GIURISDIZIONE:
il caso De Magistris
visto (solo) dal lato giuridico:
elettorato passivo e diritti inaffievolibili
(T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I,
ordinanza 30 ottobre 2014, n. 1801)
La teoria dei diritti inaffievolibili (l'elettorato passivo lo sarebbe) non ha mai goduto di grande seguito nella giurisprudenza amministrativa (è stata elaborata dalla Cassazione).
E passi pure, c'è la giurisdizione del G.A. quindi.
Non capisco, però, la differenza rispetto all'atto vincolato, che non implicherebbe la spendita della discrezionalità amministrativa (la scelta dell'interesse prevalente è già effettuata dal legislatore), ed andrebbe pertanto dal G.O. (secondo la giurisprudenza amministrativa).
E che un atto vincolato non incide sul destinatario? E non è lecito dire che la relativa posizione è, quindi, del pari di interesse legittimo sic et simpliciter e non di diritto soggettivo affievolito?!?
Massima
Esclusa la configurabilità nell’ordinamento di un regime eccezionale di
favor per i diritti di elettorato passivo, tali da renderli impermeabili
rispetto agli effetti di un’azione amministrativa autoritativa idonea a
conformarli - tanto, anche nella scia dell’inconfigurabilità generale di
diritti soggettivi resistenti – ai fini della verifica della giurisdizione
occorre guardare alla struttura della fattispecie normativa e, in particolare,
all’intensità che la legge nel caso di specie riconosce all’intermediazione
provvedimentale; ad avviso del Collegio, non si tratta di verificare se
l’effetto compressivo del diritto di elettorato passivo sia o meno conseguenza
di una scelta discrezionale del Prefetto e nemmeno se l’attività di
accertamento a questo richiesta circa la sussistenza dei presupposti sia
connotata da profili tecnico-discrezionali, dovendosi invece accertare se
l’effetto sospensivo si determini soltanto una volta emanato il decreto
prefettizio.
Al quesito non può che rendersi risposta positiva; invero, che il
provvedimento giudiziario di condanna penale del titolare della carica sia
condizione necessaria, ma non sufficiente per la limitazione del diritto di
elettorato passivo trova conferma nella stessa costruzione della fattispecie
generale ed astratta in cui si affida al Prefetto, quindi ad un organo distinto
da quello dell’ente di appartenenza del titolare della carica, la verifica
esterna delle condizioni ostative al mantenimento della stessa, e quindi il
compimento di un’indefettibile presupposta attività di verifica e di controllo
i cui esiti convergono in un atto di natura provvedimentale che, integrando il
precetto normativo, ne determina l’applicazione al caso concreto, così
consentendo la produzione dell’effetto sospensivo; e poiché, secondo principi
ormai da tempo consolidati, la giurisdizione amministrativa generale di
legittimità si radica in funzione del solo fatto dell’immanenza di un potere
autoritativo il cui esercizio la legge richiede per il prodursi dell’effetto
tipico considerato, senza, cioè, che a tal fine assumano decisivo rilievo anche
sue possibili caratteristiche intrinseche, la posizione giuridica soggettiva
del ricorrente non può che essere quella “naturale” di interesse legittimo, la
cui cognizione appartiene a questo Tribunale, anche dal punto di vista della
competenza territoriale.
Ordinanza per esteso
INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale
della Campania
(Sezione Prima)
ha
pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso n. 4798/ 14 R.G., proposto da:
Luigi De Magistris,
rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Russo, Stefano Montone e Lelio
Della Pietra, con domicilio eletto presso Giuseppe Russo in Napoli, via Cesario
Console n. 3;
contro
Ministero dell’Interno - U.T.G. -
Prefettura di Napoli, in persona del Prefetto p.t. rappresentato e difeso ex
lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, presso cui domicilia
in Napoli, via Diaz, 11;
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
Comune di Napoli, rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Maria Ferrari, Anna Pulcini, Bruno Crimaldi, Antonio Andreottola, domiciliata in Napoli, piazza Municipio, Palazzo San Giacomo, presso gli uffici dell’Avvocatura comunale;
ad opponendum:
Manfredi Nappi, rappresentato e difeso dall'avvocato Alberto Saggiomo, con domicilio eletto in Napoli, piazzetta Terracina n.1;
Comune di Napoli, rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Maria Ferrari, Anna Pulcini, Bruno Crimaldi, Antonio Andreottola, domiciliata in Napoli, piazza Municipio, Palazzo San Giacomo, presso gli uffici dell’Avvocatura comunale;
ad opponendum:
Manfredi Nappi, rappresentato e difeso dall'avvocato Alberto Saggiomo, con domicilio eletto in Napoli, piazzetta Terracina n.1;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento del Prefetto di Napoli
emesso in data 1.10.2014 prot.n. 87831, di accertamento costitutivo della
sussistenza della causa di sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco
del Comune di Napoli.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio
del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Napoli, nonché del Comune di
Napoli e di Manfredi Nappi;
Vista la domanda di sospensione
dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla
parte ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e
competenza;
Data per letta nella camera di consiglio
del 22 ottobre 2014 la relazione del consigliere Paolo Corciulo e uditi per le
parti i difensori come specificato nel verbale;
Con provvedimento n. 87831 del 1° ottobre
2014 il Prefetto della Provincia di Napoli ai sensi dell’art.11, comma 5, del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 ha dichiarato di aver accertato nei confronti
del Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris,
la sussistenza della causa di sospensione dalla carica di cui al medesimo art.
11, primo comma, lettera a) del medesimo decreto legislativo.
Nel decreto prefettizio si rappresenta che
con sentenza n. 3928/12 Reg. Gen. la Seconda Sezione del Tribunale di Roma ha
condannato in primo grado il predetto Sindaco di Napoli alla pena di anni uno e
mesi tre di reclusione ed all’interdizione dai pubblici uffici per anni uno,
con il beneficio della sospensione condizionale della pena, per i delitti
ascritti ai capi A, B, C,D, E, F, G ed H della rubrica, che, dal decreto che
dispone il giudizio n. 23078/09/GIP del 21 gennaio 2012, risultavano essere
reati di cui all’art. 323 c.p.
Trattandosi di fattispecie delittuosa per
cui è prevista la sospensione di diritto dalle cariche elettive nei confronti
di chi abbia riportato condanna, omessa la garanzia partecipativa di cui
all’art 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241, per esigenze di celerità ed attesa
la natura vincolata del potere, il Prefetto di Napoli ha notificato all’organo
che aveva proceduto alla convalida dell’elezione l’avvenuto accertamento dei
presupposti di legge per la sospensione del Sindaco dalla carica.
Con ricorso ritualmente notificato e
depositato il giorno 8 ottobre 2014, il dottor Luigi De Magistris ha impugnato innanzi a
questo Tribunale il provvedimento prefettizio, chiedendone l’annullamento,
previa concessione di idonee misure cautelari.
Si sono costituiti in giudizio il Prefetto
di Napoli, che, oltre a svolgere difese nel merito della controversia, ha
eccepito il difetto di giurisdizione amministrativa, assumendo trattarsi di
questioni inerenti alla tutela di un diritto soggettivo la cui lesione sarebbe
direttamente riconducibile alla legge.
Si è costituito in giudizio anche il
Comune di Napoli. sostenendo le ragioni di parte ricorrente.
Ha spiegato altresì intervento ad
opponendum il signor Manfredi Nappi, in qualità di cittadino elettore.
Alla camera di consiglio del 22 ottobre
2014, all’esito della discussione, la causa è stata trattenuta per la
decisione.
Deve essere preliminarmente esaminata
l’eccezione di difetto di giurisdizione amministrativa sollevata dalla difesa
erariale, secondo la quale la controversia avrebbe ad oggetto la tutela del
diritto soggettivo di elettorato passivo di cui all’art. 51 della Costituzione,
di guisa che ogni questione di eleggibilità e decadenza – di cui la sospensione
costituirebbe fattispecie connessa – rientrerebbe nella cognizione del giudice
civile ai sensi degli artt. 9 bis e 82 del d.p.r.16 maggio 1960 n. 570,
ov’anche la limitazione al relativo esercizio fosse riconducibile all’adozione
di un provvedimento amministrativo.
L’eccezione è infondata.
Osserva il Collegio che, esclusa la
configurabilità nell’ordinamento di un regime eccezionale di favor per i
diritti di elettorato passivo, tali da renderli impermeabili rispetto agli
effetti di un’azione amministrativa autoritativa idonea a conformarli - tanto,
anche nella scia dell’inconfigurabilità generale di diritti soggettivi
resistenti – ai fini della verifica della giurisdizione occorre guardare alla
struttura della fattispecie normativa e, in particolare, all’intensità che la
legge nel caso di specie riconosce all’intermediazione provvedimentale; ad
avviso del Collegio, non si tratta di verificare se l’effetto compressivo del
diritto di elettorato passivo sia o meno conseguenza di una scelta
discrezionale del Prefetto e nemmeno se l’attività di accertamento a questo
richiesta circa la sussistenza dei presupposti sia connotata da profili
tecnico-discrezionali, dovendosi invece accertare se l’effetto sospensivo si
determini soltanto una volta emanato il decreto prefettizio. Al quesito non può
che rendersi risposta positiva; invero, che il provvedimento giudiziario di
condanna penale del titolare della carica sia condizione necessaria, ma non
sufficiente per la limitazione del diritto di elettorato passivo trova conferma
nella stessa costruzione della fattispecie generale ed astratta in cui si
affida al Prefetto, quindi ad un organo distinto da quello dell’ente di
appartenenza del titolare della carica, la verifica esterna delle condizioni
ostative al mantenimento della stessa, e quindi il compimento di
un’indefettibile presupposta attività di verifica e di controllo i cui esiti
convergono in un atto di natura provvedimentale che, integrando il precetto
normativo, ne determina l’applicazione al caso concreto, così consentendo la
produzione dell’effetto sospensivo; e poiché, secondo principi ormai da tempo
consolidati, la giurisdizione amministrativa generale di legittimità si radica
in funzione del solo fatto dell’immanenza di un potere autoritativo il cui
esercizio la legge richiede per il prodursi dell’effetto tipico considerato,
senza, cioè, che a tal fine assumano decisivo rilievo anche sue possibili
caratteristiche intrinseche, la posizione giuridica soggettiva del ricorrente
non può che essere quella “naturale” di interesse legittimo, la cui cognizione
appartiene a questo Tribunale, anche dal punto di vista della competenza
territoriale.
Passando al merito, va rilevato che ,a
sostegno dell’impugnazione, il ricorrente ha proposto sette mezzi di censura, i
primi tre avverso l’atto prefettizio di accertamento, gli altri volti a
prospettare questioni di legittimità costituzionale della normativa applicata.
Con il primo motivo di ricorso è stato
dedotto che la sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco sarebbe
illegittima, in quanto non fondata su un provvedimento giudiziario, come invece
previsto dall’art.11, comma quinto del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235; invero,
al momento in cui ha provveduto, il Prefetto di Napoli non avrebbe potuto che
fare riferimento ad un dispositivo di sentenza, atto che non figura tra i
provvedimenti giudiziari che l’art.125 c.p.p. circoscrive alle sole categorie
della sentenza, dell’ordinanza e del decreto; d’altronde, nel dispositivo non
sono specificati i capi di imputazione, tanto è vero che il Prefetto, per
accertare la sussistenza di quelle imputazioni ai sensi dell’art. 323 c.p. la
cui condanna è stata causa di sospensione, ha dovuto richiamare il decreto che
dispone il giudizio, atto ben distinto dalla sentenza. Rileva poi il ricorrente
che la questione non sarebbe di ordine meramente formale, dal momento che la
conformazione strutturale e la caratterizzazione funzionale del procedimento
disciplinato dall’art.11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 tendono al
raggiungimento di un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti di
elettorato attivo e passivo e la salvaguardia di valori costituzionali volti ad
assicurare l’idoneità morale dei pubblici amministratori, proprio attraverso
l’emanazione di una sentenza, la pubblicazione della cui motivazione
costituisce il primo momento dal quale sarebbe possibile per l’autorità
competente verificare la sussistenza della causa di sospensione dalla carica
pubblica.
Con la seconda censura è stata contestata
la carenza di motivazione dell’atto impugnato, dal momento che le cause di
sospensione sono state rintracciate in un atto diverso dalla sentenza di
condanna, come invece previsto dalla norma.
Infine, sul presupposto della fondatezza
dei primi due motivi di impugnazione, è stata lamentata l’intempestività
dell’accertamento della causa di sospensione, la cui celerità si colora di
illegittimità alla luce del fatto che il Prefetto si sarebbe riferito al solo
dispositivo, senza attendere anche la pubblicazione della motivazione della
decisione del Giudice penale.
Con il quarto motivo è stato dedotto che
la sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco di Napoli sarebbe
conseguenza di un’interpretazione retroattiva degli artt. 10, comma 1, lettera
c) e 11, comma 1, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 e quindi non
conforme ai diritti di elettorato ed ai principi di cui agli artt. 2, 51 e 97
della Costituzione.
Al riguardo, il ricorrente ha evidenziato
che al tempo in cui aveva deciso di candidarsi e fino alla sua proclamazione a
Sindaco, avvenuta il 1° giugno 2011, non figurava tra le cause di
incandidabilità e di sospensione da tale carica l’aver riportato una condanna
per il delitto di cui all’art. 323 c.p. Solo con l’entrata in vigore del d.lgs.
31 dicembre 2012 n. 235, ossia dal 5 gennaio 2013, nell’ordinamento è stata
introdotta, come causa ostativa la condanna anche per tale fattispecie
delittuosa; e poiché costituisce principio generale dell’ordinamento quello di
irretroattività della legge, altra sarebbe la disciplina legislativa
applicabile al tempo della candidatura del ricorrente e differenti i requisiti
prescritti per l’accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive cui si
riferisce l’art. 51 della Carta.
Sulla base dell’appartenenza del diritto
di elettorato passivo alla sfera dei diritti inviolabili di cui all’art. 2
della Costituzione, è stato altresì rilevato come ogni operazione
interpretativa debba ispirarsi ad un regime di favor per chi intenda accedere a
cariche pubbliche ed elettive; del resto, non potrebbe negarsi rilevanza alla
situazione di chi, intenzionato a candidarsi in una competizione elettorale,
debba essere consapevole fin da tale momento delle condizioni ostative alla nomina
o al mantenimento della carica; in altre parole, un’interpretazione della
lettera della legge conforme alla Costituzione dovrebbe essere nel senso non
già di limitarne l’applicazione a sentenze di condanna che sopravvengano
rispetto alla candidatura, ma di ritenere irrilevanti quelle riportate per
fattispecie delittuose che in quel momento storico non costituivano cause di
incandidabilità o sospensione; pertanto, una sopravvenienza incidente sulla
candidatura o sul mantenimento della carica è costituzionalmente legittima,
solo se riferita al suo presupposto fattuale, inteso come sentenza di condanna,
e non anche all’applicabilità della previsione normativa generale ed astratta,
stante il principio generale di irretroattività della legge.
Diversamente opinando, il ricorrente ha
chiesto trasmettersi gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della
questione di costituzionalità in relazione agli artt. 2, 51 e 97 della
Costituzione da parte della norma legislativa applicata al caso esame.
Inoltre, l’interpretazione della norma
legislativa che regge l’adozione del provvedimento prefettizio impugnato si
rivelerebbe anche in contrasto il diritto di elettorato attivo, potendo
determinare un’alterazione dei risultati del procedimento elettorale, e,
quindi, della libera espressione di voto, principio consacrato dall’art.3 del
Protocollo Addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali e recepito nell’ordinamento interno
attraverso la valvola di cui all’art. 117 della Costituzione; invero, la
modifica dei requisiti di candidabilità dell’eletto successivamente
all’espressione del voto finisce per vanificare la volontà espressa dal corpo
elettorale eliminandone gli effetti per cause irrilevanti al momento in cui la
scelta elettorale si era manifestata in favore di determinati candidati, in
seguito dichiarati non più idonei. Anche in questo caso, se condivisa dal
giudice adito l’interpretazione della legge fatta propria nel provvedimento
impugnato e ove non ritenuta la stessa disapplicabile sebbene in contrasto con
la CEDU, è chiesta la sottoposizione all’esame della Corte Costituzionale della
questione di compatibilità costituzionale dell’art.10, comma 1, lettera c) e
11, comma, 1 lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 con l’art. 117 della
Carta.
Con la quinta censura vengono sollevati
dubbi di costituzionalità del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sotto il profilo
della ragionevolezza e proporzionalità. Al riguardo, ha osservato il ricorrente
che la disciplina legislativa previgente – segnatamente, l’art. 15 della legge
19 marzo 1990 n. 55 e successivamente gli artt. 58 e 59 del d.lgs. 8 agosto
2000 n. 267 - aveva raggiunto un apprezzabile punto di equilibrio tra il
diritto di elettorato attivo e passivo e le esigenze di tutela
dell’imparzialità e del buon andamento degli uffici pubblici, ove confliggenti
in relazione ad un determinato soggetto; a tal fine, infatti, erano state
individuate specifiche fattispecie di reato che, in considerazione del loro
oggettivo indice di pericolosità, ben avrebbero potuto giustificare la
cedevolezza dei richiamati diritti di elettorato, nel caso in cui una sentenza
di condanna divenuta definitiva fosse stata pronunciata nei confronti di un
candidato, anche dopo la sua elezione. Ancora, la medesima disciplina
legislativa, nel porre il divieto di candidarsi per le descritte ipotesi, aveva
anche proporzionalmente calibrato la conseguenze dell’intervento di una
sentenza di condanna nei confronti di chi fosse divenuto pubblico amministratore,
disponendo che la misura cautelare della sospensione operasse nei casi di reati
più gravi fin dalla condanna di primo grado, mentre per fattispecie delittuose
minori occorreva attendere la pronuncia di secondo grado; in altri termini, si
rapportava l’astratta gravità del titolo di reato al maggiore - e, quindi,
presumibilmente più affidabile - livello di stadiazione dell’accertamento
processuale.
Ebbene, l’attuale disciplina legislativa,
applicata al ricorrente non solo avrebbe aggravato tale regime introducendo
nuove figure delittuose ritenute sintomatiche di esposizione a pericolo dei
valori costituzionali che presidiano la qualità dell’organizzazione e
dell’azione dei pubblici uffici, quali il delitto di abuso d’ufficio, di cui
all’art. 323 c.p., ma avrebbe anche eliminato, specificamente sotto il profilo
della proporzionalità, la distinzione tra cause di sospensione collegate a
sentenze non definitive di primo e secondo grado.
Tale inasprimento delle cause ostative
all’ottenimento ed alla conservazione delle cariche pubbliche eccederebbe, a
giudizio del ricorrente, i precedenti limiti di compatibilità con i diritti di
elettorato attivo e passivo già ritenuti conformi a Costituzionale da parte
della Consulta nella sentenza n. 25 del 2002.
Con la sesta censura è stata dedotta
l’incostituzionalità degli artt. 11, comma primo, lettera a) e 10, comma 1,
lettera c) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 per violazione dell’art. 76 della
Costituzione; invero, la legge 6 novembre 2012 n. 190, all’art. 1, comma 64, nell’affidare
al Governo il compito di procedere al riordino ed all’armonizzazione della
normativa in materia di incandidabilità alle cariche indicate nel comma 63,
stabiliva tra i principi e criteri di direttivi per il legislatore delegato
quello di disciplinare ipotesi di sospensione e decadenza di diritto in caso di
sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla
candidatura o all’affidamento della carica; l’aver il d.lgs. 31 dicembre 2012
n. 235 previsto cause di sospensione dalla carica anche per l’ipotesi di
sentenza di condanna non definitiva costituiva un eccesso di delega
legislativa; e di limitare la sospensione dalla carica nei soli di casi di
sentenza definitiva sarebbe stata, a giudizio del ricorrente, anche l’effettiva
volontà del legislatore delegante, come si evincerebbe dalla documentazione
degli atti preparatori alla legge delega 6 novembre 2012 n. 190; in
particolare, in caso di condanna definitiva, mentre per le cariche non elettive
era stata proposta la decadenza tout court, per quelle elettive, quale quella
di Sindaco, la misura applicabile sarebbe stata la sospensione, volendosi, più
limitatamente, circoscrivere l’effetto inibitorio ad un temporaneo
allontanamento dalla carica, senza con ciò anche determinare lo scioglimento
dell’assembla, come accadrebbe in caso di decadenza.
Il ricorrente ha anche esaminato la
possibilità di pervenire ad un’interpretazione conforme a Costituzione della
legge delegata, sebbene escludendo tale eventualità proprio in ragione della chiara
formulazione del dictum normativo.
A tal proposito, non si ritiene
accettabile il presupposto per cui la sospensione sarebbe misura cautelare
rispetto alla successiva decadenza, configurandosene la funzione anticipatoria
rispetto all’ipotesi di condanna definitiva; invero, nessun collegamento vi
sarebbe nella legge delega tra durata della sospensione ed esito del giudizio
di appello in sede penale; sospensione che, in caso di sentenza definitiva, si
giustificherebbe non solo con le richiamate esigenze di conservazione della
volontà elettorale, almeno per il periodo successivo alla scadenza della misura
cautelare, ma anche con esigenze di proporzionalità riconducibili alla
circostanza che l’ipotesi della condanna per il delitto di abuso d’ufficio, fattispecie
indubbiamente di minore gravità rispetto ad altre previste dalla legge
delegata, mai era stata in precedente presa in considerazione dal legislatore
come causa ostativa all’accesso ed alla conservazione di una carica pubblica.
Pertanto, l’inconfigurabilità di
un’interpretazione dell’art.11, primo comma lettera a) e dell’art. 10, primo
comma, lettera c) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 che possa rendere tali
disposizioni conformi ai principi della legge delega, impone la devoluzione
della questione alla Corte Costituzionale.
Con la settima ed ultima censura è stato
denunciata la mancata copertura di delega legislativa per l’introduzione
dell’ipotesi di condanna per il delitto di cui all’art. 323 c.p. quale causa di
sospensione e decadenza dalla carica di Sindaco; invero, la legge 6 novembre
2012 n. 190 all’art. 1, comma 64, lettera h) aveva consentito al legislatore
delegato di individuare ulteriori ipotesi di incandidabilità per tale carica,
ma solo per delitti di grave allarme sociale, ossia quelli di cui all’art. 51,
commi 3 bis e 3 quater c.p.p.; il ricorrente ha così evidenziato che se la
delega legislativa era stata correttamente esercitata con l’art. 10, comma 1,
lettera b) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, altrettanto non poteva ritenersi
per la norma di cui alla successiva lettera c), non figurando il delitto di
abuso d’ufficio tra le fattispecie indicate dall’art. 51 c.p.p.
In disparte i primi tre motivi di
impugnazione, che hanno ad oggetto vizi inerenti esclusivamente all’impugnato
provvedimento prefettizio di sospensione, occorre preliminarmente esaminare i
dubbi di legittimità costituzionale sollevati da parte ricorrente.
Invero, è manifesta la pregiudizialità
logica che impone al giudice adito di anteporre la verifica della rilevanza e
non manifesta infondatezza di questioni di legittimità costituzionale degli
artt.10 e 11 del d.lgs. 31dicembre 2012 n. 235, che ove fondate, si
rivelerebbero decisive ai fini dell’esercizio stesso del potere di sospensione,
a prescindere, cioè, dal positivo accertamento di condizioni patologiche
direttamente ascrivibili al decreto prefettizio di sospensione, siccome
sanabili e comunque superabili, una volta avvenuto il deposito della
motivazione della sentenza del giudice penale.
Innanzitutto, si evidenzia che tutte le
questioni di costituzionalità proposte nei motivi quarto, quinto, sesto e
settimo del ricorso assumono carattere di rilevanza per la definizione nel
merito della controversia; invero, risolvendosi in distinti ed autonomi mezzi
di impugnazione, ciascuno idoneo, ove ritenuto fondato, a determinare
l’illegittimità dell’impugnato provvedimento di sospensione, e quindi il suo
annullamento, degli stessi occorre procedere ad una compiuta delibazione.
Deve essere ritenuta manifestamente
infondata la questione proposta con il quinto motivo.
Invero, non può essere sufficiente a
provocare un incidente di costituzionalità il mero aggravamento da parte del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 delle condizioni e dei presupposti per l’accesso
e per la conservazione delle cariche pubbliche elettive, dal momento che il
ricorso alla Corte Costituzionale si giustifica in ragione della denuncia di
uno specifico ed oggettivo contrasto con principi e valori della Carta da parte
del potere legislativo statale o regionale, senza che si possa risolvere, come
proposto nel caso di specie, in una generica richiesta di verifica della tenuta
costituzionale della norma denunciata, per il solo fatto che abbia modificato
in senso restrittivo il regime giuridico previgente; d’altronde, senza entrare
nel merito della discrezionalità legislativa, è sufficiente osservare che,
sotto il profilo della ragionevolezza, l’elevazione della soglia di protezione
in materia di accesso alle cariche pubbliche non confligge con i valori
costituzionali di cui all’art. 51 della Carta, ove sia giustificata
dall’esigenza di allontanare da tali munera chi sia reso responsabile anche di
delitti contro l’amministrazione pubblica, fatti il cui verificarsi è stato
accertato in sede giudiziaria con sentenza definitiva, ai fini della decadenza,
o non definitiva ai fini della sospensione cautelare dalla carica. Quanto, poi,
alla violazione del principio di proporzionalità, la questione di
costituzionalità è manifestamente infondata, dal momento che si pretende di
qualificare la gravità del fatto ostativo alla sola qualificazione operatane
dalla norma penale, mentre rientra nella piena discrezionalità del legislatore
individuare, quali causa di indegnità morale, fattispecie di reato che sebbene,
aventi pena edittale diversa, ai fini del venir meno delle condizioni
soggettive di accesso e conservazione della carica, presentano una non
dissimile sintomaticità indiziaria.
Anche la questione di legittimità
costituzionale sollevata nella sesta censura è manifestamente infondata.
Al riguardo, non possono che essere
condivise le considerazioni espresse nella sentenza 14 febbraio 2014 n. 730
della III Sezione del Consiglio di Stato; investito della questione, quel
Collegio ha superato la formale contraddizione esistente nell’art.1, comma 64,
lettera m) della legge 6 novembre 2012 n. 190, accedendo ad un’interpretazione
logico sistematica del dato normativo letterale, rendendone coerente il
contenuto con il principio di cui all’art. 76 della Costituzione.
Innanzitutto, anche in ragione di quanto
si andrà ad esporre nel prosieguo, è ampiamente condivisibile l’assunto per cui
gli istituti della sospensione e della decadenza costituiscono species di un
più ampio genus, costituito dalle misure inibitorie dell’accesso e della
conservazione della carica pubblica; altro non è dato evincere dal dato
normativo attuale che, a prescindere dai lavori preparatori, costituisce senza
dubbio l’effettiva ultima volontà del legislatore, ratione temporis. E se la
sospensione, per sua natura, non può che essere misura anticipatoria, la sua
stessa strumentalità non può difettare di un istituto di cui costituisce
complemento e che ne è volto a confermare gli effetti sostanziali,
tendenzialmente senza soluzione di continuità, effetti in un primo momento
inevitabilmente temporanei, proprio per la natura strumentale della sua intima
funzione. Né valga obiettare che nell’ordinamento sono presenti anche
fattispecie di sospensione autonome, cioè che risolvono nella loro temporanea
efficacia la ratio legis; invero, nel caso di specie, tale soluzione
interpretativa non si rivela percorribile, in ragione del dato letterale della
norma che rivela senz’altro la volontà del legislatore di collegare
funzionalmente entrambi gli istituti ad un unico presupposto, ossia l’esistenza
di una condanna penale per determinate categorie di reati.
Quanto alla prospettata lettura del dato
normativo tale da esigere una condanna definitiva come presupposto per
l’operatività sia della sospensione che della decadenza, oltre a richiamare
quanto ritenuto dal Consiglio di Stato riguardo al principio della continenza
del primo istituto nel secondo, per effetto del richiamato vincolo di
strumentalità, va evidenziato che la volontà del legislatore delegante, quale
emerge dall’art. comma 64, lettera g) della legge 6 novembre 2012 n. 190, è
stata nel senso di affidare il compito di operare una ricognizione nella
normativa vigente in materia di incandidabilità, limitando l’introduzione di
una vera e propria novella ai soli casi di cui alla successiva lettera h), tra
cui non figurano interventi sull’istituto della sospensione come fino a quel
momento disciplinata, cioè come misura temporanea e strumentale rispetto alla
decadenza (art.15 legge 19 marzo 1990 n.55, artt. 58 e 58 d.lgs. 8 agosto 2000
n. 267).
Ne consegue che del dato normativo non può
che offrirsi un’interpretazione che lo renda riferibile ad una sentenza di
condanna “che sia divenuta definitiva” rispetto all’applicazione della
decadenza dalla carica, intesa come misura finale, di cui, pertanto, la
sospensione costituisce effetto inibitorio di stadiazione che, in quanto tale,
non può che riferirsi a presupposti storicamente antecedenti rispetto alla
definitività della pronuncia del giudice penale.
In tale prospettiva non può condividersi
l’assunto di parte ricorrente che, al fine di configurare l’operatività della
sospensione come istituto distinto ed alternativo rispetto alla decadenza, e
quindi anch’esso fondato sul presupposto di una sentenza penale di condanna definitiva,
afferma che non esisterebbero collegamenti rispetto all’esito del giudizio
penale d’appello sulla sentenza di primo grado.
Invero, che sospensione e decadenza non
siano in rapporto parallelo di alternatività, ma di omogenea relazione di
stretta consecutività è confermato dall’art.11, quarto comma del d.Lgs 31
dicembre 2012 n. 235 che, in caso di rigetto dell’appello, prevede un ulteriore
periodo di sospensione; nemmeno può essere negata l’interferenza esistente tra
progressione del processo penale e ricadute sulla attuale conservazione della
carica pubblica, come risulta confermato dai successivi commi sesto e settimo
della medesima disposizione, il primo dei quali disciplina la cessazione della
sospensione al venir meno di una misura coercitiva emessa nei confronti
dell’interessato o sentenza anche non definitiva favorevole, il secondo che
stabilizza gli effetti inibitori nella decadenza al passaggio in giudicato
della sentenza; precisazione che sarebbe stata pleonastica, ossia iterativa
della già prevista natura definitiva della condanna, ove ritenuta non di natura
procedimentale, cioè riferita alla mutazione in decadenza di una precedente
sospensione dalla carica.
Manifestamente infondata è anche la
questione di legittimità costituzionale proposta nel settimo motivo di ricorso,
per eccesso di delega relativamente all’art. 1, comma 64, lettera h) della
legge 6 novembre 2012 n. 190 che, per le cariche di cui alla precedente lettera
g) – tra cui quella di Sindaco – consentiva al legislatore delegato di introdurre
ulteriori ipotesi di incandidabilità, ma solo per delitti di grave allarme
sociale. A giudizio del ricorrente, tale categoria di reati si identificherebbe
con le sole fattispecie di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p.,
ipotesi per le quali, coerentemente con la legge delega, in caso di condanna,
il d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 aveva previsto agli artt. 10, primo comma
lettere a) e b) e 11, primo comma, lettera a), la decadenza e la sospensione di
diritto dalla carica pubblica. Non figurando in tale categoria anche il delitto
di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., la sua assunzione come
fattispecie di decadenza e di sospensione in caso di condanna penale
eccederebbe i limiti posti dal legislatore delegante.
Osserva il Collegio che nessun utile
riferimento di diritto positivo esiste nel senso di limitare i delitti di grave
allarme sociale di cui alla legge delega alle sole fattispecie di cui all’art.
51, commi 3 bis e 3 quater del codice di procedura penale; pertanto, nel
sottenderne l’ampia discrezionalità, la legge di delegazione consente al
legislatore delegato di ricondurre alla categoria dei delitti di grave allarme
sociale, non solo le fattispecie associative finalizzate al traffico di
sostanze stupefacenti, armi, criminalità organizzata e terrorismo – e tutti
quelli a cui si riconduce la competenza del procuratore della Repubblica
distrettuale - ma anche differenti ipotesi delittuose, la cui commissione si
ritiene idonea a destare preoccupazione nella generalità della popolazione,
costituendo manifestazione o, comunque, sintomo di mancato o cattivo
funzionamento di settori nevralgici della vita sociale; e non appare
irragionevole l’aver compreso in tale categoria anche fattispecie di delitti
contro la pubblica amministrazione connotati da una certa gravità, proprio
nell’ottica del riordino della materia dell’incandidabilità, a cui sottendono
obiettivi di riassetto organizzativo e di moralizzazione della amministrazione
pubblica voluti dalla stessa legge 6 novembre 2012 n. 190; d’altronde,
l’accostamento tra delitti rientranti nella categoria di cui all’art. 51, commi
3 bis e 3 quater c.p.p. ed ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione
non è soluzione nuova nella legislazione interna, essendo sufficiente il rinvio
alla disciplina di cui al d.p.r. 6 settembre 2011 n. 159 in materia di
antimafia che tende ad esaltare la stretta correlazione tra criminalità
organizzata e cattiva amministrazione ai fini della rilevazione degli elementi
indiziari necessari per l’applicazione di misure amministrative di prevenzione.
Non manifestamente infondata è invece la
questione di legittimità costituzionale proposta nel quarto motivo di ricorso,
relativamente all’efficacia retroattiva della disposizione normativa di cui
all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235.
Va premesso che, in assenza di una
normativa transitoria o comunque di disposizioni specifiche al riguardo,
occorre procedere nell’indagine facendo ricorso ai principi generali
dell’ordinamento.
A tal proposito, il principio di irretroattività
è sancito nell’art.11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale che recita “la
legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” e trova
copertura costituzionale, attraverso il rafforzamento del divieto da parte dell’art.
25, secondo comma della Carta, per le leggi “punitive”, identificate dalla
giurisprudenza costituzionale in quelle in materia penale.
Nella prospettazione del ricorrente la
violazione del suddetto principio garantistico riposerebbe sulla circostanza per
cui una lettura costituzionalmente orientata dal dato normativo esigerebbe che
di epoca successiva all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235
dovrebbe essere non solo la sentenza, come è incontestato nel caso in esame, ma
anche il fatto storico qualificato come delitto che ne costituisce la res
iudicanda.
Il ricorrente ha ritenuto la violazione
del principio di irretroattività, sia con riferimento alla sua qualità di
soggetto candidato, sia come incidente sulla sua attuale carica di Sindaco, la
cui sospensione dalle funzioni sarebbe da qualificarsi come incandidabilità
sopravvenuta.
Sotto il primo profilo è stato obiettato
che la rilevanza riconosciuta alla pendenza di un procedimento penale all’epoca
della candidatura, integrata attraverso la successiva sentenza di condanna,
avrebbe inciso sulla condizione di soggetto candidabile del ricorrente, illo
tempore per nulla esposta al rischio di una futura sospensione o decadenza per
effetto di pronunce sfavorevoli per il delitto di cui all’art. 323 c.p.; allo
stesso, modo ne sarebbe risultata alterata anche la genuinità della
competizione elettorale, essendosi il corpo elettorale espresso in favore di
chi all’epoca sapeva che non sarebbe mai stato sospeso o dichiarato decaduto a
seguito di una futura condanna per un delitto che all’epoca mai avrebbe inciso
sulla sua qualità di Sindaco.
La tesi non convince.
Va premesso che costituisce principio
generale dell’ordinamento quello per cui una legge successiva può incidere su
precedenti posizioni giuridiche, ma entro il limite della salvaguardia dei
diritti quesiti e dei rapporti esauriti. Trattasi di un corollario del
principio generale di irretroattività, nel senso che l’ordinamento pone un
limite alla possibilità di incidenza sfavorevole di una nuova normativa che,
sebbene volta a disporre per il tempo futuro, in coerenza con l’art.11 delle
Disposizioni sulla Legge in Generale, finisce comunque per intervenire su
posizioni giuridiche durevoli o non compiutamente definite, insidiando quel
principio di affidamento dei cittadini nei confronti del quale nemmeno il
legislatore deve mostrarsi insensibile. Pertanto, non sarebbe possibile ad una
legge sopravvenuta sopprimere e nemmeno limitare posizioni giuridiche
consolidate, la cui stabilità e definitività costituisce condizione implicita
di irretroattività.
Ai fini del presente giudizio, la presenza
di diritti quesiti e rapporti esauriti in capo al ricorrente va accertata in
relazione al rapporto esistente tra soggetto e procedimento elettorale -
quest’ultimo da intendersi in senso ampio, cioè comprensivo anche delle fasi, e
relativi diritti, riconducibili alle attività preparatorie per l’accesso alla
competizione elettorale - ed in particolare alla sussistenza di una fluente ed
omogenea relazione di tipo endoprocedimentale tra i suoi atti, oppure al
rinvenimento al suo interno di posizioni differenziate e parzialmente autonome
in capo al soggetto che vi partecipa, tale da consentire la configurazione di
status e qualità personali la cui rilevanza giuridica non sia immanente, ma
storicamente collocabile solo in alcune fasi del procedimento; in altri
termini, si tratta di verificare la percorribilità giuridica in senso inverso
della sequenza procedimentale tipica (recte della relazione atto
presupposto/atto consequenziale), al fine di verificare, se, contrariamente a
quanto accade nella dinamica ordinaria, che trasmette a valle tutta la funzione
esercitata concentrandola nel provvedimento, anche nella prospettiva del
soggetto destinatario del potere, nel caso del procedimento elettorale esistano
delle posizioni preparatorie ed intermedie che, nonostante l’evoluzione del
procedimento, conservino autonoma rilevanza giuridica, sganciandosi dalla
produzione degli effetti finali, quantunque favorevoli. In altri termini, occorre
chiedersi se, rispetto alla conclusione del procedimento elettorale in senso
favorevole ad un candidato, questi conservi ancora, come giuridicamente
rilevante, lo status di soggetto candidabile.
Al quesito deve rendersi risposta
negativa, dal momento che la qualità di soggetto candidabile è destinata ad
esaurire la sua funzione tipica una volta conclusosi il procedimento
elettorale, al cui esito potrà seguire lo status di candidato non eletto o di
eletto e, in quest’ultimo caso, la nomina; atteso il rapporto di consecutività
che caratterizza il procedimento, e nella specie quello elettorale, anche la
posizione soggettiva dell’interlocutore del potere evolve e si modifica, non
restando più la medesima; inoltre, la progressione del procedimento elettorale,
ma soprattutto la sua conclusione, finisce per rendere la posizione di semplice
soggetto candidabile non solo superata, ma anche incompatibile con quella di
eletto, trattandosi, in fondo, della medesima posizione vista nella prospettiva
del suo divenire; invero, la qualità di candidato finisce per rifluire
completamente nello status di eletto, esaurendo così completamente ogni
ulteriore ed autonoma funzione.
A ben vedere, si tratta dell’applicazione
del generale principio procedimentale del tempus regit actum che riconosce
giuridica rilevanza alle sole posizioni attuali, concorrenti con l’evoluzione
del dispiegarsi della funzione esercitata.
Di tali coordinate è stata fatta puntuale
applicazione da parte del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 che distingue tra
cause di incandidabilità da un lato e cause di decadenza e sospensione dalla
carica dall’altro, non solo inquadrandone l’efficacia rispetto alla specifica
fase storica del procedimento elettorale su cui vanno ad incidere, ma senza
neanche dare vita tra queste a commistioni o sovrapposizioni di sorta. Nel caso
di specie, il provvedimento prefettizio impugnato costituisce espressione del
potere di rilevazione di una causa ostativa alla prosecuzione dell’esercizio
della carica di Sindaco, senza alcuna riferibilità anche alla presupposta e
ormai superata qualità di candidato del ricorrente, la cui funzione ha da tempo
esaurito i suoi effetti, evolutisi e confluiti nell’esito a lui favorevole
della competizione elettorale.
Dubbi di legittimità costituzionale
sorgono, invece, riguardo agli artt.11, primo comma, lettera a) e 10, primo
comma, lettera c), nella parte in cui, nel prevedere quale causa di sospensione
– oltre che di decadenza e di incandidabilità – la condanna non definitiva per
alcuni delitti, tra cui quello di cui all’art. 323 c.p., attraverso il
provvedimento prefettizio impugnato le predette disposizioni normative sono
state applicate retroattivamente al ricorrente quale Sindaco in carica del
Comune di Napoli.
Non ignora il Collegio l’esistenza dei
recenti arresti nella giurisprudenza amministrativa di legittimità che hanno
escluso la retroattività delle previsioni normative de quibus (Consiglio di Stato V
Sezione 6 febbraio 2013 n. 695; Consiglio di Stato V Sezione, 29 ottobre 2013
n. 5222; TAR Lazio II bis, 8 ottobre 2013 n. 8696), ritenendo applicabili le
cause ostative anche laddove la sentenza di condanna penale irrevocabile sia
intervenuta in un tempo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre
2012 n. 235, ossia il 5 gennaio 2013.
In particolare, nel richiamare specifici
orientamenti della Corte Costituzionale in materia è stato evidenziato che «la
condanna penale irrevocabile é stata presa in considerazione come mero
presupposto oggettivo cui é ricollegato un giudizio di "indegnità
morale" a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa
viene, cioè, configurata quale "requisito negativo" ai fini della
capacità di assumere e di mantenere le cariche medesime» (Corte Costituzionale
31 marzo 1994 n. 118); né il divieto di applicazione retroattiva potrebbe
trovare copertura costituzionale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della
Carta, attraverso la qualificazione in termini sanzionatori o comunque punitivi
nelle cause di incandidabilità, sospensione e decadenza previste dal d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235, atteso che secondo costante giurisprudenza
costituzionale, l'invocato principio si riferisce alle sole sanzioni penali
(Corte Costituzionale, 31 marzo 1994 n. 118, 14 luglio 1988 n. 823, 3 giugno
1992 n. 250; 14 aprile 1988 n. 447) e, a giudizio del Collegio, all’istituto
della sospensione di cui all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235,
sebbene difficilmente possa essere negata efficacia sanzionatoria, non può
essere riconosciuta anche natura penale.
Inoltre, la giurisprudenza costituzionale
ha ritenuto che non costituisce irragionevole limitazione del diritto di
elettorato di cui all’art. 51 della Costituzione l'aver attribuito immediata
operatività «all'elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi
delitti una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale
del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate
finalità di rilievo costituzionale della legge in esame, l'incidenza negativa
della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in
corso al momento della sua entrata in vigore»(Corte Costituzionale, 31 marzo
1994 n. 118).
Osserva il Collegio che l’interpretazione
fatta propria nei richiamati arresti non autorizza a ritenere esclusa
l’efficacia retroattiva della norma, ossia che essa nei casi descritti non
disponga per l’avvenire, ma giustifica solo il superamento di tale limite,
perché dal legislatore è ritenuto prevalente l’interesse alla salvaguardia
della moralità dell’organizzazione degli organi di governo degli apparati
pubblici.
In tal modo, i principi espressi nella
citate pronunce non consentono di risolvere in via interpretativa anche i
pregiudiziali problemi di compatibilità costituzionale della normativa
applicata al caso concreto, dal momento che la vicenda sottoposta all’esame del
Collegio riguarda un provvedimento di sospensione adottato a seguito e per
effetto di una condanna penale non definitiva, non essendosi, quindi, in
presenza di una pronuncia irrevocabile come, invece, nei casi esaminati nei
citati precedenti giurisprudenziali; e che si tratti di una situazione del
tutto diversa si evince, non solo dai differenti effetti che conseguono, anche
dal punto di vista della disciplina penale, all’emanazione di una sentenza di
primo grado rispetto alla sua successiva condizione di irrevocabilità, ma anche
dal fatto che una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo non
autorizza l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di
indegnità morale che legittimi l’inibizione dell’accesso ad una carica pubblica
o la sua perdita, e ciò superando il divieto di retroattività, anche nel
diverso caso in cui si sia in presenza di una sentenza non definitiva, laddove
si osservi pure che quest’ultima interviene come prima statuizione nell’ambito
di un modello verticale del processo penale che consta, nella sua dinamica
ordinaria, di non meno di tre gradi progressivi di giudizio.
I dubbi di legittimità costituzionale
dell’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sulla violazione del divieto di
retroattività ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a determinare
la sospensione dalla carica, si fondano su due presupposti.
Innanzitutto, vi è la natura sanzionatoria
dell’istituto della sospensione.
Come già rilevato, non è intendimento di
questo giudice disallinearsi dagli approdi a cui è giunta la giurisprudenza di
legittimità nella parte in cui ha individuato la ratio legis nell’esigenza,
fortemente sentita, di preservare, anche cautelativamente, l’amministrazione
pubblica, ai vari livelli considerati, dalla presenza e partecipazione di chi
si sia reso moralmente indegno (Corte Costituzionale 29 ottobre 1992 n. 407),
sebbene ciò avvenga - non può negarsi – in base ad una presunzione assoluta di
inidoneità, in ragione del solo titolo del reato, senza alcuna valutazione del
fatto concreto giudicato, nemmeno dal punto di vista dell’esame delle
considerazioni poste dal giudice penale a fondamento della condanna; scelta
che, in verità, non consentirebbe di assolvere la soluzione legislativa
adottata da dubbi di legittimità costituzionale, avuto riguardo all’omessa
ricerca di un punto di equilibrio sia rispetto al diritto di elettorato, attivo
e passivo, sia rispetto all’esigenza concreta ed effettiva di allontanare chi
sia “moralmente indegno”.
Su un distinto piano, s’intende rilevare
che riconoscere natura sanzionatoria, e comunque afflittiva, agli istituti
dell’incandidabilità, sospensione e decadenza non significa affatto negare l’esistenza
di ulteriori finalità, anche principali, che la disciplina legislativa in esame
pone a fondamento della propria giuridica esistenza; d’altronde, non sono di
certo sconosciuti all’ordinamento giuridico poteri di regolazione, anche non
normativi, che, implicando la valutazione di diversi interessi intercettati,
impongono al titolare di perseguire la finalità avuta di mira, tuttavia
modulandola con la necessità, imposta, di tutelare posizioni con questa
interferenti; tutela che può risolversi attraverso la previsione di garanzie di
tipo partecipativo o con connotazioni specifiche del precetto sostanziale da
applicarsi che tenga conto - in ciò limitandosi - di specifiche prerogative del
destinatario del potere.
Da tale punto di vista, l’esigenza di immunizzare
l’amministrazione pubblica al fine di preservarne l’imparzialità attraverso
istituiti quali l’incandidabilità, la sospensione o la decadenza da cariche,
reca in sé l’immanenza di un conflitto, imponendo il sacrificio del diritto di
chi a quella carica aspira o ne è stato investito.
E se attraverso l’automatica operatività
della causa limitativa il legislatore ha, di fatto, inteso azzerare il
confronto procedimentale, non può spingersi la sua discrezionalità fino al
punto di negare natura di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi
sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di accesso alle
cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta.
A ben vedere, che si tratti di misure
afflittive è aspetto che non ha ignorato nemmeno il legislatore delegato che
nell’art. 15, secondo comma, nel prevedere l’autonomia degli effetti
dell’incandidabilità rispetto all’interdizione temporanea dai pubblici uffici,
mostra di averne assimilato l’identità quoad effectum ed ancora nel comma successivo
in cui ne ammette l’estinzione a seguito di riabilitazione in sede penale, come
remissione degli effetti di un regime indiscutibilmente sanzionatorio.
Il secondo presupposto, cui in parte si è
già accennato, è costituito dall’efficacia retroattiva dell’istituto della
sospensione dalla carica, applicato in presenza di una condanna penale non
definitiva.
In disparte la possibilità per il
legislatore di dare giuridica rilevanza a fini sanzionatori a fatti accaduti in
un tempo anteriore rispetto all’entrata in vigore della legge che li qualifica,
è certo che la sospensione di un amministratore da una carica per un fatto
storicamente anteriore rispetto alla sua elezione, così come anteriore ne è il
provvedimento giudiziario che a questo dà a tal fine rilevanza, costituisce,
oggettivamente, applicazione retroattiva della norma.
Ebbene, ritiene il Collegio che
l’applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria, anche di natura non
penale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Costituzione, urta con la pienezza
ed il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti, tutte le volte
in cui la Carta rimette alla disciplina legislativa il regime ordinario di
esercizio di quel diritto; pertanto, ove vi sia riserva di legge per la
disciplina di diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango
costituzionale anche i principi generali che disciplinano la fonte di
produzione normativa primaria; di conseguenza, essendo il divieto di
retroattività di cui all’art. 11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale,
uno dei principi su cui si fonda l’efficacia della legge nel tempo, la sua
violazione è anche violazione del diritto che la Costituzione espressamente la
chiama a disciplinare e proteggere.
In questo senso, l’art. 51 della
Costituzione nell’affidare alla legge l’individuazione dei requisiti per
l’accesso alle cariche pubbliche, quindi la disciplina positiva per l’esercizio
del diritto di elettorato passivo, ciò consente nei limiti fisiologici entro i
quali alla legge stessa è consentito operare, cioè non retroattivamente.
Si aggiunge che la forza di tale assunto
s’intensifica, tenuto conto del primo dei citati postulati, ossia la natura
sanzionatoria delle cause ostative di cui al d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 -
tra cui figura la sospensione dalla carica applicata al ricorrente - attesa
l’inderogabilità assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di
istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali.
Ora, anche per l’assenza di una norma
transitoria, non è possibile in via interpretativa al giudice del merito
risolvere la questione della legittimità costituzionale del superamento del
limite costituito dal divieto di retroattività della legge anche nell’ipotesi
in cui la sospensione dalla carica sia prevista in caso di condanna non
definitiva; il dubbio di compatibilità costituzionale concerne la sussistenza
di un eccessivo sbilanciamento in favore della previsione normativa di tale
misura cautelativa di salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica
rispetto all’ampio favor da riconoscersi alle facoltà di pieno esercizio del
diritto soggettivo di elettorato passivo di cui all’art. 51, primo comma della
Costituzione, da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché
posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche
repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine
espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata
frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma.
Conclusivamente, il Collegio ritiene
necessario sottoporre alla Corte Costituzionale questione incidentale di
legittimità costituzionale, rilevante ai fini della definizione del giudizio a
quo, dell’art. 11, primo comma, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235,
in relazione all’art.10, primo comma lettera c) del medesimo decreto
legislativo perché la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli
artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione.
Ai sensi dell’art.23, secondo comma della
legge 11 marzo 1953 n. 87 il giudizio è sospeso fino alla definizione
dell’incidente di costituzionalità.
Ai sensi dell’art.23, quarto comma della
legge 11 marzo 1953 n. 87 la presente ordinanza sarà notificata alle parti
costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai
Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Quanto all’istanza cautelare proposta dal
ricorrente, ai fini della cui compiuta delibazione la questione di legittimità
costituzionale sollevata anche assume piena rilevanza, al fine di conciliare il
carattere accentrato del sindacato di costituzionalità con il principio di
effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.; art. 6 e 13 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali), il Collegio ritiene di concedere una misura cautelare
"interinale" (sentenze n. 444 del 1990, n. 367 del 1991; n. 30 e n.
359 del 1995; n. 183 del 1997, n. 4 del 2000; ordinanza n. 24 del 1995 e n. 194
del 2006), fino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli
atti da parte della Corte costituzionale (Consiglio di Stato 26 ottobre 2011,
ordinanza n. 4713); a tal fine, sussistendo, allo stato, il fumus boni iuris
relativamente al quarto motivo di ricorso, essendo l’impugnato provvedimento
prefettizio di sospensione fondato su un’interpretazione dell’art.11 del d.lgs.
31 dicembre 2012 n. 235 che si pone in contrasto con le richiamate norme
costituzionali, nonchè un pregiudizio grave ed irreparabile per le ragioni del
ricorrente, ascrivibile all’irrecuperabilità del tempo di mancato esercizio
della sua funzione di Sindaco di Napoli, deve essere disposta la sospensione
del provvedimento prefettizio impugnato fino alla ripresa del giudizio
cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale.
Le spese della fase cautelare del presente
giudizio saranno regolate all’esito della camera di consiglio successiva alla
risoluzione dell’incidente di costituzionalità
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale
della Campania (Sezione Prima)
Dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, primo comma,
lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, in relazione all’art.10, primo
comma lettera c) del medesimo decreto legislativo perché la sua applicazione
retroattiva si pone in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo
comma e 97, secondo comma della Costituzione, per le ragioni esposte in
motivazione.
Accoglie provvisoriamente la domanda
cautelare e sospende provvisoriamente gli effetti dell’impugnato provvedimento
prefettizio fino alla camera di consiglio di ripresa del giudizio cautelare
successiva alla definizione della questione di legittimità costituzionale.
Spese della presente fase da regolarsi
alla pronuncia definitiva del giudizio cautelare.
Dispone la sospensione del presente
giudizio e ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale.
Ordina che, a cura della Segreteria della
Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al
Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della
Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
La presente ordinanza sarà eseguita
dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del Tribunale che
provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Napoli nella camera di
consiglio del giorno 22 ottobre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Cesare
Mastrocola, Presidente
Paolo
Corciulo, Consigliere, Estensore
Carlo
Dell'Olio, Consigliere
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 30/10/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3,
cod. proc. amm.)