicato giudizio solo natura di quantificazione degli importi dovuti ad altri titolo (il decreto di occupazione e il decreto di esproprio).
E’ stato in giurisprudenza osservato come il giudizio di opposizione alla stima delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea, al pari di quello volto alla determinazione giudiziale del giusto indennizzo, devoluti alla competenza in unico grado della Corte di appello, sono circoscritti alle questioni relative all'ammontare di dette indennità nei rapporti tra espropriante ed espropriati , dovendo la Corte non pronunciare condanna dell' espropriante al relativo pagamento, ma limitarsi ad ordinare (come di fatto nel caso di specie ha ordinato) il deposito presso la Cassa depositi e prestiti della differenza tra il superiore importo liquidato in sede giudiziaria e quello fissato in sede amministrativa (Cass. civ. Sez. I, 21-08-2013, n. 19323).
In base a quanto anzidetto, il Collegio ritiene quindi che l’effetto di giudicato formatosi sulla sentenza della Corte di Appello riguardi la quantificazione dell’indennità e non il diverso titolo del diritto della ricorrente di percepire le somme, che è subordinato all’esistenza del decreto di occupazione delle aree e del decreto di esproprio che nel caso di specie sono venuti meno.
La circostanza che gli atti di esproprio siano venuti meno rende incoercibile il contenuto della sentenza di Corte di Appello azionata che in quegli atti trova il suo presupposto di efficacia e azionabilità.
Tale conclusione risponde peraltro anche a criteri di razionalità e giustizia sostanziale essendo del tutto illogico, innanzitutto, ordinare il versamento di un’indennità di occupazione legittima o di esproprio dove tali fatti non si siano concretizzati in base a sentenze (del giudice amministrativo) passate in giudicato ma anche ritenere che possa acclarare la sussistenza di un diritto di credito un giudice diverso (quello ordinario) rispetto a quello che ha giurisdizione sulla validità del titolo da cui tale diritto di credito sorge.
Non gioverebbe peraltro alla parte ricorrente il deposito delle relative somme presso la Cassa Depositi e Prestiti nel caso in cui la stessa (come pare nell’ipotesi di specie) non abbia titolo a ritirarle essendo non più sussistenti il decreto di occupazione e quello di esproprio.
Si sottolinea, infine, il comportamento non del tutto coerente della parte ricorrente che, dopo aver agito per l’annullamento degli atti della procedura espropriativa, una volta ottenutolo, agisce in questa sede per ottenere le somme relative all’indennità di occupazione legittima e di esproprio che presuppongono la validità del procedimento espropriativo e l’intervenuto conclusione con il passaggio della proprietà dell’area.
3) In conclusione, quindi, essendo venuti meno il decreto di occupazione e quello di espropriazione il ricorso deve essere respinto.
In considerazione della peculiarità e complessità delle questioni trattate, il Collegio ritiene sussistano eccezionali motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Quarta) rigetta il ricorso per le ragioni di cui in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 27 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Angelo Scafuri, Presidente
Anna Pappalardo, Consigliere
Fabrizio D'Alessandri, Primo Referendario, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 21/01/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


ADUNANZE PLENARIE & PROCESSO: il giudice amministrativo non è tenuto ad astenersi se ha già conosciuto la causa in sede di revocazione (Ad. Plen., sentenza 24 gennaio 2014 nn 4 e 5).


ADUNANZE PLENARIE & PROCESSO: 
il giudice amministrativo 
non è tenuto ad astenersi 
se ha già conosciuto la causa in sede di revocazione
 (Ad. Plen., sentenza 24 gennaio 2014  nn 4 e 5).



Massima 

1. Anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, debba escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. - richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. - che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente.
2. Ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.



Sentenza per esteso (n. 4)


INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 20 di A.P. del 2013, proposto da:
Riccardo Menichetti, rappresentato e difeso dagli avv. Domenico Pavoni, Stefano Matii, con domicilio eletto presso Domenico Pavoni in Roma, via A. Riboty, 28; 
contro
Agenzia per lo Sviluppo Ippico (Assi), non costituita; 
per la revocazione
della sentenza breve del Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 ottobre 2001, n. 5482, resa tra le parti, concernente sospensione dalla qualifica e pena pecuniaria.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 ottobre 2013 il Cons. Nicola Russo; nessuno è presente per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Il sig. Riccardo Menichetti ha proposto un ricorso contro l’Agenzia per lo sviluppo del settore ippico (ASSI) per la revocazione della sentenza della VI Sezione di questo Consiglio, 19 luglio 2011, n. 5482, con cui era stato accolto l’appello proposto dall’Unire (ora ASSI), con conseguente riforma della sentenza della Sezione Autonoma di Bolzano del Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino- Alto Adige 25 marzo 2011, n. 124, avente ad oggetto l’irrogazione, nei confronti del ricorrente, della sanzione disciplinare della sospensione, per la durata di sei mesi, da ogni qualifica ippica rivestita e della pena pecuniaria di euro 1.500,00.
Con nota prot. n. 7969 in data 29 aprile 2013, il Presidente della VI Sezione, ha fatto presente di nutrire “perplessità in ordine alle modalità di costituzione del collegio giudicante per la decisione della predetta controversia” sulla base della decisione dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 2 del 2009, che ha affermato anche per il giudizio di revocazione la necessità che il giudice non possa giudicare in una controversia di cui ha conosciuto in altro grado del processo, in ragione della “forza della prevenzione” che potrebbe svolgere un ruolo decisivo nella fase rescindente. Nella specie, rileva il Presidente della VI Sezione, “entrambi i consiglieri di Stato appartenenti al gruppo di lingua tedesca in servizio presso il Consiglio di Stato hanno conosciuto della predetta controversia in altro grado di giudizio”, l’uno in quanto componente del Collegio che ha pronunciato la sentenza d’appello della cui revocazione si tratta e l’altro in quanto componente del Collegio che ha pronunciato la sentenza di primo grado, per cui, trattandosi di questione di massima riguardante la composizione dei Collegi, ha ritenuto di rimettere l’affare al Presidente del Consiglio di Stato per la valutazione circa l’opportunità di investire l’Adunanza Plenaria.
Il Presidente del Consiglio di Stato in data 17 maggio 2013 ha, quindi, deferito la controversia all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a.

DIRITTO
Com’è noto, con decisione 25 marzo 2009, n. 2, questa Adunanza plenaria, modificando l’indirizzo già prevalente nella giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 4 aprile 2005, n. 1477; sez. V, 30 luglio 1082, n. 622) e allineandosi all’indirizzo accolto dalla sentenza della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, 27 febbraio 2008, n. n. 5087, ha riconosciuto che il dovere di astensione previsto dall’art. 51, n. 4, c.p.c., sussiste anche nei confronti del giudice chiamato a partecipare alla decisione della causa su cui si sia già pronunciato nello stesso grado di giudizio, e non solo nel caso in cui la seconda pronuncia intervenga in un nuovo e diverso grado di giudizio, in quanto le ragioni di garanzia della imparzialità e della terzietà del giudice valgono, allo stesso modo, in entrambi i casi (cfr. Corte Cost., 3 luglio 2002, n. 305).
Pertanto, mentre in passato, nel caso di regressione del processo al giudice di primo grado, si escludeva che il componente del collegio che avesse partecipato alla prima decisione versasse in posizione di incompatibilità per la nuova causa, successivamente, in adesione agli argomenti sviluppati dalle citate Sezioni Unite del 2008, questa Adunanza plenaria ha configurato l’obbligo di astensione nel caso di annullamento con rinvio.
L’Adunanza plenaria ha, dunque, aderito alla (nuova) linea interpretativa, secondo la quale l’alterità del giudice in sede di rinvio prosecutorio costituisce applicazione del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha “pieno valore costituzionale in relazione a qualunque tipo di processo” (cfr.: Corte 21 marzo 2002 n. 78; Corte Cost. 3 luglio 2002 n. 305; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).
In questa direzione, ha, pertanto, affermato che l’esigenza di proteggere l’imparzialità del giudice impedisce che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda, in quanto dal primo giudizio potrebbero derivare convinzioni precostituite sulla materia controversa, determinandosi così, propriamente, un “pregiudizio” contrastante con l’esigenza costituzionale che la funzione del giudicare sia svolta da un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni formatesi in occasione dell’esercizio di funzioni giudicanti in altre fasi del giudizio (Corte Cost. 12 luglio 2002 n. 335; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).
Inoltre, ha pure osservato che negli ordinamenti processuali è avvertita l’esigenza di evitare la cd. forza della prevenzione, attraverso la predisposizione di meccanismi processuali capaci di garantire che il giudice non subisca condizionamenti psicologici tali da rendere probabile il venir meno della sua serenità di giudizio.
Facendo applicazione degli indicati principi, la decisione n. 2 del 2009 ha ritenuto fondato il primo motivo di appello, essendo risultato che del collegio che aveva adottato la decisione in sede di rinvio avevano fatto parte due magistrati - persone fisiche (uno dei quali nella veste di relatore in entrambe le pronunce) che avevano partecipato alla precedente sentenza e, pertanto, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio al medesimo giudice di primo grado.
Sebbene la materia del contendere vertesse solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio, tuttavia la decisione n. 2 del 2009 cit. ha affermato che il dovere di astensione si estende anche all’ipotesi in cui il giudice sia chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla vertenza in seguito a ricorso per revocazione della precedente sentenza, riconoscendo che il dovere di astensione deve valere ad assicurare anche l’“immagine” dell’imparzialità del giudice, così da evitare che egli possa sembrare condizionato dalla precedente pronuncia resa nella medesima controversia.
Conclusione diversa, invece, è stata accolta per il giudizio di opposizione di terzo, per il quale la prefata decisione, n. 2/2009 cit., ha ricavato dall’art. 405 c.p.c. la regola secondo cui il giudice che ha partecipato alla deliberazione della sentenza oggetto di opposizione potrebbe legittimamente intervenire nella pronuncia sull’opposizione (in realtà l’art. 405 c.p.c. in base al quale l’opposizione di terzo va proposta avanti allo stesso giudice che ha pronunciato sulla sentenza opposta si riferisce alla competenza dell’ufficio giudiziario, e non alla persona del giudice).
La decisione n. 2 del 2009 cit. ha, infine, confermato l’indirizzo consolidato secondo cui non sussiste alcuna incompatibilità nella partecipazione dello stesso giudice alla pronuncia in sede cautelare e alla pronuncia in sede di merito, data la diversità dei caratteri della cognizione nell’uno e nell’altro caso.
Ciò premesso, ad avviso di questo Collegio, l’indirizzo interpretativo espresso dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2009, nella parte in cui, sia pure con un obiter dictum - atteso che la materia del contendere verteva solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio - ha affermato un principio di diritto comunque capace di orientare la futura attività dei giudici amministrativi, escludendo che del giudizio di revocazione possa conoscere la stessa persona fisica - o le stesse persone fisiche, quali componenti del Collegio - che ha pronunciato la sentenza impugnata, a parte la sua condivisibilità o meno, appare, comunque, superato dal nuovo codice del processo amministrativo (c.p.a.).
E, invero, le affermazioni dell’anzidetta decisione non sono state trasfuse negli articoli 106 e 107 c.p.a., sebbene emanato a breve distanza di tempo.
Anzi, l’art. 106, secondo comma, c.p.a. afferma, al comma 2, che “La revocazione è proponibile dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata”.
Naturalmente, dicendo “stesso giudice” la legge intende lo stesso “ufficio giudiziario”, e perciò deve ritenersi che la causa potrà essere affidata sia alla stessa e sia ad un’altra Sezione (cfr. Cass. 5 settembre 2006, n. 19041).
Nondimeno va ricordato che, a fronte della medesima espressione contenuta nell’art. 398, comma primo, c.p.c., secondo la giurisprudenza della Cassazione solo nel caso di revocazione per dolo del giudice (art. 395 n. 6 c.p.c.) non potrà far parte dell’organo giudicante la stessa persona fisica che ha emesso la sentenza revocanda, non sussistendo, negli altri casi, per il magistrato che ha pronunciato la sentenza impugnata per revocazione, alcuna incompatibilità a partecipare al giudizio di revocazione stesso (cfr. Cass., sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Va altresì ricordato che nel processo civile ed amministrativo non sono applicabili le regole sulle incompatibilità soggettive del giudice fissate nel processo penale bensì soltanto le cause di astensione e ricusazione stabilite dal c.p.c..
La Corte costituzionale, con sentenza 15 ottobre 1999, n. 387, ha, infatti, ribadito che non sono applicabili al giudizio civile ed a quello amministrativo, proprio per la particolarità e le diversità dei sistemi processuali, le regole delle incompatibilità soggettive per precedente attività (tipizzata) svolta nello stesso procedimento penale, bensì le disposizioni sull’astensione e la ricusazione del codice di procedura civile, cui anche le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio: ciò in quanto il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione, pur tuttavia con le peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento.
In tale circostanza, si è sottolineato che l’esigenza generale di assicurare che sempre il giudice rimanga, ed anche appaia, del tutto estraneo agli interessi oggetto del processo, viene assicurata nel processo civile solo attraverso gli istituti dell’astensione e ricusazione, che rinvengono il proprio supporto normativo nella previsione dell’art. 51, n. 4, cod. proc. civ.
Infatti, sul piano generale, esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è solo quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda.
Senonché, come anche ripetutamente affermato dalla Corte di Cassazione, salva ovviamente l’ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non predica, per sua natura, un errore di giudizio (Cass. nn. 2342/1962, 1624/1965, 2222/1987 e, da ultimo, sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Il principio trae giustificazione dalla circostanza che la decisione impugnata è dovuta ad un errore involontario del giudice, o talmente grossolano da risolversi in una svista; pertanto, il fatto che non sia possibile imputare al giudice un errore di giudizio comporta che allo stesso non sia addebitabile un pregiudizio tale da impedirgli, allorchè chiamato nuovamente a giudicare della materia controversa, di assumere una decisione senza essere condizionato da quella precedentemente resa (cfr. Cass., n. 19498/06 cit.).
Tale principio non trova ovviamente applicazione nell’ipotesi di dolo del giudice (cfr. Cass. Sez. Un., n. 733 del 2005, in tema di revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato; nonché Corte Conti, sez. I giur. centr. app., 24.3.2004, n. 120/A); detto caso rappresenta, invero, l’unica ipotesi di incompatibilità del magistrato a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione.
E, invero, in difetto di tempestiva ricusazione la violazione da parte del giudice dell’obbligo di astenersi nell’ipotesi prevista dall’art. 51 n. 4 c.p.c. (a cui rinvia espressamente l’art. 17 c.p.a.), non comporta la nullità della sentenza ex art. 158 c.p.c., al di fuori del caso in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, in modo da porlo nella posizione sostanziale di parte (cfr. Cass., Sez. Un., 28.1.2002, n. 1007; Cass., 18.1.2002, n. 528; Cass., 22.6.2005, n. 13370; Cass., 29.3.2007, n. 7702).
Tale principio è perfettamente condivisibile, in quanto l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo, ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina anche attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione, sancendo, come ha affermato la Corte Costituzionale (sent. 15.10.1999, n. 387 cit.), che, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato – come quello amministrativo – sull’impulso paritario delle parti – non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire l’imparzialità-terzietà del giudice solo attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione.
Ritiene, pertanto, questa Adunanza plenaria che, anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, debba escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. - richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. - che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.
Del resto, l’illegittima composizione dell’organo giudicante è ravvisabile solo ed esclusivamente nelle diverse ipotesi di alterazioni strutturali dell’organo medesimo per vizi di numero o qualità dei suoi membri, che ne precludono l’identificazione con quello delineato dalla legge (cfr. Cass., Sez. Un., 1.6.2006, n. 13034; analogamente è a dirsi con riguardo alla pronuncia del giudice contabile: Cass., Sez. Un., 13.7.2006, n. 15900).
Tanto premesso in ordine alla questione di massima rimessa a questa Adunanza plenaria, relativa alla valida costituzione dei Collegi chiamati a pronunciarsi nei giudizi di revocazione, l’Adunanza Plenaria ritiene di dover rinviare alla Sezione remittente per la decisione del presente ricorso per revocazione, ai sensi dell’art. 99, comma quarto, c.p.a..

P.Q.M
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), decide la questione di massima sottoposta al suo esame nei sensi di cui in motivazione.
Rinvia alla Sezione remittente per la decisione sul ricorso per revocazione.
Spese al definitivo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere, Estensore
Salvatore Cacace, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 24/01/2014
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione


Sentenza per esteso (n. 5)

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 30 di A.P. del 2013, proposto da:
Ministero dell'Economia e delle Finanze - Comando Generale Guardia Di Finanza, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui Uffici, ope legis, domicilia in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
contro
Felice Grieco, rappresentato e difeso dall'avv. Valeria Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria Pellegrino in Roma, Corso Rinascimento, 11; Biagio Magaudda; 
per la revocazione
dell’ordinanza cautelare della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 855 del 2013, depositata in data 13 marzo 2013, resa tra le parti, concernente esclusione dal concorso per il reclutamento di 16 tenenti in servizio permanente effettivo del ruolo tecnico logistico amministrativo del corpo della guardia di finanza.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Felice Grieco;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 ottobre 2013 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Greco, e Gianluigi Pellegrino per delega di Valeria Pellegrino.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Il sig. Felice Grieco ha partecipato al concorso per il reclutamento di 16 tenenti in servizio permanente effettivo del ruolo tecnico - logistico - amministrativo del Corpo della Guardia di Finanza, posizionandosi al 14° posto della graduatoria unica di merito ed al 2° posto della specialità motorizzazione di cui all’art. 1 comma 1 lett. b) del bando di concorso. Il primo in graduatoria e, quindi, il vincitore del posto specialità motorizzazione è risultato il sig. Biagio Magaudda, con una differenza rispetto al ricorrente di soli 0,55 punti.
Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. del Lazio il sig. Felice Grieco ha chiesto l’annullamento della graduatoria di merito e di tutti i verbali delle operazioni compiute della Commissione con specifico riferimento alla “specialità motorizzazione” e ha contestualmente impugnato, ex art. 116, comma 2, c.p.a., il parziale diniego di accesso agli atti di cui alla nota 10.10.2012 prot. n. 0168707 chiedendo al giudice di “ordinare alla P.A. l’esibizione dei documenti richiesti con istanza 13.09.2012 e 14.09.2012”.
Con ordinanza n. 4673 del 20.12.2012, il TAR, pronunciandosi limitatamente all’impugnazione contro il diniego di accesso agli atti, ha accolto l’istanza, ordinando all’amministrazione resistente di esibire copia di tutta la documentazione relativa alla partecipazione del controinteressato Biagio Magaudda.
Con ricorso notificato in data 01.02.2013, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha appellato la suddetta ordinanza in quanto erronea ed ingiusta, dal momento che, da un lato, il T.A.R. avrebbe dovuto dichiarare irricevibile per tardività il ricorso di primo grado e, dall’altro, perché non vi sarebbero i presupposti giuridici per ordinare l’esibizione dei documenti riguardanti il sig. Biagio Magaudda.
Si è costituito in giudizio il sig. Felice Grieco, eccependo preliminarmente l’irricevibilità per tardività dell’appello, nonché la sua inammissibilità e l’infondatezza nel merito.
Con ordinanza n. 855/2013 questo Consiglio ha accolto l’eccezione di tardività dichiarando irricevibile l’appello proposto dal Ministero “considerato che nella fattispecie sussistono profili che appaiono ostativi ad un esito favorevole del ricorso in appello, con riferimento al mancato rispetto del termine dimidiato ai sensi dell’art. 106 del c.p.a., in materia di procedimenti giurisdizionali inerenti l’accesso documentale”.
Con ricorso notificato in data 25.03.2013, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha chiesto la revocazione della predetta ordinanza 13.03.2013 n. 855.
Si è costituito in giudizio il sig. Felice Grieco, eccependo l’inammissibilità e, gradatamente, l’infondatezza del ricorso per revocazione.
Con nota prot. n. 3005/I in data 16 maggio 2013, il Presidente della IV Sezione, ha fatto presente che “esaminando la composizione dei collegi sino a dicembre riesce difficile comporre un collegio che, in base a quanto stabilito nell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2009 escluda tutti i precedenti componenti che, sempre in base alla predetta decisione, sarebbero da ritenere incompatibili” e, pertanto, trattandosi di questione di massima riguardante la composizione dei Collegi, ha ritenuto di rimettere l’affare al Presidente del Consiglio di Stato per la valutazione circa l’opportunità di investire l’Adunanza Plenaria.
Il Presidente del Consiglio di Stato in data 17 maggio 2013 ha, quindi, deferito la controversia all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a.

DIRITTO
Com’è noto, con decisione 25 marzo 2009, n. 2, questa Adunanza plenaria, modificando l’indirizzo già prevalente nella giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 4 aprile 2005, n. 1477; sez. V, 30 luglio 1082, n. 622) e allineandosi all’indirizzo accolto dalla sentenza della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, 27 febbraio 2008, n. n. 5087, ha riconosciuto che il dovere di astensione previsto dall’art. 51, n. 4, c.p.c., sussiste anche nei confronti del giudice chiamato a partecipare alla decisione della causa su cui si sia già pronunciato nello stesso grado di giudizio, e non solo nel caso in cui la seconda pronuncia intervenga in un nuovo e diverso grado di giudizio, in quanto le ragioni di garanzia della imparzialità e della terzietà del giudice valgono, allo stesso modo, in entrambi i casi (cfr. Corte Cost., 3 luglio 2002, n. 305).
Pertanto, mentre in passato, nel caso di regressione del processo al giudice di primo grado, si escludeva che il componente del collegio che avesse partecipato alla prima decisione versasse in posizione di incompatibilità per la nuova causa, successivamente, in adesione agli argomenti sviluppati dalle citate Sezioni Unite del 2008, questa Adunanza plenaria ha configurato l’obbligo di astensione nel caso di annullamento con rinvio.
L’Adunanza plenaria ha, dunque, aderito alla (nuova) linea interpretativa, secondo la quale l’alterità del giudice in sede di rinvio prosecutorio costituisce applicazione del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha “pieno valore costituzionale in relazione a qualunque tipo di processo” (cfr.: Corte 21 marzo 2002 n. 78; Corte Cost. 3 luglio 2002 n. 305; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).
In questa direzione, ha, pertanto, affermato che l’esigenza di proteggere l’imparzialità del giudice impedisce che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda, in quanto dal primo giudizio potrebbero derivare convinzioni precostituite sulla materia controversa, determinandosi così, propriamente, un “pregiudizio” contrastante con l’esigenza costituzionale che la funzione del giudicare sia svolta da un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni formatesi in occasione dell’esercizio di funzioni giudicanti in altre fasi del giudizio (Corte Cost. 12 luglio 2002 n. 335; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).
Inoltre, ha pure osservato che negli ordinamenti processuali è avvertita l’esigenza di evitare la cd. forza della prevenzione, attraverso la predisposizione di meccanismi processuali capaci di garantire che il giudice non subisca condizionamenti psicologici tali da rendere probabile il venir meno della sua serenità di giudizio.
Facendo applicazione degli indicati principi, la decisione n. 2 del 2009 ha ritenuto fondato il primo motivo di appello, essendo risultato che del collegio che aveva adottato la decisione in sede di rinvio avevano fatto parte due magistrati - persone fisiche (uno dei quali nella veste di relatore in entrambe le pronunce) che avevano partecipato alla precedente sentenza e, pertanto, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio al medesimo giudice di primo grado.
Sebbene la materia del contendere vertesse solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio, tuttavia la decisione n. 2 del 2009 cit. ha affermato che il dovere di astensione si estende anche all’ipotesi in cui il giudice sia chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla vertenza in seguito a ricorso per revocazione della precedente sentenza, riconoscendo che il dovere di astensione deve valere ad assicurare anche l’“immagine” dell’imparzialità del giudice, così da evitare che egli possa sembrare condizionato dalla precedente pronuncia resa nella medesima controversia.
Conclusione diversa, invece, è stata accolta per il giudizio di opposizione di terzo, per il quale la prefata decisione, n. 2/2009 cit., ha ricavato dall’art. 405 c.p.c. la regola secondo cui il giudice che ha partecipato alla deliberazione della sentenza oggetto di opposizione potrebbe legittimamente intervenire nella pronuncia sull’opposizione.
La decisione n. 2 del 2009 cit. ha, infine, confermato l’indirizzo consolidato secondo cui non sussiste alcuna incompatibilità nella partecipazione dello stesso giudice alla pronuncia in sede cautelare e alla pronuncia in sede di merito, data la diversità dei caratteri della cognizione nell’uno e nell’altro caso.
Ciò premesso, ad avviso di questo Collegio, l’indirizzo interpretativo espresso dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2009, nella parte in cui, sia pure con un obiter dictum - atteso che la materia del contendere verteva solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio - ha affermato un principio di diritto comunque capace di orientare la futura attività dei giudici amministrativi, escludendo che del giudizio di revocazione possa conoscere la stessa persona fisica - o le stesse persone fisiche, quali componenti del Collegio - che ha pronunciato la sentenza impugnata, a parte la sua condivisibilità o meno, appare, comunque, superato dal nuovo codice del processo amministrativo (c.p.a.).
E, invero, le affermazioni dell’anzidetta decisione non sono state trasfuse negli articoli 106 e 107 c.p.a., sebbene emanato a breve distanza di tempo.
Anzi, l’art. 106, secondo comma, c.p.a. afferma, al comma 2, che “La revocazione è proponibile dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata”.
Naturalmente, dicendo “stesso giudice” la legge intende lo stesso “ufficio giudiziario”, e perciò deve ritenersi che la causa potrà essere affidata sia alla stessa e sia ad un’altra Sezione (cfr. Cass. 5 settembre 2006, n. 19041).
Nondimeno va ricordato che, a fronte della medesima espressione contenuta nell’art. 398, comma primo, c.p.c., secondo la giurisprudenza della Cassazione solo nel caso di revocazione per dolo del giudice (art. 395 n. 6 c.p.c.) non potrà far parte dell’organo giudicante la stessa persona fisica che ha emesso la sentenza revocanda, non sussistendo, negli altri casi, per il magistrato che ha pronunciato la sentenza impugnata per revocazione, alcuna incompatibilità a partecipare al giudizio di revocazione stesso (cfr. Cass., sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Va altresì ricordato che nel processo civile ed amministrativo non sono applicabili le regole sulle incompatibilità soggettive del giudice fissate nel processo penale bensì soltanto le cause di astensione e ricusazione stabilite dal c.p.c..
La Corte costituzionale, con sentenza 15 ottobre 1999, n. 387, ha, infatti, ribadito che non sono applicabili al giudizio civile ed a quello amministrativo, proprio per la particolarità e le diversità dei sistemi processuali, le regole delle incompatibilità soggettive per precedente attività (tipizzata) svolta nello stesso procedimento penale, bensì le disposizioni sull’astensione e la ricusazione del codice di procedura civile, cui anche le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio: ciò in quanto il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione, pur tuttavia con le peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento.
In tale circostanza, si è sottolineato che l’esigenza generale di assicurare che sempre il giudice rimanga, ed anche appaia, del tutto estraneo agli interessi oggetto del processo, viene assicurata nel processo civile solo attraverso gli istituti dell’astensione e ricusazione, che rinvengono il proprio supporto normativo nella previsione dell’art. 51, n. 4, cod. proc. civ.
Infatti, sul piano generale, esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è solo quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda.
Senonché, come anche ripetutamente osservato dalla Corte di Cassazione, salva ovviamente l’ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non predica, per sua natura, un errore di giudizio (Cass. nn. 2342/1962, 1624/1965, 2222/1987 e, da ultimo, Sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Il principio trae giustificazione dalla circostanza che la decisione impugnata è dovuta ad un errore involontario del giudice, o talmente grossolano da risolversi in una svista; pertanto, il fatto che non sia possibile imputare al giudice un errore di giudizio comporta che allo stesso non sia addebitabile un pregiudizio tale da impedirgli, allorchè chiamato nuovamente a giudicare della materia controversa, di assumere una decisione senza essere condizionato da quella precedentemente resa (cfr. Cass., n. 19498/06 cit.).
Tale principio non trova – ripetesi - ovviamente applicazione nell’ipotesi di dolo del giudice (cfr. Cass. Sez. Un., n. 733 del 2005, in tema di revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato; nonché Corte Conti, sez. I giur. centr. app., 24.3.2004, n. 120/A); detto caso rappresenta, invero, l’unica ipotesi di incompatibilità del magistrato a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione.
E, invero, in difetto di tempestiva ricusazione la violazione da parte del giudice dell’obbligo di astenersi nell’ipotesi prevista dall’art. 51 n. 4 c.p.c. (a cui rinvia espressamente l’art. 17 c.p.a.), non comporta la nullità della sentenza ex art. 158 c.p.c., al di fuori del caso in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, in modo da porlo nella posizione sostanziale di parte (cfr. Cass., Sez. Un., 28.1.2002, n. 1007; Cass., 18.1.2002, n. 528; Cass., 22.6.2005, n. 13370; Cass., 29.3.2007, n. 7702).
Tale principio è perfettamente condivisibile, in quanto l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo, ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina anche attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione, sancendo, come ha affermato la Corte Costituzionale (sent. 15.10.1999, n. 387 cit.), che, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato – come quello amministrativo – sull’impulso paritario delle parti – non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire l’imparzialità-terzietà del giudice solo attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione.
Ritiene, pertanto, questa Adunanza plenaria che, anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, debba escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. - richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. - che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.
Del resto, l’illegittima composizione dell’organo giudicante è ravvisabile solo ed esclusivamente nelle diverse ipotesi di alterazioni strutturali dell’organo medesimo per vizi di numero o qualità dei suoi membri, che ne precludono l’identificazione con quello delineato dalla legge (cfr. Cass., Sez. Un., 1.6.2006, n. 13034; analogamente è a dirsi con riguardo alla pronuncia del giudice contabile: Cass., Sez. Un., 13.7.2006, n. 15900).
Tanto premesso in ordine alla questione di massima rimessa a questa Adunanza plenaria, relativa alla valida costituzione dei Collegi chiamati a pronunciarsi nei giudizi di revocazione, può ora passarsi ad esaminare il merito del presente giudizio.
Occorre, però, preliminarmente precisare che il presente ricorso per revocazione, avente per oggetto l’impugnativa di un’ordinanza cautelare, deve ritenersi ammissibile, in quanto l’istituto della revocazione è suscettibile di applicazione anche all’ordinanza che pronuncia sulla domanda di sospensione dell’atto impugnato, essendo assimilabile, quanto ad efficacia decisoria, alla sentenza che definisce il merito (cfr. Cons. St., A.P., 20 gennaio 1978, n. 1 e 24 febbraio 1978, n. 6; Cons. St., sez. VI, ord. 23 settembre 2004, n. 4289).
Venendo dunque ad esaminare il merito della proposta revocazione, con essa il Ministero istante sostiene che l’ordinanza n. 855/2013 sarebbe frutto di un errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., affermando che “il termine di trenta giorni di cui all’art. 116 co. 1 c.p.a. si riferisce all’impugnazione dei provvedimenti della p.a. in materia di accesso ... e non sembra che nella nozione di determinazioni possano ricomprendersi anche i provvedimenti giurisdizionali ... Il dimezzamento per il rito dell’accesso … comporta che la sentenza ... vada impugnata entro tre mesi, se non notificata, ovvero entro trenta giorni se notificata”.
Da quanto precede si evince chiaramente che l’Amministrazione non denuncia un errore di fatto, ma di giudizio e, quindi, di diritto (cfr. Cons. St., sez. III, 04/05/2012, n. 2558), con conseguente inammissibilità della istanza di revocazione proposta.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Corte di Cassazione, invero, hanno pressoché univocamente individuato le caratteristiche dell’errore di fatto revocatorio, che, ai sensi rispettivamente dell’art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, ora dell’art. 106 c.p.a., e dell’art. 395, comma 4, c.p.c., può consentire di rimettere in discussione il contenuto di una sentenza, e ciò per evitare che il distorto utilizzo di tale rimedio straordinario dia luogo ad un inammissibile ulteriore grado di giudizio di merito, non previsto e non ammesso dall’ordinamento.
E’ stato, infatti, più volte ribadito che l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (Cons. St., A.P., n. 1 del 2013 e n. 2 del 2010; sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; 24 maggio 2012, n. 3053; sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607; 16 settembre 2008, n. 4361; 20 luglio 2007, n. 4097; e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814; 25 luglio 2003, n. 4246; 21 giugno 2001, n. 3327; 15 luglio 1999 n. 1243; C.G.A., 29 dicembre 2000 n. 530; sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 708; 17 dicembre 2008, n. 6279; C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530; Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962; 5 marzo 2012, n. 3379; sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1197); l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (C.d.S., sez. VI 25 maggio 2012, n. 2781; 5 marzo 2012, n. 1235)
L’errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (Cons. St., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 1 dicembre 2010, n. 8385).
Pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento), esso non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento, Cons. St., sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5212; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1725; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 15 maggio 2012, n. 2781; 16 settembre 2011, n. 5162; Cass. Civ., sez. I, 23 gennaio 2012, n. 836; sez. II, 31 marzo 2011, n. 7488).
Inoltre, l’articolo 395 n. 4 c.p.c. prevede che sussiste errore di fatto se "il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare".
Nel caso di specie, tuttavia, il fatto sul quale si pretende di fondare l’errore revocatorio è stato proprio il punto decisivo sul quale il Collegio ha fondato la propria decisione di tardività dell’appello, accogliendo la specifica eccezione sollevata dalla parte appellata.
In base alle suesposte considerazioni, la presente istanza di revocazione è, pertanto, inammissibile.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese, competenze ed onorari del presente giudizio di revocazione.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 ottobre 2013 con l’intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente di sezione
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere, Estensore
Salvatore Cacace, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 24/01/2014
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione