venerdì 21 giugno 2013

EDILIZIA: i c.d. vincoli strumentali e gli effetti della relativa decadenza (PARERE "PRO VERITATE").


EDILIZIA:
 i c.d. vincoli strumentali 
 gli effetti della relativa decadenza 
(PARERE "PRO VERITATE").

Cari followers,

Vi riporto una breve parere che ho redatto per una lettore del blog che mi ha chiesto qualche informazione sui c.d. vincoli strumentali del PRG e sui relativi effetti della decadenza sul rilascio dei titoli abilitativi edilizi.
Il parere si può anche scaricare in pdf qui.


"Gentile Sig. G.,

La ringrazio innanzitutto per l’apprezzamento espresso al blog.

Quanto al suo quesito sarò telegrafico.
Qualora necessitasse di un parere più approfondito, dovrei conoscere tutta la vicenda fattuale che La riguarda, i relativi documenti, ed uno specifico studio della fattispecie.

La decadenza dei c.d. vincoli strumentali del PRG non determina una piena e totale espansione del diritto a costruire (c.d. ius edificandi), il quale rimane soggetto comunque ad una serie di limiti. Le dico questo perché ha fatto riferimento alla sottozona C1, quindi credo che il suo quesito sia volto a capire che limiti incontra oggi la richiesta dei titoli abilitativi a seguito del decorso del quinquennio di decadenza.

Più in particolare:
la scadenza del termine previsto per l’attuazione di un Piano di Zona (di ossia del Piano esecutivo per le aree d’edilizia economico-popolare di cui alla L. n. 167/62) priva i suddetti piani di efficacia per la parte in cui non abbiano avuto esecuzione, permanendo invece a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti nei piani stessi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 dicembre 1994, n, 1089, Sez. V, sentenza 20 marzo 2008 n. 1216 ).
Tali limiti sono determinati dal fatto che “il limite temporale del quinquennio, riguardante l’efficacia delle prescrizioni dei PRG nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino l’inedificabilità, è valevole unicamente per quei vincoli che producano un effetto sostanzialmente espropriativo, tale da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono. Nel caso in esame, invece, si verte in tema di decadenza del vincolo strumentale, ossia quello che subordina l’edificabilità di un’area all’inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo. In tale circostanza, venendo meno la configurabilità dello schema ablatorio, è esclusa anche la decadenza quinquennale del relativo vincolo“.
Questa sentenza (Cons. St., sent. n. 3/2013) esclude addirittura la decadenza del c.d. vincolo strumentale: ma a livello pratico, gli effetti limitanti sono gli stessi che Le ho suesposto.
Escludo poi che La sua domanda riguardi un Comune privo di un PRG (o di un paino di lottizzazione), o con un PRG privo dei contenuti essenziali di cui all’art. 7 della L., n. 1150/42. Altrimenti si applicherebbe la più limitante (per permessi a costruire, DIA/SCIA, etc.) disciplina della Bucalossi, di cui all’art. 4, u.c., della legge n. 10 del 1977.
Infine: la giurisprudenza ha di recente stabilito che se il PRG impone l’approvazione di strumenti urbanistici attuativi, è comunque possibile il rilascio di licenze o concessioni edilizie nei casi in cui l’intervento edilizio ricada in zone ormai completamente urbanizzate e dotate di tutti i servizi necessari. Per tale ragione, il titolo abilitativo edilizio può essere oggetto di rilascio anche in assenza del piano attuativo.

Spero di esser stato conciso ed esaustivo.
Per qualsiasi ulteriore richiesta può contattarmi via email o ai numeri che trova in epigrafe.
Distinti saluti.

Avv. Federico Frasca


giovedì 20 giugno 2013

PUBBLICO IMPIEGO: trasferimento e ricongiungimenti familiari (T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sentenza breve 10 maggio 2013 n. 360).


PUBBLICO IMPIEGO: 
trasferimento e ricongiungimenti familiari  
(T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, 
sentenza breve 10 maggio 2013 n. 360)


Commento


1.  Prima delle modificazioni introdotte dall'art. 24, l. n. 183 del 2010, il beneficio dell'assegnazione ad una sede lavorativa più prossima al luogo di assistenza del familiare con disabilità grave, previsto dall'art. 33 comma 5, l. n. 104 del 1992, era subordinato ai requisiti della "continuità" dell'assistenza (intesa come assistenza già in atto al momento della domanda), della "esclusività" della stessa (intesa come mancanza o indisponibilità di altri soggetti tenuti in virtù di legge o di provvedimento a prestarla) e dell'effettiva possibilità di soddisfare tale richiesta ("ove possibile", in relazione alle esigenze organizzative dell'amministrazione di appartenenza).
2.  Successivamente, in virtù della nuova disciplina della materia, sono venuti meno i requisiti della "continuità" e della "esclusività" nel significato suindicato, onde il presupposto della "esclusività" per accordare il trasferimento va ora inteso unicamente nel senso che il beneficio non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla medesima persona, non già quale indisponibilità di altri familiari allo svolgimento di tale attività.
3.  Più complessa è stata l'interpretazione della nuova normativa per la parte relativa al personale delle Forze Armate, di Polizia e dei Vigili del Fuoco, in quanto l'art. 19, l. n. 183 del 2010, richiede per tali categorie l'adozione di ulteriori e specifici provvedimenti legislativi, il che ha in un primo tempo indotto la giurisprudenza a ritenere loro non applicabile medio tempore la disciplina in questione ed ancora operativa la regolamentazione previgente; da ultimo, tuttavia, è stata corretta una simile restrittiva lettura della normativa, essendosi consolidato l'orientamento per cui non può mai la p.a. porre a fondamento del diniego di trasferimento ex art. 33 comma 5, L. n. 104 del 1992, l'insussistenza dei presupposti della "continuità" e della "esclusività" dell'assistenza, neppure ove si tratti del personale delle Forze Armate, di Polizia e dei Vigili del Fuoco.
4.  Nella fattispecie, la p.a. ha giustificato il rigetto dell'istanza con la sola presenza in loco di altri familiari in grado di prestare l'assistenza, senza addurre preclusioni legate alle condizioni soggettive delle persone disabili interessate ed opponendo in modo del tutto generico le esigenze organizzative che impedirebbero il trasferimento dell'interessata, essendo noto come, quanto alle esigenze organizzative ostative, per non svuotare di significato la norma occorra interpretarla nel senso che, all'esito di un equo bilanciamento tra tutti i coinvolti interessi costituzionalmente rilevanti, il trasferimento può essere negato solo se ne conseguano effettive e ben individuate criticità per l'amministrazione, la quale ha l'onere di indicarle in maniera compiuta, per rendere percepibile di quali reali pregiudizi risentirebbe la sua azione, mentre non può limitarsi ad invocare generiche esigenze di corretta organizzazione e buon andamento; pertanto, risultano illegittimi gli atti impugnati - per avere la p.a. fatto indebitamente discendere il diniego di trasferimento dall'esistenza di familiari in grado di prestare la necessaria assistenza.


Sentenza (breve) per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ai sensi dell’art. 60 cod.proc.amm.
sul ricorso n. 286 del 2013 proposto da Romina Caparco, rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Bragagni e dall’avv. Marco Esposito, e presso gli stessi elettivamente domiciliata in Bologna, strada Maggiore n. 31;
contro
il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Bologna, domiciliataria ex lege;
per l'annullamento
del provvedimento in data 28 gennaio 2013, con cui il Ministero dell’Interno - Dipartimento della Pubblica sicurezza rigettava l’istanza di trasferimento della ricorrente ai sensi dell’art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992;
del provvedimento in data 20 marzo 2013, con cui il Ministero dell’Interno - Dipartimento della Pubblica sicurezza rigettava l’istanza di riesame del precedente diniego.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;
Vista l’istanza cautelare della ricorrente;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Nominato relatore il dott. Italo Caso;
Uditi, per le parti, alla Camera di Consiglio del 9 maggio 2013 i difensori come specificato nel verbale;

FATTO e DIRITTO
Visto l’art. 60 cod.proc.amm., che consente l’immediata assunzione di una decisione di merito, con “sentenza in forma semplificata”, ove nella Camera di Consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare il giudice accerti la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e nessuna delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione;
Considerato che, presentata dalla ricorrente – in servizio presso la Questura di Bologna con la qualifica di “Assistente della Polizia di Stato” – un’istanza di trasferimento presso la Questura di Forlì, ai sensi dell’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, per assistere il padre e la suocera portatori di handicap in situazione di gravità, l’Amministrazione rigettava la domanda in quanto presenti in loco altri familiari in grado di prendersi cura delle persone disabili (v. provvedimento in data 28 gennaio 2013, emesso dal Ministero dell’Interno - Dipartimento della Pubblica sicurezza) e poi rigettava anche la richiesta di riesame del diniego (v. provvedimento in data 20 marzo 2013, emesso dal Ministero dell’Interno - Dipartimento della Pubblica sicurezza);
che avverso i suindicati atti ha proposto impugnativa l’interessata, imputando all’Amministrazione di non avere dato corretta applicazione all’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, norma oramai svincolata dal requisito della “esclusività” dell’assistenza, secondo una disciplina pienamente applicabile anche al personale delle Forze Armate, di Polizia e dei Vigili del Fuoco;
che si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato, resistendo al gravame;
che alla Camera di Consiglio del 9 maggio 2013, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in decisione;
Ritenuto che, prima delle modifiche introdotte dall’art. 24 della legge n. 183 del 2010, il beneficio dell’assegnazione ad una sede lavorativa più prossima al luogo di assistenza del familiare con disabilità grave, previsto dall’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, era subordinato ai requisiti della “continuità” dell’assistenza (intesa come assistenza già in atto al momento della domanda), della “esclusività” dell’assistenza (intesa come mancanza o indisponibilità di altri soggetti tenuti in virtù di legge o di provvedimento a prestare l’assistenza), dell’effettiva possibilità di soddisfare tale richiesta (“ove possibile”, in relazione alle esigenze organizzative dell’Amministrazione di appartenenza);
che, successivamente, in virtù della nuova disciplina della materia, sono venuti meno i requisiti della “continuità” e della “esclusività” nel significato suindicato, sicché il presupposto della “esclusività” per accordare il trasferimento va ora inteso unicamente nel senso che il beneficio non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza della medesima persona, non già quale indisponibilità di altri familiari allo svolgimento di tale attività (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 28 gennaio 2013 n. 518; TAR Lazio, Sez. I, 11 gennaio 2013 n. 252);
che più complessa è stata l’interpretazione della nuova normativa per la parte relativa al personale delle Forze Armate, di Polizia e dei Vigili del Fuoco, in quanto l’art. 19 della legge n. 183 del 2010 richiede per tali categorie l’adozione di ulteriori e specifici provvedimenti legislativi, il che ha in un primo tempo indotto la giurisprudenza a ritenere loro non applicabile medio tempore la disciplina in questione e ancora operativa la regolamentazione previgente (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 66), e da ultimo, tuttavia, è stata corretta una simile restrittiva lettura della normativa, essendosi andato consolidando l’orientamento per cui non può mai l’Amministrazione pubblica porre a fondamento del diniego di trasferimento ex art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992 l’insussistenza dei presupposti della “continuità” e della “esclusività” dell’assistenza, neppure ove si tratti del personale delle Forze Armate, di Polizia e dei Vigili del Fuoco (v. Cons. Stato, Sez. IV, 5 marzo 2013 n. 1347, 18 ottobre 2012 n. 5378, 30 luglio 2012 n. 4291 e 9 luglio 2012 n. 4047);
che, nella fattispecie, l’Amministrazione ha giustificato il rigetto dell’istanza con la sola presenza in loco di altri familiari in grado di prestare l’assistenza, senza addurre preclusioni legate alle condizioni soggettive delle persone disabili interessate e opponendo in modo del tutto generico le esigenze organizzative che impedirebbero il trasferimento della ricorrente, essendo noto come, quanto alle esigenze organizzative ostative, per non svuotare di significato la norma essa va interpretata nel senso che, all’esito di un equo bilanciamento tra tutti gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il trasferimento può essere negato solo se ne conseguano effettive e ben individuate criticità per l’Amministrazione, la quale ha l’onere di indicarle in maniera compiuta per rendere percepibile di quali reali pregiudizi risentirebbe la sua azione, mentre non può limitarsi ad invocare generiche esigenze di corretta organizzazione e buon andamento (v., tra le altre, TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 8 marzo 2013 n. 178);
che, pertanto, il ricorso si presenta fondato – con conseguente annullamento degli atti impugnati –, per avere l’Amministrazione fatto indebitamente discendere il diniego di trasferimento dall’esistenza di familiari in grado di prestare la necessaria assistenza;
che restano naturalmente salve le ulteriori determinazioni che l’Amministrazione dovrà adottare in sede di riesame dell’istanza di assegnazione della ricorrente alla diversa sede di servizio, senza però poter ascrivere alcun rilievo al requisito della “esclusività” dell’assistenza;
Considerato, in conclusione, che – stante la sussistenza dei presupposti di legge – la Sezione può decidere con “sentenza in forma semplificata”, ai sensi dell’art. 60 cod.proc.amm.;
che nel corso della Camera di Consiglio il Collegio ha avvertito i presenti dell’eventualità di definizione del giudizio nel merito;
che le spese di lite seguono la soccombenza dell’Amministrazione, e vengono liquidate come da dispositivo

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati.
Condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite, nella misura complessiva di € 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Bologna, nella Camera di Consiglio del 9 maggio 2013, con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Calvo, Presidente
Alberto Pasi, Consigliere
Italo Caso, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/05/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

PROVVEDIMENTO: i pareri, in quanto atti endoprocedimentali, non sono impugnabili (Cons. St. Sez. IV, sentenza 10 giugno 2013 n. 3184).


PROVVEDIMENTO: 
i pareri, in quanto atti endoprocedimentali, 
non sono impugnabili 
(Cons. St. Sez. IV, sentenza 10 giugno 2013 n. 3184)


Massima

1.  I pareri sono da ritenersi atti endoprocedimentali, mentre la valenza lesiva deve attribuirsi soltanto al provvedimento, inteso come atto che costituisce, modifica o estingue posizioni soggettive.
Nel caso di impugnativa di titolo edilizio a favore di altri, la valenza lesiva deve essere attribuita soltanto alla concessione, non sussistendo l’onere (ma solo eventualmente la facoltà) di abbracciare nell’impugnativa (che peraltro implicitamente li comprende quali atti presupposti) i pareri di tenore positivo.
I pareri sono atti non provvedimentali, come tali valutativi e strumentali alla emanazione di un determinato provvedimento.
Gli atti non provvedimentali non sono direttamente impugnabili, perché come tali insuscettibili di produrre effetti lesivi nelle situazioni giuridiche facenti capo a terzi. Fanno eccezione, caso che non rientra nella specie, gli atti endoprocedimentali allorquando assumono carattere di immediata lesività, come nel caso di pareri vincolanti negativi, che non lasciano all’interessato alcun dubbio sul contenuto e sull’esito della decisione finale (Cons. Stato, IV, 28 marzo 2012, n.1829; Consiglio Stato, sez. V, 2 aprile 2001, n. 1902). 
2.  Vale il principio secondo cui in presenza di una variante di concessione edilizia originaria e recante modifiche di non rilevante consistenza, è inammissibile il ricorso avverso la concessione in variante in mancanza di tempestiva impugnativa della originaria concessione, se la incisione (la lesione) è avvenuta con il primo provvedimento; è altresì evidentemente condivisibile il principio secondo cui l’impugnativa della concessione in variante non può certo comportare una rimessione in termini in caso di decadenza per l’impugnativa avverso l’atto originario.
Nella specie, tuttavia, la vicenda si pone in modo diverso, in quanto dalla relazione tecnica risulta evidente che la concessione in variante apporta un pregiudizio in sé autonomo e diverso rispetto a quanto assentito dalla concessione originaria, perché è essa variante (sul punto è chiara la sentenza appellata) e non già il precedente titolo abilitativo, a consentire la costruzione di un edificio di tre piani fuori terra, in luogo di un edificio di soli due piani fuori terra e cioè comporta la realizzazione di un fabbricato edilizio di maggiore entità sia sotto il profilo volumetrico che di superficie coperta.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4175 del 2006, proposto da:
Ferrante Luigi, rappresentato e difeso dagli avv. Gian Luigi D'Amore, Leopoldo Di Bonito, con domicilio eletto presso Leopoldo Di Bonito in Roma, via Arenula 21; 
contro
Comune di Piedimonte Matese, rappresentato e difeso dall'avv. Gennaro Terracciano, con domicilio eletto presso Gennaro Terracciano in Roma, largo Arenula N.34; De Biasi Luigi, rappresentato e difeso dall'avv. Luigi Adinolfi, con domicilio eletto presso Paolo Di Martino in Roma, via dell'Orso, 74; Napoletano Immacolata, Emiliana Erede De Biasi Luigi De Biasi, Remigio Erede De Biasi Luigi De Biasi, Mirella Erede De Biasi Luigi De Biasi, Giovanna Erede De Biasi Luigi De Biasi, Massimo Erede De Biasi Luigi De Biasi, Monica Erede De Biasi Luigi Pangalli, Jessica Erede De Biasi Luigi Pangalli; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE IV n. 02467/2006, resa tra le parti, concernente concessione edilizia per realizzazione fabbricato commerciale e residenziale

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2013 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti gli avvocati Di Bonito e Adinolfi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione di Napoli, i signori De Biasi Luigi e Napoletano Immacolata, agivano per l’annullamento di varie concessioni edilizie rilasciate ai coniugi Ferrante Vincenzo e Ferrante Rosa e cioè: la n.162/AU/931 del 19.1.1999 per la realizzazione in via Matese di un fabbricato ad uso commerciale e residenziale; la n.1991/AU/10943 del 9.6.2003 in favore del solo Ferrante Luigi, avente ad oggetto la variante in corso d’opera della precedente; la n.74/AU/912 del 16.1.2002, a favore di entrambi i coniugi, per la realizzazione, nella stessa via, di fabbricato ad uso commerciale e residenziale.
I ricorrenti, comproprietari di fabbricato con annesso giardino sito in via Elci n.54, confinante da un lato con via Matese e dall’altro lato con traversa interna di via Matese, deducevano i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili: 1) in particolare sostenendo la falsa rappresentazione dello stato dei luoghi contenuta nei progetti, in quanto, al fine di costruire sul confine della traversa interna, la stessa veniva riportata come strada privata invece che comunale; 2) sostenevano la violazione dell’altezza, perché l’altezza media dei fabbricati limitrofi è di mt.7,50 come riportato nei grafici allegati alla prima richiesta di concessione e non 10,37 come risulta dai grafici della domanda di variante; 3) inoltre, la variante non poteva essere concessa essendo la prima concessione scaduta in data 19 gennaio 2002, trattandosi di modifiche strutturali, inammissibili in corso d’opera; 4) sostenevano la difformità delle opere realizzate rispetto a quanto assentito.
In data 27 ottobre 2003 e 3 dicembre 2003 si costituivano in giudizio Ferrante Luigi e il Comune intimato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso e comunque il rigetto per infondatezza.
In data 24 settembre 2003 a seguito di presentazione di esposti presentati dai ricorrenti, il Sindaco emanava una direttiva per accertare la correttezza del calcolo della altezza dei fabbricati di contorno nonché in generale della correttezza dei procedimenti assentiti a favore dei coniugi Ferrante; il Responsabile del procedimento dapprima sospendeva i lavori e successivamente revocava tale sospensione, archiviando la direttiva del Sindaco; tale atto (del 20 ottobre 2003) del responsabile del procedimento veniva impugnato con motivi aggiunti, nei quali si rappresentava che la concessione n.74/AU/912 non aveva nulla a che vedere con quella n.1991/AU/10943, sicchè se ne lamentava la confusione rispetto agli accertamenti chiesti dal Sindaco; si contestava anche che l’altezza dei fabbricati andava accertata rispetto alle norme urbanistiche e non con un giudizio estetico di “sintonia” con l’ambiente circostante, come tale non pertinente; sostenevano che, a prescindere dalla natura privata o pubblica della strada, trattandosi di zona sismica, il fabbricato doveva rispettare le distanze di cinque metri dalla strada; riguardo alla decadenza della concessione del 1999, deducevano che il responsabile si era limitato ad affermare la tempestività della richiesta di variante, senza ulteriori approfondimenti; evidenziavano la illegittima esclusione del sottotetto abitabile dal calcolo volumetrico.
In data 13 gennaio 2004 i ricorrenti depositavano altra sospensione adottata dal Sindaco ed una relazione del CTU nominato nella causa civile dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; con ordinanza cautelare n.2577 del 14 gennaio 2004 veniva rigettata la chiesta sospensione degli atti impugnati.
Il giudice di primo grado formulava richiesta istruttoria per chiarimenti e documenti al Comune.
Con sentenza, qui appellata, il primo giudice provvedeva infine, dichiarando il ricorso in parte inammissibile e in parte fondato. Il ricorso veniva dichiarato inammissibile nella parte in cui impugnava concessioni sostituite o annullate, non tempestivamente impugnate o impugnate senza adeguata notifica ad ogni controinteressato; la sentenza invece rigettava l’eccezione di inammissibilità con riguardo alla concessione in variante (richiamata come 1991/UU/10943) del 9 giugno 2003, che veniva annullata perché ritenute fondate le censure con cui si deduceva che si trattava di fabbricato diverso (tre piani fuori terra invece di due piani fuori terra) con assorbimento delle altre censure; il ricorso per motivi aggiunti, rigettate le relative eccezioni di inammissibilità, veniva accolto perché fondato in ordine alla censura di violazione delle altezze, in quanto l’amministrazione avrebbe dovuto tener conto solo dell’altezza media dei cinque edifici situati al contorno del fabbricato di proprietà (del controinteressato), come già avvenuto in occasione del rilascio della concessione originaria.
Con atto di appello impugna la sentenza di primo grado il signor Ferrante Luigi, affidandosi ai seguenti motivi: 1) erroneità della sentenza per inammissibilità del ricorso di primo grado, per mancanza della impugnativa del parere della commissione edilizia comunale, del parere favorevole del Ministero Beni e attività culturali e per mancata notifica alle autorità ministeriali; 2) erroneità della sentenza per mancata declaratoria di inammissibilità del ricorso avverso la variante, essendo stato dichiarato inammissibile il ricorso avverso la concessione originaria; 3) erroneità della sentenza appellata per inammissibilità del ricorso originario, per l’errato rigetto delle eccezioni di difetto di prova circa legittimazione e interesse ad agire in giudizio dei ricorrenti originari (punto 4 della sentenza); 4) erroneità della sentenza (punto 5) laddove ha ritenuto che la direttiva sindacale del 24.09.2003 comportava il riesame del calcolo delle altezze e nel considerare la revoca della sospensione dei lavori del 20.10.2003 come atto confermativo in senso proprio; 5) l’erroneità della sentenza appellata nei punti 6,7,8 e 9, nella parte in cui ha accolto le censure per violazione dei limiti di altezza; 6) erroneità della sentenza nei punti 11,12, e 13 laddove recepisce il parere espresso nel giudizio civile redatto dall’ing. Carbonelli in ordine ala questione delle altezze del fabbricato.
Si è costituito il Comune di Piedimonte Matese, che ha proposto appello incidentale, deducendo i seguenti motivi: 1) erroneità della sentenza per inammissibilità del ricorso di primo grado, per mancanza della impugnativa del parere della commissione edilizia comunale, del parere favorevole del Ministero Beni e attività culturali e per mancata notifica alle autorità ministeriali; 2) erroneità della sentenza inammissibilità del ricorso avverso la variante, essendo stato dichiarato inammissibile il ricorso avverso la concessione originaria; 3) erroneità della sentenza appellata per inammissibilità del ricorso originario, per l’errato rigetto delle eccezioni di difetto di prova circa legittimazione e interesse ad agire in giudizio dei ricorrenti originari (punto 4 della sentenza); 4) erroneità della sentenza (punto 5) laddove ha ritenuto che la direttiva sindacale del 24.09.2003 comportava il riesame del calcolo delle altezze e nel considerare la revoca della sospensione dei lavori del 20.10.2003 come atto confermativo in senso proprio; 5) l’erroneità della sentenza appellata nei punti 6,7,8 e 9, nella parte in cui ha accolto le censure per violazione dei limiti di altezza; 6) erroneità della sentenza nei punti 11,12, e 13 laddove recepisce il parere espresso nel giudizio civile redatto dall’ing. Carbonelli, tra l’altro non utilizzabile, in ordine alla questione delle altezze del fabbricato.
Si è costituito l’appellato De Biasi Luigi, il quale richiama i motivi già proposti (in particolare riporta i motivi aggiunti) chiedendo il rigetto dell’appello e riproponendo i motivi assorbiti in prime cure.
L’avv. Adinolfi in prossimità dell’udienza del 22 gennaio 2013 ha depositato certificato di morte del signor De Biasi Luigi, deceduto in data 13 dicembre 2010, datato 8 gennaio 2013, del Comune di Piedimonte Matese.
Alla udienza pubblica del 22 gennaio 2013 la causa è stata rinviata su richiesta di parte.
La parte appellante ha depositato in data 18 aprile 2013 atto di rinotifica dell’appello, agli eredi della parte deceduta De Biasi Luigi, De Biasi Mirella e Pangalli Monica.
La difesa degli appellati ha depositato altresì certificato di morte di Napoletano Immacolata, deceduta in data 2 settembre 2004 e quindi prima della instaurazione dell’appello; ha depositato anche massima di sentenza della Corte di Cassazione n.26279 del 2009 dalla quale si evince che l’appello deve essere notificato agli eredi se la parte è già deceduta, indipendentemente dal momento in cui è avvenuto il decesso e dalla eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole; per cui si dedurrebbe la inammissibilità, deve ritenersi, dell’appello svolto direttamente nei confronti della parte già deceduta.
Alla udienza del 23 aprile 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.

                                                             DIRITTO
1.Innanzitutto il Collegio osserva che l’evento interruttivo del giudizio si avvera nei riguardi della parte costituita a mezzo di procuratore se questi lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti; in mancanza, il processo prosegue.
Il semplice deposito del certificato di morte della parte costituita avvenuto da parte del procuratore dell’appellante senza altra dichiarazione non è stato ritenuto idoneo a determinare l’evento interruttivo (così Cons. Stato, VI, 10 aprile 2003, n.196).
In relazione all’evento del decesso della parte De Biasi Luigi parte appellante ha provveduto a rinotificare l’appello, evitando quindi la interruzione del giudizio.
In relazione al decesso della signora Napoletano Immacolata, che si sarebbe verificato in tempo anteriore rispetto alla proposizione dell’appello, l’appello, secondo la tesi che deve attribuirsi alla parte appellata dalle difese depositate, sarebbe inammissibile.
Il Collegio osserva che può prescindersi dall’esame della ammissibilità o meno dell’appello ed eventualmente dell’appello incidentale proposto dal Comune, in quanto entrambi sono infondati nel merito e quindi da rigettare.
2. Con il primo motivo l’appello principale e l’appello incidentale deducono l’ erroneità della sentenza per inammissibilità del ricorso di primo grado, per mancanza della impugnativa del parere della commissione edilizia comunale, del parere favorevole del Ministero Beni e attività culturali e per mancata notifica alle autorità ministeriali.
In sostanza, viene asserito che il ricorso originario avrebbe dovuto farsi carico della impugnativa anche dei pareri positivi (della commissione edilizia integrata e dell’autorità ministeriale), che avrebbero una autonoma valenza provvedimentale, e quindi in mancanza il primo giudice avrebbe dovuto concludere per l’inammissibilità del ricorso.
Il motivo è infondato.
E’ noto che i pareri sono da ritenersi atti endoprocedimentali, mentre la valenza lesiva deve attribuirsi soltanto al provvedimento, inteso come atto che costituisce, modifica o estingue posizioni soggettive.
Nel caso di impugnativa di titolo edilizio a favore di altri, la valenza lesiva deve essere attribuita soltanto alla concessione, non sussistendo l’onere (ma solo eventualmente la facoltà) di abbracciare nell’impugnativa (che peraltro implicitamente li comprende quali atti presupposti) i pareri di tenore positivo.
I pareri sono atti non provvedimentali, come tali valutativi e strumentali alla emanazione di un determinato provvedimento.
Gli atti non provvedimentali non sono direttamente impugnabili, perché come tali insuscettibili di produrre effetti lesivi nelle situazioni giuridiche facenti capo a terzi. Fanno eccezione, caso che non rientra nella specie, gli atti endoprocedimentali allorquando assumono carattere di immediata lesività, come nel caso di pareri vincolanti negativi, che non lasciano all’interessato alcun dubbio sul contenuto e sull’esito della decisione finale (Cons. Stato, IV, 28 marzo 2012, n.1829; Consiglio Stato, sez. V, 2 aprile 2001, n. 1902). Nella specie, come visto, non si è in presenza di tale ipotesi.
3.Con il secondo motivo gli appelli deducono l’ erroneità della statuizione di ammissibilità del ricorso avverso la variante, essendo stato dichiarato inammissibile il ricorso avverso la concessione originaria.
Gli appelli cioè rinvengono una contraddittorietà nella sentenza, in quanto da un lato ha concluso per l’inammissibilità del ricorso proposto avverso la concessione originaria, mentre dall’altro lato non ne ha tratto le dovute conclusioni quanto alla conseguente inammissibilità della impugnativa avverso la variante.
Secondo la prospettazione di entrambi gli appelli, il ricorso è mosso avverso l’intervento edilizio nel suo complesso, sicchè non è ammissibile l’impugnativa avverso la sola variante, essendosi dichiarata inammissibile l’impugnativa avverso la concessione originaria.
Il mezzo è infondato.
Come ha correttamente osservato il primo giudice, è evidente che vale il principio secondo cui in presenza di una variante di concessione edilizia originaria e recante modifiche di non rilevante consistenza, è inammissibile il ricorso avverso la concessione in variante in mancanza di tempestiva impugnativa della originaria concessione, se la incisione (la lesione) è avvenuta con il primo provvedimento; è altresì evidentemente condivisibile il principio secondo cui l’impugnativa della concessione in variante non può certo comportare una rimessione in termini in caso di decadenza per l’impugnativa avverso l’atto originario.
Nella specie, tuttavia, la vicenda si pone in modo diverso, in quanto dalla relazione tecnica risulta evidente che la concessione in variante apporta un pregiudizio in sé autonomo e diverso rispetto a quanto assentito dalla concessione originaria, perché è essa variante (sul punto è chiara la sentenza appellata) e non già il precedente titolo abilitativo, a consentire la costruzione di un edificio di tre piani fuori terra, in luogo di un edificio di soli due piani fuori terra e cioè comporta la realizzazione di un fabbricato edilizio di maggiore entità sia sotto il profilo volumetrico che di superficie coperta.
A prescindere quindi dall’interesse a contestare da subito in modo ammissibile anche i titoli precedenti, non vi è dubbio che la variante assuma una autonoma valenza lesiva, non potendosi ritenere che l’interesse a ricorrere sussista soltanto per la contestazione in sé dell’intervento – in tal caso sì sarebbe stata condivisibile la prospettazione degli appellanti - in quanto investe anche le modalità, ritenute illegittime (per esempio, per distanze o altezza, certamente mutate con la variante).
4.Con il terzo motivo gli appelli deducono l’erroneità della sentenza appellata per inammissibilità del ricorso originario, per l’errato rigetto delle eccezioni di difetto di prova circa legittimazione e interesse ad agire in giudizio dei ricorrenti originari (punto 4 della sentenza) e per genericità dei motivi.
Alla luce del consolidato orientamento in tema di condizioni dell’azione dei vicini, non si vede come possano essere degne di positiva valutazione le sopra riportate motivazioni di appello: i ricorrenti originari sono comproprietari di fabbricato con annesso giardino che confina per un lato con via Matese e per un altro con una traversa interna di via Matese, mentre il fabbricato oggetto della concessione in variante sorge proprio al confine con la suddetta traversa interna di via Matese.
E’ evidente l’interesse dei ricorrenti originari a contrastare la costruzione di un fabbricato di tre piani fuori terra, sostenendo essi che gli strumenti urbanistici consentano soltanto la costruzione di un fabbricato di due piani.
Al di là della considerazione che è evidente nella specie il danno temuto dai ricorrenti rispetto al fabbricato di loro proprietà, la giurisprudenza di questo Consesso, in ordine alla impugnativa di titoli edilizi, ha da tempo affermato che il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas , cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato – confinante che contesta la violazione di distanze e altezze - può addirittura esimere da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione (da ultimo, Consiglio di Stato sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4643).
Anche il rilievo secondo cui il primo giudice ha ritenuto generiche alcune censure e in particolare quelle con cui i ricorrenti lamentavano una certa difformità tra quanto assentito e quanto in realtà realizzato, in realtà nulla aggiungono alla ammissibilità e fondatezza delle altre numerose e puntuali censure, sulle quali il primo giudice si è pronunciato (si ripete, per violazione di altezze o di distanze), attesa la autonomia ed autosufficienza di queste ultime censure.
5.Con altro motivo gli appelli lamentano l’ erroneità della sentenza (punto 5) laddove ha ritenuto che la direttiva sindacale del 24.09.2003 comportava il riesame del calcolo delle altezze e nel considerare la revoca della sospensione dei lavori del 20.10.2003 come atto confermativo in senso proprio.
Con tale motivo, in sostanza, gli appelli ritengono di censurare la sentenza, perché erroneamente aveva ritenuto che la direttiva sindacale del 24 settembre 2003 avrebbe comportato il riesame del calcolo delle altezze dei fabbricati circostanti ed erroneamente avrebbe considerato il provvedimento di revoca della sospensione dei lavori come atto confermativo in senso proprio. Secondo il motivo, la pratica non ha seguito tutte le fasi del procedimento di primo grado (pareri e determinazioni finali), sicchè sarebbe inammissibile il ricorso originario (per motivi aggiunti).
Anche tale motivo è infondato, essendo evidente come in realtà il provvedimento successivo abbia comportato non il riesame complessivo della concessione originaria, ma soltanto del calcolo delle altezze, su impulso della direttiva sindacale intervenuta medio tempore proprio ad approfondire (rectius, reiterare) l’istruttoria sotto tale profilo; tanto ciò è vero, che, al contrario (a pagina 13 della appellata sentenza), il primo giudice ha invece ritenuto inammissibile il motivo aggiunto incentrato sulla violazione delle distanze in zona sismica, proprio perché esso riguardava il progetto originario.
Se vi è stata, sia pure sotto un determinato profilo (calcolo delle altezze), nuova istruttoria, non può non ritenersi sussistente una conferma in senso proprio.
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo è meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, come nella specie, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
Al fine di stabilire se un atto sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio, occorre verificare se sia stato adottato (o non) senza nuova istruttoria e nuova ponderazione di interessi (Consiglio di Stato sez. V, 3 ottobre 2012, n. 5196; Consiglio di Stato sez. VI, 31 marzo 2011, n. 1983).
6.Con altro motivo di appello gli appelli deducono l’erroneità della sentenza appellata nei punti 6,7,8 e 9, nella parte in cui ha accolto le censure per violazione dei limiti di altezza.
Nell’appello si sostiene che l’art. 18 del P.T.P., laddove prevede che “l’altezza dei nuovi volumi non potrà eccedere rispetto a quella degli edifici al contorno” con conseguente necessità di tener conto della media degli edifici del contorno edificato, sia un limite elastico, che consente una valutazione discrezionale, sussistendo l’altro limite, di tipo invalicabile perché espresso in termini numerici, di dodici metri.
L’assunto non è fondato.
Gli appellanti (per esempio l’appello principale a pagina 20) sostengono che, mentre il secondo limite di dodici metri è chiaramente invalicabile, il primo limite degli edifici di contorno consentirebbe una valutazione squisitamente discrezionale.
Il Collegio osserva che, sulla base della norma urbanistica come sopra riportata tale lettura è insostenibile, secondo una normale interpretazione letterale del testo.
Oggetto della valutazione, rectius, della misurazione, è chiaramente “l’altezza” e non già altro parametro di giudizio.
Come risulta dalla perizia del consulente tecnico di ufficio nominato dinanzi al tribunale di Santa Maria Capua Vetere (ing. Carbonelli) l’altezza media degli edifici al contorno è pari a metri 7,87, mentre l’altezza media del fabbricato in costruzione misura metri 9,63 e quindi chiaramente eccedente.
Inoltre, tale eccedenza, anche rispetto alla misurazione effettuata in occasione del rilascio della concessione originaria, è stata ammessa dalla medesima amministrazione comunale nel giudizio di primo grado, come riporta la sentenza appellata, anche tenendo conto della circostanza che nel corso dei tre anni il contesto edilizio circostante, da prendersi a parametro per l’altezza di contorno, può essere in parte leggermente mutato.
Né, evidentemente, può leggersi il doppio limite nel senso che soltanto il limite di dodici metri sarebbe insuperabile.
Esiste quindi un doppio limite di altezza: quello delle altezze degli edifici di contorno e quello dei dodici metri assoluti.
Non può neanche essere sostenuto che non sia evincibile che per il calcolo degli edifici di contorno debba ragionevolmente farsi riferimento alla “media” delle altezze degli edifici esistenti, avendo preso in considerazione i cinque fabbricati più prossimi e non essendo contestato, né invero contestabile, tale metodo di giudizio.
E’ evidente che se la norma urbanistica impone di tener conto degli edifici limitrofi al fine di calcolare le altezze, perché essa non sia svuotata di contenuto non può estendersi la considerazione ad edifici più lontani, senza alcuna delimitazione.
Questo Consesso ha già avuto modo di affermare al riguardo che, laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (così Consiglio Stato sez. V, 21 ottobre 1995, n. 1448).
7.Con altro motivo gli appelli lamentano l’erroneità della sentenza nei punti 11,12, e 13 laddove recepisce il parere espresso nel giudizio civile redatto dall’ing. Carbonelli, tra l’altro non utilizzabile perché redatta in causa nella quale il Comune non era stato parte del giudizio (e in cui il giudice ordinario affermava che della controversia sulla concessione doveva occuparsi il giudice amministrativo), in ordine alla questione delle altezze del fabbricato.
La doglianza è infondata.
Il primo giudice ha dato chiaramente ad intendere che la consulenza tecnica di ufficio esperita nel giudizio civile veniva acquisita e di essa si teneva conto, in applicazione del principio del libero convincimento del giudice.
Tra l’altro, il metodo di calcolo utilizzato dal giudice non riguarda altro in sostanza che l’altezza misurata e il metodo utilizzato relativo agli “edifici di contorno” e alla media da rilevare, per i quali valgono le considerazioni sopra riportate.
8.Il rigetto dell’appello principale e dell’appello incidentale esime dalla esigenza di esaminare le censure assorbite in primo grado.
9.Per le considerazioni sopra svolte, gli appelli, principale e incidentale, vanno respinti, con conseguente conferma della appellata sentenza.
In considerazione della particolarità della vicenda controversa, sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle spese di giudizio del presente grado.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede:
respinge sia l’appello principale che quello incidentale, con conseguente conferma della appellata sentenza.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Nicola Russo, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere, Estensore
Fabio Taormina, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/06/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


mercoledì 19 giugno 2013

SERVIZI PUBBLICI: depurazione delle scque reflue tra settore speciale e disciplina dell'Organismo di Diritto Pubblico (T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, sentenza 15 giugno 2013 n. 813).


SERVIZI PUBBLICI: 
depurazione delle scque reflue tra settore speciale 
e disciplina dell'Organismo di Diritto Pubblico 
(T.A.R. Toscana,Firenze, Sez. I, 
sentenza 15 giugno 2013 n. 813)

Massima

1.  Deve qualificarsi come organismo di diritto pubblico (quindi P.A. ai sensi dell'art. 3 co. 2 D.Lgs. n. 163/06 e dell'art. 22 L. n. 241/90) una società a prevalente partecipazione pubblica affidataria della gestione di un depuratore e costituita per la gestione di servizi pubblici locali, che effettua attività di depurazione di reflui urbani in virtù di affidamenti diretti degli enti che ne sono soci con copertura dei costi garantita dalla tariffa del servizio idrico integrato.
2.  Premesso  che la depurazione delle acque non ha natura di servizio pubblico locale, l'art. 209 del D.Lgs. n. 163/2006, riproduce pedissequamente l’art. 4 della Direttiva 2004/17/CE, in forza del quale la normativa a tutela della concorrenza nel settore dell’acqua si applica anche, agli appalti o ai concorsi riguardanti lo smaltimento o il trattamento delle acque reflue, qualora siano attribuiti o organizzati da alcuno degli enti che esercitano la messa a disposizione o la gestione di reti fisse destinate alla fornitura di un servizio al pubblico in connessione con la produzione, il trasporto o la distribuzione di acqua potabile, ovvero l'alimentazione di tali reti con acqua potabile. 
L’attività di depurazione delle acque, ivi compresi gli scarichi di provenienza industriale, sul piano oggettivo ricade quindi nell’ambito della disciplina degli appalti pubblici inerente il settore speciale dell’acqua; analogamente è a dirsi per lo smaltimento dei fanghi prodotti dalla depurazione, che ne costituisce il necessitato complemento operativo. ciò che viene a mancare è il presupposto soggettivo della sottoposizione dell’affidamento alla disciplina dei contratti pubblici nei settori speciali, e questo anche a voler valorizzare il carattere consustanziale dell’attività di depurazione rispetto alla gestione del servizio idrico integrato: alla luce delle definizioni contenute nell’art. 209 è infatti da escludere che la gestione del depuratore possa farsi rientrare nella “messa a disposizione o gestione di reti fisse”.
Il Gestore di un depuratore non è dunque un ente aggiudicatore ex art. 207, e la conclusione non muta secondo che allo stesso si attribuisca la qualifica di impresa pubblica, ovvero di organismo di diritto pubblico.
3.  La qualificazione giuridica de Gestore rileva, tuttavia, al fine di stabilire se l’appalto in questione, estraneo ai settori speciali, non debba essere ricondotto ai settori ordinari, ovvero sia integralmente sottoposto alle regole del diritto privato.
Nel primo caso, qualora il gestore abbia i requisti dell'Organismo di Diritto pubblico (O.D.P.) ex art. 3 co. 26 Codice Appalti, ossia il possesso della personalità giuridica, l’assoggettamento all’influenza pubblica e la destinazione al soddisfacimento di esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, si applicanole regole della procedura d'evidenza pubblica, come nel caso di specie.



Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 103 del 2013, proposto da:
C.R.E. Centro Ricerche Ecologiche S.p.a., rappresentata e difesa dagli avv.ti Pietro Ferraris, Elena Vignolini ed Enzo Robaldo, con domicilio eletto presso lo studio della seconda in Firenze, via F. Bonaini 10; 
contro
Acquapur Multiservizi S.p.a., rappresentata e difesa dall'avv. Mario Pilade Chiti, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Firenze, via Lorenzo il Magnifico 83; 
per l'annullamento
- del diniego opposto da Aquapur Multiservizi S.p.A. in data 19.12.2012, a seguito dell'istanza di accesso formulata da C.R.E. S.p.A. in data 18.12.2012, e tesa a conseguire copia degli atti con cui Aquapur Multiservizi S.p.A. ha disposto l'affidamento del servizio di prelievo e smaltimento fanghi prodotti dall'impianto di "Casa del Lupo", dalla stessa gestito;
- del silenzio diniego eventualmente formatosi a seguito dell'istanza di accesso formulata da C.R.E. S.p.A. in data 18.12.2012;
- nonchè di ogni altro atto, conseguente, presupposto od attuativo, ancorchè non conosciuto quanto a data e contenuto;
e per l'accertamento del diritto della ricorrente ad ottenere l'accesso agli atti e documenti di cui alla citata istanza, nonchè per l'adozione di una sentenza con cui si ordini alla resistente l'esibizione dei documenti richiesti ai sensi dell'art. 116, comma 4, cod. proc. amm..

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Acquapur Multiservizi S.p.a.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 aprile 2013 il dott. Pierpaolo Grauso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

FATTO e DIRITTO
La ricorrente C.R.E. Centro Ricerche Ecologiche S.p.a., impresa operante nel settore dello stoccaggio, trattamento e utilizzo in agricoltura dei rifiuti speciali non pericolosi e titolare dell’affidamento, da parte di enti pubblici, di numerosi servizi di prelievo e smaltimento di fanghi da depurazione, espone di aver chiesto ad Aquapur Multiservizi S.p.a., società a prevalente partecipazione pubblica affidataria della gestione del depuratore di “Casa del lupo”, sito nel Comune di Porcari, di poter concorrere con una propria offerta all’affidamento del servizio di prelievo e smaltimento dei fanghi prodotti dal depuratore suddetto per il periodo 1 gennaio – 31 dicembre 2013. A seguito delle risposte evasive ricevute, C.R.E. riferisce di aver altresì presentato una formale istanza di accesso agli atti, finalizzata a conoscere l’iter seguito per l’affidamento del servizio in questione, incorrendo nel diniego di cui alla nota 19 dicembre 2012, in epigrafe, sinteticamente motivato con riferimento all’estraneità dell’attività posta in essere da Aquapur alla disciplina sull’accesso di cui alla legge n. 241/1990 ed al D.Lgs. n. 163/2006.
Tanto premesso in fatto, la società ricorrente da un lato rivendica il proprio interesse di operatore del settore a concorrere per l’affidamento del servizio e, dall’altro, deduce che, trattandosi di servizio strumentale indispensabile al funzionamento stesso del depuratore, non potrebbe negarsene la rilevanza sul piano pubblicistico, da cui l’assoggettamento di Aquapur – da qualificarsi come organismo di diritto pubblico, ovvero come impresa pubblica operante nel settore speciale disciplinato dall’art. 209 del D.Lgs. n. 163/2006 – al rispetto della normativa sull’accesso e a quella sull’evidenza pubblica. C.R.E. conclude pertanto affinché, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. amm., sia accertato il proprio diritto ad accedere agli atti e documenti concernenti la procedura seguita da Aquapur per l’affidamento del servizio di prelievo e smaltimento/recupero dei fanghi prodotti dal depuratore di “Casa del lupo” e per la corrispondente condanna della controparte all’esibizione dei documenti stessi.
Resiste alla domanda Aquapur S.p.a., la quale eccepisce l’inammissibilità del ricorso sotto il duplice profilo della propria estraneità alla nozione di “pubblica amministrazione” adoperata dall’art. 22 della legge n. 241/1990, e comunque della natura di attività industriale sottoposta al diritto comune dello smaltimento dei fanghi da depurazione. La resistente eccepisce altresì che, avendo C.R.E. partecipato alla gara informale indetta per l’affidamento del servizio, i documenti oggetto dell’istanza di accesso sarebbero in realtà già noti alla ricorrente; e, nel merito, contesta la fondatezza delle tesi avversarie.
Il ricorso è fondato, e deve essere accolto, con le precisazioni che seguono.
Pacifico, fra le parti, che l’attività di smaltimento dei fanghi provenienti dalla depurazione delle acque non ha natura di servizio pubblico locale, C.R.E. S.p.a. sostiene che si tratterebbe pur sempre di attività strumentale al perseguimento degli scopi di pubblico interesse che costituiscono l’oggetto sociale di Aquapur S.p.a. e, in particolare, alla gestione dei servizi di depurazione delle acque reflue addotte all’impianto di “Casa del lupo”. La tesi è rafforzata con il richiamo ai principi enunciati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 16/2011 e presuppone la riconducibilità dello smaltimento dei fanghi al settore speciale di cui all’art. 209 D.Lgs. n. 163/2006 e la sua sottoposizione alle regole dell’evidenza pubblica anche a prescindere dall’inquadramento nell’ambito del servizio idrico integrato.
Ora, è noto che l’art. 209 del D.Lgs. n. 163/2006, nel delineare il campo d’azione della disciplina invocata dalla ricorrente, riproduce pedissequamente l’art. 4 della Direttiva 2004/17/CE, in forza del quale la normativa a tutela della concorrenza nel settore dell’acqua si applica anche, per quanto qui interessa, agli appalti o ai concorsi riguardanti lo smaltimento o il trattamento delle acque reflue, qualora siano attribuiti o organizzati da alcuno degli enti che esercitano la messa a disposizione o la gestione di reti fisse destinate alla fornitura di un servizio al pubblico in connessione con la produzione, il trasporto o la distribuzione di acqua potabile, ovvero l'alimentazione di tali reti con acqua potabile. Stante il chiaro tenore della disposizione, può convenirsi con la società ricorrente circa l’astratta riconducibilità dell’attività di depurazione delle acque reflue al settore speciale dell’acqua e alla relativa disciplina europea e nazionale in materia di contratti pubblici, senza che a conclusioni differenti autorizzi la previsione dell’art. 12 della legge regionale toscana n. 50/2011: è vero che questa, aggiungendo l’art. 13-bis alla legge regionale n. 20/2006, espressamente esclude dall’ambito del servizio idrico integrato la gestione degli impianti di depurazione di acque reflue anche se di totale o parziale proprietà pubblica classificati, come quello di Porcari, a carattere prevalentemente industriale (si veda al riguardo la deliberazione dell’A.A.T.O. n. 2 “Basso Valdarno” del 6 dicembre 2011, in atti); ma è un’esclusione che, mentre vale a sottrarre la depurazione dei reflui industriali alle competenze in materia di gestione delle risorse idriche riconosciute all’Autorità d’Ambito dal D.Lgs. n. 152/2006, non interferisce con il perimetro applicativo dell’art. 209 D.Lgs. n. 163/2006, cit., il quale individua le attività da assoggettare all’evidenza pubblica sulla scorta di definizioni autonome e non sovrapponibili alla nozione di servizio idrico integrato e alla stessa nozione di servizio pubblico locale (risultandone con ciò sterilizzata la questione di legittimità costituzionale e comunitaria sollevata dalla ricorrente nei confronti della richiamata norma regionale).
Una volta acclarato che l’attività di depurazione delle acque, ivi compresi gli scarichi di provenienza industriale, sul piano oggettivo ricade nell’ambito della disciplina degli appalti pubblici inerente il settore speciale dell’acqua, analogamente è a dirsi per lo smaltimento dei fanghi prodotti dalla depurazione, che ne costituisce il necessitato complemento operativo. Il dato, tuttavia, non comporta di per sé che qualsivoglia affidamento avente ad oggetto lo smaltimento di fanghi da depurazione debba obbedire alla disciplina dettata dall’art. 209, posto che questa – lo si ripete – riguarda i soli affidamenti attribuiti od organizzati da enti che esercitano le attività di messa a disposizione o gestione di reti fisse in connessione con la produzione, il trasporto o la distribuzione di acque potabile, ovvero l’alimentazione delle reti con acqua potabile, attività non più gestite da Aquapur (lo sono state in passato). In altre parole, ciò che viene a mancare è il presupposto soggettivo della sottoposizione dell’affidamento alla disciplina dei contratti pubblici nei settori speciali, e questo anche a voler valorizzare, come fa la ricorrente, il carattere consustanziale dell’attività di depurazione rispetto alla gestione del servizio idrico integrato: se, alla luce delle definizioni contenute nell’art. 209, le uniche rilevanti ai fini di causa, è infatti da escludere che la gestione del depuratore possa farsi rientrare nella “messa a disposizione o gestione di reti fisse” (la nozione di “rete fissa” coincide con quella di infrastruttura complessa atta alla distribuzione capillare del servizio idrico sul territorio di riferimento, mentre il singolo impianto di depurazione costituisce semmai il terminale della rete fognaria, ma non è “rete” esso stesso), nella specie alla resistente – la quale svolge in proprio l’attività di gestione del depuratore, salvo appaltare a terzi la fase dello smaltimento dei fanghi – non può riconoscersi la veste di ente aggiudicatore di cui all’art. 207, e la conclusione non muta secondo che ad Aquapur si attribuisca la qualifica di impresa pubblica, ovvero di organismo di diritto pubblico.
La qualificazione giuridica della resistente rileva, tuttavia, al fine di stabilire se l’appalto in questione, estraneo ai settori speciali, non debba essere ricondotto ai settori ordinari, ovvero sia integralmente sottoposto alle regole del diritto privato (cfr. Cons. Stato, A.P., 1 agosto 2011, n. 16; Corte di giustizia CE, sez. IV, 10 aprile 2008, C-393/06). L’interesse alla conoscenza degli atti concernenti la procedura seguita da Aquapur S.p.a. per l’affidamento del servizio di prelievo e smaltimento dei fanghi prodotti dal depuratore accede infatti, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 22 della legge n. 241/1990, all’interesse sostanziale della ricorrente a concorrere all’affidamento stesso secondo le regole dell’evidenza pubblica: in questa prospettiva, va dunque verificato se la società resistente presenti, quantomeno con riferimento all’attività di depurazione della quota di acque domestiche che affluiscono all’impianto di Porcari (la circostanza non è contestata e comunque si ricava dalla tipologia “mista” dei fanghi prodotti dal depuratore e oggetto dello smaltimento, quale risulta dai codici CER in atti), i requisiti dell’organismo di diritto pubblico, nozione oramai stabilmente recepita dall’art. 3 co. 26 del D.Lgs. n. 163/2006, vale a dire il possesso della personalità giuridica, l’assoggettamento all’influenza pubblica e la destinazione al soddisfacimento di esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale.
Pacifici i primi due, trattandosi di società per azioni a partecipazione pubblica prevalente (e necessaria, giacché il venir meno della partecipazione prevalente dei Comuni soci determina lo scioglimento della società a norma dell’art. 7 dello statuto), la sussistenza del c.d. requisito teleologico deve essere vagliata in primo luogo alla luce dello scopo per il quale l’ente è stato costituito, che, nella specie, coincide con l’oggetto sociale, formato dalla “gestione di servizi di pubblico interesse” molti dei quali integranti in astratto veri e propri servizi pubblici locali (la gestione dei servizi di depurazione delle acque reflue addotte al depuratore di “Casa del lupo”, l’adduzione e la distribuzione dell’acque di superficie per usi industriali, agricoli e civili, la gestione dei cimiteri e dei servizi cimiteriali, la gestione degli impianti di produzione e distribuzione dell’energia, l’illuminazione pubblica: si veda l’art. 5 dello statuto di Aquapur).
Non potendosi dubitare che Aquapur sia stata costituita per soddisfare bisogni di interesse generale, l’ulteriore indagine deve indirizzarsi nei confronti delle condizioni nelle quali essa svolge la propria attività, onde chiarire se esse presentino carattere non industriale o commerciale.
Da prendere in considerazione è, segnatamente, l'ambito economico o, in altri termini, il mercato di riferimento al cui interno l’ente esercita la propria attività, per verificare se esso operi in una situazione di concorrenza e sopporti il rischio dell’attività esercitata (per tutte, cfr. Corte giustizia CE 10 aprile 2008, cit.); e, sulla scorta degli elementi disponibili, per Aquapur la risposta al quesito non può che essere negativa. Basti considerare che non è noto in forza a quale titolo il depuratore di Porcari riceve una quota di reflui urbani, il che induce a presumere che, relativamente a questi ultimi, la gestione del servizio di depurazione sia effettuata da Aquapur al di fuori delle logiche di mercato e in virtù di un affidamento diretto da parte dei Comuni interessati, cioè dai suoi stessi soci di maggioranza, e con copertura dei costi garantita dalla tariffa del servizio idrico integrato. Né la società resistente – a ciò onerata in applicazione dell’invalso principio della vicinanza alla prova – ha dimostrato di gestire tale (quota dell’)attività di depurazione dei reflui del servizio idrico integrato nella veste di operatore inserito nel mercato del servizio erogato e a seguito di affidamento preceduto da gara o da una qualche forma di confronto concorrenziale con altri operatori.
Per la quota dell’attività di depurazione riferibile ai reflui urbani, Aquapur riveste dunque la qualità di organismo di diritto pubblico, e questo anche a voler ammettere che la prevalente attività esercitata presenti invece carattere industriale e commerciale (al riguardo la giurisprudenza è consolidata: cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 luglio 2009, n. 4592). L’infrazionabilità dei reflui implica peraltro l’attrazione dell’intero affidamento del servizio di prelievo e smaltimento dei fanghi nella sfera pubblicistica dell’attività di Aquapur, non potendosi altrimenti garantire tutela ai superiori principi di libera concorrenza, parità di trattamento, imparzialità, pubblicità, trasparenza.
Alla ricorrente C.R.E. deve in definitiva riconoscersi la titolarità di un interesse qualificato ad accedere a tutti gli atti e documenti concernenti l’affidamento a terzi, da parte di Aquapur, del servizio di prelievo e smaltimento dei fanghi prodotti dal depuratore di Porcari per l’anno 2013, riconoscimento che non può essere condizionato da alcuna valutazione in merito alla ammissibilità o alla fondatezza della domanda giurisdizionale che dalla conoscenza di quei documenti la ricorrente potrebbe in ipotesi essere indotta a proporre. L’accesso dovrà essere esteso, evidentemente, anche a tutti gli atti e documenti che non siano già stati oggetto di produzione nel presente giudizio, ivi comprese le comunicazioni a mezzo posta elettronica o con ogni altro mezzo intervenute fra Aquapur e le imprese invitate a formulare offerte o comunque titolari delle offerte presentate, non potendosi convenire, al riguardo, stanti le tipologie di documenti appena elencate, con quanto dedotto dalla stessa Aquapur in merito al fatto che la ricorrente, avendo partecipato alla gara informale indetta per l’affidamento del servizio, sarebbe, in realtà, già a conoscenza dei documenti oggetto dell’istanza di accesso.
La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e per l’effetto ordina ad Aquapur Multiservizi S.p.a. di consentire alla ricorrente C.R.E. S.p.a. l’accesso a tutti gli atti e documenti meglio indicati in parte motiva, nonché l’estrazione di copia degli stessi.
Dichiara integralmente compensate le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 10 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Buonvino, Presidente
Alessandro Cacciari, Consigliere
Pierpaolo Grauso, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 15/05/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)