mercoledì 25 giugno 2014

ESPROPRIAZIONE P.U. & OTTEMPERANZA: il Comune resistente non può sciogliere "pro diviso" il bene occupato illegittimamente e restituirlo senza garantire il godimento dell'intero (T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, sentenza 14 maggio 2014 n. 605).



ESPROPRIAZIONE P.U. & OTTEMPERANZA: 
il Comune resistente non può sciogliere "pro diviso"
 il bene occupato illegittimamente 
e restituirlo senza garantire il godimento dell'intero (T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 
sentenza 14 maggio 2014 n. 605).




Su segnalazione del Collega Giuseppe Mappa (che ringrazio per i sempre preziosi suggerimenti e consigli) segnalo la seguente controversia: 
la società ricorrente in ottemperanza, comproprietaria al 50% del bene occupato illegittimamente (non essendo stata portata a termine la procedura espropriativa d'urgenza), si oppone all'esecuzione del giudicato del Comune, consistente nella restituzione di quota parte dello stesso, procedendo, a sua discrezione, al frazionamento del suolo.
A tale opzione si oppone la ricorrente, rilevando che il suo diritto dominicale per quota indivisa non può essere compresso e modificato arbitrariamente dal Comune che intende procedere, nella sostanza ad uno scioglimento stragiudiziale della comunione proprietaria, senza, peraltro interloquire in ordine all’assegnazione delle parti di suolo derivanti sul frazionamento.

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Massima

1. Non esiste alcun principio di diritto che consenta al Comune di limitare le prerogative proprietarie sul suolo in comproprietà che contemplano, in primo luogo quelle di fruire dell’intero bene, benché unitamente agli altri comproprietari.
E’ d’altro canto fortemente dubbio che il Comune (che si atteggia quale debitore di uno dei comproprietari) possa domandare lo scioglimento giudiziale della comunione.
2. Il Comune, pertanto, dovrà procedere a restituire l’intero bene, salva la possibilità che gli altri comproprietari domandino e ottengano lo scioglimento della comunione. Fintanto che ciò non si verifichi, la ricorrente dovrà essere reimmessa nel possesso pro quota dell’intero.

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Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 717 del 2013, proposto da:
--------------., rappresentata e difesa dagli avv. --------------------, con domicilio eletto presso ----------------------------;
contro
---------------------, rappresentato e difeso dall'avv. --------------------, con domicilio eletto presso ------------------------------;
per l'ottemperanza
alla sentenza Tar Puglia - Bari - n. 2023/2009.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di -------------------------;
Viste le memorie difensive;
Visto l 'art. 114 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2014 la dott.ssa Desirèe Zonno e uditi per le parti i difensori ------------------------------;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
La ----------------- è comproprietaria al 50% di un suolo sito nel Comune resistente, identificato al fg 7, p.lla 680 di mq 12.244.
Il suolo in questione è stato oggetto di procedura espropriativa attraverso l’adozione di decreto sindacale di occupazione di urgenza n. 2535 dell’8.3.1989, eseguito, tramite immissione in possesso, in data 28.4.1989.
La procedura espropriativa non è stata mai portata a termine, nonostante siano stati realizzati i lavori consistenti in un parco giochi (per parte dell’intera superficie).
L’area in questione, peraltro, è stata normata dallo strumento urbanistico quale zona agricola fino alla data di approvazione del nuovo PRG (approvato con DGR 613 del 14.5.2002, come indicato a pag 5 della relazione di stima dell’Agenzia delle entrate depositata da parte ricorrente il 19.9.2013).
Successivamente è divenuta area edificabile C2.
Nel corso degli anni – e sin dalla occupazione di urgenza- la parte pubblica e l’odierna ricorrente hanno avviato serie e concrete trattative in ordine alla cessione bonaria del bene in questione, ma le stesse non sono mai sfociate nell’atto consensuale.
Conclusivamente, dunque, il Comune intimato ha trasformato la vocazione urbanistica dell’area (da agricola a edificabile C2), accedendo alla richiesta formulata dalla odierna ricorrente (si rinvia agli atti del fascicolo processuale per la compiuta indicazione dei dettagli della vicenda), ma non ha mai né concluso il procedimento espropriativo né la cessione volontaria.
In sintesi, dunque, dal 28.4.1995 l’occupazione d’urgenza dell’area è scaduta e l’apprensione del bene è divenuta sine titulo.
La odierna ricorrente ha, pertanto, adito le vie legali per reagire all’occupazione ormai abusiva, risultando vittoriosa sia nel giudizio di I grado (conclusosi con sentenza di questo Tar n.2023/2009) sia in quello di appello (conclusosi con sentenza del CdS n.3331/2011 che ha respinto l’appello del Comune di Rodi ---------------------).
Agisce in questa sede per l’esecuzione della sentenza di questo Tar n.2023/2009, come confermata e integrata dalla sentenza del CdS n.3331/2011.
LE STATUIZIONE DELLE PRONUNCE IN ESAME.
In estrema e doverosa sintesi, per la parte che qui interessa (e tralasciando la strada della riedizione del potere espropriativo, nelle more abbandonata dallo stesso Comune per mancanza di disponibilità finanziarie v. delibera CC n. 3 del 30.1.2014, IV capoverso), entrambe le sentenze hanno:
escluso la vigenza dell’istituto dell’occupazione appropriativa e di modi di acquisto della proprietà che non siano rispondenti all’osservanza stretta del principio di legalità;
previsto la possibilità di acquisto del bene da parte del Comune esclusivamente attraverso moduli negoziali (alla data di deliberazione della sentenza del CdS era stato dichiarato incostituzionale l’art. 43 TU espr. e non era stato ancora introdotto l’art. 42 bis TU cit);
ammesso la possibilità restitutoria, laddove la parte pubblica non avesse inteso apprendere legittimamente la proprietà del bene (v. pag 12-14 sent. CdS già cit e pag. 7 sent. di questo Tar).
Capitolo a parte meritano le richieste risarcitorie da occupazione illegittima.
Esse si incentrano essenzialmente sul valore da attribuire al bene per cui è causa, su cui calcolare l’ammontare dei danni secondo i parametri indicati nella già citata sentenza di appello.
Su tale questione ci si soffermerà compiutamente nel prosieguo.

LE QUESTIONI CONTROVERSE DA DIRIMERE:
1) L’ESECUZIONE DELLA STATUIZIONE PRINCIPALE IN ORDINE ALL’APPRENSIONE DELLA PROPRIETA’ DEL BENE OVVERO ALLA SUA RESTITUZIONE
Come già evidenziato, l’assenza di risorse finanziarie, reiteratamente dichiarata dall’ente comunale nelle delibere e determine prodotte in atti, esclude che possa accedersi, in fase esecutiva delle statuizioni giurisdizionali, all’acquisto negoziale del bene o alla sua acquisizione ex art. 42 bis TU cit.(nelle more entrato in vigore e applicabile al caso di specie).
Il Comune, pertanto, non potrà che restituire il bene appreso illegittimamente, avendo chiaramente affermato di non avere risorse per acquisire il bene.
Tra le parti, per quanto emerso anche in sede di discussione orale, è incontestata tale possibilità.
Qui il primo punto nodale della decisione.
La società ricorrente è comproprietaria al 50% del bene occupato illegittimamente. Il Comune resistente pretende, per ciò, di restituire quota parte dello stesso, procedendo, a sua discrezione, al frazionamento del suolo (ha, infatti, già conferito incarico in tal senso con determina dirigenziale 19 del 20.1.2014, che ha comportato, fra l’altro, impegno di spesa per la remunerazione del professionista).
Senonchè a tale opzione si oppone la ricorrente, rilevando che il suo diritto dominicale per quota indivisa non può essere compresso e modificato arbitrariamente dal Comune che intende procedere, nella sostanza ad uno scioglimento stragiudiziale della comunione proprietaria, senza, peraltro interloquire in ordine all’assegnazione delle parti di suolo derivanti sul frazionamento.
La tesi è fondata.
Deve rilevarsi, infatti, che non esiste alcun principio di diritto che consenta al Comune di limitare le prerogative proprietarie sul suolo in comproprietà che contemplano, in primo luogo quelle di fruire dell’intero bene, benchè unitamente agli altri comproprietari.
E’ d’altro canto fortemente dubbio che il Comune (che si atteggia quale debitore di uno dei comproprietari) possa domandare lo scioglimento giudiziale della comunione.
Il Comune, pertanto, dovrà procedere a restituire l’intero bene, salva la possibilità che gli altri comproprietari domandino e ottengano lo scioglimento della comunione. Fintanto che ciò non si verifichi, la ricorrente dovrà essere reimmessa nel possesso pro quota dell’intero.

2) IL RISARCIMENTO PER OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA.
La questione fondamentale sul punto attiene il valore da attribuire al suolo a far data dalla sua nuova destinazione urbanistica come suolo edificatorio.
Per meglio delineare i termini della questione può prendersi avvio dalle questioni incontroverse.
L’occupazione d’urgenza è scaduta il 28.4.1995.
Da tale data va calcolato, per ciò il risarcimento da occupazione illegittima.
Essa segna, per ciò il termine iniziale di decorrenza.
Il quantum è stato indicato dalla sentenza di appello a pag. 17, laddove si individua il danno medio tempore intervenuto , conseguente all’illegittima occupazione, nella misura degli interessi moratori sul valore del bene , assumendo quale capitale di riferimento il relativo valore di mercato in ciascun anno del periodo di occupazione illegittima (oltre gli accessori).
Il termine finale è individuato, a pag. 15, nel momento di legittima acquisizione della proprietà. Poiché nel caso di specie, non si procederà a tanto, non può che individuarsi il termine finale in quello di restituzione del bene.
Tanto chiarito, il punto nodale risiede nella determinazione, come già indicato, del valore di mercato del bene.
Fino all’approvazione del nuovo PRG ( datata 14.5.2002) il terreno è stato caratterizzato dalla destinazione agricola.
Il valore stimato dal Comune, nella determina n.21/2014, è pari, come allegato dalla stessa ricorrente a euro 6/8 al mq (v. pag 4 memoria di parte ricorrente dep. il 17.2.2014).
Tale cifra non è sostanzialmente contestata.
Per ciò dal 28.4.1995 al 14.5.2002, il valore del suolo su cui calcolare gli interessi moratori (e gli ulteriori accessori) è pari ad euro 7/mq (valore stabilito equitativamente nella misura media).
Il vero punto decisivo attiene, invece, il valore venale del suolo per il periodo successivo: dal 15.5.2002 alla data di restituzione.
L’Agenzia del Territorio, investita dell’incarico di stima da parte dello stesso Comune, ha quantificato tale valore all’attualità (16.4.2013, data della relazione di stima) in Euro 75,00 al mq.
Il Comune, tuttavia, pretende di mediare tale valore con altri dati (valore a fini IMU e stima di un tecnico comunale), con il risultato di abbassare notevolmente l’ammontare del prezzo di mercato (circa Euro 45,00).
La tesi del Comune è priva di fondamento.
La stima dell’Agenzia si segnala per attendibilità e competenza dell’organo da cui promana e individua il valore di mercato del bene.
I dati con cui il Comune pretende di mediare tale ammontare non hanno alcun valore ai fini che interessano e sono, per ciò, privi di rilievo.
Unico elemento cui fare riferimento, infatti, in base al dictum delle pronunce per la cui ottemperanza si agisce, è il valore di mercato e tale è quello indicato dall’Agenzia del Territorio.
Peraltro, anche al fine di individuare le variazioni del valore nel corso del tempo, deve evidenziarsi che l’Agenzia ha fatto riferimento, per confortare l’attendibilità della stima, a due atti notarili datati 2008 e 2010 (per notaio Gentile), in cui il valore dichiarato di vendita si attesta sostanzialmente sugli stessi livelli (72,50/mq e 75,00/mq).
Può pertanto, ritenersi che il bene in questione abbia subito modeste variazioni di valore nel corso degli anni.
In via equitativa, può, per ciò stabilirsi che il valore medio su cui calcolare gli interessi anno per anno possa individuarsi equitativamente in Euro 72,00/mq (così mediando il valore al 2013 con il presumibile valore al 2002), senza disporre ulteriori approfondimenti istruttori che contrasterebbero con il principio di celere definizione della controversia e inducono ad individuare, sul punto una soluzione equitativa.
Deve peraltro, replicarsi anche all’obiezione formulata nel corso della discussione dalla difesa di parte resistente secondo cui la società ricorrente avrebbe ottenuto il beneficio della riqualificazione urbanistica dell’area (da agricola ad edificabile) unitamente al resto del comparto, promettendone la cessione bonaria, senza però dare mai corso a tale iniziativa.
Al Comune non resta che replicare che la scelta operata si è dimostrata a dir poco improvvida ed imperita, tanto da indurre a formulare seri rilievi in ordine a responsabilità erariale a carico degli amministratori responsabili, in primo luogo, della mancata conclusione della procedura espropriativa ed ancor prima della decisione di procedere a riqualificazione dell’area (e dell’intero comparto) senza ottenere il promesso accordo in ordine al trasferimento di proprietà.
Si procede, pertanto a trasmissione degli atti al sig. Procuratore della Repubblica presso la Corte dei Conti sede, per le determinazioni di sua competenza.
Conclusivamente la quantificazione del danno da occupazione illegittima andrà calcolata dal 28.4.1995 fino alla data di restituzione del suolo, nella misura pari agli interessi moratori sul valore venale.
Esso (valore venale) viene stimato in euro 7 al mq dal 28.4.1995 fino al 14.5.2002.
Dal 15.5.2002 alla data di restituzione esso è quantificato in euro 72 al mq.
In base al dictum della sentenza di appello, le somme così determinate andranno poi incrementate con interessi e rivalutazione dalla data di proposizione del ricorso fino alla data di deposito della sentenza di appello.
Le somme così determinare andranno, ovviamente dimidiate, poiché la società ricorrente è comproprietaria solo per ½ del suolo in questione ed è, pertanto, titolare del risarcimento per i relativi danni in pari quota.
Il ricorso per l’ottemperanza va, pertanto, accolto secondo quanto appena precisato.
All’Amministrazione comunale va assegnato, per provvedere, in favore della ricorrente, il termine di giorni 60 (sessanta) dalla comunicazione, in via amministrativa (o dalla sua notificazione se anteriore), della presente decisione.
Al tempo stesso il Collegio nomina, quale Commissario ad acta, il sig. Prefetto di Foggia, con facoltà di delega in favore di un funzionario prefettizio di sua scelta, affinché ove l'indicato termine di 60 (sessanta) giorni decorra infruttuosamente, provveda a tutti gli adempimenti occorrenti per l'ottemperanza alla presente decisione nel successivo termine di 90 (novanta) giorni.
In particolare il Commissario è legittimato ad eseguire tutti gli atti e gli adempimenti necessari per dare concreto soddisfacimento alla restituzione del suolo ed al diritto di credito; a tale fine l'organo straordinario deve provvedere sia all’allocazione della somma in bilancio, ove manchi un apposito stanziamento, nonché all'espletamento delle fasi di impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento della spesa, sia al reperimento materiale della somma, con la precisazione che l'esaurimento dei fondi di bilancio o la mancanza di disponibilità di cassa non costituiscono legittima causa di impedimento all'esecuzione del giudicato.
In virtù del principio della soccombenza, il Comune deve essere condannato a rimborsare al ricorrente le spese del giudizio, nonché, successivamente, il compenso eventualmente dovuto al Commissario.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso 717/2013, lo accoglie e per l’effetto ordina al Comune di ------------------- di adottare le determinazioni amministrative e contabili necessarie per dare esecuzione alla sentenza Tar Puglia - Bari - n. 2023/2009, per come puntualmente precisato in parte motiva.
All’uopo assegna alla predetta Amministrazione il termine di giorni sessanta (60) dalla comunicazione o notificazione, anche a cura di parte, della presente sentenza, per ottemperare al giudicato, secondo le indicazioni formulate in motivazione.
Per il caso di inadempienza ulteriore, nomina Commissario ad acta, il sig. Prefetto di Foggia con facoltà di delega, perché provveda, entro ulteriori novanta (90) giorni dal termine predetto, a dare esecuzione al giudicato, a spese dell’Amministrazione intimata.
Condanna il Comune di -------------------------- al pagamento in favore della parte ricorrente delle spese e degli onorari del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.500, 00, oltre IVA, CPA, spese generali e rifusione del contributo unificato.
Dispone la trasmissione degli atti al Sig. Procuratore presso la Sezione regionale della Corte dei Conti, secondo quanto indicato in parte motiva.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:
Sergio Conti, Presidente
Desirèe Zonno, Primo Referendario, Estensore
Cesira Casalanguida, Referendario



L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/05/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

lunedì 23 giugno 2014

ADUNANZE PLENARIE: la sopravvenuta inopportunità del rapporto negoziale facoltizza la stazione appaltante a recedere dal contratto "ex"art. 134 Del D.Lgs. n. 163/2006 e non ad esercitare il potere di revoca (Cons. St., Ad. Plen., sentenza 20 giugno 2014 n. 14).


ADUNANZE PLENARIE:
la sopravvenuta inopportunità del rapporto negoziale facoltizza la stazione appaltante 
a recedere dal contratto 
"ex"art. 134 Del D.Lgs. n. 163/2006 
e non ad esercitare il potere di revoca 
(Cons. St., Ad. Plen., 
sentenza 20 giugno 2014 n. 14).



Principio di diritto

Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del D.Lgs. n. 163 del 2006.

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Sentenza per esteso 

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2 di A.P. del 2014, proposto dalla Azienda per la Mobilita' del Comune di Roma - Atac s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Roberta Iacovazzi e Rodolfo Mazzei, con domicilio eletto presso il secondo in Roma, via XX Settembre, 1; 
contro
Consorzio Cooperative Costruzioni - Ccc - Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio ed in qualità di mandataria dell’ATI con le mandanti Igemas società consortile a r. l., Salcef Costruzioni Edili e Ferroviarie s.p.a., Erregi s.r.l., Project Automation s.p.a., rappresentata e difesa dagli avvocati Massimo Lotti e Benedetto Giovanni Carbone, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via di Ripetta, 70; 
nei confronti di
Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Luigi D'Ottavi, ed elettivamente domiciliata presso l’Avvocatura Capitolina in Roma, via del Tempio di Giove, 21;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II TER n. 2432/2013, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Consorzio Cooperative Costruzioni - Ccc - Società Cooperativa in proprio ed in qualità di mandataria Ati e di Roma Capitale;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 aprile 2014 il consigliere Maurizio Meschino e uditi per le parti gli avvocati Mazzei, Carbone e D'Ottavi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO
1. Il Consiglio di Amministrazione dell’Azienda per la Mobilità del Comune di Roma (ATAC s.p.a), con deliberazione n. 2 del 27 gennaio 2005, ha autorizzato l’indizione di una gara pubblica con procedura aperta per l’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori necessari alla realizzazione di un deposito tranviario nell’area ex “Centro Carni” e delle opere connesse.
La gara, con deliberazione del Consiglio di Amministrazione di ATAC n. 81 del 14 novembre 2005, è stata aggiudicata all’ATI composta da Consorzio Cooperative Costruttori (mandataria) e I.G.E.M.A.S. soc. cons. a r.l., Salcef Costruzioni Edili e Ferroviarie s.p.a., Project Automation Spa, Erregi Srl (mandanti), e, in data 19 maggio 2006, è stato stipulato il relativo contratto di appalto.
2. L’ATAC, con provvedimento n. 80861 del 4 giugno 2012, ha disposto la revoca definitiva di tutti gli atti della procedura di gara, incluso il provvedimento di aggiudicazione.
La revoca è basata su diversi motivi di interesse pubblico, consistenti: nella “sostanziale non esecuzione” dell’appalto; nell’aggravio dei costi prospettati dall’appaltatrice; nelle proprie sopravvenute mutate esigenze operative; nell’inserimento del deposito tramviario in un piano di dismissioni immobiliari deliberato dall’assemblea di Roma Capitale; nell’incertezza sulla effettiva disponibilità di risorse per finanziare l’opera, venendo altresì preannunciato che, con separato provvedimento, sarebbe stato corrisposto all’appaltatrice l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990.
Successivamente l’ATAC, con nota del 19 ottobre 2012 (prot. n. 147684), ha chiesto la riconsegna delle aree di cantiere sul presupposto, espressamente dichiarato, dell’intervenuta caducazione del contratto per effetto della precedente revoca.
3. L’ATI aggiudicataria, con il ricorso n. 5947 del 2012 proposto al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, ha chiesto l’annullamento dell’atto di revoca (n. 80861 del 2012), e, con motivi aggiunti, della nota relativa alla riconsegna delle aree (n. 147684 del 2012), sostenendo che:
- la stazione appaltante avrebbe esercitato un potere di autotutela al di fuori dei presupposti di legge, sugli atti della procedura di gara, ormai privati di efficacia in conseguenza della sopravvenuta stipulazione del contratto;
- il provvedimento impugnato non aveva ponderato il contrapposto interesse privato, consolidatosi nei sei anni intercorsi dalla stipula del contratto;
- con la revoca l’appaltante avrebbe esercitato in realtà un diritto di recesso o di risoluzione unilaterale, finalizzato a sottrarsi alle conseguenze derivanti dall’esercizio di dette facoltà privatistiche, maggiormente onerose dal punto di vista economico, perché non limitate all’indennizzo commisurato al solo danno emergente;
- l’atto non aveva tenuto in considerazione le controdeduzioni presentate nel corso del procedimento.
4. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda ter, con la sentenza n. 2432 del 2013, ha accolto il primo ordine di censure, assorbendo le restanti, affermando che la revoca era stata adottata “in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua ancora a spiegare effetti”, non essendo tale l’aggiudicazione della gara in seguito alla stipulazione del contratto, cosicché, secondo il primo giudice, per sciogliersi dal vincolo discendente da quest’ultimo, l’amministrazione avrebbe dovuto ricorrere all’istituto del recesso ai sensi dell’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici). Nella sentenza è ritenuta la giurisdizione amministrativa sulla controversia, vertendosi in un caso di carenza di potere in concreto.
5. L’ATAC ha proposto avverso la sentenza di primo grado l’appello n. 2775 del 2013, che è stato deciso dalla Sezione V di questo Consiglio con la sentenza non definitiva n. 5786 del 2013, con la quale, respinti i pregiudiziali motivi di appello di insussistenza della giurisdizione amministrativa sulla controversia e di mancata integrazione del contraddittorio in primo grado nei confronti della Regione Lazio, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., si rimette all’esame dell’Adunanza plenaria la questione di merito relativa al principio di diritto formulato dal primo giudice, secondo cui il potere di revoca dell’aggiudicazione non può essere esercitato dall’amministrazione una volta intervenuta la stipula del contratto.
6. All’udienza del 30 aprile 2014 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. La questione da esaminare è esposta dalla V Sezione nei termini che di seguito si sintetizzano riportando il quadro della normativa rilevante e delle posizioni della giurisprudenza al riguardo, con l’indicazione, su questa base, dell’ipotesi interpretativa ritenuta preferibile.
1.1. La normativa rilevante.
Nella normativa si riscontra anzitutto, afferma la Sezione, un elemento di contraddittorietà tra i commi 1 e 1-bis dell’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, poiché, per il primo, la revoca può incidere soltanto su atti “ad efficacia durevole”, mentre, per il secondo, l’atto revocato può anche essere “ad efficacia istantanea” se incidente su “rapporti negoziali”, con un possibile effetto retroattivo che avvicina l’istituto a quello dell’annullamento d’ufficio per illegittimità, convergendo, in questo senso, anche l’art. 1, comma 136, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, per il quale l’annullamento volto a “conseguire risparmi o minori oneri finanziari” regola il caso in cui incida “su rapporti contrattuali o convenzionali con privati”; potere quest’ultimo che, al di là del nomen dell’atto, appare peraltro vicino allo schema della revoca sul presupposto della rivalutazione della convenienza di contratti già stipulati.
La normativa richiamata deve essere a sua volta esaminata insieme con quella dell’art. 21-sexies della legge n. 241 del 1990, per cui è possibile “il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione…nei casi previsti dalla legge o dal contratto”, secondo una regola di tipicità delle ipotesi di recesso analoga a quella di cui agli articoli 1372 e 1373 c.c..
Emerge da ciò la questione se con il potere attribuito dall’art. 21-quinquies e dalla legge n. 311 del 2004 si possa incidere sul contratto stipulato e come ciò si concilii con il carattere paritetico delle posizioni fondate su di esso, di cui è espressione la generalizzazione dell’istituto del recesso ex art. 21-sexies, cui si correla la previsione specifica dell’art. 134 del codice dei contratti pubblici che, per gli appalti di lavori pubblici, attribuisce all’amministrazione “il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto”, con effetto economico più oneroso, però, di quanto previsto dal comma 136 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004, poiché non limitato alla dimensione indennitaria ma comprendente il ristoro dei lavori eseguiti e dei materiali utili in cantiere oltre al decimo delle opere non eseguite (effetto non dissimile da quello, previsto dall’art. 158 del medesimo codice dei contratti pubblici, in caso di risoluzione per inadempimento o di revoca delle concessioni di lavori pubblici).
Il quadro normativo deve essere completato, infine, con il richiamo dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990, che fa salvo il potere di recesso dell’amministrazione “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse” in caso di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, e degli articoli 121 e 122 c.p.a. quanto ai poteri del giudice amministrativo di incidere sul contratto.
1.2. La giurisprudenza.
La Sezione riferisce:
- a) che il Consiglio di Stato ha affermato la legittimità del potere di revoca degli atti amministrativi del procedimento ad evidenza pubblica anche se sia stato stipulato il contratto, con il conseguente diritto del privato all’indennizzo; ciò emerge in particolare dalle sentenze della Sezione VI n. 1554 del 2010 e n. 5993 del 2012 e della Sez. IV, n. 156 del 2013 (nella quale si richiama anche, con il comma 136 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004, il comma 9 dell’art. 11 del codice dei contratti pubblici che consente l’intervento in autotutela sugli atti di gara pur divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva), apparendo parzialmente difforme la sola sentenza della Sez. III n. 2291 del 2011, poiché la legittimità della revoca degli atti di una gara vi è affermata anche perché intervenuta prima della stipulazione del contratto;
b) che la Corte di Cassazione ha affermato, al contrario, che tutte le vicende successive alla stipulazione del contratto danno luogo a questioni relative alla sua validità ed efficacia anche se dovute all’esercizio di poteri pubblicistici in autotutela. Con la stipula del contratto si costituisce infatti tra le parti, pubblica e privata, un rapporto giuridico paritetico intercorrente tra situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici; il riscontro di sopravvenuti motivi di inopportunità della realizzazione dell’opera si riconduce perciò all’esercizio del potere contrattuale di recesso, previsto dalla normativa sugli appalti pubblici, con scelta che si riverbera sul contratto in quanto potere contrattuale del committente di recedere da esso, cosicché l’atto di revoca dell’aggiudicazione, ciò nonostante adottato, risulta lesivo del diritto soggettivo del privato in quanto incidente sul sinallagma funzionale (Sez. unite, n. 10160 del 2003 e n. 29425 del 2008).
1.3. L’interpretazione prospettata.
La Sezione prospetta l’esigenza di riconsiderare l’indirizzo prevalente nella giurisprudenza amministrativa ritenendo che, intervenuta la stipulazione del contratto ad evidenza pubblica, l’amministrazione non possa esercitare il potere di revoca ma debba agire attraverso il recesso.
1.3.1.
In primo luogo la Sezione osserva che:
- nonostante la sussistenza della norma generale dell’art. 21-quinquies sono state previste norme specifiche che, attraverso il potere di revoca per pubblico interesse, attribuiscono all’amministrazione la facoltà di incidere unilateralmente sui contratti stipulati con i privati, come è per l’art. 11, comma 4, della legge n. 241 del 1990 (dove il potere, pur nominato di “recesso”, è in sostanza di revoca) e per il citato art. 158 del codice dei contratti pubblici;
- ne emerge sul piano normativo la categoria dei contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico) che, fermo il ricorso alle regole civilistiche per la disciplina generale del rapporto contrattuale tra amministrazione e privati, si distingue da quella dei contratti di diritto privato per il mantenimento di una posizione di supremazia dell’amministrazione;
- in relazione a ciò la parallela previsione dell’art. 21-sexies della legge n. 241 del 1990, sulla facoltà dell’amministrazione di incidere sul contratto con il recesso, deve ritenersi propria dei contratti in cui essa non è in posizione supremazia, cioè di quelli di diritto privato, considerate: l’analogia della norma con quelle di cui agli articoli 1372 e 1373 c.c.; la sua coerenza con il principio di cui all’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990, per il quale “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”; l’inutilità della previsione, altrimenti, se l’amministrazione potesse sempre incidere sul contratto con la revoca, peraltro più conveniente per il profilo economico;
- essendo quindi corretta la valutazione del primo giudice per la quale la revoca può essere ammessa solo nelle concessioni, dove il contratto è accessivo al provvedimento concessorio e ne dipende direttamente, fondandosi su ciò anche la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia, considerato che nelle concessioni il modulo consensuale è sempre sostitutivo di poteri autoritativi (Cass. Sez. un. ord. n. 8094 del 2007).
1.3.2.
Tanto rilevato le previsioni dell’art. 21-sexies della legge n. 241 del 1990 e dell’134 del codice dei contratti pubblici portano a non riferire i contratti ad evidenza pubblica al contesto dei rapporti negoziali distinti dal potere autoritativo di revoca, essendo avvalorata questa conclusione dalle seguenti considerazioni:
- la riconosciuta scissione tra aggiudicazione e stipulazione del contratto, che emerge sul piano funzionale poiché, con la prima, si conclude la fase pubblicistica del perseguimento dell’interesse pubblico alla selezione della migliore offerta mentre la seconda si colloca nel diverso quadro del rapporto paritetico tra i contraenti con predominanza del diritto privato, riflettendosi questa scissione anche sul piano strutturale, poiché, ai sensi dell’art. 11 del codice dei contratti pubblici, “l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta” (comma 7), essendo poi previsto un termine per stipulare successivamente il contratto soltanto entro il quale l’amministrazione può agire in autotutela (comma 9);
- ciò che porta alla distinzione fra l’atto di aggiudicazione e il consenso contrattuale dell’amministrazione e a far escludere che questo possa essere ritirato in via unilaterale, e tanto meno perciò mediante il riesame dell’aggiudicazione in autotutela, essendo il detto consenso confluito con quello della parte privata nell’accordo di cui all’art. 1325, n. 1), c.c., essendo in seguito possibile soltanto il mutuo dissenso di cui all’art. 1372 c.c., ed operando la altresì prevista facoltà di recesso non sull’atto contrattuale ma sul rapporto.
Sarebbe peraltro ingiustificato, si soggiunge, che l’amministrazione possa, attraverso i propri poteri di autotutela decisoria, ottenere un risultato in ipotesi superiore a quello ottenibile dal contraente privato in sede giurisdizionale ai sensi della normativa sull’inefficacia del contratto per l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, di cui agli articoli 121 e 122 c.p.a..
1.3.3.
La Sezione conclude osservando che:
- la normativa posta con il comma 1-bis dell’art. 21–quinquies della legge n. 241 del 1990, così come con l’art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, si inserisce nel quadro delineato se si circoscrive il potere di revoca ivi previsto soltanto alle concessioni amministrative, con ciò erigendo a ratio della normativa il suo puntuale scopo originario, dell’intervento sulle concessioni di lavori pubblici a favore della TAV, e risultando in essa presupposto l’effetto di incidenza sul contratto in coerenza con l’assenza di deroga all’art. 21-sexies e all’art. 134;
- il divieto di revoca quando sia stato stipulato il contratto si fonda sulla fondamentale ragione dell’affidamento del privato negli impegni reciproci consacrati nell’accordo, sulla cui base egli ha maturato aspettative di profitto e assunto impegni organizzativi che l’art. 21-quinquies non impone di considerare (a differenza dell’art. 21-nonies per l’annullamento d’ufficio) e il cui ristoro è ivi previsto soltanto con l’indennizzo, mentre, ad esito del recesso consentito per i contratti di diritto privato, l’amministrazione è obbligata, come visto, ad una più adeguata compensazione del pregiudizio sofferto dalla controparte;
- ciò non comporta, peraltro, un’automatica svalutazione dell’interesse pubblico, di cui la pubblica amministrazione è sempre portatrice, al quale è comunque strumentale il diritto di recesso nell’ampia configurazione dell’art. 134 del codice dei contratti pubblici, potendo l’amministrazione valorizzare, ai fini del recesso, circostanze che porterebbero alla revoca, con il corollario di non dover assicurare il contraddittorio procedimentale né esternare compiutamente le motivazioni della scelta, essendo ciò bilanciato dal maggiore onere economico che ne consegue.
2. Si passa ora all’esame del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria precisando, in via preliminare, che si prescinde da questioni attinenti alla giurisdizione, che pure possano essere connesse al quesito stesso, considerato che nel caso di specie la questione di giurisdizione è stata espressamente decisa in primo grado con pronuncia confermata in secondo grado, essendosi perciò formato al riguardo il giudicato.
3. L’Adunanza plenaria ritiene, per le ragioni che seguono, che, intervenuta la stipulazione del contratto per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici, l’amministrazione non può esercitare il potere di revoca dovendo operare con l’esercizio del diritto di recesso.
3.1. Ai sensi del codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 (in seguito anche “codice”), la fase della scelta del contraente, conclusa con l’aggiudicazione definitiva, risulta distinta da quella, successiva, della stipulazione e conseguente esecuzione del contratto, pur costituendone il necessario presupposto funzionale, considerato che l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta (art. 11, comma 7, primo periodo, del codice) e che, pur divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, prima della stipulazione resta comunque salvo “L’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti” (art. 11, comma 9). Il vincolo sinallagmatico nasce perciò soltanto con il separato e distinto atto della stipulazione del contratto quando, essendo stata fino a quel momento irrevocabile soltanto l’offerta dell’aggiudicatario (art. 11, comma 7, secondo periodo), l’amministrazione a sua volta si impegna definitivamente.
3.2. Ciò considerato la giurisprudenza ha affermato che la fase conclusa con l’aggiudicazione ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior contraente nella tutela della concorrenza, mentre quella che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l’attuazione del rapporto negoziale ha carattere privatistico ed è quindi retta dalle norme civilistiche (Corte costituzionale, sentenze n. 53 e n. 43 del 2011; Cassazione, Sez. un. civ. n. 391 del 2011; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 450 del 2009).
3.3. Nella fase privatistica l’amministrazione si pone quindi con la controparte in posizione di parità che però, è stato anche precisato, è “tendenziale” (Corte Cost. n. 53 e n. 43 del 2011 citate), con ciò sintetizzando l’effetto delle disposizioni per cui, pur nel contesto di un rapporto paritetico, sono apprestate per l’amministrazione norme speciali, derogatorie del diritto comune, definite di autotutela privatistica (Ad. Plen. n. 6 del 2014); ciò, evidentemente, perché l’attività dell’amministrazione, pur se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al fine primario dell’interesse pubblico, con la conseguente previsione, su tale presupposto, di regole specifiche e distinte.
3.4. Nel codice dei contratti pubblici sono previste norme con tratti di specialità riguardo specificamente alla fase dell’esecuzione del contratto per la realizzazione di lavori pubblici, cui attiene la questione all’esame.
Ci si riferisce a norme collocate nella Parte II, Titolo III del codice (Disposizioni ulteriori per i contratti relativi ai lavori pubblici) relative alla disciplina del recesso dal contratto e della sua risoluzione, ai sensi, rispettivamente, degli articoli 134 - 136 del codice (collocate nel Capo II del Titolo III e perciò riferite agli appalti di lavori pubblici ex art. 126 del codice), della risoluzione per inadempimento e, specificamente, della revoca delle concessioni di lavori pubblici in finanza di progetto ai sensi dell’art. 158 del medesimo codice, ovvero della sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 158 e seguenti del regolamento di attuazione (d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207).
In questo contesto la specialità della disciplina del recesso emerge non soltanto perché, a fronte della generale previsione civilistica (art. 1373 c.c.), il legislatore ne ha ritenuto necessaria una specifica nella legge sul procedimento (art. 21-sexies) ma in particolare perché l’art. 134, nel concretare il caso applicativo di tale previsione, lo regola in modo diverso rispetto all’art. 1671 c.c., prevedendo il preavviso all’appaltatore e, quanto agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore dei materiali utili esistenti in cantiere” mentre, per il citato art. 1671 c.c., il lucro cessante è dovuto per intero (“il mancato guadagno”) e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute.
3.5. Su questa base si ritiene di poter affermare quanto segue.
3.5.1. La posizione dell’amministrazione nella fase del procedimento di affidamento di lavori pubblici aperta con la stipulazione del contratto è definita dall’insieme delle norme comuni, civilistiche, e di quelle speciali, individuate dal codice dei contratti pubblici, operando l’amministrazione, in forza di quest’ultime, in via non integralmente paritetica rispetto al contraente privato, fermo restando che le sue posizioni di specialità, essendo l’amministrazione comunque parte di un rapporto che rimane privatistico, restano limitate alle singole norme che le prevedono.
Ciò rilevato ne consegue che deve ritenersi insussistente, in tale fase, il potere di revoca, poiché: presupposto di questo potere è la diversa valutazione dell’interesse pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso in quanto potere contrattuale basato su sopravvenuti motivi di opportunità (Cass. n. 391 del 2011 cit.; Cons. Stato, Sez. V, 18 settembre 2008, n. 4455); la specialità della previsione del recesso di cui al citato art. 134 del codice preclude, di conseguenza, l’esercizio della revoca.
Se infatti, come correttamente indicato dal giudice rimettente, nell’ambito della normativa che regola l’attività dell’amministrazione nella fase del rapporto negoziale di esecuzione del contratto di lavori pubblici, è stata in particolare prevista per gli appalti di lavori pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso, non si può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell’interesse pubblico per sopravvenienze) e avente effetto analogo sul piano giuridico (la cessazione ex nunc del rapporto negoziale); richiamato anche che, quando il legislatore ha ritenuto di consentire la revoca “per motivi di pubblico interesse” a contratto stipulato, lo ha fatto espressamente, in riferimento, come visto, alla concessione in finanza di progetto per la realizzazione di lavori pubblici (o la gestione di servizi pubblici; art. 158 del codice).
In caso contrario la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile, risultando nell’ordinamento, che per definizione reca un sistema di regole destinate a operare, una normativa priva di portata pratica, dal momento che l’amministrazione potrebbe sempre ricorrere alla meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando in tale modo nel rapporto una posizione comunque privilegiata; fermo restando, come anche richiamato dalla V Sezione, che per l’amministrazione la maggiore onerosità del recesso è bilanciata dalla mancanza dell’obbligo di motivazione e del contraddittorio procedimentale.
3.5.2. Quanto sopra vale in riferimento alla possibilità della revoca nella fase aperta con la stipulazione del contratto nel procedimento per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici, che è l’oggetto specifico del quesito all’esame.
Resta perciò impregiudicata, nell’inerenza all’azione della pubblica amministrazione dei poteri di autotutela previsti dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto; b) dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta in giurisprudenza, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto per la stretta consequenzialità funzionale tra l’aggiudicazione della gara e la stipulazione dello stesso (Cass. sezioni unite, 8 agosto 2012, n. 14260; Cons. Stato: sez III, 23 maggio 2013, n. 2802; sez. V: 7 settembre 2011, n. 5032; 4 gennaio 2011, n. 11, 9 aprile 2010, n. 1998).
Così come, pure nel caso di contratto stipulato, sussiste la speciale previsione in ordine al recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass. n. n. 391 del 2011 cit.) ha riferito alla nozione dell’autotutela autoritativa, poiché potere “del tutto alternativo a quello generale di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F” (oggi art. 134 del codice dei contratti pubblici); qualificazione questa che può ritenersi tuttora valida poiché le stazioni appaltanti, pur nel quadro della normativa oggi vigente in materia, devono comunque valutare l’esistenza delle eccezionali condizioni non comportanti l’altrimenti vincolato esercizio del diritto di recesso (art. 94, commi 2 e 3 del d.lgs. n. 159 del 2011).
3.5.3. In questo quadro si coordina e delimita, ad avviso del Collegio, la previsione della revoca di cui al comma 1-bis dell’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, poiché dall’ambito di applicazione della norma risulta esclusa la possibilità di revoca incidente sul rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori pubblici, in forza della speciale e assorbente previsione dell’art. 134 del codice (così, come, per la medesima logica, né è esclusa la revoca di cui all’art. 158 del codice), restando per converso e di conseguenza consentita la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dall’amministrazione, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessioni contratto (sia per le convenzioni accessive alle concessioni amministrative che per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonché in riferimento ai contratti attivi.
4. Sulla base di quanto esposto l’Adunanza plenaria afferma il seguente principio di diritto: <<Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006.>>.
5. Ciò affermato l’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., restituisce gli atti alla Sezione quinta di questo Consiglio per le ulteriori pronunce sul merito della controversia e sulle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), affermato il principio di diritto di cui in motivazione, restituisce gli atti alla Sezione quinta per ogni ulteriore statuizione nel merito della controversia e sulle spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2014, con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere, Estensore
Nicola Russo, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Vittorio Stelo, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 20/06/2014
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione