ADUNANZE PLENARIE:
sul potere del giudice d'ottemperanza
e del commissario "ad acta"
di emanare il provvedimento
"ex" art. 42 "bis" del d.P.R. n. 327/2001
(Cons. St., Sez. IV,
ordinanza 3 luglio 2014, n. 3347).
Quesito di diritto
Se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione, quindi, estesa
al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti
concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri
sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis del T.U. n. 327/2001 (c.d.
acquisizione provvedimentale).
Ordinanza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha
pronunciato la presente
ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA
PLENARIA
sul ricorso numero di registro generale
7071 del 2013, proposto da:
Carmela Marraffa, rappresentata e difesa
dall'avv. Carlo Caniglia, con domicilio eletto presso Segreteria Sezionale del
Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
contro
Comune di Villa Castelli, in persona del
Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giovanni
Pomarico, con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato in
Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ.
STACCATA DI LECCE: SEZIONE I n. 00383/2013, resa tra le parti, concernente
reclamo avverso provvedimento di acquisizione sanante emesso dal
commissario ad acta.
Visti il ricorso in appello e i relativi
allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio
del Comune di Villa Castelli;
Viste le memorie prodotte dalle parti a
sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del
giorno 25 febbraio 2014 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati
Caniglia e Pomarico;
Con ricorso notificato il 13 settembre
2013 e depositato il 30 settembre successivo la sig.ra Carmela Marraffa propone
appello per ottenere la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo
regionale per la Puglia, sez. I, 21 febbraio 2013, n. 383/2013.
La sentenza impugnata ha respinto il
reclamo n.r.g. 1309/2011, proposto dall’odierna appellante, avverso il decreto
di esproprio del commissario ad acta nominato dal medesimo Tribunale
con precedente sentenza 24 maggio 2012 n. 928.
Va premessa una breve ricostruzione dei
fatti riguardanti l’odierna vicenda contenziosa.
La sig.ra Marraffa, nella sua qualità di
proprietaria di un terreno sito nell’agro del Comune di Villa Castelli,
ricadente nella zona Gravina, subiva l’occupazione del proprio terreno per la
realizzazione di lavori di restauro ambientale e di sistemazione a verde della
gravina esistente, disposti sulla base di un progetto approvato con delibera GM
n. 372 del 13.06.1997, che ne decretava la pubblica utilità.
In particolare l’occupazione di urgenza
veniva disposta con decreto n. 3351 del 19.04.1999 e a seguito di essa venivano
realizzate le opere de quibus, con conseguente trasformazione
dell’area.
All’occupazione non faceva seguito alcun
formale decreto di esproprio.
L’odierna appellante, dunque, proponeva
ricorso di fronte il TAR Puglia - sez. Lecce al fine di ottenere la
restituzione dell’immobile illegittimamente detenuto, salva l’ipotesi di un
provvedimento ai sensi dell’allora vigente art. 43 t.u. n. 327/01.
Con sentenza n. 3342/2008 il giudice di
prime cure accoglieva il ricorso e, riconoscendo la sopravvenuta illegittimità
dell’occupazione a seguito del mancato completamento del procedimento
ablatorio, ordinava all’amministrazione di completare tale procedimento ovvero
di restituire il bene alla ricorrente, salvo in ogni caso il diritto al
risarcimento dei danni.
In particolare il Tribunale offriva tre
opzioni per eseguire tale comando giudiziale: il raggiungimento entro sessanta
giorni di un accordo fra le parti con il quale trasferire la proprietà del bene
in capo alla p.a.; se tale accordo non fosse stato raggiunto, nei successivi
sessanta giorni, il Comune avrebbe dovuto emanare un motivato decreto di
acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 43 t.u.
espropriazioni; la restituzione, infine, del bene alla proprietaria, salvo in
tutti i casi il risarcimento dei relativi danni, che avrebbero dovuto essere
quantificati tenuto conto dei criteri legali, della data dalla quale è
configurabile l’illecito permanente, della destinazione urbanistica dell’area
in questione e di ogni altra circostanza di fatto significativa.
Concludeva il Tribunale con formula di
rito, con la quale rendeva edotta la sig.ra Marraffa della possibilità di agire
per l’esecuzione della sentenza di fronte al medesimo TAR, qualora il Comune
non avesse provveduto nei termini stabiliti ad accordarsi ovvero ad adottare un
atto formale volto alla restituzione o all’acquisizione dell'area.
Il Comune non prestava adempimento nei
termini e nelle modalità indicati in sentenza e successivamente la sig.ra
Marraffa proponeva ricorso presso lo stesso TAR Puglia, sezione staccata di
Lecce per chiedere la corretta esecuzione della stessa.
Con sentenza 2 ottobre 2009 n. 2241, il
TAR di Lecce, accogliendo il ricorso della sig.ra Marraffa, ordinava
all’Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza n. 3342/2008 nel termine
ultimativo di quarantacinque giorni.
Il Comune rimaneva ulteriormente
inadempiente e la proprietaria adiva nuovamente il TAR di Lecce al fine di
sentire nuovamente condannare il Comune all’esecuzione della sentenza, con
richiesta di nomina di un commissario ad acta.
Il TAR Lecce, con sentenza 24 maggio 2012
n. 928 accoglieva il nuovo ricorso della sig.ra Marraffa, ritenendo priva di
fondamento la tesi del Comune, relativa ad una mancanza di responsabilità dello
stesso per mancato raggiungimento dell’accordo, e ordinava all’Amministrazione
di ottemperare alla sentenza n. 3342/2008 nel termine di sessanta giorni o
attraverso l’emanazione del decreto di acquisizione e il pagamento della somma
corrispondente al valore attuale del bene nonché di una somma pari al ventesimo
del valore del bene (determinato tenendo conto a ritroso degli indici di
svalutazione dei beni al consumo) per ogni anno successivo alla scadenza della
legittima occupazione, o la restituzione del bene e il contestuale pagamento
delle somme compensative del danno arrecato e arrecando con la sottrazione del
bene al proprietario per tutto il periodo passato e futuro di illegittima
occupazione (pari al ventesimo del valore del bene anno per anno, determinato
tenendo conto, per il passato e per il futuro, degli indici di svalutazione dei
beni al consumo).
Provvedeva a nominare quale
commissario ad acta l’ing. Raffaele Dell’Anna, nel caso in cui
l’Amministrazione non avesse dato tempestiva esecuzione alla sentenza.
Con successivo reclamo la sig.ra Marraffa
impugnava di fronte al TAR di Lecce il decreto di esproprio del 10 settembre
2012, assunto dal commissario ad acta nominato dal medesimo
Tribunale con sentenza n. 928/2012.
Il TAR con sentenza 21 febbraio 2013 n.
383 rigettava il reclamo, ritenendo che l’atto erroneamente nominato decreto di
esproprio dovesse essere qualificato più propriamente quale acquisizione
sanante ai sensi dell’art. 43, oggi 42 bis, del D.P.R. n. 327/2001.
Il Tribunale, dunque, affrontava la
tematica relativa ai poteri del commissario ad acta, il quale, a
parere del TAR, è titolare di un potere che trova diretto fondamento nella
pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione, con la conseguenza che detto organo può adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi in concreto idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita cui aspira.
Alla luce di quanto esposto il TAR riteneva legittimo il comportamento del commissario ad acta, il quale, dunque, non avrebbe avuto bisogno di acquisire preventivamente alcun
parere, né da parte del ricorrente, né tanto meno del Comune.
Reputava, infine, infondata la censura
relativa alla quantificazione del risarcimento del danno, stante la non
edificabilità dell’area e l’utilizzabilità in proposito della determinazione
effettuata dall’Agenzia del Territorio, che, pur non potendosi considerare atto
idoneo alla concreta esecuzione del giudicato, ben poteva essere utilizzata ai
fini dell’accertamento del valore dell’area.
Con ricorso n.r.g. 7071/2013 la sig.ra
Marraffa propone appello avverso tale ultima sentenza del TAR Lecce lamentando
la violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 114, comma 4, lett. d),
commi 6 e 7 c.p.a., per essersi il commissario ad acta sostituito
all’amministrazione, oltrepassando i limiti dei poteri conferitigli dal
giudicato, adottando un decreto di esproprio senza previamente acquisire la
volontà dell’amministrazione e sostituendosi in toto a quest’ultima.
Con secondo motivo lamenta la
contraddittorietà della motivazione, per avere la stessa, da un lato, considerato
la stima dell’Agenzia del Territorio come non idonea a integrare una vera e
propria esecuzione del giudicato, mentre, dall’altro lato, la considerava
strumento idoneo per la determinazione del valore dell’area.
Chiede, inoltre, la sospensione dell’esecutività
della sentenza impugnata, che questa Sezione, con ordinanza n. 4028/2013, non
ha concesso, in considerazione dell’assenza dei presupposti.
Successivamente si è costituito il Comune
di Villa Castelli, che contesta tutto quanto sostenuto da parte appellante,
affermando che il commissario ad actaavrebbe agito nel rispetto dei
poteri conferitigli dalla sentenza, alla luce della giurisprudenza di questo
Consiglio, per la quale il commissario ad acta è legittimato,
anche al di fuori delle norme che governano l’azione ordinaria degli organi
amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura conforme al giudicato che si
appalesi in concreto idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento
effettivo del bene della vita di cui è riconosciuto titolare dalla sentenza
(cfr. Cons. St., sez. V, 1 marzo 2012, n. 1194 e Cons. St., sez. III, 7 giugno
2013, n. 3124).
Eccepisce, inoltre, l’infondatezza del
secondo motivo di ricorso relativo alla contraddittorietà della motivazione,
sostenendo che la sentenza n. 928/2012, resa in primo grado fra le parti,
comandava all’amministrazione di liquidare il danno subito dalla ricorrente
sulla base del valore venale del bene e, pertanto, correttamente, il
commissario ad acta ha utilizzato la stima effettuata dall’Agenzia
del Territorio di Brindisi.
Alla camera di consiglio del 25 febbraio
2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
Giunge alla decisione del Collegio il
ricorso in appello proposto dalla sig.ra Marraffa avverso la sentenza con cui
il Tar Puglia, sezione distaccata di Lecce, ha respinto il reclamo proposto
avverso gli atti posti in essere dal commissario ad acta.
Il Collegio rinviene al riguardo un
contrasto giurisprudenziale in ordine alla quaestio iuris se
il commissario ad acta, nominato in sede di ottemperanza alla
sentenza, possa ordinare la conclusione del procedimento di cui all’art. 42-bis T.U.
sulle espropriazioni (8 giugno 2001 n. 327) o se tale tipo di provvedimento sia
di appannaggio esclusivo dell’Amministrazione.
Occorre prendere le mosse dall’art.
42 bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327 (cd. “t.u. espropriazione”),
recante la disciplina della cd. acquisizione sanante, inserito dall’art. 34
d.l. 6.7.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella l. 15.7.2011, n. 111,
che ha colmato il vuoto lasciato a seguito della declaratoria di
incostituzionalità del previgente art. 43, e che è stato oggetto di un vivace
dibattito giurisprudenziale relativo, in particolare, all’ampiezza dei poteri
decisori del g.a. investito di una controversia concernente l’occupazione
illegittima o senza titolo di un bene e la relativa trasformazione.
Chiarita la natura di illecito permanente
dell’occupazione e trasformazione di un bene da parte della p.a. in assenza di
valido titolo, la giurisprudenza afferma che l’obbligo restitutorio della p.a.
può venire meno solo per effetto dell’esercizio del potere acquisitivo (cfr.
Cons. St., sez. IV, 29.8.2012, n. 4650).
Tale orientamento della Sezione conferma
il principio, già affermato con precedenti sentenze (30 gennaio 2006, n. 290; 7
aprile 2010 n. 1983), secondo cui l’intervenuta realizzazione dell’opera
pubblica non fa venire meno l’obbligo dell'amministrazione di restituire al
privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando l’interpretazione
che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile
trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica
del privato.
Infatti, partendo dall’esame della
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve ritenersi che il
quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente
alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1
(sentenza Cedu 30 maggio 2000, ric. 31524/96).
Nella sentenza citata, la Corte ha
ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca impedimento
alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata, e ciò
indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di
acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo
illegittimamente occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di
illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei relativi provvedimenti, può
legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia
la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell’opera pubblica sul
fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di
assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il
trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione
dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi,
che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
Ne discende che, nelle more
dell’introduzione del nuovo art. 42-bis e dopo l’annullamento per
illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, la
giurisprudenza di questa Sezione ha affermato che è obbligo primario
dell’amministrazione procedere alla restituzione della proprietà
illegittimamente detenuta.
Muovendo da tale principio la Sezione ha,
anzitutto, ribadito l’applicabilità dell’art. 42-bis del d.P.R. n.
327 del 2001 ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore,
richiamando le coordinate interpretative in precedenza fornite. In particolare,
è richiamata la sentenza n. 1514 del 16 marzo 2012, in cui la Sezione ha
precisato che “l’art. 42 bis, pur facendo salvo il potere di
acquisizione sanante in capo alla P.A. non ripropone lo schema processuale
previsto dal comma 2 dell’originario art. 43, che attribuiva
all’amministrazione la facoltà e l’onere di chiedere la limitazione alla sola
condanna risarcitoria, ed al giudice il potere di escludere senza limiti di
tempo la restituzione del bene, con il corollario dell’obbligatoria e
successiva emanazione dell’atto di acquisizione”. In quella occasione la
Sezione ha evidenziato che il potere discrezionale dell’amministrazione di
disporre l’acquisizione sanante è conservato: l’art. 42-bis infatti
regola i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria e
processo amministrativo di annullamento, in termini di autonomia, consentendo
l’emanazione del provvedimento dopo che “sia stato annullato l’atto da cui sia
sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la
pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio” od anche, “durante la
pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti citati, se
l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira”.
In conclusione, dalla giurisprudenza fin
qui richiamata, si possono dedurre le seguenti massime:
1. L’intervenuta realizzazione dell’opera
pubblica non fa venire meno l’obbligo dell'amministrazione di restituire al
privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando l’interpretazione
che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile
trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica
del privato.
2. La realizzazione dell’opera pubblica
sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di
assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il
trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione
dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi,
che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
3. Nelle more dell’introduzione del nuovo
art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, e dopo l’annullamento per
illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, sussiste l’obbligo
primario dell’amministrazione di procedere alla restituzione della proprietà
illegittimamente detenuta, fermo restando il potere dell’amministrazione di
valutare l’attivazione di quanto previsto dal citato art. 42-bis.
Dichiarato, dunque, nel 2010 l’art. 43
costituzionalmente illegittimo (C. cost., 8.10.2010, n. 293), per eccesso di
delega, il vuoto normativo è stato, quindi, colmato nel 2011, con l’inserimento
nel t.u. espropriazioni dell’art. 42 bis, recante una disciplina
parzialmente diversa rispetto alla precedente.
L’art. 43, oltre a prevedere
l’acquisizione amministrativa, disposta sulla base di un provvedimento adottato
dalla p.a., ai co. 3 e 4, disciplinava l’acquisizione giudiziaria, riguardante
le ipotesi in cui la p.a., nel corso del giudizio per l’annullamento di un atto
del procedimento ablatorio o per la restituzione del bene utilizzato per scopi
di interesse pubblico, avesse chiesto al giudice di escludere la restituzione,
riconoscendo in entrambi i casi al proprietario inciso il diritto al
«risarcimento» del danno.
Diversamente, l’art. 42-bis riconosce,
in luogo del risarcimento del danno, un «indennizzo» per il pregiudizio subito.
Inoltre, se da un lato è confermata la possibilità di ricorrere all’acquisizione
anche «quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo
preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di
un’opera o il decreto di esproprio» (co. 2), dall’altro non è riprodotta
l’acquisizione giudiziaria: l’eliminazione è compensata dall’espressa
previsione che l’acquisizione può essere adottata «anche durante la pendenza di
un giudizio» per l’annullamento degli atti inerenti alla procedura
espropriativa. Al rischio che il provvedimento acquisitivo possa divenire
rimedio ordinario alternativo alla procedura di esproprio, viene fatto fronte
attraverso un aggravio dell’onere motivazionale, richiedendosi che il
provvedimento sia «specificamente motivato in riferimento alle attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando
l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione» (co. 4).
Tanto premesso, il dibattito, in
particolare, si è sviluppato intorno ai poteri decisori del g.a., qualora la
domanda avanzata in via principale concerna il risarcimento per equivalente del
danno commisurato alla perdita della proprietà, discutendosi se il giudice -
specie alla luce del testo dell’art. 42-bis che non riproduce la
c.d. acquisizione giudiziaria ed esalta il carattere eccezionale del potere
acquisitivo, esercitabile sulla base di rigorose valutazioni di prevalente
interesse pubblico - possa condannare la p.a. ad acquisire o ad avviare il
procedimento di acquisizione.
Questa Sezione, con la sentenza 16.3.2012,
n. 1514, a fronte di un petitum rappresentato dalla domanda di
risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene e, in subordine,
di restitutio, ha riconosciuto in capo al g.a. il potere di condannare la p.a.
ad avviare il procedimento acquisitivo (ferma la discrezionale valutazione in
ordine agli interessi in conflitto), tramite un’interpretazione sistematica
dell’art. 42-bis e valorizzando il potere di condanna atipico del
g.a. di cui all’art. 34 c.p.a.
Secondo l’orientamento prevalente, la
realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è un mero
fatto, inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà ed integrante un
illecito permanente (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.8.2011, n. 4833).
Ne consegue, che il legittimo proprietario
ha diritto alla restituzione, previa riduzione in pristino stato:
l’affermazione categorica presuppone l’inquadramento della restituzione del
bene nella tutela ripristinatoria (cfr. Cons. St., sez. VI, 31.5.2008, n.
2622), anziché in quella risarcitoria in forma specifica (cfr. Cons. St., sez.
IV, 15.9.2010, n. 6862), che sarebbe soggetta al limite della non eccessiva
onerosità ex art. 2058 c.c., oltre a richiedere i presupposti
dell’illecito. Inoltre, la trasformazione dell’area occupata non può essere
addotta dalla p.a. come causa di impossibilità oggettiva e di impedimento alla
restituzione ed il pregiudizio all’economia nazionale derivante dalla
distruzione della cosa, ex art. 2933 c.c., può essere invocato
nelle ipotesi in cui l’area sia interessata da un’opera di rilievo non
meramente locale (cfr. Cons. St., sez. VI, 13.6.2011 n. 3561; Cass., sez. I, 23
agosto 2012, n. 14609).
Ulteriore premessa implicita nell’iter argomentativo
dell’orientamento giurisprudenziale in rassegna è che non è possibile
connettere l’estinzione del diritto di proprietà del privato all’unilaterale
volontà di questo di abdicare al proprio diritto, volontà che la giurisprudenza
della Cassazione in materia di occupazione usurpativa (cfr. Cass., S.U.,
6.5.2003, n. 6853) ha, invece, giudicato implicita nella richiesta del
proprietario di liquidazione del danno commisurato alla perdita della
proprietà. Tale conclusione, infatti, si porrebbe in contrasto sia con
l’esigenza di tutela della proprietà, sia con i principi civilistici, oltre con
il tenore degli artt. 43 e 42-bis cit., che riservano
l’acquisizione ad una decisione discrezionale della p.a. (cfr. Cons. St., sez.
IV, 28.1.2011, n. 676).
In tale contesto l’art. 42 bis (applicabile
anche a fatti anteriori ai sensi del co. 8), (cfr. sent. n. 1514/2012 cit.),
prevede espressamente che il provvedimento di acquisizione può essere adottato
anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti ablatori
e non ripropone invece «lo schema processuale previsto dal comma 3 dell’art.
43» sull’acquisizione giudiziaria. Tale espunzione ha una conseguenza:
«l’eliminazione della descritta facoltà inibisce, sul piano processuale,
l’emersione dell’interesse pubblico all’acquisizione dell’immobile, sia pur in
sanatoria, dovendo del resto escludersi che l’interesse, pur dedotto ed
argomentato dalla difesa dell’amministrazione nelle proprie memorie,
costituisca o possa costituire (venuta meno la peculiare norma di cui al 43, co.
3) oggetto e frutto di quella ponderata valutazione degli “interessi in
conflitto” che il legislatore demanda esclusivamente all’amministrazione
nell’ambito della naturale sede procedimentale». L’art. 42-bis regola
unicamente i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione e processo
amministrativo di annullamento e li regola in termini di autonomia, consentendo
l’adozione del provvedimento anche dopo l’annullamento di un atto della
procedura ablatoria ed anche «durante la pendenza di un giudizio per
l’annullamento degli atti citati». In difetto di esercizio del potere di
acquisizione, l’ordine di restituire il bene (in accoglimento della domanda
restitutoria avanzata in via subordinata e trattata in conseguenza del rigetto
di quella risarcitoria per la persistente titolarità della proprietà in capo
all’originario proprietario), «eliderebbe irrimediabilmente il potere sanante
dell’amministrazione (salva ovviamente l’autonoma volontà transattiva delle
parti) con conseguente frustrazione degli obiettivi avuti a riferimento dal
legislatore».
Tuttavia, secondo l’orientamento citato,
«i principi derivanti dall’interpretazione sistematica delle norme citate e le
possibilità insite nel principio di atipicità delle pronunce di condanna, ex art.
34 lett. c c.p.a., impongono allora una limitazione della condanna all’obbligo
generico di provvedere ex art. 42 bis»,
«impregiudicata la discrezionale valutazione in ordine agli interessi in
conflitto», in esito alla quale la p.a. potrà scegliere se restituire l’immobile
previo ripristino o disporne l’acquisizione.
La sentenza n. 1514/2012 cit., inoltre,
esclude che dopo un giudicato restitutorio possa essere esercitato il potere di
acquisizione.
Tuttavia, l’art. 42-bis non
individua un limite temporale per l’esercizio del potere di acquisizione.
Vigente l’art. 43 la questione aveva dato luogo a opposti orientamenti: secondo
un primo orientamento, l’acquisizione è idonea a porre nel nulla l’eventuale
precedente condanna giudiziale a restituire il bene, poiché «la restituzione …
è la conseguenza dell’accertamento della proprietà dei beni e non implica
effetti costitutivi» (cfr. Cons. St., sez. V, 11.5.2009, n. 2877); secondo
altro orientamento, invece, il potere acquisitivo non può essere esercitato in
presenza di un giudicato che riconosca il diritto alla restituzione, mentre può
essere applicato qualora siano intervenute sentenze del g.a. meramente
demolitorie degli atti espropriativi (Cons. St., sez. IV, 17.2.2009, n. 915).
Gli orientamenti in questione - il primo
criticabile per il contrasto con il principio di effettività della tutela
giurisdizionale, il secondo perché omette di considerare l’effetto
ripristinatorio proprio del giudicato di annullamento - necessitano di un aggiornamento
alla luce del c.p.a., che la sentenza n. 1514 del 2012 sembra, invece, non
trascurare: gli artt. 30 e 34 c.p.a. configurano un potere di condanna atipico
del g.a., consentendo di esplicitare già in esito al giudizio di cognizione la
portata conformativa e ripristinatoria del giudicato, incluso l’ordine di
restituire il bene occupato sine titulo. Poiché detto ordine escluderebbe il
successivo esercizio del potere acquisitivo, l’orientamento in questione,
sensibile alla rilevanza del pubblico interesse e tenuto conto del co. 2
dell’art. 42-bis che ammette il potere acquisitivo anche dopo
l’annullamento degli atti del procedimento ablatorio, ha limitato la condanna
all’obbligo generico di avviare il procedimento acquisitivo, ferma restando la
discrezionalità della p.a. nello scegliere se acquisire o meno il bene.
I profili problematici, tuttavia, non
sembrano compiutamente risolti.
I principi elaborati dalla sentenza n.
1514 del 2012 cit., non sono affatto consolidati. Altre sentenze, infatti, interpretano
l’espunzione dell’acquisizione giudiziaria e l’aggravamento dell’onere
motivazionale per quella amministrativa come espressione della volontà
legislativa di assicurare al proprietario la restituzione in pristino, salvo il
ricorso eccezionale all’acquisizione sulla base di rigorose valutazioni di
prevalente interesse pubblico, valutazioni queste che però sarebbero
«interdette al giudicante», che altrimenti invaderebbe un’area di
amministrazione attiva.
Con riguardo alla vicenda in esame, deve
dirsi che si registra un contrasto giurisprudenziale proprio in ordine ai
poteri del commissario ad acta nella conclusione del
procedimento espropriativo avuto riguardo all’art. 42-bis T.U.
sulle espropriazioni.
Un primo orientamento, confluito nelle
sentenze di questa Sezione, nn. 1222 e 1344 del 2014, ritiene che il
commissario ad acta non possa provvedere a norma dell’art. 42-bis T.U.
espropriazioni.
Il ragionamento posto a fondamento di
queste sentenze si radica sul presupposto che la sentenza da ottemperare sia a
sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di
ricorso introduttivo.
Nel particolare caso di illegittimità
della procedura la domanda del ricorrente è posta al fine di ottenere la
demolizione degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui
consegue l’annullamento della procedura e il contestuale riconoscimento della
mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo
della restituzione del bene illegittimamente sottratto.
La giurisprudenza in questione specifica
che alla luce dei limiti posti dal rapporto fra “chiesto” e “pronunciato”
appare arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio per
la declaratoria d’illegittimità della procedura, il giudice dell’ottemperanza
decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art.
42-bis: “Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso
giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere
restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece
all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la
sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito”.
Tale orientamento dubita della legittimità
costituzionale, rispetto all’art. 24 Cost., di tale risultato, dubbio che, al
contrario, può essere superato se si ritiene che l’unico obbligo scaturente
dalla sentenza è quello di restituire il bene.
Tale conclusione risulterebbe
ulteriormente confermata dalla maggiore incidenza economica che avrebbe
l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis: per cui
deve essere lasciata all’esclusiva valutazione dell’amministrazione la
ponderazione comparativa delle alternative possibili.
In conclusione, tale orientamento
giurisprudenziale ritiene che travalichi i poteri del commissario ad
acta l’adozione del provvedimento ex art. 42 bis,
in quanto ciò non rispecchierebbe il dispositivo di una sentenza volta a
dichiarare l’illegittimità del provvedimento espropriativo e a condannare
l’amministrazione alla restituzione del bene, per cui, stante l’onerosità
economica di tale procedimento, la scelta dovrebbe essere lasciata
all’amministrazione.
Con riguardo al rapporto tra ordine
restitutorio e potere sanante, invece, in una sentenza del 2011 è stato
applicato l’art. 42-bis in sede di ottemperanza ad un giudicato
restitutorio (ordinando all’amministrazione di valutare entro il termine
prefissato se acquisire), sul rilievo che in detta sede la giurisdizione di
merito consente di «tenere in debito conto le esigenze di interesse pubblico
che militano ... nel senso del provvisorio mantenimento» dell’opera pubblica
realizzata (cfr. Cons. St., sez. VI, 1.12.2011, n. 6351).
Tale diverso filone giurisprudenziale
ritiene, dunque, pienamente configurabile, fra i poteri del commissario ad
acta, la possibilità di agire ai sensi dell’art. 42-bisespropriazioni
(cfr Cons. St., Sez. VI, n. 6351 del 2011 cit.).
La VI^ Sezione di questo Consiglio, dopo
aver ripercorso le tappe che hanno condotto alla dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni e la copertura del vuoto
normativo tramite l’art. 42-bis, ha ritenuto conforme ai poteri del
commissario ad acta l’eventuale adozione del provvedimento di
acquisizione dell’immobile al patrimonio demaniale, con contemporanea
liquidazione dei danni e degli indennizzi previsti dalla norma.
Ritiene tale diverso orientamento,
difatti, che il commissario ad acta possa sostituirsi
all’amministrazione competente al fine di portare a compimento la procedura
espropriativa per il tramite del provvedimento di cui all’art 42-bis,
dando così rilievo ai poteri concessi al giudice amministrativo in sede di
ottemperanza.
E, infatti, che cosa accade se
l’amministrazione, come nel caso di specie, dinanzi ad una sentenza che assegna
un termine per (o “suggerisce”) la tempestiva adozione del provvedimento di cui
all’art. 42-bis, non ottempera e, anzi, continua a rimanere inerte e/o
silente?
Com’è noto, in sede di ottemperanza il
giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione inadempiente,
prescindendo dalla riserva amministrativa, sulla scorta di quanto indicato
nelle statuizioni passate in giudicato.
Il giudice, e per esso il commissario ad
acta, instaurerebbe, dunque, il procedimento previsto dall’art. 42-bis proprio
come conseguenza della declaratoria di illegittimità degli atti della procedura
espropriativa.
L’art. 42-bis, difatti, pone come
presupposto per la procedura di acquisizione nel patrimonio demaniale di un
bene utilizzato a scopi pubblici, l’invalidità del titolo con il quale è stato
occupato il terreno, procedura nella quale il commissario ad acta valuterà,
alla luce di tutti gli interessi in gioco, se il terreno debba essere acquisito
o meno.
Il commissario ad acta,
dunque, venuto meno il titolo espropriativo a seguito della caducazione degli
atti della procedura, pur tenendo in considerazione gli interessi del privato,
valuterà ex novo gli interessi in gioco, che portarono
l’amministrazione a determinarsi circa l’avvio della procedura espropriativa.
Secondo tale diverso orientamento, solo
tale tipo di impostazione renderebbe veramente satisfattiva la tutela
giurisdizionale del ricorrente ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.
Mantenere il proprietario, che ha visto
accolta la propria domanda di annullamento degli atti della procedura
espropriativa, in balia del comportamento dell’Amministrazione, la quale, anche
a seguito della formazione del giudicato, nonché del ricorso in ottemperanza,
continui a non ripristinare la situazione di legalità, lederebbe le legittime
aspettative del proprietario medesimo, il quale finirebbe per non ottenere
alcun tipo di tutela dall’esperimento dell’azione amministrativa.
Con tale tipo di impostazione, dunque, si
è inteso fornire una tutela sostanziale al proprietario, nel senso di impedire
che eventuali ulteriori dilazioni da parte dell’amministrazione
nell’adempimento della sentenza possano continuare a nuocere all’interessato,
con evidente perdita di efficacia dei poteri sostitutivi del giudice in sede di
ottemperanza e, conseguentemente, di quelli del commissario ad
acta nominato in tale sede.
Del resto, anche secondo l’orientamento
formatosi nel vigore dell’art. 43, l’atto di acquisizione sanante era
applicabile in sede di giudizio di ottemperanza (cfr. Cons. St., sez. IV,
03.09.2008 n. 4114).
Premesso che, nel caso di annullamento
giurisdizionale degli atti inerenti alla procedura di espropriazione per
pubblica utilità (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione di urgenza),
il proprietario può chiedere – mediante il giudizio di ottemperanza – la
restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per equivalente
monetario, anche se l’area è stata irreversibilmente trasformata a seguito
della realizzazione dell’opera pubblica, tale orientamento si poneva sulla scia
di quello a suo tempo autorevolmente tracciato dall’Adunanza Plenaria (cfr.
Cons. St., Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), secondo il quale sussiste la
possibilità per il proprietario di chiedere la restituzione dell’area - a
seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di p.u. -
anche se su di essa è stata realizzata un’opera pubblica con possibilità, per
la P.A., di evitare tale restituzione solo mediante un provvedimento di
acquisizione ex art. 43 d.P.R. n. 327/01.
Tale orientamento, invero, affermava che
l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento all’amministrazione per evitare
la restituzione dell’area a seguito dell’annullamento in s.g. della
dichiarazione di p.u., è l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di
acquisizione c.d. "sanante" ex art. 43 T.U.
espropriazioni per pubblica utilità, in assenza del quale l’Amministrazione
stessa non può addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale
causa di impossibilità oggettiva e, quindi, come impedimento alla restituzione.
Tale orientamento, in particolare,
riteneva che anche in sede di giudizio di ottemperanza trovasse applicazione la
disposizione dell’art. 43 che, in caso di apprensione e modifica di res
sine titulo o con titolo annullato, consentiva la possibilità di
neutralizzare la domanda di restituzione del bene solamente mediante l’adozione
di un atto formale preordinato all’ acquisizione del bene medesimo - con
corresponsione di quanto spettante a titolo risarcitorio - ovvero con la
speciale domanda giudiziale formulata nel giudizio in questione ai sensi dello
stesso articolo 43.
Tanto premesso, questo Collegio, peraltro,
non ignora che di recente le Sezioni Unite della Cassazione, con ordinanza
13.01.2014, n. 441, hanno rimesso alla Corte Costituzionale la questione di
legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 42 bis del
T.U. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001, sotto diversi profili.
Cionondimeno il Collegio ritiene,
tuttavia, che sia necessaria una pronuncia dell’Adunanza Plenaria in merito
alla questione che si intende sollevare, anche al fine di garantire il rispetto
del principio di effettività della tutela giurisdizionale e dell’autorità del
giudicato, e, pertanto, il presente ricorso viene deferito all’esame
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, co. 1,
c.p.a., al fine di comporre il contrasto giurisprudenziale sopra menzionato,
risolvendo il seguente quesito di diritto: se nella fase di ottemperanza - con
giurisdizione, quindi, estesa al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una
domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o
meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad
acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis cit..
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso
in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato.
Manda alla segreteria della sezione per
gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del
fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di
assistere all’Adunanza Plenaria.
Così deciso in Roma nella camera di
consiglio del giorno 25 febbraio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Riccardo Virgilio, Presidente
Nicola Russo, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
Leonardo Spagnoletti, Consigliere
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 03/07/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3,
cod. proc. amm.)