venerdì 25 gennaio 2013

PROVVEDIMENTO: l'interpretazione degli atti amministrativi (Cons. St., Sez. V, sent. 16 gennaio 2013 n. 238).




PROVVEDIMENTO: 
l'interpretazione degli atti amministrativi 
(Cons. St., Sez. V, sent. 16 gennaio 2013 n. 238)



Gli atti amministrativi si interpretano come gli "atti" (negozi, contratti, atti unilaterali, etc.) privati
E' quanto ribadito dal Cons. Stato, Sez. V, sentenza 16 gennaio 2013 n. 238. Di seguito la massima.

Massima

Come è noto, per conforme giurisprudenza di questo Consiglio, l'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l'intento dell'Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell'atto (cd. interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c., gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 5 settembre 2011, n. 4980).
Da tale premessa, deriva, quale diretto corollario, la regola secondo la quale solo in caso di oscurità ed equivocità delle clausole del bando e degli atti che regolano i rapporti tra cittadini e Amministrazione può ammettersi una lettura idonea a tutela dell'affidamento degli interessati in buona fede, non potendo generalmente addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione dell'effettiva volontà dell'Amministrazione mediante complesse indagini ermeneutiche ed integrative.

mercoledì 23 gennaio 2013

La risata del Prefetto e la parola "onore" nella nostra Costituzione.





Tutti abbiamo letto la notizia della falsa commozione del Prefetto dell'Aquila dinanzi alle macerie ed ai corpi dei ragazzi della Casa dello Studente (per i ritardatari: link dal sito "La Repubblica").

Solo una riflessione.

La parola "onore" compare soltanto una volta nella Cost., all'art. 54 co. 2:


"[...] I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge".

Una volta per toglierle quell'aura di retorica e trionfalismo datale sotto il fascismo e darle il giusto significato di "dignità" e "servizio verso i consociati".

Una volta allora? No, così intesa, non una volta, ma in in ogni articolo della nostra Costituzione è presente la parola "onore".

martedì 22 gennaio 2013

Modificare la Costituzione?


NO COMMENT.

PROCEDIMENTO: i presupposti del silenzio-inadempimento (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, sent. 16 gennaio 2013 n. 330).



PROCEDIMENTO: 
i presupposti del silenzio-inadempimento 
(T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 
sent. 16 gennaio 2013 n. 330)


Qualche breve cenno/distinzione sul silenzio-inadempimento (o "silenzio-rifiuto") per quanti fossero alle prime armi con il Diritto amministrativo (dalla Dispensa del 14.09.2012 del CORSO FRASCA 2012).

Il silenzio della P.A. può essere significativo non significativo.
1.   il primo a sua volta si distingue in silenzio-assenso (la cui norma “generale” è l’art. 20 della l. n. 241/90), silenzio-diniego (ex multis vd. l’art. 25 della . 241/90 in materia d’accesso). Il primo è un istituto “generale” e rappresenta una forma di tutela preventiva dinanzi all’inerzia della P.A., che “consuma” il suo potere per silentium. e può nuovamente provvedere solo in autotutela (in revoca od annullamento). Il secondo è eccezionale (quindi ammesso solo nelle ipotesi tassativamente indicate dalla legge).
Nel ricorso giurisdizionale si chiede pertanto l’annullamento del silenzio formatosi; nel silenzio-assenso è il terzo ad esser legittimato (interesse pretensivo), nel silenzio-diniego è lo stesso soggetto leso (interesse oppositivo).
2.  il silenzio “non significativo” consiste nel silenzio-inadempimento, detto anche “silenzio-rifiuto”; è un istituto “eccezionale” che costituisce una forma di tutela successiva, predisposta dal legislatore a favore del cittadino. La P.A. conserva il suo potere per tutta la durata dell’inadempimento; se lo esercita a giudizio instaurato, il processo si estingue per sopravvenuta carenza di interesse (il ricorso diviene improcedibile) se il provvedimento è favorevole al ricorrente, altrimenti prosegue, se sfavorevole, con la proposizione del ricorso per motivi aggiunti (in mancanza il ricorso viene dichiarato similmente improcedibile).
3.  Un tertium genus è il silenzio-rigetto di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 1199/71, disciplinante i procedimenti giustiziali (ricorso gerarchico, in opposizione, straordinario), secondo cui “Decorso il termine di novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti, e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso all'autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al Presidente della Repubblica.
I predetti termini non sono affatto quindi sinonimi, e l’errato utilizzo può denotare una mancata conoscenza o, nel caso in cui la traccia verta proprio sulla materia de qua, soluzioni errate sul piano logico-giuridico, dal momento che i vari “silenzi” non solo hanno differenti discipline, ma anche diversi presupposti e termini di impugnabilità, oltre a differenti (possibili) esiti processuali. 
Ma torniamo alla sentenza n. 330/13 del T.A.R. Campania, Napoli...

Massima

Il presupposto sostanziale del silenzio-inadempimento ricorribile ex art. 117 c.p.a. è la sussistenza di un obbligo di provvedere a fronte dell'istanza del privato, ossia di adottare un provvedimento amministrativo autoritativo, in ossequio al precetto dell'art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
In altri termini, l'omessa emanazione del provvedimento finale in tanto assume il valore di silenzio-rifiuto, in quanto sussista un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell'organo amministrativo destinatario della richiesta, mediante avvio di un procedimento amministrativo volto all'adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico.
In mancanza di un simile presupposto, l'inerzia dell'amministrazione non può qualificarsi in termini di silenzio rifiuto.
Il rimedio processuale in parola non è, quindi, esperibile contro qualsiasi tipologia di omissione amministrativa: restano esclusi dalla sua sfera applicativa non solo i casi di silenzio significativo (assenso o rigetto), ma anche gli obblighi di eseguire che richiedono, per il loro assolvimento, un'attività materiale e non provvedimentale.

Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 117 c.p.a,
sul ricorso numero di registro generale 2582 del 2012, proposto da Mario Santaniello e Giovanna Catalano, rappresentati e difesi dall’avv. Armando Profili, con domicilio eletto presso lo studio del medesimo in Napoli, via San Giacomo, n.40; 
contro
il Comune di Afragola, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Alessandra Iroso, con domicilio ex lege (art. 25 c.p.a.) presso la Segreteria di questo T.A.R; 
per
- la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione sull’atto notificato in data 25 maggio 2011, con il quale Mario Santaniello e Giovanna Catalano hanno richiesto la restituzione dell’area catastalmente censita al foglio n. 16, particella n.332, acquisita dal Comune di Afragola a seguito dell’inottemperanza alle ordinanze di demolizione di opere abusive;
nonché:
- per l’accertamento dell’obbligo del Comune di Afragola di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso;
- per l’accertamento della fondatezza della pretesa;
- per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’inerzia illegittimamente serbata dall’amministrazione;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Afragola;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2012 la Dott.ssa Brunella Bruno e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Mario Santaniello e Giovanna Catalano hanno realizzato abusivamente un immobile da destinare ad abitazione sul terreno in proprietà sito nel Comune di Afragola, alla 9° traversa San Marco; tali opere sono state sanzionate dall’amministrazione comunale con le ordinanze di demolizione n. 138/05, 157/05 e 180/05 e, successivamente sono state anche adottati i provvedimenti di acquisizione al patrimonio comunale delle opere medesime e della relativa area di sedime. I suddetti provvedimenti sono stati impugnati innanzi a questo Tribunale ed il relativo giudizio è stato definito con sentenza di rigetto n. 16537 del 2010, impugnata innanzi al Consiglio di Stato con ricorso, allo stato, pendente.
2. Con atto notificato all’amministrazione comunale il 25 novembre 2011, Mario Santaniello e Giovanna Catalano hanno diffidato l’amministrazione comunale alla restituzione dell’area catastalmente censita al foglio 16, particella n. 332 sino alla concorrenza di mq. 325 e richiesto anche, in considerazione dell’avvenuta demolizione, di procedere alla restituzione dell’intera area. Ciò, tra l’altro, sul presupposto dell’illegittimità delle ordinanze di acquisizione contestata anche nel ricorso in appello proposto avverso la prefata sentenza di questo Tribunale, nonché in considerazione del’oggetto dell’acquisizione, limitato alle opere abusive, aventi una superficie di circa mq. 275 ed alla relativa area di sedime e non esteso all’intero lotto, avente una consistenza complessiva di 600 mq..
3. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio Mario Santaniello e Giovanna Catalano hanno agito per l’accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato sulla suddetta istanza, la condanna dell’amministrazione intimata a provvedere e l’accertamento della fondatezza della pretesa, proponendo anche la domanda risarcitoria per i danni subiti in conseguenza dell’inerzia illegittimamente serbata dall’amministrazione.
4. Il Comune di Agrafola si è costituito in giudizio concludendo per il rigetto del ricorso in quanto infondato. La difesa dell’amministrazione comunale ha sostenuto, in particolare, che nella fattispecie il silenzio deve essere qualificato in termini di rigetto, con conseguente inammissibilità del rito del silenzio anche in relazione al richiesto accertamento della fondatezza della pretesa. Pare resistente, inoltre, ha prodotto in giudizio la nota di trascrizione nei registri immobiliari del provvedimento di acquisizione prot. n. 153 del 4 maggio 2006; nel relativo quadro D viene specificato l’aggetto dell’acquisizione. Tra la documentazione prodotta, inoltre, figura una successiva ordinanza di demolizione, prot. n. 159 del 16 maggio 2008, con la quale sono state sanzionate opere abusive ulteriori; a tale provvedimento ha fatto seguito l’adozione, in data 9 gennaio 2009, di un successivo provvedimento di acquisizione, riferito a subalterni della particella n. 642 dello stesso foglio 16, sempre in proprietà degli odierni ricorrenti.
5. Alla camera di consiglio del 13 dicembre 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
6. Il ricorso non merita accoglimento.
7. L’atto notificato all’amministrazione comunale si sostanzia, invero, in una richiesta di riesame diretta ad ottenere una rivalutazione delle determinazioni già assunte dall’amministrazione nonché, con riferimento alla diffida, nella richiesta di materiale restituzione di parte del bene.
8. A prescindere dalle evidenze che emergono dalla documentazione prodotta dalla difesa di parte resistente e dalla natura vincolata dei provvedimenti adottati dall’amministrazione, il Collegio ritiene di condividere il consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale non è ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un’istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del silenzio-rifiuto, giacché l'esercizio del potere di autotutela costituisce facoltà ampiamente discrezionale dell'Amministrazione; ne deriva che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio, per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è da ritenersi inammissibile (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. II, 27 giugno 2011 n. 5661; TAR Campania Napoli, Sez. III, 1 marzo 2011 n. 1260; TAR Puglia Lecce, Sez. I, 24 febbraio 2011 n. 368; TAR Lazio Roma, Sez. II, 4 febbraio 2011 n. 1073; TAR Marche, Sez. I, 8 novembre 2010 n. 3373; TAR Puglia Bari, Sez. II, 14 dicembre 2006 n. 4348; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 24 marzo 2005 n. 702). Tale orientamento è avallato anche dal giudice d’appello, il quale pure ha ribadito che l’amministrazione non ha l'obbligo, ma il potere discrezionale, di agire in autotutela, con la conseguenza che istanze volte a sollecitare l'esercizio di tale potere hanno una funzione di mera denuncia o sollecitazione, ma non creano in capo alla P.A. alcun obbligo di provvedere e non danno luogo a formazione di silenzio-inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza (Cons. St., sez. VI, 11 febbraio 2011 n. 919; id., 6 luglio 2010 n. 4308).
9. Con specifico riferimento alla parte dell’istanza contenente la diffida all’amministrazione a procedere alla restituzione dell’area, si evidenzia, altresì, che tale richiesta ha ad oggetto una mera attività materiale, sicché il ricorso si palesa, in parte qua, inammissibile.
9.1. Ed invero, presupposto sostanziale del silenzio inadempimento ricorribile ex art. 117 c.p.a. è la sussistenza di un obbligo di provvedere a fronte dell'istanza del privato, ossia di adottare un provvedimento amministrativo autoritativo, in ossequio al precetto dell'art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (cfr. Cons. St., sez. IV, 20 luglio 2005, n. 3909; sez. V, 5 ottobre 2005, n. 5325; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I quater, 1° aprile 2005, n. 2398).
9.2. In altri termini, l'omessa emanazione del provvedimento finale in tanto assume il valore di silenzio rifiuto, in quanto sussista un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell'organo amministrativo destinatario della richiesta, mediante avvio di un procedimento amministrativo volto all'adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico (Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2008, n. 2458). In mancanza di un simile presupposto, l'inerzia dell'amministrazione non può qualificarsi in termini di silenzio rifiuto.
9.3. Il rimedio processuale in parola non è, quindi, esperibile contro qualsiasi tipologia di omissione amministrativa: restano esclusi dalla sua sfera applicativa non solo i casi di silenzio significativo (assenso o rigetto), ma anche gli obblighi di eseguire che richiedono, per il loro assolvimento, un'attività materiale e non provvedimentale (Cons. Stato, sez. IV, 20 settembre 2006, n. 5500; T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 16 settembre 2009, n. 1511; T.A.R. Campania Napoli, sez. VIII, 27 maggio 2009, n. 2971;T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, 24 marzo 2006 n. 1727; TAR Lazio, Roma, sez. II, 16 luglio 2007, n. 6470; TAR Molise, Campobasso, sez. I, 2 luglio 2008, n. 655).
10. Alla luce delle considerazioni sopra svolte il ricorso va respinto.
11. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono determinate nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, lo respinge.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio a favore del Comune di Afragola, liquidandole complessivamente in € 1.000,00 (mille/00) di cui € 200,00 per spese anticipate ed il residuo per diritti ed onorari, oltre i.v.a. e c.p.a..
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Carlo D'Alessandro, Presidente
Leonardo Pasanisi, Consigliere
Brunella Bruno, Referendario, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 16/01/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

lunedì 21 gennaio 2013

ADUNANZE PLENARIE: sull'ottemperanza (massima e sentenza per esteso) [ Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013].





ADUNANZE PLENARIE:
 sull'ottemperanza 
(massima e sentenza per esteso) 
[Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013] 

Massima

1. Il giudizio di ottemperanza (cui sono state già dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza plenaria) presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale).
2. Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:
a) “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;
b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);
c) il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato. .” (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;
d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.
3. Va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”: anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ “azione di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è “il ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio).



Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 18 di A.P. del 2012, proposto da:
Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dall'avv. Domenico Tomassetti, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Pierluigi Da Palestrina,19; 
contro

Universita' degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano Prudente e Domenico Carbonara, con domicilio eletto presso Alfredo Fava in Roma, Piazzale Aldo Moro, 5;
Ministero universita' e ricerca; 
nei confronti di
Stefano Favale, rappresentato e difeso dagli avv. Vincenzo Caputi Jambrenghi, Fulvio Mastroviti e Mario Sanino, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180; 



sul ricorso numero di registro generale 19 di A.P. del 2012, proposto da:
Stefano Favale, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Vincenzo Caputi Jambrenghi e Fulvio Mastroviti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, viale Parioli, 180; 
contro
Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dagli avv. Marco Prosperetti e Domenico Tomassetti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, 19; 
nei confronti di
Università degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato e domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; 


sul ricorso numero di registro generale 20 di A.P. del 2012, proposto da:
Universita' degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano Prudente e Domenico Carbonara, con domicilio eletto presso Alfredo Fava C/O Uff. Legale Univ.La Sapienza in Roma, Piazzale Aldo Moro, 5; 
contro
Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dagli avv. Domenico Tomassetti e Marco Prosperetti, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via G. Pierluigi Da Palestrina, 19; 
nei confronti di

Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, rappresentato e difeso dall'Avvocatura, generale dello Stato e domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Stefano Favale; 
per la riforma
quanto al ricorso n. 18 del 2012:
della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari: Sezione III n. 1832/2009, resa tra le parti, concernente PROCEDURA DI VALUTAZIONE COMPARATIVA PER UN POSTO DI PROFESSORE ORDINARIO - ESEC.GIUD.TAR
quanto ai ricorsi nn. 19-20 del 2012:
della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari: Sezione II n. 447/2011, resa tra le parti, concernente APPROVAZIONE GRADUATORIA CONCORSO PER LA COPERTURA DI N.1 POSTO DI PROFESSORE ORDINARIO

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Universita' degli Studi di Bari e di Stefano Favale e di Università degli Studi di Bari e di Francesco Loperfido e di Francesco Loperfido e di Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 giugno 2012 il Cons. Alessandro Botto e uditi per le parti gli avvocati Tomassetti, Prudente, e Caputi Jambrenghi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO
1. Con ordinanza collegiale n. 2024/12 del 5 aprile 2012 la VI Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’esame dell’adunanza plenaria le questioni prospettate nei ricorsi indicati in epigrafe, previa riunione degli stessi per evidenti ragioni di connessione processuale.
2. La complessa vicenda portata all’attenzione dell’adunanza plenaria necessita di una preliminare ricostruzione (in fatto e in diritto).
2.1. Con decreto del Rettore dell’Università degli Studi di Bari n. 5453 del 24 giugno 2002 veniva indetta una procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di professore ordinario presso la Facoltà di medicina e chirurgia, settore scientifico disciplinare MED/11-malattie dell’apparato cardio-vascolare.
La commissione, nella riunione dell’11 dicembre 2004, dopo avere richiamato i criteri di valutazione individuati dal d.P.R. 19 ottobre 1998 n. 390 e dal d.P.R. 23 marzo 2000, n. 117, definiva ulteriormente i criteri stessi e quindi procedeva alla valutazione comparativa dei titoli, dei curricula e delle pubblicazioni dei candidati ammessi alla procedura e ciò si traduceva nella espressione di giudizi individuali sintetici da parte di ciascun componente e in un giudizio collegiale.
Ebbene, il giudizio riportato dal candidato Favale è risultato il seguente: “La ricerca scientifica, dedicata prevalentemente alla aritmologia, è svolta con continuità e rigore metodologico e risulta di pregevole livello. Il riconoscimento dell’apporto individuale è ben definibile. L’attività assistenziale è consona alla posizione del candidato. L’attività didattica si è svolta nel Corso di laurea in Medicina. Il giudizio complessivo sul candidato è molto buono.
Il giudizio, invece, espresso sul candidato Loperfido è stato il seguente: “L’attività scientifica del candidato presenta spunti di originalità e di innovatività con apporto individuale ben riconoscibile. L’attività didattica è ottimamente documentata. L’attività in campo clinico risulta essere ampia e continuativa, da tempo concretizzatasi con responsabilità primaziale. Il giudizio complessivo sul candidato è molto buono”.
Sulla base di tali giudizi, la commissione il 7 giugno 2005 procedeva quindi alla votazione, a seguito della quale il candidato Marino (estraneo alla presente controversia) riportava cinque voti favorevoli, il candidato Favale ne riportava tre e il candidato Loperfido due (mentre i restanti candidati non prendevano alcun voto). La commissione, pertanto, dichiarava idonei i candidati Marino e Favale.
2.2. Il successivo 25 agosto 2005 si riuniva peraltro una commissione consultiva straordinaria, incaricata dal Rettore di svolgere un esame in ordine alla regolarità degli atti della procedura seguita. Tale commissione esprimeva perplessità in merito alle ragioni che avevano condotto la commissione esaminatrice ad esprimere analoghi giudizi collegiali per i due candidati e sollecitava il Rettore a rimettere gli atti alla commissione esaminatrice per un riesame del giudizio finale.
2.3. Il Rettore accoglieva l’invito e, con provvedimento del 2 settembre 2005, rimetteva nuovamente gli atti alla commissione esaminatrice per la “rinnovazione della votazione relativa alla seconda idoneità”.
La commissione si riuniva, a tale scopo, il 25 ottobre 2005 e, dopo avere proceduto ad una riponderazione delle valutazioni dei candidati in lizza, confermava la votazione già espressa, evidenziando peraltro come nella votazione finale non si possa prescindere da una certa libertà dei votanti rispetto agli apprezzamenti precedentemente effettuati, con la conseguenza che possono aversi dei risultati non perfettamente aderenti all’ordine delle preferenze enucleabile dai giudizi espressi sui candidati stessi.
2.4. In merito interveniva nuovamente la commissione consultiva, che osservava come la commissione di concorso avesse omesso la valutazione specifica dei titoli didattici e di servizio dei candidati, traducendosi la nuova determinazione in una “tautologica e generica conferma delle determinazioni in precedenza assunte”. Di conseguenza, la commissione esprimeva il parere che gli atti della commissione esaminatrice potessero essere approvati limitatamente al concorrente prof. Paolo Marino, cha aveva riscosso l’unanimità dei voti e il Rettore, con decreto del 7 febbraio 2006, procedeva alla declaratoria di idoneità del solo candidato Marino, rimettendo nuovamente gli atti alla commissione esaminatrice quanto alla seconda idoneità.
2.5. Si riuniva nuovamente la commissione esaminatrice in data 22 marzo 2006, la quale confermava la precedente votazione ed affermava che “sebbene il prof. Loperfido presenti titoli assistenziali più consistenti, l’attività didattica viene valutata pariteticamente (cfr. il risultato della prova didattica del candidato Favale), mentre nell’attività scientifica emergono chiare differenze qualitative a vantaggio del dott. Favale, come si appalesa dai giudizi collegiali formulati nella IV riunione della commissione (a fronte della indicazione di “spunti di originalità ed innovatività” segnalati per il prof. Loperfido, l’attività scientifica del dott. Favale è definita “pregevole e caratterizzata da continuità e rigore metodologico”). In definitiva, le diversità sopra segnalate si sono riverberate sull’esito finale, che ha visto il dott. Favale prevalere con tre voti favorevoli contro due del prof. Loperfido ecc.”.
A seguito di tale giudizio, il rettore, con decreto del 31 marzo 2006, dichiarava idoneo il dott. Favale.
3. Su ricorso del prof. Loperfido, il TAR Puglia, sezione di Bari, con sentenza n. 47/2007, annullava tale dichiarazione di idoneità del dott. Favale. Infatti, il Tribunale riteneva che fosse debole la ricostruzione in termini di parità dell’attività didattica svolta dai candidati Loperfido e Favale, tanto che la commissione esaminatrice aveva dovuto dare forte peso alla prova pratica cui il dott. Favale era stato sottoposto, prova che, peraltro, la stessa commissione non aveva giudicato in termini entusiastici. Inoltre, la valutazione della produzione scientifica del prof. Loperfido non sarebbe ispirata ad un criterio logico e non avrebbe potuto essere presa in considerazione una pubblicazione del dott. Favale, poiché ancora in corso di stampa al momento di presentazione della domanda.
La sentenza di primo grado veniva poi confermata in appello dal Cons. Stato,VI, n. 1039/2008, rilevando come fosse incomprensibile che la valutazione della prova pratica svolta dal dott. Favale avesse consentito a questi di prevalere sotto il profilo della capacità ed esperienza didattica e ciò a causa: a) dell’iniziale giudizio collegiale espresso dalla commissione esaminatrice, più favorevole al prof. Loperfido (allegato 2 al verbale n. 4 del 9 maggio 2005); b) della non dimostrata equivalenza dell’attività di docenza svolta dal dott. Favale rispetto a quella del prof. Loperfido, ben più lunga (quest’ultima) nell’ambito di un corso di laurea inerente il medesimo settore scientifico-disciplinare oggetto della procedura concorsuale di cui è causa; c) dell’incomprensibilità del giudizio (di parità) fondato solo sulle risultanze della prova didattica a cui si era sottoposto il dott. Favale.
4. A seguito di tale pronuncia del Consiglio di Stato, il Rettore, con decreto 30 aprile 2008, disponeva che la commissione esaminatrice procedesse alla rinnovazione parziale della valutazione comparativa delle pubblicazioni, tenendo conto di tutte e venti le pubblicazioni del prof. Loperfido e di diciannove pubblicazioni prodotte dal dott. Favale, nonché alla rivalutazione comparativa dell’attività didattica dei due candidati.
La commissione, riaperto il procedimento, concludeva nel senso che il dott. “Favale prevale con sufficiente chiarezza nella comparazione con l’attività didattica del prof. Loperfido per la maggiore intensità dell’impegno e della responsabilità didattica ascrivibile al primo anziché al secondo (Corso di laurea a fronte di Scuole di specializzazione) nonostante la differenza di sette anni di età di laurea. L’attività scientifica vede prevalere il dott. Favale per sistematicità e originalità, rigore metodologico e continuità, dote quest’ultima soprattutto venuta a mancare all’attività scientifica del prof. Loperfido negli ultimi due-tre anni antecedenti la scadenza del termine concorsuale, come ha confermato e meglio dimostrato la rilettura delle sue venti pubblicazioni effettuata dai commissari”. Pertanto, veniva confermata la dichiarazione di idoneità del dott. Favale.
Il Rettore, con decreto del 13 ottobre 2008 n. 12312, ha poi fatto propria tale determinazione, recependola formalmente.
5. Contro tale decreto, nonché avverso gli atti presupposti, il prof Loperfido ha proposto sia ricorso per ottemperanza sia autonomo ricorso ordinario.
Con il ricorso per ottemperanza egli deduce la nullità degli atti impugnati per violazione/elusione del giudicato formatosi sulla sentenza di questo Consiglio, VI, n. 1039/2008 e chiede la nomina di un commissario ad acta estraneo all’Università di Bari.
Il TAR adito, con sentenza del 13 luglio 2009 n. 1832, ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo che la sentenza passata in giudicato sia stata formalmente eseguita e che ogni eventuale doglianza in merito avrebbe dovuto essere proposta nell’ambito di un ordinario giudizio di cognizione.
Avverso tale pronuncia il prof. Loperfido ha proposto appello (rubricato al n. 7506/2010), con cui censura la statuizione del giudice di primo grado, in quanto l’Università di Bari sarebbe incorsa nel vizio di elusione di giudicato, avendo utilizzato criteri diversi da quelli contemplati nel giudicato stesso. Aggiunge l’appellante che la commissione esaminatrice avrebbe dovuto essere sostituita.
Lo stesso TAR, con sentenza 22 marzo 2011, n. 447, ha invece accolto il ricorso ordinario pure proposto dal prof. Loperfido, ritenendo fondato il secondo motivo di censura dedotto, in quanto il nuovo giudizio non avrebbe dovuto essere formulato dalla medesima commissione, bensì da una nuova commissione esaminatrice.
Avverso tale ultima sentenza sono stati proposti due appelli: uno (rubricato al n. 4159/2011) da parte del prof. Favale e l’altro (n. 4289/2011) da parte dell’Università di Bari, con cui si lamenta che il vizio relativo alla mancata sostituzione della commissione avrebbe dovuto essere dichiarato tardivo e che, comunque, il giudicato non avrebbe imposto la sostituzione della commissione. Inoltre, il giudice avrebbe ecceduto nell’esercizio del potere giurisdizionale, operando un non consentito sindacato di merito con il quale si sarebbe sostituito alla stessa Università.
6. Con la citata ordinanza collegiale di rimessione della presente controversia all’esame dell’adunanza plenaria, previa riunione degli appelli sopra richiamati, la VI Sezione ha evidenziato l’opportunità di un esame in questa sede della questione processuale di massima circa il corretto uso degli strumenti di tutela giudiziaria ove l’amministrazione, come nel caso di specie, reiteri con uguale risultato gli atti di una selezione tecnica già annullati dal giudice amministrativo.
In sostanza, il collegio rimettente ritiene necessario affrontare il tema, di ordine generale, dell’oggetto, dei contenuti e dei limiti del giudizio di ottemperanza e della necessità di evitare duplicazioni di giudizi, in virtù del principio del ne bis in idem e delle esigenze di economia processuale.
Osserva altresì come spesso (ciò che è avvenuto nel caso di specie) vengano affiancati due giudizi, uno ordinario e uno per ottemperanza, a fronte del rinnovo dell’attività amministrativa successivamente alla formazione di un giudicato, con conseguente aggravamento della tutela giudiziaria ed inevitabile produzione di incoerenze e di incertezze nella risposta giurisdizionale.
6.1. Il collegio rimettente rappresenta poi alcuni elementi interpretativi utili alla soluzione della questione prospettata (rectius: delle questioni prospettate).
Innanzitutto evidenzia che nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta sia l’inerzia della p.a. (ossia il non facere) sia il comportamento (id est: facere) che realizzi un’ottemperanza parziale o una vera e propria violazione/elusione del giudicato. Infatti, anche un’attuazione parziale o inesatta o elusiva deve essere annoverata nella nozione di inottemperanza, al pari dell’inerzia (cfr. C.d.S., VI, 12 dicembre 2011 n. 6501). Ciò, oltretutto, appare ormai recepito nel Codice del processo amministrativo (art. 112, comma 2; 114, comma 4, lett. b), e comma 6).
Tale assunto, evidenzia il collegio rimettente, appare in linea con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo, nel cui ambito va iscritto il diritto di ottenere l’esecuzione della sentenza favorevole, oltre che in tempi rapidi, senza la necessità di dover attivare un ulteriore giudizio di cognizione.
Al riguardo viene ricordato l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto al processo (di cui all’art. 6, § 1, della relativa Convenzione) comprende anche il diritto all’esecuzione del giudicato (“diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia”). Il diritto al giusto processo, infatti, sarebbe illusorio ove non vi fossero strumenti utili per dare esecuzione al giudicato, esecuzione che non può essere indebitamente ritardata.
Ciò premesso, il collegio rimettente si chiede se la scelta della sede cui fare ricorso per la verifica della corretta esecuzione del giudicato possa essere rimessa alla scelta della parte vittoriosa in sede di giudicato, ossia alla qualifica che questi attribuisce all’azione della p.a. successiva al giudicato (violazione/elusione del giudicato o autonoma violazione) o se occorra dare prevalenza all’esigenza di frustrare i comportamenti formalmente rinnovatori, ma in realtà meramente reiterativi della precedente determinazione in relazione alla quale si è formato il giudicato.
Comunque sia, rileva il collegio rimettente che occorre previamente individuare l’esatta portata oggettiva del giudicato, tenuto conto che l’efficacia del medesimo va ricondotta al principio generale secondo cui la pronuncia giurisdizionale è aderente ai limiti oggettivi e soggettivi della controversia, da identificare nella correlazione tra petitum e causa petendi in rapporto alla dedotta lesione dell’interesse vantato e, dunque, in relazione, ai vizi dedotti. A tale riguardo viene richiamato il parametro concettuale delle azioni costitutive del processo civile e viene rammentato che l’individuazione concreta del perimetro del giudicato è rimessa all’applicazione di un elastico criterio integrativo di origine giurisprudenziale, costituente ormai diritto vivente: trattasi del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, ma nei limiti delle statuizioni indispensabili per giungere alla decisione.
Tale assunto, nella peculiarità della judicial review dell’esercizio della funzione pubblica, si sostanzia nei seguenti corollari:
a) il giudicato copre il dedotto e il deducibile, ossia non solo le questioni (di fatto e di diritto) fatte valere in via di azione o di eccezione e comunque esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le questioni che, seppure non dedotte, costituiscono un presupposto logico indefettibile della decisione; il giudicato, quindi, preclude la proposizione di domande contemplate dalla intervenuta risposta giurisdizionale, ma non la prospettazione di domande completamente nuove, che anzi assumano il giudicato quale presupposto logico;
b) la peculiarità del giudizio amministrativo, peraltro, impedisce la piena espansione del principio di cui al capo a), poiché il giudicato amministrativo non può che formarsi con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso;
c) la sede per sindacare la legittimità dell’atto in sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (e che non integrano l’ambito della deducibilità) non può, pertanto, che essere il giudizio ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza;
d) la domanda risarcitoria sulla quale il giudice non si sia pronunciato dovrà, quindi, essere proposta in autonomo giudizio di cognizione;
e) gli effetti del giudicato di rigetto si estendono anche a tutte le questioni inerenti l’esistenza e la validità del rapporto dedotto in giudizio che siano state vagliate, anche implicitamente, nella sentenza.
6.2. Quanto alla natura del giudicato amministrativo, evidenzia il collegio rimettente che esso ha un contenuto complesso, non limitato agli effetti demolitori e ripristinatori della situazione quo ante, ma ricomprendente anche effetti conformativi rivolti al futuro, che si traducono in vincoli imposti alla p.a. in sede di riedizione del potere amministrativo successivamente al decisum giurisdizionale.
Tale assetto ricostruttivo va poi coniugato con i principi di effettività della tutela giurisdizionale, nonché con i principi di celerità della risposta giurisdizionale e di lealtà processuale (che a loro volta sono espressione del più generale principio di buona fede): ciò comporta che occorre interpretare il giudicato secondo un complessivo canone di buona fede al fine di consentire l’espansione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
6.3. Afferma in particolare il collegio rimettente che il cpa. sembra mostrare un favor per la concentrazione nell’alveo del giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono dopo un giudicato e che siano afferenti alla sua esecuzione.
Peraltro, e qui sta il cuore della rimessione all’adunanza plenaria, tale favor non pare che possa spingersi fino al punto di poter affermare che qualsiasi provvedimento adottato dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, e che non sia satisfattivo della pretesa del ricorrente vittorioso, debba essere portato davanti al solo giudice dell’ottemperanza. Infatti, ove il nuovo atto successivo al giudicato non sia elusivo o in violazione del giudicato, ma autonomamente lesivo, poiché va a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato, l’azione corretta, afferma il collegio rimettente, è quella del ricorso ordinario di cognizione (cfr, in questo senso, anche la prima giurisprudenza formatasi dopo l’entrata in vigore del cpa: C.d.S., VI, 15 novembre 2010 n. 8053).
Il discrimen tra violazione/elusione del giudicato e nuova autonoma violazione può essere compiuto con esemplificazione casistica per categorie generali relative ai tipi di vizi dell’azione amministrativa su cui incide il giudicato. In sostanza, si tratta di stabilire quali sono i limiti che derivano dal giudicato al rinnovo dell’azione amministrativa e quali sono, invece, gli spazi bianchi lasciati ad un’autonoma e nuova valutazione.
In attuazione di tale ricostruzione consegue che, ove il giudicato comporti l’annullamento del provvedimento solo per vizi formali, è indubbio che residui spazio pieno per il rinnovo della valutazione dell’amministrazione: in questa ipotesi, ove la p.a. elimini i vizi formali, ma ciononostante adotti un provvedimento non satisfattivo della pretesa, è pacifico che si determini non una violazione/elusione del giudicato, ma una eventuale nuova autonoma illegittimità.
Ad analoghe conclusioni, afferma sempre il collegio rimettente, si deve pervenire ove il giudicato si formi in relazione al silenzio-inadempimento e si limiti ad affermare l’obbligo di provvedere: anche in questo caso il provvedimento espresso successivo al giudicato potrà essere eventualmente impugnato per vizi autonomi, da dedurre in sede di ricorso ordinario di cognizione.
Evidenzia in proposito il collegio rimettente che una parte della giurisprudenza afferma che, dopo la formazione del giudicato, la p.a. possa individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola; aggiunge, peraltro, che tale tesi, se può essere condivisa a fronte di un potere discrezionale, non sembra invece condivisibile nel caso di reiterazione di un’attività vincolata o nel caso di attività caratterizzata da cosiddetta discrezionalità tecnica. In questi casi, infatti, la p.a. (al di fuori dell’autotutela o dell’enucleazione di cause ostative legali) non può utilizzare in danno del vincitore elementi del tutto incontroversi e mai messi in discussione.
Alla luce di ciò, conclude il collegio rimettente, si dovrebbe ritenere che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, dia luogo a violazione/elusione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione.
7. All’odierna udienza, sentiti i difensori di cui al verbale, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Vengono poste all’esame dell’adunanza plenaria rilevanti questioni che attengono, in primo luogo, all’esigenza di conferire adeguata effettività alle sentenze del giudice amministrativo e, al contempo, alla necessità, da un lato, di contenere in tempi ragionevoli la risposta giurisdizionale e, dall’altro, di evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela giurisdizionale stessa.
Quanto a quest’ultimo profilo, il caso di specie appare emblematico nell’evidenziare le difficoltà per gli interessati di individuare un chiaro percorso al riguardo. Il ricorrente, vincitore in sede cognitoria, ha difatti attivato due ricorsi, uno in sede di ottemperanza (dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado) ed uno in sede di cognizione (accolto per un motivo formale) e tale modus operandi è di frequente utilizzo in presenza di un giudicato, a dimostrazione delle incertezze tuttora esistenti sulle tecniche di tutela in materia.
Sul piano sostanziale, poi, il problema portato all’attenzione di questo consesso risiede nella individuazione di un equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo, assetto che peraltro non può che essere delineato sul piano dei principi, poiché il concreto atteggiarsi del singolo giudicato nei confronti del sopravvenuto esercizio della funzione amministrativa non può che essere rimesso all’analisi della vicenda specifica (cfr., C.d.S., A.P., 22 dicembre 1982 n. 19).
2. Il caso oggetto dei presenti giudizi, l’uno di ottemperanza e l’altro di cognizione e portati unitariamente all’esame dell’adunanza plenaria, postula necessariamente, anche al fine preliminare di verificare la correttezza della riunione, che sia delineata l’attuale configurazione del giudizio di ottemperanza, quale essa risulta, non solo dalle acquisizioni giurisprudenziali, ma anche e soprattutto alla luce del codice del processo amministrativo.
Ebbene, ciò che risulta evidente dall’esame della disciplina codicistica è che il giudizio di ottemperanza (cui sono state già dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza plenaria) presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale).
Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:
a)l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;
b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);
c) il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato. .” (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;
d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.
Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina azioni diverse (al di là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’ “attuazione” richiesta ad una “esecuzione” della sentenza (o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo.
A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”: anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ “azione di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è “il ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio).
In conclusione, l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del “giudizio” e dell’ “azione di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto.
3. E’ in questo quadro normativo che occorre, dunque, procedere preliminarmente all’esame dell’ammissibilità della riunione dei due appelli in esame, operata dal collegio remittente.
Ebbene, ritiene questa adunanza plenaria che tale riunione sia possibile, tenuto conto dell’esigenza di simultaneus processus che caratterizza il tipo di doglianze prospettate dai ricorrenti.
E’ noto che, in via generale, la riunione dei ricorsi, per ragioni di connessione (art. 70 cpa), può essere disposta in riferimento a cause che attengono al medesimo tipo di giudizio e sempre che i ricorsi pendano nel medesimo “grado”. Tanto si ricava, sempre in via generale, oltre che dalla lettura delle disposizioni del codice di procedura civile (cui il codice del processo amministrativo effettua rinvio: art. 39, comma 1, cpa), anche dalle norme dello stesso Codice del processo amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di “pluralità delle domande e conversione delle azioni”, prevede che “è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse”.
Nondimeno, l’adunanza ritiene che i due giudizi in questione, pur nella evidente differenza di tipologia, debbano essere trattati in modo unitario.
Ed infatti, proprio perché ciò che viene richiesto al giudice, sia pure per il tramite dell’instaurazione di due distinti giudizi, è innanzi tutto la concreta e precisa configurazione della patologia dell’atto adottato (precisamente: se esso debba essere considerato nullo, in quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero illegittimo per vizi propri e per la prima volta rilevabili), il giudice stesso non può che essere chiamato ad un esame complessivo della vicenda.
L’instaurazione di due distinti giudizi – che è conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia dell’azione. Il che, come è evidente, non può che avvenire se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande, ancorchè le stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza.
Fermi, dunque, i principi generali in tema di riunione sopra individuati, in questo caso - provvisto di una sua evidente specificità - la riunione dei ricorsi appare coerente con il principio di effettività (completezza) della tutela giurisdizionale, rendendo possibile la valutazione complessiva del giudice di una pretesa di parte sostanzialmente unitaria.
In attuazione di quanto esposto, occorre quindi ritenere corretto che nel caso di specie si sia proceduto alla riunione dei due appelli originati, rispettivamente, dal giudizio di ottemperanza e dal giudizio di cognizione.
4. Quanto ora affermato sulla correttezza della riunione dei due appelli sollecita a questa adunanza plenaria una ulteriore riflessione.
Ed infatti, le medesime ragioni – che il Collegio ha qui evidenziato per così dire ex post, a giustificazione della riunione disposta dal giudice remittente – rendono possibile, sia pure nei termini e limiti di seguito esposti, sostenere l’ammissibilità di un solo ricorso, in luogo dei due che la parte è spesso, per ovvie ragioni di “cautela processuale”, necessitata ad esperire avverso i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di proprio precedente provvedimento.
In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità.
Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori.
Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda.
Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.
Ciò appare consentito dall’art. 32, co. 2, primo periodo, cpa, in base al quale “il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali”, e la conversione dell’azione è ben possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma – “sussistendone i presupposti”.
Ciò peraltro presuppone che tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa: il rispetto del termine decadenziale per la corretta instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla disciplina del giudizio impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei “presupposti” (tra i quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale), effettuato dall’art. 32, co. 2, cpa.
Giova osservare, infine, che la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), cpa, è competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e dunque – come si è già evidenziato - della più grave delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti.
5. Ciò premesso e venendo al caso in esame, è ben noto come sia jus receptum l’assunto che il giudicato amministrativo si presenti in modo poliforme, a seconda delle situazioni giuridiche coinvolte e delle censure dedotte.
Infatti, il ricorrente può far valere mere censure formali nei confronti dell’azione amministrativa, ovvero vizi più pregnanti, che afferiscono alla sussistenza dei presupposti per ottenere il bene della vita; la sua domanda poi, può tendere ad opporsi ad un’azione della p.a, (in questo caso di frequente vengono prospettate censure formali, che comunque consentono di sterilizzare l’iniziativa della p.a.) , ovvero può prospettare una pretesa (e in questo caso contemplerà usualmente censure di carattere sostanziale, tendenti a dimostrare la fondatezza della pretesa stessa).
E dunque è altrettanto pacifico che la sentenza del giudice amministrativo si atteggia in modo differente a seconda che abbia ad oggetto una situazione oppositiva o una vera e propria pretesa nonchè a seconda del vizio accolto.
E’ in questo quadro variegato che va posta e risolta la questione dell’annoverabilità nell’ambito del giudicato non solo del “dedotto” (ossia di ciò che espressamente è stato oggetto di contestazione ed esame), ma anche del “deducibile” (id est: ciò che, pur non espressamente trattato, si pone come presupposto/corollario indefettibile del thema decidendum).
Va premesso peraltro che la questione si può porre solo nei riguardi dell’attività oggetto di esame giudiziale, in quanto tale anteriore a quest’ultimo: infatti, l’esigenza di certezza, propria del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non può proiettare l’effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non contemplate in precedenza.
La questione si pone invece ove la riedizione del potere (come nel caso in esame) si concreti nel valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del giudice.
In tal caso l’adunanza plenaria ritiene che non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice.
E’ ben consapevole l’adunanza delle tesi da tempo avanzate che, facendo leva sul principio di effettività della giustizia amministrativa, prospettano la necessità di pervenire all’affermazione del divieto di ogni riedizione del potere a seguito di un giudicato sfavorevole, ma non ritiene di poter aderire a tale indirizzo che appare contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione e non imposto dalle pur rilevanti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina della materia in Paesi dell’Unione europea a noi più vicini (si pensi alla Francia ed alla Germania) nei confronti dei quali possiamo vantare un sistema di esecuzione del giudicato amministrativo – l’ottemperanza appunto – sicuramente più avanzato.
Ma va subito aggiunto che la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli.
5.1. Anzitutto, poiché il cpa abilita all’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti della pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa, consegue che sempre di più l’azione davanti al giudice amministrativo sia qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza doversi limitare all’esame tramite il prisma dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S., adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3). In questo modo, oltretutto, si recupera un lontano indirizzo giurisprudenziale, poi abbandonato in ossequio al modello giuridico idealistico che per lunghi anni ha prevalso nel nostro ordinamento, secondo il quale si riteneva possibile un immediato e diretto accesso al fatto nei casi in cui la pretesa al bene della vita non dovesse essere filtrata da una valutazione discrezionale, rimessa alla esclusiva competenza della p.a.: cfr. C.d.S., IV, 13 giugno 1902, De Paulis contro Provincia di Aquila, con nota adesiva della migliore dottrina dell’epoca).
Da ciò discende che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa (di recente C.d.S., VI, 19 giugno 2012, n. 3569 ha affermato che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità anche della normativa sopravvenuta): tale assetto appare, oltretutto, coerente con l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa in precedenza richiamata e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (in questo senso, cfr. CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia) .
5.2. Ma anche là dove non siano i fatti ad essere messi in discussione bensì la loro valutazione (come nel caso in esame, in cui i dati sull’attività didattica erano incontestati ed è cambiata invece la loro valutazione), non va dimenticato che alla stregua del principio ribadito anche dall’art. 112, comma primo, del codice, su tutte le parti incombe l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice; e ciò vale specialmente per la pubblica amministrazione, in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante complemento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale).
Tale richiamo non deve apparire come un formale appello a principi inveterati ma di scarsa rilevanza effettuale, poiché l’esigenza di dare esecuzione secondo buona fede alla decisione giurisdizionale amministrativa è alla base di qualsiasi ricostruzione interpretativa della materia: la pubblica amministrazione, infatti, ha l’obbligo di soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso e di non frustrare la sua legittima aspettativa con comportamenti elusivi.
Ed invero, occorre che la p.a. attivi una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se è vero che la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al doveroso rispetto del giudicato.
Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece, l’espressione di una gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e in quanto tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i principi di correttezza e buona fede.
Ed è inutile dire che la relativa argomentazione deve essere tanto più esplicita e pregnante nel caso in cui il riesame sia effettuato dagli stessi soggetti del primo giudizio.
6. Occorre ora fare applicazione dei principi testé enunciati al caso di specie: il prof. Loperfido, ricorrente vittorioso in sede cognitoria (C.d.S., VI, 11 marzo 2008 n. 1039), ha proposto azione di ottemperanza con cui ha dedotto la nullità degli atti in cui si è sostanziato, con la rinnovata valutazione dei candidati, il riesercizio della funzione amministrativa.
Egli, infatti, ha denunciato la violazione, elusione del giudicato formatosi, ritenendo che la commissione esaminatrice abbia in sostanza disatteso la statuizione del giudice amministrativo, avendo operato la nuova valutazione sulla base di criteri completamente diversi da quelli che erano stati utilizzati in precedenza nella procedura valutativa in esame.
In concreto, il ricorrente vittorioso ha quindi dedotto che la mancata soddisfazione della propria pretesa fosse imputabile proprio ad una non corretta applicazione del decisum giurisdizionale ed, anzi, ad un vero e proprio stravolgimento della stessa, attuato mediante l’utilizzo di nuovi criteri esulanti dall’alveo procedimentale portato all’esame del giudice. Ciò in evidente violazione, altresì, del principio di buona fede, avendo in pratica la p.a. frustrato la pretesa del ricorrente mediante l’utilizzo di un corredo motivazionale nuovo, che tendeva a confermare il precedente risultato mediante l’utilizzo di un percorso logico differente da quello in precedenza utilizzato.
Ebbene, tale situazione, in base a quanto sopra affermato, appare sicuramente annoverabile nell’ambito delle controversie devolute alla cognizione del giudice dell’ottemperanza, poiché evidente è il fatto che la pretesa illegittimità dell’azione amministrativa trova fondamento e parametro di valutazione proprio nella mancata coerenza con la decisione giurisdizionale. In altre parole, l’azione amministrativa successiva alla decisione viene prospettata come disallineata rispetto al contenuto del giudicato formatosi nel caso di specie e ciò, ovviamente, non in base alla mera qualificazione fornita dal ricorrente, ma sulla scorta dell’analisi intrinseca della natura dei vizi dedotti.
La domanda proposta dal ricorrente in sede di ottemperanza mirava dunque ad evidenziare che l’accertamento giurisdizionale aveva avuto ad oggetto determinati presupposti della pretesa sostanziale dedotta in sede cognitoria, in relazione ai quali si doveva ritenere esteso l’effetto del giudicato, con conseguente esistenza in proposito di un vero e proprio vincolo per la riedizione dell’azione amministrativa. E tale vincolo sarebbe stato infranto dalla susseguente attività amministrativa della commissione esaminatrice, che avrebbe in pratica eluso il decisum mediante un artificio logico consistente nell’adozione di un differente percorso logico motivazionale.
Il ricorso per ottemperanza proposto dal prof. Loperfido, pertanto, non avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile ed ha quindi errato il giudice di primo grado nel qualificarlo come tale.
7. Diversa questione, invece, è quella della fondatezza o meno del ricorso medesimo, alla luce dei principi fin qui enunciati, ai quali deve attenersi l’azione dell’amministrazione in sede di riedizione del potere dopo la pronuncia del giudice.
Questa valutazione viene peraltro rimessa all’esame della Sezione, ai sensi dell’art. 99, comma 4, cpa.
8. Quanto al secondo giudizio relativo agli appelli proposti dal prof. Favale e dall’Università di Bari avverso la sentenza del giudice di primo grado, emessa in sede di giudizio di cognizione, che ha invece accolto (per un motivo formale) il ricorso pure proposto dal prof. Loperfido, esso va rimesso alla sezione per le valutazioni sia di ordine pregiudiziale, si è visto infatti che la permanenza dell’interesse dipende dalla decisione dell’altra domanda, che di merito.
La decisione in ordine alle spese viene rinviata alla decisione finale
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria), non definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe, riuniti, così provvede:
1. accoglie l’appello proposto da Francesco Loperfido (n. 18/2012 A.P.) e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto dal ricorrente;
2. restituisce per il resto il giudizio alla Sezione remittente.
Spese al definitivo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 18 giugno 2012 e 19 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Giancarlo Coraggio, Presidente
Giorgio Giovannini, Presidente
Gaetano Trotta, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Botto, Consigliere, Estensore
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Marzio Branca, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Anna Leoni, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere


IL PRESIDENTE



L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 15/01/2013
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione