venerdì 20 dicembre 2013

MILITARI: la critica alla "casta militare" non è ammessa nell'Arma dei Carabinieri ed implica la legittimità della sanzione del rimprovero (T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II, sentenza 14 novembre 2013 n. 2297).


MILITARI: 
la critica sulla "casta militare" 
non è ammessa nell'Arma dei Carabinieri 
ed implica la legittimità della sanzione del rimprovero (T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II,
sentenza 14 novembre 2013 n. 2297). 


"Usi ad obbedir tacendo e tacendo morir". 
E' il vecchio motto, ma vedo che è ancora valido.


Massima

1.  Secondo le norme dell’ordinamento militare i rapporti dei militari nei confronti dei propri superiori gerarchici debbono essere improntati alla massima correttezza e al rigido rispetto delle forme.
Ciò si desume con chiara evidenza dalle disposizioni di cui all’art. 732 (contegno del militare) e all’art. 733 del d.P.R. n. 90/2010 (norme di tratto).
L’art. 1360 del D.Lgs. n. 66/10 (Codice dell’ordinamento militare) qualifica come il rimprovero come “la dichiarazione di biasimo con cui sono punite le lievi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio o la recidiva nelle mancanze per le quali può essere inflitto il richiamo”.
2.  Ritiene conseguentemente il collegio che, a prescindere dalle sue reali intenzioni, le espressioni ingiustificatamente polemiche utilizzate dal ricorrente nei confronti del proprio superiore gerarchico, nelle quali si ipotizzano genericamente un trattamento discriminatorio di favore nei confronti di “pochi privilegiati” ed il perpetuarsi di “usi e/o consuetudini” che inibirebbero a priori “le chance di selezione” per il conferimento degli incarichi, non siano oggettivamente compatibili con la disciplina dell’ordinamento militare e giustifichino quindi l’irrogazione della sanzione del rimprovero, prevista appunto per le “lievi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio”.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 769 del 2013, proposto da:
Ricci Umberto, rappresentato e difeso dall'avv.to Fabio Zeppola, con domicilio eletto presso lo studio del difensore in Lecce, via Templari n. 15; 
contro
Comando Provinciale Carabinieri di Lecce; Ministero della Difesa rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi n. 23; 
per l'annullamento
- del decreto n. 374/7-2013-SP del 20 aprile 2013, con cui il Comandante del Comando Provinciale di Lecce - Legione Carabinieri "Puglia" - ha respinto il ricorso gerarchico del Mar. Capo Ricci Umberto proposto in data 4 febbraio 2013;
- del provvedimento prot. n. 350/5-2012 del 19.1.2013, con cui il Comandante della Compagnia di Lecce - Legione Carabinieri Puglia, ha inflitto la sanzione del rimprovero ex art. 1360 del Cod. Ord. Mil.;
-di ogni atto presupposto, collegato e/o consequenziale;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comando Provinciale Carabinieri di Lecce e del Ministero della Difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 ottobre 2013 il dott. Paolo Marotta e uditi l’avv.to F. Zeppola, per il ricorrente, e, nei preliminari, l’avv.to dello Stato A. Roberti, per il Comando Provinciale Carabinieri di Lecce ed il Ministero della Difesa;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Il ricorrente, maresciallo capo dell’Arma dei Carabinieri in servizio presso la stazione Carabinieri di Cavallino, ha impugnato il decreto del 20 aprile 2013 (n. 374/7-2013-SP) con il quale il Comandante della Legione Carabinieri “Puglia” - Comando provinciale di Lecce ha respinto il ricorso gerarchico proposto dal ricorrente medesimo avverso la sanzione disciplinare del “rimprovero”, irrogatagli per alcune osservazioni polemiche mosse avverso il proprio superiore gerarchico in merito al mancato accoglimento di un’istanza di trasferimento. Il ricorrente contesta anche la legittimità del provvedimento sanzionatorio adottato nei suoi confronti.
A sostegno del proposto gravame deduce i seguenti motivi di impugnativa:
- Travisamento ed erronea valutazione dei fatti. Violazione e falsa applicazione degli artt. 717, 732 e733 del d.P.R. n. 90/2010;
- Violazione della Circolare del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri prot. n. 1280/35 -1-1987 del 22.04.2013;
- Eccessività della sanzione irrogata.
Si sono costituiti in giudizio il Comando Provinciale Carabinieri di Lecce e il Ministero della Difesa, contestando nel merito il fondamento delle dedotte censure.
2. Alla Camera di Consiglio del 30 maggio 2013, fissata per la delibazione dell’istanza cautelare, su richiesta del difensore del ricorrente, la trattazione della causa è stata rinviata all’udienza di merito.
All’udienza pubblica del 16 ottobre 2013, su richiesta delle parti, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
3. Con il primo motivo del gravame, il ricorrente deduce travisamento ed erronea valutazione dei fatti nonché violazione degli artt. 717, 732 e 733 del d.P.R. n. 90/2010.
Sostiene il ricorrente che le espressioni usate nei confronti del proprio superiore gerarchico, in quanto rappresentate in forma non corretta, sarebbero state travisate ed erroneamente interpretate dal superiore gerarchico del ricorrente, al di là della sua reale intenzione.
3.1 La censura non può essere condivisa.
3.2 Occorre premettere che il ricorrente aveva presentato in data 19 aprile 2012 istanza di trasferimento dalla Stazione Carabinieri di Cavallino al Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale di Lecce.
Con nota del 19 settembre 2012 il Comando della Legione Carabinieri Puglia – Ufficio personale rendeva partecipe il ricorrente, ai sensi dell’art.10-bis della l. n. 241/1990 e s.m.i., dell’orientamento di non poter accogliere la domanda di trasferimento “in considerazione del fatto che non c’è possibilità d’impiego presso il Nucleo Investigativo, ove le vacanze che si verranno a determinare con il prossimo collocamento in congedo di alcuni ispettori, sono già state ripianate con la destinazione di altri Marescialli specificamente individuati e proposti dal Comandante Provinciale di Lecce”.
In risposta alla suddetta comunicazione, il ricorrente con nota del 3 ottobre 2012, nel chiedere al Comando della Legione Carabinieri Puglia – Ufficio personale (Bari) di riconsiderare la richiesta di trasferimento presentata, con specifico riguardo al procedimento de quo, faceva rilevare: <<il suddetto iter selettivo, pur se legittimo, non fa che consolidare usi e/o consuetudini riservate a pochi privilegiati inibendo a priori le “chance” di selezione per tale incarico>>.
Dopo la comunicazione di avvio del procedimento, con provvedimento del 19 gennaio 2013 il Comandante della Legione Carabinieri Puglia - Compagnia di Lecce irrogava al ricorrente la sanzione del “rimprovero”, di cui all’art. 1360 del Codice dell’ordinamento militare, con la seguente motivazione: “Maresciallo capo addetto a stazione Carabinieri distaccata, nell’ambito dell’istruttoria relativa alla propria domanda di trasferimento ad altro reparto, nel redigere le memorie integrative alla comunicazione di probabile diniego all’istanza, con minor senso di responsabilità usava espressioni inopportune all’indirizzo della scala gerarchica, evidenziando palese disappunto”.
3.3 Premesso ciò, il collegio non ravvisa nel provvedimento impugnato il dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti né quello di violazione degli artt. 717 (senso di responsabilità), 732 (contegno del militare) e 733 (norme di tratto) del d.P.R. 15 marzo 2010 n. 90 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare), in quanto, a prescindere dalle sue reali intenzioni, le espressioni usate dal ricorrente nei confronti del proprio superiore gerarchico sono oggettivamente caratterizzate da un evidente carattere polemico, del tutto ingiustificato anche perché (per sua stessa ammissione) i rilievi critici formulati dal ricorrente sono disancorati dalla contestazione della legittimità del provvedimento di reiezione dell’istanza di trasferimento.
4. Con il secondo motivo di gravame, il ricorrente deduce violazione della Circolare del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri del 22 aprile 2013 (prot. n. 1280/35-1-1987).
Sostiene il ricorrente che la sanzione irrogatagli si porrebbe in contrasto con le direttive impartite con la suddetta Circolare.
4.1 La censura è infondata.
4.2 In estrema sintesi, la Circolare richiamata dal ricorrente, avente ad oggetto: “Capacità di ascolto e senso di solidarietà nei rapporti interpersonali e nell’azione di Comando”, invita tutti gli appartenenti all’Arma dei Carabinieri ad esprimere, indipendentemente dal grado e dalla posizione funzionale, solidarietà nei confronti degli altri commilitoni ed a non sentirsi soli di fronte ai propri problemi.
Il collegio ritiene conseguentemente che la predetta Circolare, diretta a improntare i rapporti tra gli appartenenti all’Arma dei Carabinieri alla condivisione ed allo spirito di solidarietà, nulla abbia a che vedere con la fattispecie dedotta in giudizio, che attiene alla legittimità della irrogazione della sanzione del “rimprovero” nei confronti di un appartenente all’Arma dei Carabinieri per aver utilizzato delle espressioni polemiche nei confronti di un proprio superiore gerarchico, ipotizzando (senza peraltro fornire alcun elemento concreto a supporto delle proprie asserzioni) un trattamento preferenziale accordato a “pochi privilegiati” nella valutazione delle istanze di trasferimento.
5. Con l’ultimo motivo di gravame il ricorrente deduce eccessività della sanzione irrogata ed eccesso di potere.
Sostiene il ricorrente che la sanzione irrogatagli sarebbe sproporzionata rispetto al comportamento contestatogli, non terrebbe conto del fatto che nessun danno è stato arrecato alla amministrazione né delle condizioni (personali e familiari) del ricorrente e del suo curriculum professionale.
5.1 La censura non può essere condivisa.
5.2 Il collegio fa rilevare anzitutto che secondo le norme dell’ordinamento militare i rapporti dei militari nei confronti dei propri superiori gerarchici debbono essere improntati alla massima correttezza e al rigido rispetto delle forme.
Ciò si desume con chiara evidenza dalle disposizioni di cui all’art. 732 (contegno del militare) e all’art. 733 del d.P.R. n. 90/2010 (norme di tratto).
L’art. 1360 del d.lgs. 15 marzo 2010 n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) qualifica come il rimprovero come “la dichiarazione di biasimo con cui sono punite le lievi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio o la recidiva nelle mancanze per le quali può essere inflitto il richiamo”.
5.3 Ritiene conseguentemente il collegio che, a prescindere dalle sue reali intenzioni, le espressioni ingiustificatamente polemiche utilizzate dal ricorrente nei confronti del proprio superiore gerarchico, nelle quali si ipotizzano genericamente un trattamento discriminatorio di favore nei confronti di “pochi privilegiati” ed il perpetuarsi di “usi e/o consuetudini” che inibirebbero a priori “le chance di selezione” per il conferimento degli incarichi, non siano oggettivamente compatibili con la disciplina dell’ordinamento militare e giustifichino quindi l’irrogazione della sanzione del rimprovero, prevista appunto per le “lievi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio”.
6. In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto.
7. In considerazione del fatto che le argomentazioni addotte dal ricorrente a giustificazione della propria condotta (relative a vicende di carattere familiare) possono aver influito negativamente sul grado di consapevolezza dei doveri deontologici nei confronti dei propri superiori gerarchici, ritiene tuttavia il collegio che nel caso di specie sussistano, ai sensi degli artt. 26 comma 1 c.p.a. e 92 comma 2 c.p.c., gravi ed eccezionali motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 16 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Ettore Manca, Consigliere
Paolo Marotta, Primo Referendario, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


giovedì 19 dicembre 2013

CULTURA: "vademecum" sull'accento: quando indicarlo e dove pronunciarlo


CULTURA:
Vademecum sull'accento:
quando indicarlo e dove pronunciarlo


USO DELL'ACCENTO
Quando ci vuole e quando no
Quando si parla, l'accento si fa sentire in tutte le parole, perché tutte lo hanno, tranne rarissime eccezioni. Quando si scrive, non sempre c'è bisogno di segnare l'accento, anzi: i casi in cui è obbligatorio indicarlo sono pochi. Noi, desiderosi di cavarvi da ogni impiccio, ve li indichiamo tutti. Nello scritto, l'accento va segnato:
  • nelle parole tronche (cioè accentate alla fine) con più di una sillaba: La servitù emigrò in Perù;
  • nelle seguenti parole formate da una sola sillaba: dà, dì, è, là, lì, né, sé, sì, tè, ciò, già, giù, più, può, scià. Ma attenzione: le prime nove parole di questa lista hanno dei corrispettivi che vanno scritti senza accento. In particolare, 
l'accento va messo su...l'accento non va messo su...
 dà (verbo dare): Mi  fastidioda (preposizione): Vengo da Bari
dì (il giorno): La sera del  di festadi (preposizione): È amico di Marco
è (verbo essere): È stanca(congiunzione): coltelli forchette
là (avverbio di luogo): vai la (articolo o pronome): La pizza, lamangi?
lì (avverbio di luogo): Rimani li (pronome): Non li vedo
 (congiunzione negativa):  carne pescene (avverbio o pronome): Me ne vado; te ne importa?
 (pronome): Chi fa da  fa per trese (congiunzione): Se torni, avvisami
sì (affermazione): , mi piacesi (pronome): Marzia non si sopporta
 (la bevanda): Una tazza di te (pronome): Dico a te!
In tutte le altre parole di una sillaba l'accento non va segnato.

RESPONSABILITA' CONTABILE: è ammissibile esperire l'azione revocatoria per i c.d. "crediti litigiosi" davanti al Giudice contabile (Corte dei Conti, I Sez. Giuris. Centrale d'Appello, sentenza 5 novembre 2013 n. 913).


RESPONSABILITA' CONTABILE: 
è ammissibile esperire l'azione revocatoria 
per i c.d. "crediti litigiosi" 
davanti al Giudice contabile 
(Corte dei Conti, I Sez. Giuris. Centrale d'Appello, sentenza 5 novembre 2013 n. 913). 


Massima

1. Sulla questione relativa alla revoca di atti dispositivi relativamente ad un credito “litigioso” è stato affermato che “ai fini dell'esperimento dell'azione revocatoria ordinaria da parte del creditore avverso un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore è sufficiente l'esistenza di una ragione di credito, ancorché non accertata giudizialmente - la definizione dell'eventuale controversia sull'accertamento del credito non costituisce l'antecedente logico - giuridico indispensabile della pronunzia sulla domanda revocatoria” (v. Sez. I appello n. 560/2009 e Sez. III appello n. 769/1998) e che il giudice della revocatoria può accertare, in via incidentale, l’esistenza del credito, se del caso anche con efficacia di giudicato (cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 769/98).
2.  Una volta che, in adesione alla giurisprudenza de qua, siano ritenuti ammessi alla tutela revocatoria anche i crediti c.d. litigiosi, è giocoforza concludere, se non si vuole incorrere in un’evidente contraddizione, che l’accertamento incidentale del giudice della revocatoria dovrà concernere, di norma,  l’esistenza non di un credito effettivo ma di un credito eventuale, sotto forma di credito litigioso: “nel giudizio ex art. 2901 cod. civ. è sufficiente al creditore procedente l'allegazione d'un decreto ingiuntivo (anche se opposto) ottenuto nei confronti del preteso debitore per dimostrare la titolarità di un credito meritevole di tutela” (Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 12849/2007).


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
LA CORTE DEI CONTI
Iª SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE D'APPELLO
EPIGRAFE


SENTENZA:
nel giudizio sugli appelli riuniti iscritti ai n.ri 42555 e 42556 del registro di Segreteria, proposti dai sig.ri Giuseppe Lascialfari rappresentato e difeso dall’avvocato Giovanni Giovannelli e dalla sig.ra Marinella Dini, rappresentata e difesa dagli avvocati Cristiano Giovannelli e Alessandro Pasquini, avverso la sentenza n. 170 del 9 marzo 2011 – 10 maggio 2011, resa dalla Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana;
Visti gli atti e documenti di causa;
Uditi, nella pubblica udienza del 21 giugno 2013, il relatore Presidente dott.ssa Piera Maggi l’avvocato Giovannelli in proprio e su delega orale dichiarata a verbale ai sensi dell’art. 14 della l. 231/2012 dell’avvocato Cristiano Gioveannelli, e il Procuratore Generale nella persona del vice Procuratore Generale dott.ssa Maria Giovanna Giordano;

FATTO
Con la sentenza impugnata la Sezione giurisdizionale della Toscana, a seguito dell’atto di citazione depositato in data 20 giugno 2010 con cui era stata proposta azione revocatoria, ha revocato e, per l'effetto, dichiarato inefficace, l'atto di disposizione stipulato da Giuseppe Lascialfari in favore della coniuge Marinella Dini il giorno 7 luglio 2005, a rogito notaio Raffaele Lenzi di Montecatini (repertorio n. 44954 trascritto nei R.R. E di Pescia il giorno 08.07.2005 al n. 1977, avente per oggetto la vendita e il trasferimento dei diritti di comproprietà in ragione di 1/2 sui seguenti immobili:
a) porzione del fabbricato residenziale posto in Comune di Pescia, Via Capitano Emilio Maraviglia n. 15; più precisamente, detta porzione è costituita da un appartamento ad uso civile abitazione, di tipo economico e non di lusso, posto al piano secondo, composto da ingresso, cucina, disimpegno, sala, due camere e bagno, corredato di due terrazzi di cui uno sul lato est e l'altro sui lati sud ed ovest, in proprietà esclusiva. Confini: parti condominiali, beni residui della parte acquirente, affaccio su detta via, salvo se altri. Quanto in oggetto trova rappresentazione al Catasto Fabbricati del Comune di Pescia sul foglio di mappa 76, dalla particella 272 subalterno 3, categoria A/3, classe 4, della consistenza di vani 5,5, rendita catastale di euro 340,86.
b) Vano per civile abitazione posto, al piano secondo del suddetto fabbricato funzionalmente e strutturalmente collegato con l'immobile sopra descritto al punto a), in modo tale da formare una unica unità abitativa, rappresentato al Catasto Fabbricati del Comune di Pescia sul foglio di mappa 76, dalla particella 272, subalterno 6, categoria A/3, classe 4, della consistenza di vani l, rendita catastale di euro 61,97. Confini: parti condominiali, beni della parte acquirente, affaccio su detta via, salvo se altri. Era compresa nella presente vendita la corrispondente quota di comproprietà indivisa e indivisibile sulle parti del fabbricato che per legge, consuetudine o destinazione, sono , da considerarsi comuni".
La Procura contabile adduceva la responsabilità erariale patrimoniale del signor Lascialfari in relazione a fatti delittuosi già oggetto di procedimento penale, conclusosi con sentenza irrevocabile di condanna. In particolare, riferiva che il Lascialfari era stato destinatario della sentenza penale di condanna n. 675/2005 depositata il 24.10.2005, irrevocabile, parzialmente riformata in appello e in Cassazione (12/08/2008}, con cui costui era stato riconosciuto colpevole di 17 capi di imputazione riconducibili alla realizzazione -in concorso con altri correi - di reati edilizi e -singolarmente - di reati con la P.A. (artt. 314, 317, 323, 326 c.3, c.p.) e di falso (artt. 476 e 479); i suddetti illeciti erano stati commessi nello svolgimento di pubbliche funzioni, in qualità di responsabile dell'area Servizio Utilizzazione ed Assetto del Territorio del Comune di Pescia, di Segretario della Commissione Edilizia Integrata del Comune di Pescia e quale relatore di diverse pratiche edilizie.
Riferiva la Procura che, in data 07.07.2005, nell'imminenza della pronunzia della sentenza del Tribunale di Pistoia n. 675/05 cit. (p.p.n.971/01 RGNR), e nelle more delle determinazioni del GUP sulla richiesta di rinvio a giudizio relativa ad altro procedimento penale (il n. 3112/02 RGNR) su cui pende altra istruttoria della Procura Regionale, i due convenuti, legati da rapporto di coniugio, avevano proceduto ad un'operazione negoziale, altamente pregiudizievole per le ragioni creditorie dell'Erario; essa aveva condotto al trasferimento della quota parte di proprietà della casa di abitazione di Lascialfari alla moglie, Marinella Dini, che era divenuta proprietaria esclusiva dell'immobile in regime di separazione patrimoniale dei beni.
Per i danni erariali prodotti al Comune di Pescia dalle condotte accertate nella suddetta sentenza, la Procura, assumendo che le stesse fossero tutte antecedenti l'atto di disposizione dei suddetti immobili, aveva emesso, nei confronti di Lascialfari, invito, a dedurre (seguito da atto di citazione del 20.06.2010) afferente all'istruttoria n. 444/2006/BNT, recante la richiesta di danni erariali per l'importo complessivo di 1.269.769,54 (o quello diverso, maggiore o minore, di giustizia), di cui: a) 150.000,00 per danni da disservizio; b) 20.000,00 per danni organizzativo/gestionali; "c) 999.769,54 per mancati introiti di oneri concessori e/o sanzioni dovuti per pratiche edilizie: d) €. 100.000,00 per danni di immagine.
Osservava il requirente che la complessa operazione, consistita nella divisione (in costanza del regime di comunione legale tra i coniugi, in essere fin dal matrimonio e, dunque, da oltre 25 anni) dei due vani di cui sopra e nella successiva modifica (dopo oltre 25 anni e appena prima della compravendita rep. 44954) del regime patrimoniale dei coniugi (col conseguente scioglimento ex artt. 191 e 194 c.c. della comunione dell'appartamento poi oggetto della citata compravendita e la formazione delle due quote del 50%), avrebbe avuto l'esclusiva finalità di consentire la stipula del rogito il 07.07.2005, rep. n.44954; con questo atto Giuseppe Lascialfari ha trasferito alla moglie (che ne ha quindi acquisito la titolarità per il 100%) la propria quota appena formata del 50% dell'appartamento di cui sopra, costituente la casa coniugale in cui i sigg. Lascialfari e Dini - che né prima né dopo il rogito rep. n. 44954 hanno fatto luogo a separazione coniugale – hanno continuato a vivere insieme (come fin dal 1971) dopo il rogito e anche dopo, senza soluzione di continuità; sicché, tra l'altro, su tale appartamento coniugale il Lascialfari, ancorché oggi integralmente intestato alla moglie, manterrebbe e mantiene i diritti successori e il diritto di abitare (oggi, per effetto del rapporto di coniugio: cfr. art. 143 co. 2° C.C.; un domani, in caso di apertura della successione della moglie ex art. 540 c.c.).
La Procura chiedeva, dunque, la declaratoria di inefficacia, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2901 c.c., della citata compravendita, avendo ritenuto che l'atto di disposizione 07.07.2005 rep. 44954 avesse recato pregiudizio alle ragioni creditorie dell'Erario (in relazione al risarcimento dei danni erariali cagionati al Comune di Pescia, come sopra riferito) e, pertanto, meritasse di essere dichiarato inefficace nei confronti dell'Erario (e del Comune di Pescia).
La sentenza n. 170/2011, oggi impugnata, accoglieva le ragioni della procura e dichiarava l’inefficacia, nei confronti dell’erario, dell’atto di disposizione di cui al rogito del 7 luglio 2005 del notaio Raffaele Lenzi di Montecatini Terme rep. N. 44954 e trascritto nei RR.E di Pescia l’8.7.2005 al n. 1977 come descritto nel dispositivo.
Con distinti atti di appello tempestivamente prodotti, i ricorrenti hanno rappresentato i motivi di censura appresso indicati.
l) Lasclalfari Giuseppe
Egli si oppone alle conclusioni della Procura regionale, accolte dal Collegio di 1° grado, deducendo l'insussistenza dei presupposti per l'azione revocatoria ex art. 2901 c.c. e la omessa o insufficiente motivazione della sentenza.
Il medesimo sostiene, al riguardo, che al momento dell'atto dispositivo - atto notaio Lenzi del 07.07.2005 - non esisteva alcun credito del Comune di Pescia nei confronti del Geom. Giuseppe Lascialfari in quanto vi era unicamente una pendenza di un procedimento penale complesso dall'esito incerto; di conseguenza, non è un'aspettativa di diritto idonea a legittimare il creditore ad invocare i rimedi conservativi della garanzia patrimoniale generica, per cui non si condivide la dichiarata assimilabilità del credito sottoposto a termine o condizione al credito (accertato) definito litigioso, che in ambito penalistico non può configurarsi, essendo l'imputato non colpevole fino alla condanna definitiva.
Inoltre, solo con l’invito a dedurre recante la richiesta di €. 1.269.769,54 la Procura contabile ha introdotto la controversia inerente il credito vantato dall'Erario.
Per quanto concerne "l'eventus damni" si fa presente che, al momento dell'atto dispositivo di cui è causa, l'interessato era proprietario anche di altri beni che non sono stati trasferiti e che potevano soddisfare eventuali ragioni del creditore.
L'appellante, infine, riferisce che l'atto di disposizione fu fatto per assecondare un legittimo desiderio della suocera e che non ci fu alcun intento fraudolento da parte del coniuge acquirente, che non poteva avere consapevolezza del fatto che pochi mesi dopo sarebbe stata emessa la sentenza.
2) Dini Marinella
La ricorrente lamenta l'assenza dei presupposti per l'azione revocatoria ex art. 2901 c.c. e, ripercorrendo la storia dell'immobile oggetto dell'atto di cui si discute, si sforza di evidenziare che "non solo non vi era consapevolezza da parte del terzo – Dini Marinella - del pregiudizio che l'atto avrebbe potuto arrecare alle ragioni del creditore, ma non vi era in alcun modo una dolosa preordinazione in quanto, di fatto, si provvedeva unicamente a restituire in proprietà esclusiva a Dini Marinella ciò che la madre aveva inteso effettivamente fare con l'atto Bellandi del 30.03.1982".
Tali ragioni non sono state prese in considerazione dalla Sezione Toscana mentre, ad avviso di parte, esse rappresenterebbero le effettive motivazioni e le esigenze sottese all'atto di disposizione di cui si chiede la revoca.
Si insiste, poi, nell'assumere l'assenza di ogni prova a sostegno delle affermazioni del giudice circa il requisito soggettivo della "scientia damni", in relazione alla consapevolezza della sottrazione dei beni alla pretesa risarcitoria erariale.
Si contesta, ancora, l'indagine peritale concernente l'unità immobiliare di cui all'atto Lenzi del 2005, il cui valore reale non corrisponde ad €. 163.000,00, bensì a quello dichiarato nell'atto, pari ad €. 81.500,00, anche per alcuni pesi e diritti gravanti sulla suddetta proprietà.
Il Procuratore Generale in data 15 marzo 2013 ha rassegnato le proprie conclusioni in cui sostiene che le obiezioni dei ricorrenti sembrano giuridicamente infondate e, come tali, vanno perciò disattese.
Rileva, infatti, che il giudizio attiene unicamente alla garanzia del credito dell'Erario e che, in materia di "actio pauliana", a tutela del suddetto credito, sussiste la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che discende dall'art. 1, comma 174, della legge n. 266 del 2005, di interpretazione autentica dell'art. 26 del R.D. 13 agosto 2933 n. 1038, nel senso che tutte le azioni a tutela del creditore previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, possono essere esercitate dal Procuratore regionale della Corte dei conti.
Sussiste, poi, la responsabilità patrimoniale del sig. Lascialfari in relazione a fatti delittuosi già oggetto di procedimento penale, conclusosi con sentenza irrevocabile di condanna, parzialmente riformata in appello e poi in Cassazione il 12.08.2008 e, pertanto, non può che aderirsi alla soluzione a cui è pervenuto il Collegio di l^ istanza, atteso che, nella specie, sembrano sussistere tutti i presupposti per l'accoglimento dell'azione, ai sensi dell’art. 2091 c.c. ancorché il credito sia soggetto a condizione o a termine.
Il credito vantato dal Comune di Pescia nei confronti del Lascialfari, per effetto della condotta illecita gravemente dannosa, configurabile anche in termini di reato penale, ha natura litigiosa, sia per l'avvenuta emissione dell'invito a dedurre recante la richiesta di danni per €. 1.269.769,54, sia per la costituzione di parte civile del Comune di Pescia nel processo penale, a dimostrazione dell'esistenza di una controversia di natura risarcitoria in atto tra il Lascialfari e l'ente locale.
L'atto dispositivo di cui si tratta è stato lesivo ed ha prodotto una notevole riduzione della garanzia patrimoniale del suddetto appellante in pregiudizio dell'Erario; questi, infatti, non percepiva né retribuzioni né pensione dal Comune a seguito del licenziamento dovuto alla vicenda penale; inoltre, contrariamente a quanto ha riferito l'interessato, l'unità immobiliare trasferita costituiva l'unico immobile rimasto libero da pesi nell'ambito del suo patrimonio, come risultava dagli accertamenti del 24.12.2010 effettuati dalla Guardia di Finanza alla data dell'08.07.2005.
Sussisterebbe, pertanto, il requisito oggettivo prescritto dalle norme, cioè l"'eventus damni" in rapporto alla evidente incidenza dell'atto dispositivo sulle possibilità di soddisfare il credito, anche con riguardo al pericolo concreto che l'eventuale azione esecutiva avrebbe potuto rivelarsi infruttuosa {Cass. n. 7542/2000; Cass. civ.03.03.2009, n.5092) .
Analogamente sussisterebbe l'esistenza del requisito soggettivo, ossia quello denominato "scientia damni”, apparendo chiaramente che il Lascialfari ha compiuto l'atto in parola allo scopo di impedire all'amministrazione l'attuazione coattiva del proprio diritto di credito.
Infatti, non solo l'atto dispositivo è temporalmente posteriore al sorgere del credito, ma si porrebbe in una sequenza tale da far presumere la consapevolezza di arrecare pregiudizio al creditore, in considerazione della imminente pronuncia del Tribunale penale che avrebbe il provocato, a breve, una probabile condanna.
Peraltro, secondo il Procuratore, non si potrebbe dubitare della conoscenza e della consapevolezza del terzo di produrre nocumento alle ragioni del creditore, esistendo tra i due convenuti rapporti di coniugio.
Secondo la giurisprudenza più accreditata (Cassaz., Sez. 2^, n. 2748 del 2005), infatti, per l'esercizio dell'azione di revocatoria ordinaria la prova del requisito della consapevolezza di nuocere agli interessi dei creditori può essere fornita anche mediante presunzioni, dovendosi attribuire rilievo al grado di parentela fra il debitore e gli acquirenti.
La prova del "consilium fraudis" tra i due coniugi, ovvero dell'accordo preordinato al fine di pregiudicare le ragioni del creditore (sebbene essa non sia richiesta in caso di atti dispositivi pregiudiziali anteriori al sorgere del credito), sarebbe data sia dalla conoscenza di entrambi della pendenza del processo penale che di lì a poco si sarebbe concluso, con la conseguenza della determinazione di un danno erariale da risarcire, sia dalla premura di modificare il regime coniugale dei beni da comunione in separazione degli stessi (rep. 47953 del 07.07.2005) nello stesso giorno della compravendita immobiliare (rep. 44954 del 07.07.2005) e circa tre mesi prima del deposito della sentenza penale di condanna, il cui esito era più che scontato.
Sarebbero perciò da respingere, secondo parte appellata, le tesi difensive che tentano di demolire sia la condivisa ricostruzione di parte pubblica, sia le certezze acquisite con la decisione della Sezione regionale, con deboli argomentazioni non corroborate da alcuna dimostrazione documentale e che poggiano su ragionamenti erronei e fuorvianti.
Conclusivamente il Procuratore Generale, visto l'art. 2901 c.c. e le condizioni da esso prescritte, chiede che gli appelli in epigrafe siano rigettati e che, contestualmente, sia confermata l'impugnata sentenza con la dichiarazione d'inefficacia dell'atto di compravendita "de quo" e che, inoltre, le spese del doppio grado di giudizio siano poste a carico dei ricorrenti.
Con ulteriori memorie, depositate in data 31 maggio 2013, gli appellanti hanno contestato le avverse tesi e, in particolare, il Lascialfari ha sostenuto la mancanza del presupposto per l’azione in relazione ai tempi, ha negato che sussista la litigiosità del credito, che non ci fossero altri beni aggredibili, tant’è che ciò si è verificato, e che l’atto sia stato posto in essere con scientia damni; la Dini ha insistito sulle motivazioni morali dell’atto evidenziano che, ove si fosse inteso pregiudicare le ragioni creditorie sarebbe stata più confacente e meno costosa una separazione consensuale e che, quindi, mancano i presupposti per l’azione non essendo la Dini a conoscenza dell’azione penale nei confronti del coniuge.
All’odierna udienza l’avvocato Giovannelli ha ribadito le ragioni esposte negli scritti ammettendo che l’atto di compravendita è in effetti avvenuto a titolo gratuito. Il Procuratore Generale si è riportato agli scritti insistendo nelle proprie concluisoni

DIRITTO
Gli appelli, da riunirsi in rito ai sensi dell’art. 335 c.p.c., sono infondati.
Devesi al riguardo osservare che la giurisprudenza di questa Corte si è già occupata della questione relativa alla revoca di atti dispositivi relativamente ad un credito “litigioso” (v. Sez. I appello n. 560/2009 e Sez. III appello n. 769/1998). Al riguardo è stato affermato che “ai fini dell'esperimento dell'azione revocatoria ordinaria da parte del creditore avverso un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore è sufficiente l'esistenza di una ragione di credito, ancorché non accertata giudizialmente - la definizione dell'eventuale controversia sull'accertamento del credito non costituisce l'antecedente logico - giuridico indispensabile della pronunzia sulla domanda revocatoria” e, il giudice della revocatoria può accertare, in via incidentale, l’esistenza del credito, se del caso anche con efficacia di giudicato (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 05 agosto 1998, n. 769).
Una volta che, in adesione alla giurisprudenza de qua, siano ritenuti ammessi alla tutela revocatoria anche i crediti c.d. litigiosi, è giocoforza concludere, se non si vuole incorrere in un’evidente contraddizione, che l’accertamento incidentale del giudice della revocatoria dovrà concernere, di norma, l’esistenza non di un credito effettivo ma di un credito eventuale, sotto forma di credito litigioso: in terminis cfr. Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 12849 del 01/06/2007, per la quale “nel giudizio ex art. 2901 cod. civ. è sufficiente al creditore procedente l'allegazione d'un decreto ingiuntivo (anche se opposto) ottenuto nei confronti del preteso debitore per dimostrare la titolarità di un credito meritevole di tutela”.
Nel caso si osserva che non hanno pregio le affermazioni del Lascialfari circa la insussistenza di un credito litigioso dal momento che la emissione dell’invito a dedurre, è atto idoneo a configurare la sussistenza del credito litigioso dovendosi considerare che l’invito a dedurre è anche atto idoneo alla costituzione in mora del debitore (SS.RR. n. 14/2000), e da ciò deriva che l’esistenza di un credito litigioso in quel momento è senz’altro configurabile. Comunque, a tutto voleer concedere in ordine ai tempi in cui fu emesso l’atto di citazione, contestati dall’avvocato, si deve considerare che, come esattamente osserva la sentenza impugnata, la costituzione di parte civile dell’Amministrazione in giudizio evidenzia senza ombra di dubbio l’esistenza di ragioni creditorie, sia pure sub iudice, e che l’illiceità del comportamento costituisce il Lascialfari debitore dal momento stesso del compimento del fatto illecito.
In ordine poi alla dedotta mancanza del presupposto dell’azione costituito dall’eventus damni deve osservarsi che la dolosità dei fatti addebitati al Lascialfari - da cui sono discese condanne in sede penale per danni arrecati all’Amministrazione di notevole entità - rivela di per sé la consapevole volontà del Lascialfari di arricchirsi in danno dei soggetti lesi e, quindi, da ciò consegue che lo spogliamento di propri beni a favore della moglie è indice della sua intenzionale volontà di sottrarre beni ai possibili recuperi intentati dal creditore o anche solo di renderne più difficile il recupero con l’evidente dimostrazione di un danno per essi.
Infatti, (Cass. Civ. Sez. 3, Sentenza n. 29869 del 19/12/2008), in tema di revocatoria ordinaria, ai fini del "consilium fraudis" non è necessaria la dimostrazione dell'intenzione di nuocere al creditore, essendo sufficiente la consapevolezza, da parte del debitore e non anche del terzo beneficiario, del pregiudizio che, mediante l'atto di disposizione, sia in concreto arrecato alle ragioni del creditore, consapevolezza la cui prova può essere fornita anche mediante presunzioni.
Anche quando l'atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare l'"animus nocendi" richiesto dall'art. 2901, comma primo n. 1, cod.civ. è sufficiente il mero dolo generico, e, cioè, la mera previsione, da parte del debitore, del pregiudizio dei creditori, e non è, quindi, necessaria la ricorrenza del dolo specifico, e, cioè, la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore. Trattandosi di un atteggiamento soggettivo, tale elemento psicologico va provato dal soggetto che lo allega e può essere accertato anche mediante il ricorso a presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione. (Sez. 3, Sentenza n. 24757 del 07/10/2008). Nel caso, pertanto, alla stregua degli atti processuali e della conoscenza da parte del Lascialfari del proprio comportamento dolosamente preordinato al proprio vantaggio e del procedimento penale in atto deve ritenersi provato sia il consilium fraudis che l’eventus damni. Quest’ultimo, tra l’altro, è insito nel fatto che qualsiasi sottrazione di beni, vista l’entità rilevante delle somme da risarcire, è nel caso, di per sé di pregiudizio al creditore per la soddisfazione del credito. Tra l’altro, l’immobile trasferito alla moglie, come risulta anche a pag. 13 della sentenza, era l’unico rimasto libero da pesi nell’ambito del patrimonio del Lascailfari.
D’altro canto la Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 27718 del 16/12/2005) ha affermato, in un caso di beni ceduti al coniuge, contestualmente al mutamento del regime patrimoniale di comunione in quello di separazione, che le condizioni per l'esercizio dell'azione revocatoria ordinaria consistono nell'esistenza di un valido rapporto di credito tra il creditore che agisce in revocatoria e il debitore disponente, nell'effettività del danno, inteso come lesione della garanzia patrimoniale a seguito del compimento da parte del debitore dell'atto traslativo, e nella ricorrenza, in capo al debitore, ed eventualmente in capo al terzo, della consapevolezza che, con l'atto di disposizione, venga a diminuire la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori.
Quanto alla dedotta mancanza della partecipatio fraudis della sig.ra Dini nella compravendita si osserva che la sentenza di primo grado ha correttamente motivato anche al riguardo (pag. 15-17) e questo Collegio condivide le motivazioni ivi esposte. Si rileva, al riguardo, che l’esistenza di un grave procedimento penale in corso relativo a fatti coinvolgenti un Comune di piccole dimensioni quale quello di Pescia ove si trova anche l’immobile di cui trattasi di proprietà dei coniugi, non poteva essere ignorato nell’ambito familiare. Infatti la Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 7452 del 05/06/2000) ha affermato che, in tema di azione revocatoria ordinaria, allorché l'atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, l'unica condizione per l'esercizio della stessa è che il debitore fosse a conoscenza del pregiudizio per le ragioni del creditore, e, trattandosi di atto a titolo oneroso, che di esso fosse consapevole il terzo. La prova di tale atteggiamento soggettivo ben può essere fornita tramite presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito, ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato ed immune da vizi logici e giuridici.
D’altro canto le motivazioni dedotte di un mero interesse morale della Dini a regolarizzare la situazione con la propria madre, non si appalesano convincenti, dopo oltre 25 anni di matrimonio tra i coniugi, se non nella considerazione che la conoscenza della situazione debitoria del Lascialfari, in relazione al procedimento penale in corso, fosse nota sia alla madre che alla figlia e che l’atto fosse finalizzato proprio a sottrarre il bene alla garanzia patrimoniale.
Si annota, infine, che, nell’atto di citazione a pag. 37 e 38, il Procuratore regionale, non contraddetto dalle parti, anzi la tesi è stata ammessa e confermata oggi in udienza dall’avvocato difensore, osserva che il corrispettivo dell’atto di compravendita “non è dato sapere come e quando pagato” e che, quindi, l’atto stesso è a titolo gratuito e non oneroso e ciò rende addirittura superflua la pur provata partecipatio fraudis della Dini
Gli appelli sono, pertanto, infondati e, come tali da respingere.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte dei Conti – Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette
RIGETTA:
i giudizi di appello in epigrafe, riuniti in rito.
Le spese di giudizio, che si liquidano in €.163,86 (centosessantatre/86)seguono la soccombenza. Così deciso, in Roma, nella Camera di Consiglio del 21 giugno 2013.
Il Presidente Estensore
F.to Piera Maggi
Depositata in Segreteria il 5 novembre 2013
Il Direttore della Segreteria
F.to Dott. Massimo Biagi


mercoledì 18 dicembre 2013

TRIBUTARIO: l'accesso agli atti del procedimento tributario (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, sentenza 7 novembre 2013 n. 2437).


TRIBUTARIO: 
l'accesso agli atti del procedimento tributario 
(T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 
sentenza 7 novembre 2013 n. 2437).


Massima

1. Non costituisce giusta ragione del diniego di accesso ai documenti fiscali (nella fattispecie, ad una cartella esattoriale) il fatto che si tratti di un procedimento tributario. Vero è che l'art. 24, l. n. 241 del 1990 esclude il diritto di accesso, tra l'altro, nel caso di procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che lo regolano.
2. Tale norma va intesa  secondo una lettura della disposizione costituzionalmente orientata: l'inaccessibilità agli atti di cui trattasi deve essere temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo stesso. 
3. In definitiva, deve riconoscersi il diritto di accesso qualora l'Amministrazione abbia concluso il procedimento, con l'emanazione del provvedimento finale e, quindi, in via generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1670 del 2013, proposto da:
Dalmine S.p.A., rappresentata e difesa dagli avv. Domenico Ielo, Matteo Fanni, Carlo Catarisano, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Bonelli in Milano, via Barozzi, 1; 
contro
Ministero dell'economia e delle Finanze, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Milano, via Freguglia, 1; 
per l'annullamento
della determinazione dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Lombardia, settore Controlli e Riscossioni, prot. n. 2013/53594, del 21 maggio 2013, con cui è stato confermato il diniego di accesso ai documenti amministrativi richiesti dalla società Dalmine spa;
degli atti connessi e per quanto occorrer possa, della determinazione dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Lombardia, settore Controlli e Riscossioni, ufficio grandi contribuenti, prot. n. 2013/15268 dell’8 febbraio 2013, con cui è stata rigettata l’istanza di accesso ai documenti amministrativi presentata da Dalmine in data 11 gennaio 2013.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2013 la dott.ssa Silvana Bini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO
La società ricorrente espone:
di essere stata sottoposta ad una verifica fiscale da parte della Guardia di Finanza, avente ad oggetto l’attività di distribuzione dei dividendi alla controllante Talta LDA;
che il procedimento, avviato il 2 aprile 2009, si è concluso il 10 settembre 2012, con la notifica di un avviso di accertamento per una infrazione fiscale e applicazione di una sanzione pecuniaria di € 169.121.361;
di aver presentato in data 11 gennaio 2013 domanda di accesso agli atti e ai documenti del suddetto procedimento, motivando l’accesso con l’esigenza di tutela giurisdizionale;
che l’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Lombardia, settore Controlli e Riscossioni, ufficio grandi contribuenti, con nota prot. n. 2013/15268 dell’8 febbraio 2013, ha respinto la domanda, rilevando l’inesistenza in capo alla richiedente di un interesse diretto attuale e concreto, nonché per la presenza di alcuni documenti esclusi dall’accesso;
di aver presentato ricorso alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi contro il diniego;
che la Commissione ha accolto in parte il ricorso, affermando la non congruità del diniego basato sull’art 24 c.1 lett. b) L. 241/90, qualora gli atti richiesti attengano ad un procedimento concluso e la richiesta sia connessa alla tutela del’interesse alla difesa giurisdizionale.
È stata invece ritenuta legittima l’esclusione dall’accesso della documentazione relativa a comunicazioni con Autorità fiscali di Paesi esteri, ai sensi dell’art 2 lett. b) d.m. 29 ottobre 1996 n. 603;
di aver quindi ripresentato domanda di accesso, istanza che veniva respinta, con la nota prot. n. 2013/53594, del 21 maggio 2013, ribadendo le motivazioni già contenute nel precedente diniego.
Avverso i due provvedimenti negativi, parte ricorrente ha articolato le seguenti censure:
1) violazione e falsa applicazione dell’art 22 comma 1, lett. b) e 3,24 commi 1, lett. b) 2,3,5,6 e 7 e 25 commi 3 e 4 L. 241/90;
2) violazione e falsa applicazione dell’art 24, 11 e 113 Cost. Violazione dell’art 6 CEDU;
3) violazione e falsa applicazione dell’art 22 comma 1, lett. b) e 3, 24 commi 1, lett. b) 2,3,5,6 e 7 e 25 commi 3 e 4 L. 241/90; eccesso di potere per sviamento ed errore di fatto.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, chiedendo il rigetto del ricorso.
Alla camera di consiglio dell’8 ottobre 2013 il ricorso è stato trattenuto in decisione dal Collegio.

DIRITTO
1) Con il presente ricorso la società Dalmine ha impugnato i dinieghi opposti alla domanda di accesso presentata in data in data 11 gennaio 2013, istanza poi ripresentata, dopo la decisione della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi.
2) Si pone la necessità di una breve disamina del contenuto della domanda e dei dinieghi.
Parte ricorrente, in qualità di soggetto sottoposto ad un accertamento fiscale, conclusosi con un avviso di accertamento per una infrazione fiscale e applicazione di una sanzione pecuniaria di € 169.121.361, ha richiesto copia di “ogni comunicazione scritta intercorsa direttamente e/o indirettamente” tra l’agenzia regionale delle Entrate e le sue articolazioni organizzative; la Direzione centrale accertamento dell’Agenzia delle entrate e le sue articolazioni organizzative; il Comando regionale della Guardia di finanza della Lombardia, di Bergamo e il Comando del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Bergamo; nonché la documentazione con le competenti autorità fiscali di paesi terzi cui sono state inviate richieste di informazioni avvalendosi degli strumenti approntati dalla normativa vigente in materia di cooperazione internazionale.
Le due istanze sono state respinte, con atti molti articolati, dalla cui complessiva lettura possono evincersi le seguenti ragioni:
- la L. 241/90 non troverebbe applicazione automatica e generalizzata all’interno del procedimento tributario: l’art 24 infatti esclude il diritto di accesso in materia tributaria, “per il quale restano ferme le particolari norme che lo regolano”. La documentazione richiesta rientra nell’”attività di pianificazione dei controlli la quale è inaccessibile stante il disposto dell’art 24 della legge sul procedimento amministrativo”;
- il contribuente non vanta alcun legittimo diritto di accesso alle tipologie di documenti, perlatro mai espressamente e analiticamente individuati nei loro estremi,
- deve essere sottratta la documentazione relativa a comunicazione con Autorità fiscali di paesi esteri, ai sensi dell’art 2 c. 1 lett. b) d.m. 29 ottobre 1996 n. 603.
2) Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito esposte.
2.1 Va affrontata in primo luogo la questione della accessibilità ai documenti fiscali e tributari.
Sul punto si è consolidato un orientamento secondo cui non costituisce giusta ragione del diniego di accesso ai documenti fiscali (nella fattispecie esaminata ad una cartella esattoriale), il fatto che si tratta di un procedimento tributario; “vero è infatti che l'art. 24 della l. n. 241 del 1990 esclude il diritto d'accesso, tra l'altro, nel caso di procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano, ma tale norma va essere intesa - secondo una lettura della disposizione costituzionalmente orientata - nel senso che la inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo. In ragione di ciò deve riconoscersi il diritto di accesso qualora l'Amministrazione abbia concluso il procedimento, con l'emanazione del provvedimento finale e quindi, in via generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai concluso” (in tal senso Consiglio di Stato, Sez. IV – n. 4821 del 26 settembre 2013).
Pertanto, poiché nel caso di specie il procedimento tributario si è concluso, all’istanza di accesso non possono essere opposte esigenze di segretezza.
Per tali ragioni il diniego, laddove richiama l’art 24 L. 241/90, è illegittimo.
2.2 Quanto alla posizione del richiedente e all’oggetto della richiesta, si osserva che l’interesse è in re ipsa, cioè nell’essere stato soggetto sottoposto ad accertamenti: pare superfluo che l’Amministrazione richieda una precisazione circa la sussistenza dell’interesse, in quanto è logico che alla conclusione di un procedimento di accertamento fiscale, il destinatario dell’avviso di accertamento o della sanzione abbia interesse a conoscere gli atti istruttori, al fine di valutare l’opportunità di agire in via giudiziale.
La società chiede per tale ragione di poter avere copia degli atti endoprocedimentali, in base ai quali è stato adottato il provvedimento conclusivo, ceteris verbis a tutti gli atti dell’istruttoria.
Dalla domanda presentata, formulata facendo riferimento ai soggetti da cui gli atti sono emanata e al procedimento oggetto della corrispondenza, si evince con chiarezza anche quali siano i documenti richiesti, per cui il richiamo difensivo alla genericità della domanda è pretestuoso.
Non attiene poi al presente giudizio ogni rilievo o contestazione circa l’effettivo rispetto del diritto al contraddittorio garantito nel corso del procedimento tributario.
2.3 Anche la motivazione del diniego alle comunicazioni con Autorità fiscali di paesi esteri, sottratte all’accesso ai sensi dell’art 2 c. 1 lett. b) d.m. 29 ottobre 1996 n. 603, è illegittimo.
Il D.M. 29-10-1996 n. 603 all’art. 2 disciplina le categorie di documenti inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali.
Nella lettera b) del D.M., disposizione richiamata dall’Amministrazione, vengono inclusi tra i documenti non accessibili, quelli “attinenti ad accordi di cooperazione, anche di carattere investigativo nei settori istituzionali sviluppati con l'apporto e la collaborazione di organismi di polizia, fiscali e doganali esteri nonché dei servizi della Commissione dell'Unione europea e di altri organismi comunitari e internazionali”.
La richiesta della società Dalmine atteneva in realtà alla corrispondenza con paesi esteri relativa ad un accertamento in corso nei suoi confronti, per cui non è chiara l’attinenza della disposizione richiamata; inoltre il rigetto in base a detta disposizione presupponeva quanto meno la rappresentazione delle particolari esigenze di segretezza.
III) Per tali ragioni i provvedimenti impugnati vanno annullati e deve essere riconosciuto il diritto di accedere alla documentazione richiesta.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto annulla i provvedimenti impugnati e ordina all'intimata amministrazione di esibire alla ricorrente gli atti richiesti con l'istanza in data 11 gennaio 2013 e di rilasciarne copia.
Condanna la stessa amministrazione al pagamento delle spese processuali in favore della parte ricorrente, liquidandole forfettariamente in complessivi 2.000/00 (duemila,00), oltre accessori di legge e rimborso di quanto pagato a titolo di contributo unificato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Adriano Leo, Presidente
Silvana Bini, Consigliere, Estensore
Antonio De Vita, Primo Referendario


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 06/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)