venerdì 11 luglio 2014

AFORISMI: chi cerca la verità (Albert Einstein)

AFORISMI: 
chi cerca la verità 
(Albert Einstein)




PROCESSO & APPALTI: è inammissibile il ricorso del concorrente già escluso che contesti, in un successivo giudizio, la gara (Cons. St., Sez. VI, sentenza 4 luglio 2014, n. 3393).


PROCESSO & APPALTI:
 è inammissibile il ricorso del concorrente
 già escluso che contesti, 
in un successivo giudizio, la gara 
(Cons. St., Sez. VI, 
sentenza 4 luglio 2014, n. 3393).


Un utile sunto delle Plenarie nn. 7/2011 e 9/2014 (e della pronuncia della Corte di Giustizia del 23 luglio 2013). 


Massima

1. Una volta accertato che un certo operatore economico è stato legittimamente escluso da una procedura di gara, il suo interesse c.d. "strumentale" alla ripetizione della gara medesima resta privo di quei caratteri di differenziazione e qualificazione che – soli – possono validamente supportare la proposizione dell’actio in sede giudiziaria, in tal modo qualificando il ridetto interesse come di mero fatto.
2. Ne consegue che va dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione attiva (e carenza d'interesse, atteso che all'annullamento non segue la necessaria riedizione della gara da parte della P.A.9, il ricorso del concorrente, già escluso in separato giudizio, che contesti la lex specialis deducendo motivi che, se accolti, determinerebbero il travolgimento dell'intera gara.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1890 del 2012, proposto da:
Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza s.p.a., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'avvocato Aristide Police, con domicilio eletto presso il medesimo difensore in Roma, via di Villa Sacchetti n. 11; 
contro
Università degli Studi di Parma, in persona del rettore e legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici domicilia in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
nei confronti di
Unicredit Banca s.p.a., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Zanetti e Maurizio Brizzolari, con domicilio eletto presso quest’ultimo difensore in Roma, via della Conciliazione, 44; 
Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a., non costituita in questo grado di giudizio; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA - SEZ. STACCATA DI PARMA: SEZIONE I n. 426/2011, resa tra le parti, concernente aggiudicazione definitiva e affidamento del servizio di tesoreria dell'Università di Parma alla Banca Popolare di Sondrio e risarcimento dei danni


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’ Università degli Studi di Parma e di Unicredit Banca s.p.a.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 10 giugno 2014, il consigliere di Stato Giulio Castriota Scanderbeg e uditi per le parti l’avvocato Police, l'avvocato dello Stato Paola Palmieri e l'avvocato Brizzolari;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1.- La Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza impugna la sentenza 9 dicembre 2011 n. 426 del Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia-Romagna, sede di Parma, che ha dichiarato inammissibile il ricorso dalla stessa proposto avverso l’iniziale aggiudicazione alla Banca Popolare di Sondrio della gara bandita dall’Università di Parma per l’affidamento del servizio di tesoreria nonché avverso il nuovo provvedimento (gravato con motivi aggiunti di primo grado) con cui l’Università, in esecuzione della sentenza di questo Consiglio di Stato 8 luglio 2011 n. 4122, ha affidato definitivamente alla Unicredit Banca s.p.a. il servizio di tesoreria dell’Ateneo.
L’appellante si duole dell’erroneità della gravata sentenza che, sull’assunto dell’accertata illegittimità della partecipazione alla gara di essa appellante (ormai definitivamente acclarata in forza del giudicato formatosi a seguito della richiamata sentenza di questa sezione n. 4122 del 2011), ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti di primo grado anche nella parte in cui gli stessi, deducendo vizi inficianti l’intero regolamento di gara, erano volti a far valere l’interesse strumentale della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza alla rinnovazione dell’intera procedura selettiva.
L’appellante insiste nel sostenere l’erronea lettura interpretativa, ad opera del giudice di primo grado, della portata della sentenza di questo Consiglio di Stato (Ad.plen., 7 aprile 2011 n. 4) sul carattere prioritario dell’esame del ricorso incidentale rispetto al ricorso principale, rilevando in particolare come la posizione giuridica di un operatore economico che abbia partecipato ad una gara d’appalto lo legittimerebbe senz’altro, anche ove fosse stata successivamente accertata, in via giudisdizionale, la sua illegittima partecipazione, alla proposizione di censure a carattere caducatorio dell’intero procedimento selettivo.
L’appellante reitera, pertanto, i motivi contenuti nel ricorso e nei motivi aggiunti di primo grado e ne chiede l’integrale accoglimento, con consequenziale annullamento della gara, in riforma della impugnata sentenza.
Si è costituita in giudizio l’Università degli studi di Parma per resistere all’appello e per chiederne la reiezione.
Si è altresì costituita per contrastare l’appello Unicredit Banca s.p.a..
Le parti hanno depositato memorie in vista dell’udienza di discussione.
All’udienza del 10 giugno 2014 la causa è stata trattenuta per la sentenza.
2.- L’appello va respinto.
3.- Va premesso in fatto, per una migliore comprensione della vicenda, che l’appalto per il conferimento del servizio di tesoreria per cui è giudizio, bandito dall’Università di Parma, ha visto la partecipazione di tre concorrenti, così graduati in esiti al procedimento selettivo:1) Banca Popolare di Sondrio; 2) Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza; 3) Unicredit Banca s.p.a..
Unicredit Banca s.p.a. ha impugnato l’esito della gara facendo valere vizi afferenti la illegittima partecipazione dei concorrenti primi graduati per non aver costoro prodotto, a corredo dell’offerta, l’impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia definitiva prevista dall’art. 75, comma 8 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Banca Polare di Sondrio aveva proposto ricorso incidentale, facendo valere l’illegittimità del bando di gara per non aver previsto le concrete modalità di prestazione della cauzione provvisoria di cui all’art. 75, comma 1, d.lgs. cit..
In accoglimento delle censure fatte valere in entrambi i ricorsi il Tribunale amministrativo dell’Emilia-Romagna con sentenza n. 41 del 2010 ha disposto l’annullamento.
Tale sentenza è stata impugnata con appello principale da BPS e da Unicredit con appello incidentale.
Con sentenza 8 luglio 2011 n. 4122 questa Sezione ha respinto l’appello principale di BPS ed ha accolto l’appello incidentale di Unicredit Banca, sull’assorbente rilievo secondo cui, accertata la illegittima partecipazione alla gara di BPS quest’ultima era sfornita di legittimazione a far valere censure caducanti l’intero procedimento di gara.
A seguito di tale sentenza l’Università di Parma ha revocato l’aggiudicazione a BPS ed ha affidato il servizio di tesoreria a Unicredit.
Con autonomo ricorso di primo grado gli esiti della gara erano stati impugnati in primo grado anche da Cariparma che, con motivi aggiunti, ha impugnato il nuovo affidamento a Unicredit.
Con la sentenza in questa sede impugnata il Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia-Romagna ha dichiarato la inammissibilità del ricorso di Cariparma per le medesime ragioni già ritenute da questa Sezione, nella richiamata sentenza n. 4122 del 2011, a proposito del ricorso incidentale di primo grado di BPS (cioè per difetto di legitimatio ad causam).
4.- Ciò premesso, la questione posta dall’appellante, sotto forma di censura all’impugnata sentenza che ha dichiarato la inammissibilità dei mezzi di primo grado, riguarda la ritornante questione della legittimazione ad impugnare gli esiti di una gara, eventualmente nella prospettiva di far valere vizi caducatori dell’intera procedura in vista della rinnovazione dell’appalto, di un concorrente di cui sia stata accertata l’illegittima partecipazione al procedimento selettivo. La particolarità del caso concreto è che detto accertamento circa l’illegittima partecipazione alla gara dell’odierna appellante, non forma oggetto del presente giudizio, ma è ricompreso nel giudicato formatosi nell’altra già richiamata causa, in cui sul ricorso di primo grado di Unicredit si è definitivamente accertato che né BPS né Cariparma avevano titolo per essere ammessi alla gara (per omessa produzione a corredo dell’offerta dell’impegno al rilascio della garanzia definitiva prevista dall’art. 75, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Secondo l’assunto della Cassa di Risparmio di Parma, l’accertamento dell’illegittima partecipazione alla gara di essa appellante non potrebbe far velo, sul piano della ricorrenza della condizioni dell’azione processuale, alla proponibilità di motivi afferenti l’illegittimità della lex specialis, il cui accoglimento travolgerebbe l’intera procedura di gara, ivi compresa la disposta aggiudicazione (gravata con motivi aggiunti di primo grado), a Unicredit Banca s.p.a..
Sul punto, l’appellante osserva che a tale soluzione non sarebbe neppure di ostacolo il giudicato riveniente dalla ricordata sentenza di questa Sezione n. 4122 del 2011 resa nell’appello di Banca Popolare di Sondrio (RG n. 1916/2010) posto che, in quella controversia, avviata in primo grado da Unicredit Banca s.pa., il qui dedotto motivo dell’illegittimità del bando per la mancata previsione del rilascio della cauzione provvisoria da parte di tutti gli offerenti non sarebbe stato esaminato (dal che nessun vincolo conformativo potrebbe riconnettersi al giudicato).
Inoltre, a parere dell’appellante, la conclusione circa la piena ammissibilità di un’azione processuale volta all’annullamento dell’intera procedura di gara per illegittima predisposizione del bando, non sarebbe incompatibile con le conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato con la sentenza 10 novembre 2008, n. 11 che, nell’affermare il principio di diritto dell’esame prioritario del ricorso incidentale escludente, non avrebbe con ciò conculcato la legittimazione di ogni operatore economico del settore (che abbia o meno partecipato alla gara) a impugnare un bando di gara per la illegittimità.
Tale conclusione, secondo la prospettazione dell’appellante, sarebbe peraltro la sola compatibile con il rispetto del principio costituzionale di difesa (art. 24 Cost.), oltre che con i principi dell’Unione europea in tema di parità delle parti, di giusto processo (come riconosciuti anche dall’art. 2 Cod. proc. amm.), di non discriminazione e di libera concorrenza in materia di appalti pubblici (secondo le previsioni della direttiva n. 89/665/CEE del 21 dicembre 1989).
Da tanto l’appellante fa discendere l’erroneità della gravata pronuncia che, come già detto, ha invece dichiarato l’inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti di primo grado proprio in applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui il concorrente legittimamente escluso da una gara d’appalto non è legittimato a far valere vizi caducatori dell’intera procedura selettiva.
La tesi dell’appellante, pur chiara e lineare nella sua costruzione, non appare condivisibile.
5.- Ritiene il Collegio che possano trovare qui piena conferma le osservazioni già esplicitate dalla sezione nella richiamata sentenza 8 luglio 2011, n. 4122, afferente la stessa gara per cui è giudizio.
Si osserva al riguardo che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato in tema di pubbliche gare (compendiato nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria 7 aprile 2011, n. 4 e, da ultimo, nella sentenza della stessa Adunanza plenaria n. 9 del 2014), va riconosciuta priorità, in sede di collocazione tassonomica dei motivi di ricorso, a quelli relativi al mancato possesso da parte del soggetto agente dei requisiti di partecipazione alla procedura.
L’orientamento prende le mosse dalla premessa sistematica secondo cui occorre conferire priorità di trattazione alle questioni di rito rispetto a quelle di merito, e fra le prime la priorità spetta all’esame circa la sussistenza dei presupposti processuali rispetto alle condizioni dell’azione.
Per quanto concerne, in particolare, queste ultime, un rilievo prioritario deve essere riconosciuto all’esame circa la sussistenza della legittimazione al ricorso (intesa, secondo un approccio tradizionale, come titolarità della posizione giuridica sostanziale dedotta in giudizio e al cui soddisfacimento è finalizzata la proposizione dell’azione giurisdizionale).
Al riguardo, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato con la richiamata sentenza n. 4 del 2011 ha chiarito che i motivi di censura finalizzati a determinare l’esclusione del concorrente dalla gara, riguardando la sussistenza di una condizione dell’azione (in particolare, la legitimatio ad causam) devono essere esaminati con rilievo prioritario, anche laddove il soggetto della cui esclusione si discute abbia a propria volta fatto valere in giudizio – come appunto nel caso in esame - il proprio interesse strumentale alla ripetizione dell’intera procedura.
6.- Tali conclusioni sono state vieppiù ribadite dalla recente sentenza della Adunanza plenaria 25 febbraio 2014, n. 9 che nell’affrontare ancora una volta il tema del rapporto tra ricorso incidentale e ricorso principale (anche alla luce del principio di diritto sul punto affermato nella sentenza della Corte di Giustizia U.E. 4 luglio 2013, in causa C 100/12) ha affermato in senso dirimente, per quel che in questa sede rileva, che non appare incompatibile con i principi del giusto processo, della parità delle parti, di non discriminazione e di libera concorrenza un sistema processuale che si assesti nel senso di consentire la preliminare verifica, in base alle censure dedotte in via incidentale, le condizioni dell’azione proposta in via principale, anche quando con il mezzo principale sia dedotta come causa petendi la pretesa alla rinnovazione dell’intera procedura. In tal senso, l’Adunanza plenaria ha condivisibilmente ristretto i casi (relegati al rango di eccezione, secondo una corretta interpretazione della sentenza Fastweb) in cui è necessario far luogo all’esame contestuale delle censure dedotte in via principale ed in via incidentale, facendoli coincidere con le ipotesi in cui sia ravvisabile l’identità del motivo escludente fatto reciprocamente valere dalle parti processuali antagoniste.
Al di fuori di tali ipotesi eccezionali di identità del motivo escludente reciprocamente introdotto in giudizio quale causa petendi (sul punto la sentenza della Adunanza plenaria, cui si fa espresso rinvio, contiene una approfondita disamina delle fattispecie che possono dar luogo, a seconda della fase procedimentale cui si riferiscono i vizi dedotti, a tale particolare situazione processuale), in cui occorre far luogo all’esame al contestuale esame dei motivi vicendevolmente articolati, ben può trovare applicazione la regola generale dell’esame prioritario del ricorso incidentale che, ove fondato, sia tale da provare la carenza di legittimazione ad agire del ricorrente principale.
7.- Ne consegue che in applicazione di tali condivisibili principi, correttamente nel caso in esame il giudice di primo grado ha ritenuto sfornita di legitimatio ad causam l’odierna appellante, essendo stato definitivamente accertato il difetto del requisito partecipativo relativo all’omessa dichiarazione dell’impegno a prestare fideiussione definitiva.
Quanto ai dubbi, sollevati dal difensore dell’appellante, riguardo alla compatibilità costituzionale o comunitaria di tale soluzione processuale ed al conseguente vulnus al diritto di difesa ed al principio di effettività della tutela riservata agli interessi legittimi facenti capo operatore economico che ha comunque partecipato alla gara, il Collegio si limita ad osservare che tali dubbi trovano compiuta risposta nella già richiamata sentenza della Ad. plen. n. 9 del 2014 (alla cui motivazione si rinvia) in cui, nell’affermata autonomia dei sistemi processuali nazionali, viene fatta salva la scelta di riservare al giudicante l’ordine di esame dei motivi di ricorso (principale ed incidentale) nel rispetto del principio di parità delle parti.
Peraltro, nella citata sentenza della Adunanza plenaria n. 9 del 2014 si rinviene ulteriore argomento per inferire che, nel caso di specie, oltre alla legittimazione, difetterebbe anche l’interesse al ricorso in capo all’odierna appellante in relazione al dedotto motivo integralmente annullatorio, posto che il ricorrente principale è privo della capacità, per le anzi dette ragioni, di risultare aggiudicatario della specifica gara cui ha in concreto partecipato, di tal che il suo interesse a che l’Amministrazione indica una nuova gara, mutandone termini e condizioni (come appunto nella specie, in cui la Cassa di Risparmio appellante chiede in sostanza la modifica del bando e l’inserzione di una clausola esplicativa delle concrete modalità di prestazione della cauzione provvisoria), si rivela privo degli ineludibili caratteri dell’attualità e della concretezza in quanto la stazione appaltante non ha un obbligo di tal fatta anche in presenza dell’annullamento di tutti gli atti della procedura, sicché tale pretesa si rivela per quello che è, ovvero, una mera speranza al riesercizio futuro ed eventuale del potere amministrativo, inidonea a configurare l’interesse ad agire (Ad. plen., cit.).
8.- Impostati in tale modo i termini concettuali della questione, ne consegue che una volta confermata la intangibilità (e comunque la correttezza nel merito) della richiamata sentenza n. 4122 del 2011, per la parte in cui ha sancito la carenza di un requisito di partecipazione in capo alla odierna appellante, tale società deve essere considerata, anche ai fini processuali, quale soggetto effettivamente privo di un necessario requisito di legittimazione al ricorso.
Non può giungersi a conclusioni diverse in base al rilievo per cui la Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza s.p.a. vantasse quanto meno un interesse strumentale alla caducazione (e successiva ripetizione) della gara. Al riguardo, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato ha chiarito che alla carenza di legittimazione al ricorso l’operatore economico non può supplire (se non in ipotesi eccezionali che qui non ricorrono) allegando la propria qualificazione soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara (ovvero, secondo una terminologia largamente invalsa nella pratica, un mero ‘interesse strumentale’ alla ripetizione della stessa).
In definitiva, come correttamente osservato nella impugnata sentenza, una volta accertato che un certo operatore economico è stato legittimamente escluso dalla procedura di gara, il suo interesse alla ripetizione della gara medesima resta privo di quei caratteri di differenziazione e qualificazione che – soli – possono validamente supportare la proposizione dell’actio in sede giudiziaria, in tal modo qualificando il ridetto interesse come di mero fatto.
9.- Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello nel suo insieme va respinto, stante la corretta declaratoria di inammissibilità, da parte del Tribunale amministrativo del ricorso e dei motivi aggiunti di primo grado.
10.- Le spese del presente grado di giudizio seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull'appello (R.G. n. 1890/12), come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza s.p.a. al pagamento delle spese e degli onorari del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 3.000,00 (tremila/00), oltre iva e cpa se dovuti, in favore dell’Università degli Studi di Parma ed in complessivi euro 3.000,00 (tremila/00), oltre iva e cpa se dovuti, in favore della società Unicredit Banca s.p.a..
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 giugno 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Vito Carella, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/07/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


giovedì 10 luglio 2014

ADUNANZE PLENARIE: sul potere del giudice d'ottemperanza e del commissario "ad acta" di emanare il provvedimento "ex" art. 42 "bis" del d.P.R. n. 327/2001 (Cons. St., Sez. IV, ordinanza 3 luglio 2014, n. 3347)


ADUNANZE PLENARIE:
 sul potere del giudice d'ottemperanza
 e del commissario "ad acta" 
di emanare il provvedimento 
"ex" art. 42 "bis" del d.P.R. n. 327/2001 
(Cons. St., Sez. IV,
ordinanza 3 luglio 2014, n. 3347).


Quesito di diritto

Se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione, quindi, estesa al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis del T.U. n. 327/2001 (c.d. acquisizione provvedimentale).


Ordinanza per esteso


INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA
sul ricorso numero di registro generale 7071 del 2013, proposto da:

Carmela Marraffa, rappresentata e difesa dall'avv. Carlo Caniglia, con domicilio eletto presso Segreteria Sezionale del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;

contro
Comune di Villa Castelli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giovanni Pomarico, con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE I n. 00383/2013, resa tra le parti, concernente reclamo avverso provvedimento di acquisizione sanante emesso dal commissario ad acta.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Villa Castelli;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2014 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati Caniglia e Pomarico;

Con ricorso notificato il 13 settembre 2013 e depositato il 30 settembre successivo la sig.ra Carmela Marraffa propone appello per ottenere la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sez. I, 21 febbraio 2013, n. 383/2013.
La sentenza impugnata ha respinto il reclamo n.r.g. 1309/2011, proposto dall’odierna appellante, avverso il decreto di esproprio del commissario ad acta nominato dal medesimo Tribunale con precedente sentenza 24 maggio 2012 n. 928.
Va premessa una breve ricostruzione dei fatti riguardanti l’odierna vicenda contenziosa.
La sig.ra Marraffa, nella sua qualità di proprietaria di un terreno sito nell’agro del Comune di Villa Castelli, ricadente nella zona Gravina, subiva l’occupazione del proprio terreno per la realizzazione di lavori di restauro ambientale e di sistemazione a verde della gravina esistente, disposti sulla base di un progetto approvato con delibera GM n. 372 del 13.06.1997, che ne decretava la pubblica utilità.
In particolare l’occupazione di urgenza veniva disposta con decreto n. 3351 del 19.04.1999 e a seguito di essa venivano realizzate le opere de quibus, con conseguente trasformazione dell’area.
All’occupazione non faceva seguito alcun formale decreto di esproprio.
L’odierna appellante, dunque, proponeva ricorso di fronte il TAR Puglia - sez. Lecce al fine di ottenere la restituzione dell’immobile illegittimamente detenuto, salva l’ipotesi di un provvedimento ai sensi dell’allora vigente art. 43 t.u. n. 327/01.
Con sentenza n. 3342/2008 il giudice di prime cure accoglieva il ricorso e, riconoscendo la sopravvenuta illegittimità dell’occupazione a seguito del mancato completamento del procedimento ablatorio, ordinava all’amministrazione di completare tale procedimento ovvero di restituire il bene alla ricorrente, salvo in ogni caso il diritto al risarcimento dei danni.
In particolare il Tribunale offriva tre opzioni per eseguire tale comando giudiziale: il raggiungimento entro sessanta giorni di un accordo fra le parti con il quale trasferire la proprietà del bene in capo alla p.a.; se tale accordo non fosse stato raggiunto, nei successivi sessanta giorni, il Comune avrebbe dovuto emanare un motivato decreto di acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 43 t.u. espropriazioni; la restituzione, infine, del bene alla proprietaria, salvo in tutti i casi il risarcimento dei relativi danni, che avrebbero dovuto essere quantificati tenuto conto dei criteri legali, della data dalla quale è configurabile l’illecito permanente, della destinazione urbanistica dell’area in questione e di ogni altra circostanza di fatto significativa.
Concludeva il Tribunale con formula di rito, con la quale rendeva edotta la sig.ra Marraffa della possibilità di agire per l’esecuzione della sentenza di fronte al medesimo TAR, qualora il Comune non avesse provveduto nei termini stabiliti ad accordarsi ovvero ad adottare un atto formale volto alla restituzione o all’acquisizione dell'area.
Il Comune non prestava adempimento nei termini e nelle modalità indicati in sentenza e successivamente la sig.ra Marraffa proponeva ricorso presso lo stesso TAR Puglia, sezione staccata di Lecce per chiedere la corretta esecuzione della stessa.
Con sentenza 2 ottobre 2009 n. 2241, il TAR di Lecce, accogliendo il ricorso della sig.ra Marraffa, ordinava all’Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza n. 3342/2008 nel termine ultimativo di quarantacinque giorni.
Il Comune rimaneva ulteriormente inadempiente e la proprietaria adiva nuovamente il TAR di Lecce al fine di sentire nuovamente condannare il Comune all’esecuzione della sentenza, con richiesta di nomina di un commissario ad acta.
Il TAR Lecce, con sentenza 24 maggio 2012 n. 928 accoglieva il nuovo ricorso della sig.ra Marraffa, ritenendo priva di fondamento la tesi del Comune, relativa ad una mancanza di responsabilità dello stesso per mancato raggiungimento dell’accordo, e ordinava all’Amministrazione di ottemperare alla sentenza n. 3342/2008 nel termine di sessanta giorni o attraverso l’emanazione del decreto di acquisizione e il pagamento della somma corrispondente al valore attuale del bene nonché di una somma pari al ventesimo del valore del bene (determinato tenendo conto a ritroso degli indici di svalutazione dei beni al consumo) per ogni anno successivo alla scadenza della legittima occupazione, o la restituzione del bene e il contestuale pagamento delle somme compensative del danno arrecato e arrecando con la sottrazione del bene al proprietario per tutto il periodo passato e futuro di illegittima occupazione (pari al ventesimo del valore del bene anno per anno, determinato tenendo conto, per il passato e per il futuro, degli indici di svalutazione dei beni al consumo).
Provvedeva a nominare quale commissario ad acta l’ing. Raffaele Dell’Anna, nel caso in cui l’Amministrazione non avesse dato tempestiva esecuzione alla sentenza.
Con successivo reclamo la sig.ra Marraffa impugnava di fronte al TAR di Lecce il decreto di esproprio del 10 settembre 2012, assunto dal commissario ad acta nominato dal medesimo Tribunale con sentenza n. 928/2012.
Il TAR con sentenza 21 febbraio 2013 n. 383 rigettava il reclamo, ritenendo che l’atto erroneamente nominato decreto di esproprio dovesse essere qualificato più propriamente quale acquisizione sanante ai sensi dell’art. 43, oggi 42 bis, del D.P.R. n. 327/2001.
Il Tribunale, dunque, affrontava la tematica relativa ai poteri del commissario ad acta, il quale, a parere del TAR, è titolare di un potere che trova diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione, con la conseguenza che detto organo può adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi in concreto idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita cui aspira.
Alla luce di quanto esposto il TAR riteneva legittimo il comportamento del commissario ad acta, il quale, dunque, non  avrebbe avuto bisogno di acquisire preventivamente alcun parere, né da parte del ricorrente, né tanto meno del Comune.
Reputava, infine, infondata la censura relativa alla quantificazione del risarcimento del danno, stante la non edificabilità dell’area e l’utilizzabilità in proposito della determinazione effettuata dall’Agenzia del Territorio, che, pur non potendosi considerare atto idoneo alla concreta esecuzione del giudicato, ben poteva essere utilizzata ai fini dell’accertamento del valore dell’area.
Con ricorso n.r.g. 7071/2013 la sig.ra Marraffa propone appello avverso tale ultima sentenza del TAR Lecce lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 114, comma 4, lett. d), commi 6 e 7 c.p.a., per essersi il commissario ad acta sostituito all’amministrazione, oltrepassando i limiti dei poteri conferitigli dal giudicato, adottando un decreto di esproprio senza previamente acquisire la volontà dell’amministrazione e sostituendosi in toto a quest’ultima.
Con secondo motivo lamenta la contraddittorietà della motivazione, per avere la stessa, da un lato, considerato la stima dell’Agenzia del Territorio come non idonea a integrare una vera e propria esecuzione del giudicato, mentre, dall’altro lato, la considerava strumento idoneo per la determinazione del valore dell’area.
Chiede, inoltre, la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, che questa Sezione, con ordinanza n. 4028/2013, non ha concesso, in considerazione dell’assenza dei presupposti.
Successivamente si è costituito il Comune di Villa Castelli, che contesta tutto quanto sostenuto da parte appellante, affermando che il commissario ad actaavrebbe agito nel rispetto dei poteri conferitigli dalla sentenza, alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio, per la quale il commissario ad acta è legittimato, anche al di fuori delle norme che governano l’azione ordinaria degli organi amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi in concreto idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita di cui è riconosciuto titolare dalla sentenza (cfr. Cons. St., sez. V, 1 marzo 2012, n. 1194 e Cons. St., sez. III, 7 giugno 2013, n. 3124).
Eccepisce, inoltre, l’infondatezza del secondo motivo di ricorso relativo alla contraddittorietà della motivazione, sostenendo che la sentenza n. 928/2012, resa in primo grado fra le parti, comandava all’amministrazione di liquidare il danno subito dalla ricorrente sulla base del valore venale del bene e, pertanto, correttamente, il commissario ad acta ha utilizzato la stima effettuata dall’Agenzia del Territorio di Brindisi.
Alla camera di consiglio del 25 febbraio 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dalla sig.ra Marraffa avverso la sentenza con cui il Tar Puglia, sezione distaccata di Lecce, ha respinto il reclamo proposto avverso gli atti posti in essere dal commissario ad acta.
Il Collegio rinviene al riguardo un contrasto giurisprudenziale in ordine alla quaestio iuris se il commissario ad acta, nominato in sede di ottemperanza alla sentenza, possa ordinare la conclusione del procedimento di cui all’art. 42-bis T.U. sulle espropriazioni (8 giugno 2001 n. 327) o se tale tipo di provvedimento sia di appannaggio esclusivo dell’Amministrazione.
Occorre prendere le mosse dall’art. 42 bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327 (cd. “t.u. espropriazione”), recante la disciplina della cd. acquisizione sanante, inserito dall’art. 34 d.l. 6.7.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella l. 15.7.2011, n. 111, che ha colmato il vuoto lasciato a seguito della declaratoria di incostituzionalità del previgente art. 43, e che è stato oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale relativo, in particolare, all’ampiezza dei poteri decisori del g.a. investito di una controversia concernente l’occupazione illegittima o senza titolo di un bene e la relativa trasformazione.
Chiarita la natura di illecito permanente dell’occupazione e trasformazione di un bene da parte della p.a. in assenza di valido titolo, la giurisprudenza afferma che l’obbligo restitutorio della p.a. può venire meno solo per effetto dell’esercizio del potere acquisitivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.8.2012, n. 4650).
Tale orientamento della Sezione conferma il principio, già affermato con precedenti sentenze (30 gennaio 2006, n. 290; 7 aprile 2010 n. 1983), secondo cui l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
Infatti, partendo dall’esame della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve ritenersi che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza Cedu 30 maggio 2000, ric. 31524/96).
Nella sentenza citata, la Corte ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
Ne discende che, nelle more dell’introduzione del nuovo art. 42-bis e dopo l’annullamento per illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, la giurisprudenza di questa Sezione ha affermato che è obbligo primario dell’amministrazione procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.
Muovendo da tale principio la Sezione ha, anzitutto, ribadito l’applicabilità dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore, richiamando le coordinate interpretative in precedenza fornite. In particolare, è richiamata la sentenza n. 1514 del 16 marzo 2012, in cui la Sezione ha precisato che “l’art. 42 bis, pur facendo salvo il potere di acquisizione sanante in capo alla P.A. non ripropone lo schema processuale previsto dal comma 2 dell’originario art. 43, che attribuiva all’amministrazione la facoltà e l’onere di chiedere la limitazione alla sola condanna risarcitoria, ed al giudice il potere di escludere senza limiti di tempo la restituzione del bene, con il corollario dell’obbligatoria e successiva emanazione dell’atto di acquisizione”. In quella occasione la Sezione ha evidenziato che il potere discrezionale dell’amministrazione di disporre l’acquisizione sanante è conservato: l’art. 42-bis infatti regola i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria e processo amministrativo di annullamento, in termini di autonomia, consentendo l’emanazione del provvedimento dopo che “sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio” od anche, “durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti citati, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira”.
In conclusione, dalla giurisprudenza fin qui richiamata, si possono dedurre le seguenti massime:
1. L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
2. La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
3. Nelle more dell’introduzione del nuovo art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, e dopo l’annullamento per illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, sussiste l’obbligo primario dell’amministrazione di procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta, fermo restando il potere dell’amministrazione di valutare l’attivazione di quanto previsto dal citato art. 42-bis.
Dichiarato, dunque, nel 2010 l’art. 43 costituzionalmente illegittimo (C. cost., 8.10.2010, n. 293), per eccesso di delega, il vuoto normativo è stato, quindi, colmato nel 2011, con l’inserimento nel t.u. espropriazioni dell’art. 42 bis, recante una disciplina parzialmente diversa rispetto alla precedente.
L’art. 43, oltre a prevedere l’acquisizione amministrativa, disposta sulla base di un provvedimento adottato dalla p.a., ai co. 3 e 4, disciplinava l’acquisizione giudiziaria, riguardante le ipotesi in cui la p.a., nel corso del giudizio per l’annullamento di un atto del procedimento ablatorio o per la restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, avesse chiesto al giudice di escludere la restituzione, riconoscendo in entrambi i casi al proprietario inciso il diritto al «risarcimento» del danno.
Diversamente, l’art. 42-bis riconosce, in luogo del risarcimento del danno, un «indennizzo» per il pregiudizio subito. Inoltre, se da un lato è confermata la possibilità di ricorrere all’acquisizione anche «quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio» (co. 2), dall’altro non è riprodotta l’acquisizione giudiziaria: l’eliminazione è compensata dall’espressa previsione che l’acquisizione può essere adottata «anche durante la pendenza di un giudizio» per l’annullamento degli atti inerenti alla procedura espropriativa. Al rischio che il provvedimento acquisitivo possa divenire rimedio ordinario alternativo alla procedura di esproprio, viene fatto fronte attraverso un aggravio dell’onere motivazionale, richiedendosi che il provvedimento sia «specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione» (co. 4).
Tanto premesso, il dibattito, in particolare, si è sviluppato intorno ai poteri decisori del g.a., qualora la domanda avanzata in via principale concerna il risarcimento per equivalente del danno commisurato alla perdita della proprietà, discutendosi se il giudice - specie alla luce del testo dell’art. 42-bis che non riproduce la c.d. acquisizione giudiziaria ed esalta il carattere eccezionale del potere acquisitivo, esercitabile sulla base di rigorose valutazioni di prevalente interesse pubblico - possa condannare la p.a. ad acquisire o ad avviare il procedimento di acquisizione.
Questa Sezione, con la sentenza 16.3.2012, n. 1514, a fronte di un petitum rappresentato dalla domanda di risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene e, in subordine, di restitutio, ha riconosciuto in capo al g.a. il potere di condannare la p.a. ad avviare il procedimento acquisitivo (ferma la discrezionale valutazione in ordine agli interessi in conflitto), tramite un’interpretazione sistematica dell’art. 42-bis e valorizzando il potere di condanna atipico del g.a. di cui all’art. 34 c.p.a.
Secondo l’orientamento prevalente, la realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è un mero fatto, inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà ed integrante un illecito permanente (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.8.2011, n. 4833).
Ne consegue, che il legittimo proprietario ha diritto alla restituzione, previa riduzione in pristino stato: l’affermazione categorica presuppone l’inquadramento della restituzione del bene nella tutela ripristinatoria (cfr. Cons. St., sez. VI, 31.5.2008, n. 2622), anziché in quella risarcitoria in forma specifica (cfr. Cons. St., sez. IV, 15.9.2010, n. 6862), che sarebbe soggetta al limite della non eccessiva onerosità ex art. 2058 c.c., oltre a richiedere i presupposti dell’illecito. Inoltre, la trasformazione dell’area occupata non può essere addotta dalla p.a. come causa di impossibilità oggettiva e di impedimento alla restituzione ed il pregiudizio all’economia nazionale derivante dalla distruzione della cosa, ex art. 2933 c.c., può essere invocato nelle ipotesi in cui l’area sia interessata da un’opera di rilievo non meramente locale (cfr. Cons. St., sez. VI, 13.6.2011 n. 3561; Cass., sez. I, 23 agosto 2012, n. 14609).
Ulteriore premessa implicita nell’iter argomentativo dell’orientamento giurisprudenziale in rassegna è che non è possibile connettere l’estinzione del diritto di proprietà del privato all’unilaterale volontà di questo di abdicare al proprio diritto, volontà che la giurisprudenza della Cassazione in materia di occupazione usurpativa (cfr. Cass., S.U., 6.5.2003, n. 6853) ha, invece, giudicato implicita nella richiesta del proprietario di liquidazione del danno commisurato alla perdita della proprietà. Tale conclusione, infatti, si porrebbe in contrasto sia con l’esigenza di tutela della proprietà, sia con i principi civilistici, oltre con il tenore degli artt. 43 e 42-bis cit., che riservano l’acquisizione ad una decisione discrezionale della p.a. (cfr. Cons. St., sez. IV, 28.1.2011, n. 676).
In tale contesto l’art. 42 bis (applicabile anche a fatti anteriori ai sensi del co. 8), (cfr. sent. n. 1514/2012 cit.), prevede espressamente che il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti ablatori e non ripropone invece «lo schema processuale previsto dal comma 3 dell’art. 43» sull’acquisizione giudiziaria. Tale espunzione ha una conseguenza: «l’eliminazione della descritta facoltà inibisce, sul piano processuale, l’emersione dell’interesse pubblico all’acquisizione dell’immobile, sia pur in sanatoria, dovendo del resto escludersi che l’interesse, pur dedotto ed argomentato dalla difesa dell’amministrazione nelle proprie memorie, costituisca o possa costituire (venuta meno la peculiare norma di cui al 43, co. 3) oggetto e frutto di quella ponderata valutazione degli “interessi in conflitto” che il legislatore demanda esclusivamente all’amministrazione nell’ambito della naturale sede procedimentale». L’art. 42-bis regola unicamente i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione e processo amministrativo di annullamento e li regola in termini di autonomia, consentendo l’adozione del provvedimento anche dopo l’annullamento di un atto della procedura ablatoria ed anche «durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti citati». In difetto di esercizio del potere di acquisizione, l’ordine di restituire il bene (in accoglimento della domanda restitutoria avanzata in via subordinata e trattata in conseguenza del rigetto di quella risarcitoria per la persistente titolarità della proprietà in capo all’originario proprietario), «eliderebbe irrimediabilmente il potere sanante dell’amministrazione (salva ovviamente l’autonoma volontà transattiva delle parti) con conseguente frustrazione degli obiettivi avuti a riferimento dal legislatore».
Tuttavia, secondo l’orientamento citato, «i principi derivanti dall’interpretazione sistematica delle norme citate e le possibilità insite nel principio di atipicità delle pronunce di condanna, ex art. 34 lett. c c.p.a., impongono allora una limitazione della condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42 bis», «impregiudicata la discrezionale valutazione in ordine agli interessi in conflitto», in esito alla quale la p.a. potrà scegliere se restituire l’immobile previo ripristino o disporne l’acquisizione.
La sentenza n. 1514/2012 cit., inoltre, esclude che dopo un giudicato restitutorio possa essere esercitato il potere di acquisizione.
Tuttavia, l’art. 42-bis non individua un limite temporale per l’esercizio del potere di acquisizione. Vigente l’art. 43 la questione aveva dato luogo a opposti orientamenti: secondo un primo orientamento, l’acquisizione è idonea a porre nel nulla l’eventuale precedente condanna giudiziale a restituire il bene, poiché «la restituzione … è la conseguenza dell’accertamento della proprietà dei beni e non implica effetti costitutivi» (cfr. Cons. St., sez. V, 11.5.2009, n. 2877); secondo altro orientamento, invece, il potere acquisitivo non può essere esercitato in presenza di un giudicato che riconosca il diritto alla restituzione, mentre può essere applicato qualora siano intervenute sentenze del g.a. meramente demolitorie degli atti espropriativi (Cons. St., sez. IV, 17.2.2009, n. 915).
Gli orientamenti in questione - il primo criticabile per il contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, il secondo perché omette di considerare l’effetto ripristinatorio proprio del giudicato di annullamento - necessitano di un aggiornamento alla luce del c.p.a., che la sentenza n. 1514 del 2012 sembra, invece, non trascurare: gli artt. 30 e 34 c.p.a. configurano un potere di condanna atipico del g.a., consentendo di esplicitare già in esito al giudizio di cognizione la portata conformativa e ripristinatoria del giudicato, incluso l’ordine di restituire il bene occupato sine titulo. Poiché detto ordine escluderebbe il successivo esercizio del potere acquisitivo, l’orientamento in questione, sensibile alla rilevanza del pubblico interesse e tenuto conto del co. 2 dell’art. 42-bis che ammette il potere acquisitivo anche dopo l’annullamento degli atti del procedimento ablatorio, ha limitato la condanna all’obbligo generico di avviare il procedimento acquisitivo, ferma restando la discrezionalità della p.a. nello scegliere se acquisire o meno il bene.
I profili problematici, tuttavia, non sembrano compiutamente risolti.
I principi elaborati dalla sentenza n. 1514 del 2012 cit., non sono affatto consolidati. Altre sentenze, infatti, interpretano l’espunzione dell’acquisizione giudiziaria e l’aggravamento dell’onere motivazionale per quella amministrativa come espressione della volontà legislativa di assicurare al proprietario la restituzione in pristino, salvo il ricorso eccezionale all’acquisizione sulla base di rigorose valutazioni di prevalente interesse pubblico, valutazioni queste che però sarebbero «interdette al giudicante», che altrimenti invaderebbe un’area di amministrazione attiva.
Con riguardo alla vicenda in esame, deve dirsi che si registra un contrasto giurisprudenziale proprio in ordine ai poteri del commissario ad acta nella conclusione del procedimento espropriativo avuto riguardo all’art. 42-bis T.U. sulle espropriazioni.
Un primo orientamento, confluito nelle sentenze di questa Sezione, nn. 1222 e 1344 del 2014, ritiene che il commissario ad acta non possa provvedere a norma dell’art. 42-bis T.U. espropriazioni.
Il ragionamento posto a fondamento di queste sentenze si radica sul presupposto che la sentenza da ottemperare sia a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo.
Nel particolare caso di illegittimità della procedura la domanda del ricorrente è posta al fine di ottenere la demolizione degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui consegue l’annullamento della procedura e il contestuale riconoscimento della mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo della restituzione del bene illegittimamente sottratto.
La giurisprudenza in questione specifica che alla luce dei limiti posti dal rapporto fra “chiesto” e “pronunciato” appare arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio per la declaratoria d’illegittimità della procedura, il giudice dell’ottemperanza decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art. 42-bis: “Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito”.
Tale orientamento dubita della legittimità costituzionale, rispetto all’art. 24 Cost., di tale risultato, dubbio che, al contrario, può essere superato se si ritiene che l’unico obbligo scaturente dalla sentenza è quello di restituire il bene.
Tale conclusione risulterebbe ulteriormente confermata dalla maggiore incidenza economica che avrebbe l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis: per cui deve essere lasciata all’esclusiva valutazione dell’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative possibili.
In conclusione, tale orientamento giurisprudenziale ritiene che travalichi i poteri del commissario ad acta l’adozione del provvedimento ex art. 42 bis, in quanto ciò non rispecchierebbe il dispositivo di una sentenza volta a dichiarare l’illegittimità del provvedimento espropriativo e a condannare l’amministrazione alla restituzione del bene, per cui, stante l’onerosità economica di tale procedimento, la scelta dovrebbe essere lasciata all’amministrazione.
Con riguardo al rapporto tra ordine restitutorio e potere sanante, invece, in una sentenza del 2011 è stato applicato l’art. 42-bis in sede di ottemperanza ad un giudicato restitutorio (ordinando all’amministrazione di valutare entro il termine prefissato se acquisire), sul rilievo che in detta sede la giurisdizione di merito consente di «tenere in debito conto le esigenze di interesse pubblico che militano ... nel senso del provvisorio mantenimento» dell’opera pubblica realizzata (cfr. Cons. St., sez. VI, 1.12.2011, n. 6351).
Tale diverso filone giurisprudenziale ritiene, dunque, pienamente configurabile, fra i poteri del commissario ad acta, la possibilità di agire ai sensi dell’art. 42-bisespropriazioni (cfr Cons. St., Sez. VI, n. 6351 del 2011 cit.).
La VI^ Sezione di questo Consiglio, dopo aver ripercorso le tappe che hanno condotto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni e la copertura del vuoto normativo tramite l’art. 42-bis, ha ritenuto conforme ai poteri del commissario ad acta l’eventuale adozione del provvedimento di acquisizione dell’immobile al patrimonio demaniale, con contemporanea liquidazione dei danni e degli indennizzi previsti dalla norma.
Ritiene tale diverso orientamento, difatti, che il commissario ad acta possa sostituirsi all’amministrazione competente al fine di portare a compimento la procedura espropriativa per il tramite del provvedimento di cui all’art 42-bis, dando così rilievo ai poteri concessi al giudice amministrativo in sede di ottemperanza.
E, infatti, che cosa accade se l’amministrazione, come nel caso di specie, dinanzi ad una sentenza che assegna un termine per (o “suggerisce”) la tempestiva adozione del provvedimento di cui all’art. 42-bis, non ottempera e, anzi, continua a rimanere inerte e/o silente?
Com’è noto, in sede di ottemperanza il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione inadempiente, prescindendo dalla riserva amministrativa, sulla scorta di quanto indicato nelle statuizioni passate in giudicato.
Il giudice, e per esso il commissario ad acta, instaurerebbe, dunque, il procedimento previsto dall’art. 42-bis proprio come conseguenza della declaratoria di illegittimità degli atti della procedura espropriativa.
L’art. 42-bis, difatti, pone come presupposto per la procedura di acquisizione nel patrimonio demaniale di un bene utilizzato a scopi pubblici, l’invalidità del titolo con il quale è stato occupato il terreno, procedura nella quale il commissario ad acta valuterà, alla luce di tutti gli interessi in gioco, se il terreno debba essere acquisito o meno.
Il commissario ad acta, dunque, venuto meno il titolo espropriativo a seguito della caducazione degli atti della procedura, pur tenendo in considerazione gli interessi del privato, valuterà ex novo gli interessi in gioco, che portarono l’amministrazione a determinarsi circa l’avvio della procedura espropriativa.
Secondo tale diverso orientamento, solo tale tipo di impostazione renderebbe veramente satisfattiva la tutela giurisdizionale del ricorrente ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.
Mantenere il proprietario, che ha visto accolta la propria domanda di annullamento degli atti della procedura espropriativa, in balia del comportamento dell’Amministrazione, la quale, anche a seguito della formazione del giudicato, nonché del ricorso in ottemperanza, continui a non ripristinare la situazione di legalità, lederebbe le legittime aspettative del proprietario medesimo, il quale finirebbe per non ottenere alcun tipo di tutela dall’esperimento dell’azione amministrativa.
Con tale tipo di impostazione, dunque, si è inteso fornire una tutela sostanziale al proprietario, nel senso di impedire che eventuali ulteriori dilazioni da parte dell’amministrazione nell’adempimento della sentenza possano continuare a nuocere all’interessato, con evidente perdita di efficacia dei poteri sostitutivi del giudice in sede di ottemperanza e, conseguentemente, di quelli del commissario ad acta nominato in tale sede.
Del resto, anche secondo l’orientamento formatosi nel vigore dell’art. 43, l’atto di acquisizione sanante era applicabile in sede di giudizio di ottemperanza (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.09.2008 n. 4114).
Premesso che, nel caso di annullamento giurisdizionale degli atti inerenti alla procedura di espropriazione per pubblica utilità (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione di urgenza), il proprietario può chiedere – mediante il giudizio di ottemperanza – la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per equivalente monetario, anche se l’area è stata irreversibilmente trasformata a seguito della realizzazione dell’opera pubblica, tale orientamento si poneva sulla scia di quello a suo tempo autorevolmente tracciato dall’Adunanza Plenaria (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), secondo il quale sussiste la possibilità per il proprietario di chiedere la restituzione dell’area - a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di p.u. - anche se su di essa è stata realizzata un’opera pubblica con possibilità, per la P.A., di evitare tale restituzione solo mediante un provvedimento di acquisizione ex art. 43 d.P.R. n. 327/01.
Tale orientamento, invero, affermava che l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento all’amministrazione per evitare la restituzione dell’area a seguito dell’annullamento in s.g. della dichiarazione di p.u., è l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione c.d. "sanante" ex art. 43 T.U. espropriazioni per pubblica utilità, in assenza del quale l’Amministrazione stessa non può addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e, quindi, come impedimento alla restituzione.
Tale orientamento, in particolare, riteneva che anche in sede di giudizio di ottemperanza trovasse applicazione la disposizione dell’art. 43 che, in caso di apprensione e modifica di res sine titulo o con titolo annullato, consentiva la possibilità di neutralizzare la domanda di restituzione del bene solamente mediante l’adozione di un atto formale preordinato all’ acquisizione del bene medesimo - con corresponsione di quanto spettante a titolo risarcitorio - ovvero con la speciale domanda giudiziale formulata nel giudizio in questione ai sensi dello stesso articolo 43.
Tanto premesso, questo Collegio, peraltro, non ignora che di recente le Sezioni Unite della Cassazione, con ordinanza 13.01.2014, n. 441, hanno rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 42 bis del T.U. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001, sotto diversi profili.
Cionondimeno il Collegio ritiene, tuttavia, che sia necessaria una pronuncia dell’Adunanza Plenaria in merito alla questione che si intende sollevare, anche al fine di garantire il rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale e dell’autorità del giudicato, e, pertanto, il presente ricorso viene deferito all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a., al fine di comporre il contrasto giurisprudenziale sopra menzionato, risolvendo il seguente quesito di diritto: se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione, quindi, estesa al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis cit..

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza Plenaria.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Riccardo Virgilio, Presidente
Nicola Russo, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
Leonardo Spagnoletti, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE




DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 03/07/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)