ADUNANZE PLENARIE:
sull'ottemperanza
(massima e sentenza per esteso)
[Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013]
Massima
1. Il giudizio di ottemperanza (cui sono state già dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza plenaria) presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale).
2. Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:
a) “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;
b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);
c) il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato. .” (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;
d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.
3. Va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”: anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ “azione di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è “il ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio).
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il
Consiglio di Stato
in
sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 18
di A.P. del 2012, proposto da:
Francesco Loperfido, rappresentato e difeso dall'avv. Domenico Tomassetti, con
domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Pierluigi Da
Palestrina,19;
contro
Universita' degli Studi di Bari,
rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano Prudente e Domenico Carbonara, con
domicilio eletto presso Alfredo Fava in Roma, Piazzale Aldo Moro, 5;
Ministero universita' e ricerca;
nei
confronti di
Stefano Favale, rappresentato e difeso
dagli avv. Vincenzo Caputi Jambrenghi, Fulvio Mastroviti e Mario Sanino, con
domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180;
sul ricorso numero di registro generale 19
di A.P. del 2012, proposto da:
Stefano Favale, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Vincenzo Caputi
Jambrenghi e Fulvio Mastroviti, con domicilio eletto presso il primo in Roma,
viale Parioli, 180;
contro
Francesco Loperfido, rappresentato e
difeso dagli avv. Marco Prosperetti e Domenico Tomassetti, con domicilio eletto
presso il primo in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, 19;
nei
confronti di
Università degli Studi di Bari,
rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato e domiciliata per
legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
sul ricorso numero di registro generale 20
di A.P. del 2012, proposto da:
Universita' degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dagli avv. Gaetano
Prudente e Domenico Carbonara, con domicilio eletto presso Alfredo Fava C/O
Uff. Legale Univ.La Sapienza in Roma, Piazzale Aldo Moro, 5;
contro
Francesco Loperfido, rappresentato e
difeso dagli avv. Domenico Tomassetti e Marco Prosperetti, con domicilio eletto
presso il primo in Roma, via G. Pierluigi Da Palestrina, 19;
nei
confronti di
Ministero dell'istruzione,
dell'universita' e della ricerca, rappresentato e difeso dall'Avvocatura, generale
dello Stato e domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Stefano Favale;
per
la riforma
quanto al ricorso n. 18 del 2012:
della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari:
Sezione III n. 1832/2009, resa tra le parti, concernente PROCEDURA DI
VALUTAZIONE COMPARATIVA PER UN POSTO DI PROFESSORE ORDINARIO - ESEC.GIUD.TAR
quanto ai ricorsi nn. 19-20 del 2012:
della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari:
Sezione II n. 447/2011, resa tra le parti, concernente APPROVAZIONE GRADUATORIA
CONCORSO PER LA COPERTURA DI N.1 POSTO DI PROFESSORE ORDINARIO
Visti i ricorsi in appello e i relativi
allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio
dell’Universita' degli Studi di Bari e di Stefano Favale e di Università degli
Studi di Bari e di Francesco Loperfido e di Francesco Loperfido e di Ministero
dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno
18 giugno 2012 il Cons. Alessandro Botto e uditi per le parti gli avvocati
Tomassetti, Prudente, e Caputi Jambrenghi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto
quanto segue.
FATTO
1. Con ordinanza collegiale n. 2024/12 del
5 aprile 2012 la VI Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’esame
dell’adunanza plenaria le questioni prospettate nei ricorsi indicati in
epigrafe, previa riunione degli stessi per evidenti ragioni di connessione
processuale.
2. La complessa vicenda portata
all’attenzione dell’adunanza plenaria necessita di una preliminare
ricostruzione (in fatto e in diritto).
2.1. Con decreto del Rettore
dell’Università degli Studi di Bari n. 5453 del 24 giugno 2002 veniva indetta
una procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di
professore ordinario presso la Facoltà di medicina e chirurgia, settore
scientifico disciplinare MED/11-malattie dell’apparato cardio-vascolare.
La commissione, nella riunione dell’11
dicembre 2004, dopo avere richiamato i criteri di valutazione individuati dal
d.P.R. 19 ottobre 1998 n. 390 e dal d.P.R. 23 marzo 2000, n. 117, definiva
ulteriormente i criteri stessi e quindi procedeva alla valutazione comparativa
dei titoli, dei curricula e delle pubblicazioni dei candidati
ammessi alla procedura e ciò si traduceva nella espressione di giudizi
individuali sintetici da parte di ciascun componente e in un giudizio
collegiale.
Ebbene, il giudizio riportato dal
candidato Favale è risultato il seguente: “La ricerca scientifica, dedicata
prevalentemente alla aritmologia, è svolta con continuità e rigore metodologico
e risulta di pregevole livello. Il riconoscimento dell’apporto individuale è
ben definibile. L’attività assistenziale è consona alla posizione del
candidato. L’attività didattica si è svolta nel Corso di laurea in Medicina. Il
giudizio complessivo sul candidato è molto buono.”
Il giudizio, invece, espresso sul
candidato Loperfido è stato il seguente: “L’attività scientifica del
candidato presenta spunti di originalità e di innovatività con apporto
individuale ben riconoscibile. L’attività didattica è ottimamente documentata.
L’attività in campo clinico risulta essere ampia e continuativa, da tempo
concretizzatasi con responsabilità primaziale. Il giudizio complessivo sul
candidato è molto buono”.
Sulla base di tali giudizi, la commissione
il 7 giugno 2005 procedeva quindi alla votazione, a seguito della quale il
candidato Marino (estraneo alla presente controversia) riportava cinque voti
favorevoli, il candidato Favale ne riportava tre e il candidato Loperfido due
(mentre i restanti candidati non prendevano alcun voto). La commissione,
pertanto, dichiarava idonei i candidati Marino e Favale.
2.2. Il successivo 25 agosto 2005 si riuniva
peraltro una commissione consultiva straordinaria, incaricata dal Rettore di
svolgere un esame in ordine alla regolarità degli atti della procedura seguita.
Tale commissione esprimeva perplessità in merito alle ragioni che avevano
condotto la commissione esaminatrice ad esprimere analoghi giudizi collegiali
per i due candidati e sollecitava il Rettore a rimettere gli atti alla
commissione esaminatrice per un riesame del giudizio finale.
2.3. Il Rettore accoglieva l’invito e, con
provvedimento del 2 settembre 2005, rimetteva nuovamente gli atti alla
commissione esaminatrice per la “rinnovazione della votazione relativa alla
seconda idoneità”.
La commissione si riuniva, a tale scopo,
il 25 ottobre 2005 e, dopo avere proceduto ad una riponderazione delle
valutazioni dei candidati in lizza, confermava la votazione già espressa,
evidenziando peraltro come nella votazione finale non si possa prescindere da
una certa libertà dei votanti rispetto agli apprezzamenti precedentemente
effettuati, con la conseguenza che possono aversi dei risultati non
perfettamente aderenti all’ordine delle preferenze enucleabile dai giudizi
espressi sui candidati stessi.
2.4. In merito interveniva nuovamente la
commissione consultiva, che osservava come la commissione di concorso avesse
omesso la valutazione specifica dei titoli didattici e di servizio dei
candidati, traducendosi la nuova determinazione in una “tautologica e
generica conferma delle determinazioni in precedenza assunte”. Di
conseguenza, la commissione esprimeva il parere che gli atti della commissione
esaminatrice potessero essere approvati limitatamente al concorrente prof.
Paolo Marino, cha aveva riscosso l’unanimità dei voti e il Rettore, con decreto
del 7 febbraio 2006, procedeva alla declaratoria di idoneità del solo candidato
Marino, rimettendo nuovamente gli atti alla commissione esaminatrice quanto
alla seconda idoneità.
2.5. Si riuniva nuovamente la commissione
esaminatrice in data 22 marzo 2006, la quale confermava la precedente votazione
ed affermava che “sebbene il prof. Loperfido presenti titoli assistenziali
più consistenti, l’attività didattica viene valutata pariteticamente (cfr. il
risultato della prova didattica del candidato Favale), mentre nell’attività
scientifica emergono chiare differenze qualitative a vantaggio del dott.
Favale, come si appalesa dai giudizi collegiali formulati nella IV riunione
della commissione (a fronte della indicazione di “spunti di originalità ed
innovatività” segnalati per il prof. Loperfido, l’attività
scientifica del dott. Favale è definita “pregevole e caratterizzata da
continuità e rigore metodologico”). In definitiva, le diversità sopra segnalate
si sono riverberate sull’esito finale, che ha visto il dott. Favale prevalere
con tre voti favorevoli contro due del prof. Loperfido ecc.”.
A seguito di tale giudizio, il rettore,
con decreto del 31 marzo 2006, dichiarava idoneo il dott. Favale.
3. Su ricorso del prof. Loperfido, il TAR
Puglia, sezione di Bari, con sentenza n. 47/2007, annullava tale dichiarazione
di idoneità del dott. Favale. Infatti, il Tribunale riteneva che fosse debole
la ricostruzione in termini di parità dell’attività didattica svolta dai candidati
Loperfido e Favale, tanto che la commissione esaminatrice aveva dovuto dare
forte peso alla prova pratica cui il dott. Favale era stato sottoposto, prova
che, peraltro, la stessa commissione non aveva giudicato in termini
entusiastici. Inoltre, la valutazione della produzione scientifica del prof.
Loperfido non sarebbe ispirata ad un criterio logico e non avrebbe potuto
essere presa in considerazione una pubblicazione del dott. Favale, poiché
ancora in corso di stampa al momento di presentazione della domanda.
La sentenza di primo grado veniva poi
confermata in appello dal Cons. Stato,VI, n. 1039/2008, rilevando come fosse
incomprensibile che la valutazione della prova pratica svolta dal dott. Favale
avesse consentito a questi di prevalere sotto il profilo della capacità ed
esperienza didattica e ciò a causa: a) dell’iniziale giudizio collegiale
espresso dalla commissione esaminatrice, più favorevole al prof. Loperfido
(allegato 2 al verbale n. 4 del 9 maggio 2005); b) della non dimostrata
equivalenza dell’attività di docenza svolta dal dott. Favale rispetto a quella
del prof. Loperfido, ben più lunga (quest’ultima) nell’ambito di un corso di
laurea inerente il medesimo settore scientifico-disciplinare oggetto della
procedura concorsuale di cui è causa; c) dell’incomprensibilità del giudizio
(di parità) fondato solo sulle risultanze della prova didattica a cui si era
sottoposto il dott. Favale.
4. A seguito di tale pronuncia del
Consiglio di Stato, il Rettore, con decreto 30 aprile 2008, disponeva che la
commissione esaminatrice procedesse alla rinnovazione parziale della
valutazione comparativa delle pubblicazioni, tenendo conto di tutte e venti le
pubblicazioni del prof. Loperfido e di diciannove pubblicazioni prodotte dal
dott. Favale, nonché alla rivalutazione comparativa dell’attività didattica dei
due candidati.
La commissione, riaperto il procedimento,
concludeva nel senso che il dott. “Favale prevale con sufficiente chiarezza
nella comparazione con l’attività didattica del prof. Loperfido per la maggiore
intensità dell’impegno e della responsabilità didattica ascrivibile al primo
anziché al secondo (Corso di laurea a fronte di Scuole di specializzazione)
nonostante la differenza di sette anni di età di laurea. L’attività scientifica
vede prevalere il dott. Favale per sistematicità e originalità, rigore
metodologico e continuità, dote quest’ultima soprattutto venuta a mancare
all’attività scientifica del prof. Loperfido negli ultimi due-tre anni
antecedenti la scadenza del termine concorsuale, come ha confermato e meglio
dimostrato la rilettura delle sue venti pubblicazioni effettuata dai commissari”.
Pertanto, veniva confermata la dichiarazione di idoneità del dott. Favale.
Il Rettore, con decreto del 13 ottobre
2008 n. 12312, ha poi fatto propria tale determinazione, recependola
formalmente.
5. Contro tale decreto, nonché avverso gli
atti presupposti, il prof Loperfido ha proposto sia ricorso per ottemperanza
sia autonomo ricorso ordinario.
Con il ricorso per ottemperanza egli
deduce la nullità degli atti impugnati per violazione/elusione del giudicato
formatosi sulla sentenza di questo Consiglio, VI, n. 1039/2008 e chiede la
nomina di un commissario ad acta estraneo all’Università di
Bari.
Il TAR adito, con sentenza del 13 luglio
2009 n. 1832, ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo che la sentenza
passata in giudicato sia stata formalmente eseguita e che ogni eventuale
doglianza in merito avrebbe dovuto essere proposta nell’ambito di un ordinario
giudizio di cognizione.
Avverso tale pronuncia il prof. Loperfido
ha proposto appello (rubricato al n. 7506/2010), con cui censura la statuizione
del giudice di primo grado, in quanto l’Università di Bari sarebbe incorsa nel
vizio di elusione di giudicato, avendo utilizzato criteri diversi da quelli contemplati
nel giudicato stesso. Aggiunge l’appellante che la commissione esaminatrice
avrebbe dovuto essere sostituita.
Lo stesso TAR, con sentenza 22 marzo 2011,
n. 447, ha invece accolto il ricorso ordinario pure proposto dal prof.
Loperfido, ritenendo fondato il secondo motivo di censura dedotto, in quanto il
nuovo giudizio non avrebbe dovuto essere formulato dalla medesima commissione,
bensì da una nuova commissione esaminatrice.
Avverso tale ultima sentenza sono stati
proposti due appelli: uno (rubricato al n. 4159/2011) da parte del prof. Favale
e l’altro (n. 4289/2011) da parte dell’Università di Bari, con cui si lamenta
che il vizio relativo alla mancata sostituzione della commissione avrebbe
dovuto essere dichiarato tardivo e che, comunque, il giudicato non avrebbe
imposto la sostituzione della commissione. Inoltre, il giudice avrebbe ecceduto
nell’esercizio del potere giurisdizionale, operando un non consentito sindacato
di merito con il quale si sarebbe sostituito alla stessa Università.
6. Con la citata ordinanza collegiale di
rimessione della presente controversia all’esame dell’adunanza plenaria, previa
riunione degli appelli sopra richiamati, la VI Sezione ha evidenziato
l’opportunità di un esame in questa sede della questione processuale di massima
circa il corretto uso degli strumenti di tutela giudiziaria ove
l’amministrazione, come nel caso di specie, reiteri con uguale risultato gli
atti di una selezione tecnica già annullati dal giudice amministrativo.
In sostanza, il collegio rimettente ritiene
necessario affrontare il tema, di ordine generale, dell’oggetto, dei contenuti
e dei limiti del giudizio di ottemperanza e della necessità di evitare
duplicazioni di giudizi, in virtù del principio del ne bis in idem e
delle esigenze di economia processuale.
Osserva altresì come spesso (ciò che è
avvenuto nel caso di specie) vengano affiancati due giudizi, uno ordinario e
uno per ottemperanza, a fronte del rinnovo dell’attività amministrativa
successivamente alla formazione di un giudicato, con conseguente aggravamento
della tutela giudiziaria ed inevitabile produzione di incoerenze e di
incertezze nella risposta giurisdizionale.
6.1. Il collegio rimettente rappresenta
poi alcuni elementi interpretativi utili alla soluzione della questione
prospettata (rectius: delle questioni prospettate).
Innanzitutto evidenzia che nel giudizio di
ottemperanza può essere dedotta sia l’inerzia della p.a. (ossia il non facere)
sia il comportamento (id est: facere) che realizzi un’ottemperanza
parziale o una vera e propria violazione/elusione del giudicato. Infatti, anche
un’attuazione parziale o inesatta o elusiva deve essere annoverata nella
nozione di inottemperanza, al pari dell’inerzia (cfr. C.d.S., VI, 12 dicembre
2011 n. 6501). Ciò, oltretutto, appare ormai recepito nel Codice del processo
amministrativo (art. 112, comma 2; 114, comma 4, lett. b), e comma 6).
Tale assunto, evidenzia il collegio
rimettente, appare in linea con i principi di effettività della tutela
giurisdizionale e di ragionevole durata del processo, nel cui ambito va
iscritto il diritto di ottenere l’esecuzione della sentenza favorevole, oltre
che in tempi rapidi, senza la necessità di dover attivare un ulteriore giudizio
di cognizione.
Al riguardo viene ricordato l’insegnamento
della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto al processo
(di cui all’art. 6, § 1, della relativa Convenzione) comprende anche il diritto
all’esecuzione del giudicato (“diritto all’esecuzione delle decisioni di
giustizia”). Il diritto al giusto processo, infatti, sarebbe illusorio ove
non vi fossero strumenti utili per dare esecuzione al giudicato, esecuzione che
non può essere indebitamente ritardata.
Ciò premesso, il collegio rimettente si
chiede se la scelta della sede cui fare ricorso per la verifica della corretta
esecuzione del giudicato possa essere rimessa alla scelta della parte
vittoriosa in sede di giudicato, ossia alla qualifica che questi attribuisce
all’azione della p.a. successiva al giudicato (violazione/elusione del
giudicato o autonoma violazione) o se occorra dare prevalenza all’esigenza di
frustrare i comportamenti formalmente rinnovatori, ma in realtà meramente
reiterativi della precedente determinazione in relazione alla quale si è
formato il giudicato.
Comunque sia, rileva il collegio
rimettente che occorre previamente individuare l’esatta portata oggettiva del
giudicato, tenuto conto che l’efficacia del medesimo va ricondotta al principio
generale secondo cui la pronuncia giurisdizionale è aderente ai limiti
oggettivi e soggettivi della controversia, da identificare nella correlazione
tra petitum e causa petendi in rapporto alla
dedotta lesione dell’interesse vantato e, dunque, in relazione, ai vizi
dedotti. A tale riguardo viene richiamato il parametro concettuale delle azioni
costitutive del processo civile e viene rammentato che l’individuazione
concreta del perimetro del giudicato è rimessa all’applicazione di un elastico
criterio integrativo di origine giurisprudenziale, costituente ormai diritto
vivente: trattasi del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il
deducibile, ma nei limiti delle statuizioni indispensabili per giungere alla
decisione.
Tale assunto, nella peculiarità
della judicial review dell’esercizio della funzione pubblica,
si sostanzia nei seguenti corollari:
a) il giudicato copre il dedotto e il
deducibile, ossia non solo le questioni (di fatto e di diritto) fatte valere in
via di azione o di eccezione e comunque esplicitamente investite dalla
decisione, ma anche le questioni che, seppure non dedotte, costituiscono un
presupposto logico indefettibile della decisione; il giudicato, quindi,
preclude la proposizione di domande contemplate dalla intervenuta risposta
giurisdizionale, ma non la prospettazione di domande completamente nuove, che
anzi assumano il giudicato quale presupposto logico;
b) la peculiarità del giudizio
amministrativo, peraltro, impedisce la piena espansione del principio di cui al
capo a), poiché il giudicato amministrativo non può che formarsi con esclusivo
riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi
dedotti nel ricorso;
c) la sede per sindacare la legittimità
dell’atto in sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non
abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (e che non integrano
l’ambito della deducibilità) non può, pertanto, che essere il giudizio
ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza;
d) la domanda risarcitoria sulla quale il
giudice non si sia pronunciato dovrà, quindi, essere proposta in autonomo
giudizio di cognizione;
e) gli effetti del giudicato di rigetto si
estendono anche a tutte le questioni inerenti l’esistenza e la validità del
rapporto dedotto in giudizio che siano state vagliate, anche implicitamente,
nella sentenza.
6.2. Quanto alla natura del giudicato
amministrativo, evidenzia il collegio rimettente che esso ha un contenuto
complesso, non limitato agli effetti demolitori e ripristinatori della
situazione quo ante, ma ricomprendente anche effetti conformativi
rivolti al futuro, che si traducono in vincoli imposti alla p.a. in sede di
riedizione del potere amministrativo successivamente al decisum giurisdizionale.
Tale assetto ricostruttivo va poi
coniugato con i principi di effettività della tutela giurisdizionale, nonché
con i principi di celerità della risposta giurisdizionale e di lealtà
processuale (che a loro volta sono espressione del più generale principio di
buona fede): ciò comporta che occorre interpretare il giudicato secondo un
complessivo canone di buona fede al fine di consentire l’espansione del principio
di effettività della tutela giurisdizionale.
6.3. Afferma in particolare il collegio
rimettente che il cpa. sembra mostrare un favor per la
concentrazione nell’alveo del giudizio di ottemperanza di tutte le questioni
che sorgono dopo un giudicato e che siano afferenti alla sua esecuzione.
Peraltro, e qui sta il cuore della
rimessione all’adunanza plenaria, tale favor non pare che
possa spingersi fino al punto di poter affermare che qualsiasi provvedimento
adottato dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, e che non sia
satisfattivo della pretesa del ricorrente vittorioso, debba essere portato
davanti al solo giudice dell’ottemperanza. Infatti, ove il nuovo atto
successivo al giudicato non sia elusivo o in violazione del giudicato, ma
autonomamente lesivo, poiché va a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato,
l’azione corretta, afferma il collegio rimettente, è quella del ricorso
ordinario di cognizione (cfr, in questo senso, anche la prima giurisprudenza
formatasi dopo l’entrata in vigore del cpa: C.d.S., VI, 15 novembre 2010 n.
8053).
Il discrimen tra
violazione/elusione del giudicato e nuova autonoma violazione può essere
compiuto con esemplificazione casistica per categorie generali relative ai tipi
di vizi dell’azione amministrativa su cui incide il giudicato. In sostanza, si
tratta di stabilire quali sono i limiti che derivano dal giudicato al rinnovo
dell’azione amministrativa e quali sono, invece, gli spazi bianchi lasciati ad
un’autonoma e nuova valutazione.
In attuazione di tale ricostruzione
consegue che, ove il giudicato comporti l’annullamento del provvedimento solo
per vizi formali, è indubbio che residui spazio pieno per il rinnovo della
valutazione dell’amministrazione: in questa ipotesi, ove la p.a. elimini i vizi
formali, ma ciononostante adotti un provvedimento non satisfattivo della
pretesa, è pacifico che si determini non una violazione/elusione del giudicato,
ma una eventuale nuova autonoma illegittimità.
Ad analoghe conclusioni, afferma sempre il
collegio rimettente, si deve pervenire ove il giudicato si formi in relazione
al silenzio-inadempimento e si limiti ad affermare l’obbligo di provvedere:
anche in questo caso il provvedimento espresso successivo al giudicato potrà
essere eventualmente impugnato per vizi autonomi, da dedurre in sede di ricorso
ordinario di cognizione.
Evidenzia in proposito il collegio
rimettente che una parte della giurisprudenza afferma che, dopo la formazione
del giudicato, la p.a. possa individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla
pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola; aggiunge,
peraltro, che tale tesi, se può essere condivisa a fronte di un potere
discrezionale, non sembra invece condivisibile nel caso di reiterazione di
un’attività vincolata o nel caso di attività caratterizzata da cosiddetta
discrezionalità tecnica. In questi casi, infatti, la p.a. (al di fuori
dell’autotutela o dell’enucleazione di cause ostative legali) non può
utilizzare in danno del vincitore elementi del tutto incontroversi e mai messi
in discussione.
Alla luce di ciò, conclude il collegio
rimettente, si dovrebbe ritenere che, nel caso di giudicato di annullamento su
vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi
vizi, dia luogo a violazione/elusione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi
derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal
giudicato come necessitanti di una nuova valutazione.
7. All’odierna udienza, sentiti i
difensori di cui al verbale, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Vengono poste all’esame dell’adunanza plenaria rilevanti questioni che attengono, in primo luogo, all’esigenza di
conferire adeguata effettività alle sentenze del giudice amministrativo e, al
contempo, alla necessità, da un lato, di contenere in tempi ragionevoli la
risposta giurisdizionale e, dall’altro, di evitare inutili duplicazioni di
accesso alla tutela giurisdizionale stessa.
Quanto a quest’ultimo profilo, il caso di
specie appare emblematico nell’evidenziare le difficoltà per gli interessati di
individuare un chiaro percorso al riguardo. Il ricorrente, vincitore in sede
cognitoria, ha difatti attivato due ricorsi, uno in sede di ottemperanza
(dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado) ed uno in sede di
cognizione (accolto per un motivo formale) e tale modus operandi è
di frequente utilizzo in presenza di un giudicato, a dimostrazione delle
incertezze tuttora esistenti sulle tecniche di tutela in materia.
Sul piano sostanziale, poi, il problema
portato all’attenzione di questo consesso risiede nella individuazione di un
equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo,
assetto che peraltro non può che essere delineato sul piano dei principi,
poiché il concreto atteggiarsi del singolo giudicato nei confronti del
sopravvenuto esercizio della funzione amministrativa non può che essere rimesso
all’analisi della vicenda specifica (cfr., C.d.S., A.P., 22 dicembre 1982 n.
19).
2. Il caso oggetto dei presenti giudizi,
l’uno di ottemperanza e l’altro di cognizione e portati unitariamente all’esame
dell’adunanza plenaria, postula necessariamente, anche al fine preliminare di
verificare la correttezza della riunione, che sia delineata l’attuale
configurazione del giudizio di ottemperanza, quale essa risulta, non solo dalle
acquisizioni giurisprudenziali, ma anche e soprattutto alla luce del codice del
processo amministrativo.
Ebbene, ciò che risulta evidente
dall’esame della disciplina codicistica è che il giudizio di ottemperanza (cui
sono state già dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza
plenaria) presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni
diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente
configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata
nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di
cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela
giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e
ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito
(principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale).
Più precisamente, la disciplina
dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di
esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile,
presenta profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè
in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga
ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale
può essere rivolta ad ottenere:
a) “l’attuazione” delle sentenze o
altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro
giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti
(Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n.
2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di
giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il
rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi
tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto -
di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;
b) la condanna “al pagamento di somme a
titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato
della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è
evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori,
al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di
obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è
già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);
c) il “risarcimento dei danni connessi
all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale
o parziale, del giudicato. .” (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione,
che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ “attuazione”
di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi
ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova,
esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in
ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia
processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere
dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice
dell’ottemperanza;
d) la declaratoria della nullità di
eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma
4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal
provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in
giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta
violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni
questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato
(per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia
direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone
l’effetto causativo di danno.
Come è dato osservare, dunque, nell’ambito
del giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina azioni diverse (al di là della
mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’ “attuazione”
richiesta ad una “esecuzione” della sentenza (o provvedimento
equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione
amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo.
A tale quadro, va aggiunto il
ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di “ottenere
chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”: anche questo non
presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al
novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa
terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ “azione
di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è “il
ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto
processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla
circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente
esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra
procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile
dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione
soccombente nel precedente giudizio).
In conclusione, l’esame della disciplina
processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre
doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale
polisemicità del “giudizio” e dell’ “azione di ottemperanza”,
dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune
meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune
denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza
passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare
concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost.
Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite
dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale
della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e
delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il
proprio presupposto.
3. E’ in questo quadro normativo che
occorre, dunque, procedere preliminarmente all’esame dell’ammissibilità della
riunione dei due appelli in esame, operata dal collegio remittente.
Ebbene, ritiene questa adunanza plenaria
che tale riunione sia possibile, tenuto conto dell’esigenza di simultaneus
processus che caratterizza il tipo di doglianze prospettate dai
ricorrenti.
E’ noto che, in via generale, la riunione
dei ricorsi, per ragioni di connessione (art. 70 cpa), può essere disposta in
riferimento a cause che attengono al medesimo tipo di giudizio e sempre che i
ricorsi pendano nel medesimo “grado”. Tanto si ricava, sempre in via
generale, oltre che dalla lettura delle disposizioni del codice di procedura
civile (cui il codice del processo amministrativo effettua rinvio: art. 39,
comma 1, cpa), anche dalle norme dello stesso Codice del processo
amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di “pluralità
delle domande e conversione delle azioni”, prevede che “è sempre
possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse”.
Nondimeno, l’adunanza ritiene che i due
giudizi in questione, pur nella evidente differenza di tipologia, debbano
essere trattati in modo unitario.
Ed infatti, proprio perché ciò che viene
richiesto al giudice, sia pure per il tramite dell’instaurazione di due distinti
giudizi, è innanzi tutto la concreta e precisa configurazione della patologia
dell’atto adottato (precisamente: se esso debba essere considerato nullo, in
quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero illegittimo per vizi propri e
per la prima volta rilevabili), il giudice stesso non può che essere chiamato
ad un esame complessivo della vicenda.
L’instaurazione di due distinti giudizi –
che è conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento
processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone
implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame della natura della
patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia dell’azione. Il
che, come è evidente, non può che avvenire se non attraverso un esame congiunto
e comparativo delle due domande, ancorchè le stesse introducano – per effetto
del sistema processuale vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno
di cognizione l’altro di ottemperanza.
Fermi, dunque, i principi generali in tema
di riunione sopra individuati, in questo caso - provvisto di una sua evidente
specificità - la riunione dei ricorsi appare coerente con il principio di
effettività (completezza) della tutela giurisdizionale, rendendo possibile la
valutazione complessiva del giudice di una pretesa di parte sostanzialmente
unitaria.
In attuazione di quanto esposto, occorre
quindi ritenere corretto che nel caso di specie si sia proceduto alla riunione
dei due appelli originati, rispettivamente, dal giudizio di ottemperanza e dal
giudizio di cognizione.
4. Quanto ora affermato sulla correttezza
della riunione dei due appelli sollecita a questa adunanza plenaria una
ulteriore riflessione.
Ed infatti, le medesime ragioni – che il
Collegio ha qui evidenziato per così dire ex post, a giustificazione
della riunione disposta dal giudice remittente – rendono possibile, sia pure
nei termini e limiti di seguito esposti, sostenere l’ammissibilità di un solo
ricorso, in luogo dei due che la parte è spesso, per ovvie ragioni di “cautela
processuale”, necessitata ad esperire avverso i provvedimenti emanati
dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di proprio
precedente provvedimento.
In via generale può ammettersi che, al
fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte
dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un
giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice
dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione
della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della
forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità.
Naturalmente questi in presenza di una
tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le domande
prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da
quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa
che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al
rito ed ai poteri decisori.
Nel caso in cui il giudice
dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato
dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato,
dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la
improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda.
Viceversa, in caso di rigetto della
domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la
riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.
Ciò appare consentito dall’art. 32, co. 2,
primo periodo, cpa, in base al quale “il giudice qualifica l’azione proposta
in base ai suoi elementi sostanziali”, e la conversione dell’azione è ben
possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma – “sussistendone
i presupposti”.
Ciò peraltro presuppone che tale azione
sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci
anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il
termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa: il rispetto del termine
decadenziale per la corretta instaurazione del contraddittorio è reso
necessario, oltre che dalla disciplina del giudizio impugnatorio, anche
dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei “presupposti”
(tra i quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine
decadenziale), effettuato dall’art. 32, co. 2, cpa.
Giova osservare, infine, che la
conversione dell’azione può essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non
viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21 septies l.
7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), cpa, è competente, in relazione
ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività
amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento
della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e dunque –
come si è già evidenziato - della più grave delle patologie delle quali gli
atti suddetti possono essere affetti.
5. Ciò premesso e venendo al caso in
esame, è ben noto come sia jus receptum l’assunto che il
giudicato amministrativo si presenti in modo poliforme, a seconda delle
situazioni giuridiche coinvolte e delle censure dedotte.
Infatti, il ricorrente può far valere mere
censure formali nei confronti dell’azione amministrativa, ovvero vizi più
pregnanti, che afferiscono alla sussistenza dei presupposti per ottenere il
bene della vita; la sua domanda poi, può tendere ad opporsi ad un’azione della
p.a, (in questo caso di frequente vengono prospettate censure formali, che
comunque consentono di sterilizzare l’iniziativa della p.a.) , ovvero può
prospettare una pretesa (e in questo caso contemplerà usualmente censure di
carattere sostanziale, tendenti a dimostrare la fondatezza della pretesa
stessa).
E dunque è altrettanto pacifico che la
sentenza del giudice amministrativo si atteggia in modo differente a seconda
che abbia ad oggetto una situazione oppositiva o una vera e propria pretesa
nonchè a seconda del vizio accolto.
E’ in questo quadro variegato che va posta
e risolta la questione dell’annoverabilità nell’ambito del giudicato non solo
del “dedotto” (ossia di ciò che espressamente è stato oggetto di
contestazione ed esame), ma anche del “deducibile” (id est: ciò che,
pur non espressamente trattato, si pone come presupposto/corollario
indefettibile del thema decidendum).
Va premesso peraltro che la questione si
può porre solo nei riguardi dell’attività oggetto di esame giudiziale, in
quanto tale anteriore a quest’ultimo: infatti, l’esigenza di certezza, propria
del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non
può proiettare l’effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni
sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della
decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non contemplate in
precedenza.
La questione si pone invece ove la
riedizione del potere (come nel caso in esame) si concreti nel valutare
differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che,
esplicitamente o implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del
giudice.
In tal caso l’adunanza plenaria ritiene
che non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti
all’esame del giudice.
E’ ben consapevole l’adunanza delle tesi
da tempo avanzate che, facendo leva sul principio di effettività della
giustizia amministrativa, prospettano la necessità di pervenire
all’affermazione del divieto di ogni riedizione del potere a seguito di un
giudicato sfavorevole, ma non ritiene di poter aderire a tale indirizzo che
appare contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di
responsabilità dell’amministrazione e non imposto dalle pur rilevanti pronunce
della Corte europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina
della materia in Paesi dell’Unione europea a noi più vicini (si pensi alla
Francia ed alla Germania) nei confronti dei quali possiamo vantare un sistema
di esecuzione del giudicato amministrativo – l’ottemperanza appunto – sicuramente
più avanzato.
Ma va subito aggiunto che la riedizione
del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli.
5.1. Anzitutto, poiché il cpa abilita
all’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti
della pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa,
consegue che sempre di più l’azione davanti al giudice amministrativo sia
qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza doversi
limitare all’esame tramite il prisma dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S.,
adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3). In questo modo, oltretutto, si
recupera un lontano indirizzo giurisprudenziale, poi abbandonato in ossequio al
modello giuridico idealistico che per lunghi anni ha prevalso nel nostro
ordinamento, secondo il quale si riteneva possibile un immediato e diretto
accesso al fatto nei casi in cui la pretesa al bene della vita non dovesse
essere filtrata da una valutazione discrezionale, rimessa alla esclusiva
competenza della p.a.: cfr. C.d.S., IV, 13 giugno 1902, De Paulis contro
Provincia di Aquila, con nota adesiva della migliore dottrina dell’epoca).
Da ciò discende che l’accertamento
definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti
relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei
confronti dell’azione amministrativa (di recente C.d.S., VI, 19 giugno 2012, n.
3569 ha affermato che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella
sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità anche della
normativa sopravvenuta): tale assetto appare, oltretutto, coerente con
l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa in precedenza
richiamata e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo, secondo cui l’amministrazione, in sede di esecuzione di una
decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in
discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (in questo senso, cfr.
CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia) .
5.2. Ma anche là dove non siano i fatti ad
essere messi in discussione bensì la loro valutazione (come nel caso in esame,
in cui i dati sull’attività didattica erano incontestati ed è cambiata invece
la loro valutazione), non va dimenticato che alla stregua del principio
ribadito anche dall’art. 112, comma primo, del codice, su tutte le parti
incombe l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice; e ciò vale
specialmente per la pubblica amministrazione, in un’ottica di leale ed imparziale
esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi
costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è
considerato quale inevitabile e qualificante complemento della tutela offerta
dall’ordinamento in sede giurisdizionale).
Tale richiamo non deve apparire come un
formale appello a principi inveterati ma di scarsa rilevanza effettuale, poiché
l’esigenza di dare esecuzione secondo buona fede alla decisione giurisdizionale
amministrativa è alla base di qualsiasi ricostruzione interpretativa della
materia: la pubblica amministrazione, infatti, ha l’obbligo di soddisfare la
pretesa del ricorrente vittorioso e di non frustrare la sua legittima
aspettativa con comportamenti elusivi.
Ed invero, occorre che la p.a. attivi una
leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale
anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto ordinamentale
la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto
soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se è vero che
la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli
interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è anche vero che ciò non può
e non deve costituire un alibi per sottrarsi al doveroso rispetto del
giudicato.
Consegue da tutto ciò che la nuova
operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della costatazione di una
palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece,
l’espressione di una gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del
potere e in quanto tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il
principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i
principi di correttezza e buona fede.
Ed è inutile dire che la relativa argomentazione
deve essere tanto più esplicita e pregnante nel caso in cui il riesame sia
effettuato dagli stessi soggetti del primo giudizio.
6. Occorre ora fare applicazione dei
principi testé enunciati al caso di specie: il prof. Loperfido, ricorrente
vittorioso in sede cognitoria (C.d.S., VI, 11 marzo 2008 n. 1039), ha proposto
azione di ottemperanza con cui ha dedotto la nullità degli atti in cui si è
sostanziato, con la rinnovata valutazione dei candidati, il riesercizio della
funzione amministrativa.
Egli, infatti, ha denunciato la
violazione, elusione del giudicato formatosi, ritenendo che la commissione
esaminatrice abbia in sostanza disatteso la statuizione del giudice
amministrativo, avendo operato la nuova valutazione sulla base di criteri
completamente diversi da quelli che erano stati utilizzati in precedenza nella
procedura valutativa in esame.
In concreto, il ricorrente vittorioso ha
quindi dedotto che la mancata soddisfazione della propria pretesa fosse
imputabile proprio ad una non corretta applicazione del decisum giurisdizionale
ed, anzi, ad un vero e proprio stravolgimento della stessa, attuato mediante
l’utilizzo di nuovi criteri esulanti dall’alveo procedimentale portato
all’esame del giudice. Ciò in evidente violazione, altresì, del principio di
buona fede, avendo in pratica la p.a. frustrato la pretesa del ricorrente
mediante l’utilizzo di un corredo motivazionale nuovo, che tendeva a confermare
il precedente risultato mediante l’utilizzo di un percorso logico differente da
quello in precedenza utilizzato.
Ebbene, tale situazione, in base a quanto
sopra affermato, appare sicuramente annoverabile nell’ambito delle controversie
devolute alla cognizione del giudice dell’ottemperanza, poiché evidente è il
fatto che la pretesa illegittimità dell’azione amministrativa trova fondamento
e parametro di valutazione proprio nella mancata coerenza con la decisione
giurisdizionale. In altre parole, l’azione amministrativa successiva alla
decisione viene prospettata come disallineata rispetto al contenuto del
giudicato formatosi nel caso di specie e ciò, ovviamente, non in base alla mera
qualificazione fornita dal ricorrente, ma sulla scorta dell’analisi intrinseca
della natura dei vizi dedotti.
La domanda proposta dal ricorrente in sede
di ottemperanza mirava dunque ad evidenziare che l’accertamento giurisdizionale
aveva avuto ad oggetto determinati presupposti della pretesa sostanziale
dedotta in sede cognitoria, in relazione ai quali si doveva ritenere esteso
l’effetto del giudicato, con conseguente esistenza in proposito di un vero e
proprio vincolo per la riedizione dell’azione amministrativa. E tale vincolo
sarebbe stato infranto dalla susseguente attività amministrativa della
commissione esaminatrice, che avrebbe in pratica eluso il decisum mediante
un artificio logico consistente nell’adozione di un differente percorso logico
motivazionale.
Il ricorso per ottemperanza proposto dal
prof. Loperfido, pertanto, non avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile
ed ha quindi errato il giudice di primo grado nel qualificarlo come tale.
7. Diversa questione, invece, è quella
della fondatezza o meno del ricorso medesimo, alla luce dei principi fin qui
enunciati, ai quali deve attenersi l’azione dell’amministrazione in sede di
riedizione del potere dopo la pronuncia del giudice.
Questa valutazione viene peraltro rimessa
all’esame della Sezione, ai sensi dell’art. 99, comma 4, cpa.
8. Quanto al secondo giudizio relativo
agli appelli proposti dal prof. Favale e dall’Università di Bari avverso la
sentenza del giudice di primo grado, emessa in sede di giudizio di cognizione,
che ha invece accolto (per un motivo formale) il ricorso pure proposto dal
prof. Loperfido, esso va rimesso alla sezione per le valutazioni sia di ordine
pregiudiziale, si è visto infatti che la permanenza dell’interesse dipende
dalla decisione dell’altra domanda, che di merito.
La decisione in ordine alle spese viene
rinviata alla decisione finale
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (adunanza plenaria), non definitivamente pronunciando sugli
appelli in epigrafe, riuniti, così provvede:
1. accoglie l’appello proposto da
Francesco Loperfido (n. 18/2012 A.P.) e, per l’effetto, in riforma della
sentenza impugnata, dichiara ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto
dal ricorrente;
2. restituisce per il resto il giudizio
alla Sezione remittente.
Spese al definitivo.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di
consiglio dei giorni 18 giugno 2012 e 19 novembre 2012 con l'intervento dei
magistrati:
Giancarlo Coraggio, Presidente
Giorgio Giovannini, Presidente
Gaetano Trotta, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Botto, Consigliere, Estensore
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Marzio Branca, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Anna Leoni, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere
IL PRESIDENTE
|
||
L'ESTENSORE
|
IL SEGRETARIO
|
|
DEPOSITATA
IN SEGRETERIA
Il
15/01/2013
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il
Dirigente della Sezione
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