sabato 14 settembre 2013

URBANISTICA & ESPROPRIAZIONE P.U.: il P.E.E.P. dura 18 anni, durante i quali è legittima l'espropriazione (Cons. St., Sez. IV, sentenza 5 settembre 2013 n. 4463).


URBANISTICA & ESPROPRIAZIONE P.U.:
 il P.E.E.P. dura 18 anni, 
durante i quali è legittima l'espropriazione 
(Cons. St., Sez. IV, 
entenza 5 settembre 2013 n. 4463).  


Massima

1. L'art. 9 della L. n. 167/1962 prevede che l'approvazione dei piani equivale anche a dichiarazione di indifferibilità ed urgenza di tutte le opere, impianti ed edifici in esso previsti, che “le aree comprese nel piano rimangono soggette, durante il periodo di efficacia del piano stesso, ad espropriazione.
Per tutta la durata di efficacia del piano, dunque, è possibile e legittima la espropriazione dei terreni nel medesimo ricompresi.
2. La natura speciale e derogatoria dell’art. 9 l. n. 167/1962, rispetto alla disciplina generale dell’espropriazione per pubblica utilità, è stata costantemente affermata dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2006 n. 2339, citata anche dal Comune appellato). Si è infatti sostenuto:
“Il piano per l’edilizia economica e popolare ha un’efficacia di 18 anni dalla data di approvazione ed è stato perciò ripetutamente affermato che l’articolo 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, in materia di apposizione di termini per l’inizio e completamento dei lavori, nonché per l’espletamento della procedura espropriativa, non è applicabile alle espropriazioni concernenti l’attuazione dei piani di zona per l’edilizia economia e popolare, essendo detti termini sostituiti ed assorbiti proprio dalle disposizioni che delimitano nel tempo ope legis l’efficacia dei piani stessi.
In effetti le finalità di garanzia della effettiva persistenza e della serietà dell’interesse pubblico perseguito con la procedura espropriativa, al cui presidio sono deputati ordinariamente proprio dai ricordati termini di cui all’articolo 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, è assicurata per quanto attiene l’attuazione dei piani di edilizia economica e popolare proprio dai termini di efficacia dei piani, fissati direttamente dalla legge.
Da tale consolidato indirizzo giurisprudenziale (C.d.S., A.P., 23 maggio 1984, n. 11; A.P. 20 dicembre 2002, n. 8; sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3315; 25 marzo 2003, n. 1545; 5 luglio 2000, n. 3730; 19 gennaio 1999, n. 41; 17 aprile 1998, n. 675) non vi è motivo per discostarsi.”.
3. Da quanto esposto, consegue che il decreto di esproprio, purchè emanato entro il termine di efficacia del P.E.E.P., è da considerarsi legittimo (così come condivisibilmente sostenuto dalla sentenza appellata), stante la intrinseca distinzione tra procedimento e provvedimento di occupazione di urgenza e procedimento e provvedimento di espropriazione.
4. E poiché, nel caso di specie, occorre fare riferimento al termine di 18 anni previsto dall’art. 9 L. n. 167/1962 (e non già al diverso e generale termine di cui all’art. 13 L. n. 2359/1865), ne consegue la piena legittimità del decreto di esproprio.


Sentenza per esteso


INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1075 del 2009, proposto da:
Pacini Carla, Pacini Rosanna, rappresentate e difese dagli avv. Cesare Romano Carello, Vittorio Bologni, con domicilio eletto presso Cesare Romano Carello in Roma, via Silvio Pellico 24; 
contro
Comune di Pistoia, rappresentato e difeso dagli avv. Fabio Cannizzaro, Roberto Righi, con domicilio eletto presso Roberto Righi in Roma, via G.Carducci, 4; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. TOSCANA - FIRENZE: SEZIONE I n. 04682/2007, resa tra le parti, concernente ESPROPRIAZIONE TERRENI PER ATTUAZIONE PIANO DI ZONA "PEEP VALDIBRANA"

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 maggio 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Francesco Paoletti in sostituzione di Roberto Righi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Con l’appello in esame, le signore Carla e Rosanna Pacini impugnano la sentenza 6 dicembre 2007 n. 4682, con la quale il TAR per la Toscana, sez. I, ha rigettato il loro ricorso contro il decreto n. 1/1987 del Sindaco di Pistoia, di espropriazione di taluni immobili di loro proprietà, destinati alla realizzazione del PEEP Valdibrana.
La sentenza appellata afferma in particolare:
- ai fini della sussistenza di un decreto di esproprio valido ed efficace non occorre che il decreto di occupazione di urgenza lo sia altrettanto, ma occorre che esso sia intervenuto entro il termine di validità della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, posto che i due procedimenti (di occupazione di urgenza e di espropriazione) “devono considerarsi due procedimenti distinti e dotati di reciproca autonomia”;
- l’omessa indicazione nel decreto di esproprio del provvedimento di occupazione di urgenza non rende il provvedimento illegittimo per difetto di motivazione;
- “le contestazioni in materia di liquidazione dell’indennità di esproprio e di occupazione non incidono sulla legittimità del decreto di esproprio”;
- sia l’avvenuta ed effettiva corresponsione dell’indennità di espropriazione definitiva, che la sua previa determinazione, non costituiscono requisito di validità e di legittimità del decreto di esproprio”.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) violazione e falsa applicazione art. 9 l. n. 167/1062; eccesso di potere sotto il profilo della illogicità ed irrazionalità della procedura ablativa e per difetto di motivazione del decreto di esproprio; violazione e falsa applicazione art. 20 l. n. 865/1971 e violazione sotto il profilo della falsa applicazione art. 5 l. n. 385/1980 e d.l. n. 901/1984; poiché il giudice di I grado ha ignorato che “una volta scaduti i termini di occupazione legittima senza che sia stato emesso il decreto definitivo di esproprio l’intera procedura espropriativa decade” ed il decreto emanato successivamente risulta “inutiliter datum”. Nel caso di specie, poiché il decreto di occupazione di urgenza era privo di termine, occorre ritenere applicabile ad esso l’ordinario termine biennale previsto dall’art. 73 l. n. 2359/1865;
b) violazione degli artt. 3, 10, 11, 24, 28, 53, 97, 111 e 117 Cost. da parte dell’art. 4 l. n. 166/2002 (v. pagg. 11 – 15 app.); poiché, in particolare, tale norma crea un “ingiustificato privilegio per l’amministrazione espropriante che viene ad essere esentata da responsabilità”; incide su “situazioni non ancora definite per la pendenza di procedimenti giurisdizionali”; inoltre, essa “si pone in palese contrasto con gli accordi internazionali raggiunti”.
Si è costituito in giudizio il Comune di Pistoia, che ha preliminarmente eccepito l’irricevibilità dell’appello, per superamento del termine “dimidiato” sia di notificazione sia di deposito, ed ha infine concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO
L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, potendosi così prescindere dall’esame della eccezione di irricevibilità avanzata dall’appellato.
La prospettazione di fondo, sostenuta dalla parte appellante, consiste nel ritenere che, in caso di espropriazione di aree situate al’interno di un Piano di edilizia economica e popolare (PEEP) e destinate all’attuazione di questo, non debba tenersi conto del termine di 18 anni previsto per l’efficacia di detti Piani dall’art. 9 l. 18 aprile 1962 n. 167 (termine così determinato per effetto della modifica ex art. 51 l. n. 457/1978), bensì del diverso termine previsto per l’occupazione di urgenza degli immobili.
Termine che, nel caso di specie, in quanto non indicato nel provvedimento di occupazione, l’appellante individua in quello generale e biennale, di cui all’art. 73 l. n. 2359/1865.
Secondo l’appellante, “il giudice amministrativo di I grado ha totalmente ignorato il principio consolidato per cui una volta scaduti i termini di occupazione legittima senza che sia stato emesso il decreto definitivo di esproprio, l’intera procedura espropriativa decade ed a niente può valere un decreto di esproprio adottato successivamente, decreto che è inutiliter datum”.
Orbene, il Collegio, ribadito che il termine di efficacia dei Piani per l’edilizia economica è popolare è fissato ex lege in 18 anni, rileva innanzi tutto, ai sensi dell’artt. 9 l. n. 167/1962:
- per un verso, che “l’approvazione dei piani equivale anche a dichiarazione di indifferibilità ed urgenza di tutte le opere, impianti ed edifici in esso previsti” (comma terzo);
- per altro verso, che “le aree comprese nel piano rimangono soggette, durante il periodo di efficacia del piano stesso, ad espropriazione” (comma quinto).
Dalla norma ora riportata, si evince dunque con estrema chiarezza che, per tutta la durata di efficacia del piano, è possibile e legittima la espropriazione dei terreni nel medesimo ricompresi.
La natura speciale e derogatoria dell’art. 9 l. n. 167/1962, rispetto alla disciplina generale dell’espropriazione per pubblica utilità, è stata costantemente affermata dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2006 n. 2339, citata anche dal Comune appellato). Si è infatti sostenuto:
“ Il piano per l’edilizia economica e popolare ha un’efficacia di 18 anni dalla data di approvazione ed è stato perciò ripetutamente affermato che l’articolo 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, in materia di apposizione di termini per l’inizio e completamento dei lavori, nonché per l’espletamento della procedura espropriativa, non è applicabile alle espropriazioni concernenti l’attuazione dei piani di zona per l’edilizia economia e popolare, essendo detti termini sostituiti ed assorbiti proprio dalle disposizioni che delimitano nel tempo ope legis l’efficacia dei piani stessi.
In effetti le finalità di garanzia della effettiva persistenza e della serietà dell’interesse pubblico perseguito con la procedura espropriativa, al cui presidio sono deputati ordinariamente proprio dai ricordati termini di cui all’articolo 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, è assicurata per quanto attiene l’attuazione dei piani di edilizia economica e popolare proprio dai termini di efficacia dei piani, fissati direttamente dalla legge.
Da tale consolidato indirizzo giurisprudenziale (C.d.S., A.P., 23 maggio 1984, n. 11; A.P. 20 dicembre 2002, n. 8; sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3315; 25 marzo 2003, n. 1545; 5 luglio 2000, n. 3730; 19 gennaio 1999, n. 41; 17 aprile 1998, n. 675) non vi è motivo per discostarsi.”.
Da quanto esposto, consegue che il decreto di esproprio, purchè emanato entro il termine di efficacia del PEEP, è da considerarsi legittimo (così come condivisibilmente sostenuto dalla sentenza appellata), stante la intrinseca distinzione tra procedimento e provvedimento di occupazione di urgenza e procedimento e provvedimento di espropriazione.
E poiché, nel caso di specie, occorre fare riferimento al termine di 18 anni previsto dall’art. 9 l. n. 167/1962 (e non già al diverso e generale termine di cui all’art. 13 l. n. 2359/1865), ne consegue la piena legittimità del decreto di esproprio.
Tali conclusioni – riferite al primo motivo di impugnazione (sub a) dell’esposizione in fatto) sorreggono ex se la reiezione integrale dell’appello, divenendo residuale ogni ulteriore approfondimento del secondo motivo, in relazione all’art. 4 l. n. 166/2002. Norma che, come è noto, prevede che “le proroghe dei termini di scadenza delle occupazioni di urgenza”, stabilite dalle leggi ivi indicate, “si intendono, con effetto retroattivo, riferite anche ai procedimenti espropriativi in corso alle scadenze previste dalle singole leggi e si intendono efficaci anche in assenza di atti dichiarativi delle amministrazioni procedenti”.
Occorre, comunque, ricordare – stante la prospettata illegittimità costituzionale della norma – che la Coste Costituzionale, con ordinanza 16 febbraio 2006 n. 64, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, proposta in relazione agli artt. 24, 28, 42, 53 e 97 Cost.. Né residuano ulteriori margini di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione (come prospettata con il secondo motivo di appello), ai fini del presente giudizio.
Per le ragioni esposte, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Pacini Carla e Pacini Rosanna (n. 1075/2009 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.
Condanna le appellanti, in solido, al pagamento delle spese, diritti ed onorari di giudizio nei confronti del costituito Comune di Pistoia, che liquida in complessivi Euro 3.000,00 (tremila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 maggio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere
Guido Romano, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 05/09/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


PROCESSO: le prassi della P.A. illegittime non onerano il ricorrente al ricorso "demolitorio" classico ma lo legittimano a proporre l'azione d'accertamento e di condanna (Cons. St., Sez. IV, 9 maggio 2013 n. 2518).


PROCESSO: 
le prassi della P.A. illegittime 
non onerano il ricorrente al ricorso "demolitorio" classico 
ma lo legittimano a proporre 
l'azione d'accertamento e di condanna 
(Cons. St., Sez. IV, 
sentenza 9 maggio 2013 n. 2518).


Massima

La prassi, intesa quale costante sperimentazione di protocolli procedimentali, praeter o addirittura contra legem, tesi ad elidere (come nel caso di specie) fasi essenziali del procedimento amministrativo, ivi compreso il provvedimento finale, è inidonea a generare oneri di impugnazione, ponendosi piuttosto, essa stessa, come comportamento violativo dell'obbligo di concludere il procedimento; pertanto, dinanzi ad una siffatta prassi, l'unica tutela praticabile è l' azione di accertamento e condanna a provvedere.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8278 del 2012, proposto da:
Comune di Bari in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Chiara Lonero Baldassarra, Augusto Farnelli, con domicilio eletto presso Roberto Ciociola in Roma, via Bertoloni, 37; 
contro
Rocco Calabrese, Vito Dentamaro, Stella Mercante, Anna Paparella, Clarizio Vitina, Filippo Di Venere, Vita Ferrara, Angelo Michele Mariano, Corrado Soranno, Michele Morisco, Luigi De Robertis, Rocco Sabino, Maria Amelia Pantone, Nicola Lioce, Filippo Ladisa, Andrea D'Agosto, Giovanni Caito, Angelo Albergo, Rosa Albergo, Lidia Caito, rappresentati e difesi dagli avv. Vito Aurelio Pappalepore, Nicolo' De Marco, con domicilio eletto presso Sandro De Marco in Roma, via Cassiodoro N.1/A; Angela Nitti, Lisandro Miliotti, Patrizia Nitti, Maria Di Venere, Nicola Mercante, Addolorata Deflorio, Angela Soranno, Rosa Maria Tunzi, Maria Rosa De Angelis, Domenico Mariano, Giovanni Burdi, Angela Burdi, Michele Nitti, Filomena Lorusso, Angela Armenise, Elio Bovio, Nicola Raganelli, Sebstiano Pasqua, Carmela Loizzi, Madia Colonna, Domenica Di Venere, Antonia Francone, Annamaria Burdi, Donato Tenerelli, Teresa Calabrese, Domenico Partipilo, Nicola Latorre, Carolina Mongelli, Angela Sebastiano; Paolo Falco, Rosa Angela Nitti, Antonio Piscopo, Francesca Mariano, Giuseppe Morisco, Pasqua Attolini, Antonia Attolini, Massimo Ursini, Nicola Caiati, Michele Cavone, Domenico Battista, Maria Luisa Colonna, Antonia Colonna, Carmela Falco, Antonio Soranno, Anna Piscopo, Gaetano Fascina, Michele Macina, Giovanni Pacione, Francesco Falco, Giovanni Bovio, Marcello Bovio, Francesco Triggiani, Onofrio Burdi, Angela Pascazio, Maddalena Angelo, Beatrice Di Tanno, Vincenza Conforti, Vito Bratta, Michelangelo Giannelli, Paolo Caradonna, Oronzo Caradonna, Gregorio Luisi, Rosa Calabrese, Chiara Annamaria Calabrese, Alberto Ruta, rappresentati e difesi dagli avv. Nicolo' De Marco, Vito Aurelio Pappalepore, con domicilio eletto presso Sandro De Marco in Roma, via Cassiodoro N.1/A; Cesaria Giannelli, rappresentato e difeso dagli avv. Vito Aurelio Pappalepore, Nicolo' De Marco, con domicilio eletto presso Sandro De Marco in Roma, via Cassiodoro N.1/A; Elia Caito, rappresentato e difeso dall'avv. Nicolo' De Marco, con domicilio eletto presso Sandro De Marco in Roma, via Cassiodoro N.1/A; 
e con l'intervento di
Soc Pegaso Cooperativa, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Guaglianone, con domicilio eletto presso Annamaria Rizzo in Roma, via Fabio Massimo, 9;
Ermenegilda Careccia, Olga Careccia, Giuseppe Palella, Antonia Triggiano, Vittoria Palella, Francesca Calabrese, Antonio Lorusso, Leonardo Lorusso, Maria Panarelli, Antonio Romito, Francesca Romito, Giovanna Lorusso, Simonetta Lorusso, Mariellina Rosa Lenoci, Stefano Lenoci, Simeone Di Cagno Abbrescia, Gasparri Camillo, Procuratore Speciale di Di Cagno Abbrescia Amalia, rappresentati e difesi dall'avv. Nicolo' De Marco, con domicilio eletto presso Sandro De Marco in Roma, via Cassiodoro N.1/A; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA – Bari - Sezione III n. 00897/2012, resa tra le parti, concernente parere negativo approvazione piano di lottizzazione

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Rocco Calabrese, Vito Dentamaro, Stella Mercante, Anna Paparella, Clarizio Vitina, Filippo Di Venere, Paolo Falco, Vita Ferrara, Rosa Angela Nitti, Antonio Piscopo, Francesca Mariano, Angelo Michele Mariano, Corrado Soranno, Michele Morisco, Luigi De Robertis, Giuseppe Morisco, Pasqua Attolini, Antonia Attolini, Rocco Sabino, Maria Amelia Pantone, Massimo Ursini, Nicola Lioce, Filippo Ladisa, Nicola Caiati, Michele Cavone, Domenico Battista, Maria Luisa Colonna, Antonia Colonna, Carmela Falco, Antonio Soranno, Anna Piscopo, Gaetano Fascina, Michele Macina, Giovanni Pacione, Cesaria Giannelli, Francesco Falco, Giovanni Bovio, Marcello Bovio, Francesco Triggiani, Onofrio Burdi, Angela Pascazio, Maddalena Angelo, Beatrice Di Tanno, Vincenza Conforti, Vito Bratta, Michelangelo Giannelli, Paolo Caradonna, Oronzo Caradonna, Gregorio Luisi, Rosa Calabrese, Chiara Annamaria Calabrese, Alberto Ruta, Andrea D'Agosto, Giovanni Caito, Angelo Albergo, Rosa Albergo, Lidia Caito, Elia Caito;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2013 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Nino Matassa (su delega di Augusto Farnelli e di Chiara Lonero Baldassarra) e Nicolò De Marco;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Gli odierni appellati, proprietari di terreni ubicati nell'agro di Ceglie e Loseto in zona di espansione C/1, maglia n. 10, già inserita nel III P.P.A., presentavano, in data 17 aprile 2003, un Piano di lottizzazione per un'area estesa 623.000 metri quadri, comprendente circa 500 proprietari catastali. In data 1º ottobre 2003, il Piano otteneva parere favorevole dal Coordinamento tecnico interno della Ripartizione urbanistica, che comunque rinviava alcuni approfondimenti al momento di verifica dell’assoggettabilità del progetto alla V.I.A.
Successivamente venivano richieste più volte integrazioni documentali, fino alla delibera del 22 dicembre 2005, nella quale il Consiglio comunale di Bari, dato atto dell’intervenuta scadenza del terzo piano pluriennale di attuazione, dell’assenza di normativa regionale attuativa delle previsioni dell’art. 20 della legge 30 aprile 1999, n. 136, della ravvisata esigenza di munirsi di apposito programma per il riequilibrio urbano e lo sviluppo urbanistico del territorio (P.ri.sv.u.t.) disponeva l’adozione di varianti alle norme tecniche di attuazione interessanti gli artt. 5, 31, 32, 39, 51, 52 e 59, con introduzione quale norma transitoria dell’art. 59 bis.
La relativa delibera era ritenuta illegittima dal TAR Puglia in quanto di natura meramente soprassessoria ( sent. n. 961/2007).
Il piano attuativo era successivamente adeguato dagli istanti alla disciplina di variante superstite all'annullamento giurisdizionale, e ripresentato in data 11 febbraio 2010. Su tale adeguamento il Coordinamento tecnico interno esprimeva parere negativo in data 10 giugno 2010 e poi, dopo una serie di adeguamenti, chiarimenti e integrazioni, ancora una volta in data 25 marzo 2011 sulla base di ulteriori motivi.
Tale ultimo atto era impugnato dinanzi al TAR Puglia. Con motivi aggiunti era altresì impugnata la nota 13 ottobre 2011, prot. 240.691 (con i relativi allegati) confermativa del pregresso parere negativo.
Il Tribunale, decidendo definitivamente la causa, ha accolto i motivi aggiunti (dichiarando improcedibile il ricorso originario) e, per l’effetto, “annullato la nota del 13 ottobre 2011 della Ripartizione urbanistica ed edilizia privata del Comune di Bari e gli atti sottostanti” nonché chiarito, che “l'annullamento degli atti impugnati (accomunati, come i precedenti sottoposti al vaglio del Tribunale, dalla loro valenza di ostacolo ingiustificatamente frapposto alla conclusione del procedimento), coniugato con il principio dell'effettività della tutela cui il processo è preordinato a favore della parte vittoriosa, non può non comportare l'obbligo dell'Ente locale di porre in essere nell'immediato ogni misura adeguata al risultato urbanistico-edilizio richiesto dalla parte perché conforme al piano regolatore generale in vigore e applicativo dello stesso”.
I passaggi motivazionali salienti sono stati i seguenti: A) La nota 13 ottobre 2011, prot. 240.691, e l’istruttoria tecnica allegata, comportano un ulteriore arresto procedimentale anche alla luce della prassi del Comune di Bari di non sottoporre il piano di lottizzazione bocciato dagli organi tecnici alla valutazione di quelli politici (del consiglio ovvero della giunta in forza dell’articolo 5, punto 13-b) del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito nella legge 12 luglio 2011, n. 106, e dall'articolo 10 della legge regionale I agosto 2011, n. 21). Ciò radica l'interesse al relativo annullamento; B) E’ privo di fondamento il parere negativo nella parte in cui presume il venir meno nel tempo delle adesioni alla presentazione del piano di lottizzazione, non potendosi ritenere che le relative sottoscrizioni siano soggette a scadenza, e considerato comunque che in adempimento della richiesta del 20 settembre 2011 della Ripartizione urbanistica, sono state raccolte nuovamente le firme in calce allo schema di convenzione; C) Risulta assolutamente contraddittorio che il Comune in sede di adeguamento del piano regolatore, attraverso una delibera consiliare, abbia ritenuto erronea la localizzazione di taluni beni archeologici (segnalazione archeologica denominata "contrada Madonna di Butterito" - sigla SAK 16) escludendo che essi ricadano nell’area lottizzanda, e poi nella specifica sede istruttoria tesa all’approvazione della lottizzazione si rifiuti di considerare il contenuto e gli effetti di tale deliberazione; D) In ogni caso tutti i pareri a vincoli idrogeologici, boschivi, artistici, paesistici e di ogni altro tipo devono essere acquisiti successivamente all’adozione del Piano; E) La tesi dell’assenza di collegamento "alle idonee reti infrastrutturali pubbliche esistenti" e degli effetti negativi sul flusso del traffico è superata dall’impegno dei lottizzanti a realizzare non solo la viabilità interna e quella di collegamento, ma anche una parte delle strade previste dal piano regolatore e non attuate. In ogni caso gli organi tecnici del Comune sono tenuti alla verifica della conformità dell'intervento alla disciplina attuale del territorio, stabilita dagli strumenti pianificatori tipici, in cui si è cristallizzato l'interesse pubblico ad un ordinato utilizzo delle aree, ed agli stessi non è affidata alcuna valutazione di merito sull'opportunità o convenienza dell'intervento che si sovrapponga e annulli quella predeterminata dagli atti pianificatori; F) la valutazione dei temi della viabilità, e quindi della sufficienza dei collegamenti esterni all’area oggetto di lottizzazione, non è un elemento da sviluppare in occasione dell’approvazione del piano di lottizzazione, che ha natura attuativa, ma deve essere contenuto, a monte, nello strumento urbanistico generale, il quale, sulla base di una previsione complessiva dei temi della gestione del territorio, è il mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare ingresso alle tematiche della circolazione nell’ambito del territorio comunale.
Propone ora appello il Comune di Bari, deducendo:
1) Error in iudicando per mancata rilevazione dell’inammissibilità del ricorso originario. Si tratterebbe dell’impugnazione di atti endoprocedimentali, non vincolanti, finalizzati alla successiva delibazione del Piano da parte del Consiglio comunale, organo al quale, allo momento del giudizio, era già stato sottoposta l’istanza ed i pareri tecnici. La sentenza di prime cure avrebbe il paradossale effetto di imporre un riformulazione dei pareri tecnici impendendo il definitivo pronunciamento all’organo competente,
2) Error in iudicando in ordine al “merito” del parere tecnico.
2.1.Il Giudice di prime cure avrebbe messo di considerare adeguatamente il disposto dell’art. 59 delle NTA al PRG a mente del quale non si può procedere all’approvazione a Piani di lottizzazione in assenza di idonee reti infrastrutturali pubbliche già esistenti o comunque di coordinamento con le opere viarie previste dal Piano triennale delle OO.PP.
2.2.) Avrebbe altresì omesso di considerare che il Piano di lottizzazione, anche se conforme allo strumento urbanistico generale, non può considerarsi un atto dovuto, rimanendo intatto il potere discrezionale di valutare, anche sotto il profilo temporale, la sua compatibilità con la programmazione delle opere pubbliche o la sopravvenienza di pregnanti interessi pubblici che ostino alla sua approvazione;
2.3) Il descritto margine di discrezionalità non potrebbe essere equiparato (come invece ha fatto il Giudice di prime cure) ad un sostanziale vincolo ablatorio, costituendo l’effetto di un ineludibile esigenza di coordinamento temporale tra l’espansione consentita dal Piano e la concreta realizzazione delle necessarie infrastrutture pubbliche;
3) Violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa. Il Tribunale, nel sancire l'obbligo dell'Ente locale di porre in essere nell'immediato ogni misura adeguata al risultato urbanistico-edilizio richiesto dalla parte avrebbe operato uno sconfinamento nel merito della valutazione amministrativa riservata.
4) Error in iudicando in ordine ai poteri del dirigente tecnico. La sentenza di prime cure ritiene sussistente l’obbligo del dirigente di esaminare la conformità agli strumenti urbanistici e di offrire soluzioni tecniche compatibili, “senza indulgere in valutazioni di specifico interesse pubblico che appartengono alla sfera esclusiva delle attribuzioni dell’organo politico”. L’affermazione sarebbe erronea perché:
4.1.) Le osservazioni del dirigente avrebbero comunque valore endoprocedimentale risolvendosi in un mera proposta deliberativa agli organi politici competenti;
4.2.) La sfera di discrezionalità che caratterizza le valutazioni degli organi politici, comunque sarebbe esercitata sulla base di valutazioni istruttorie che non possono che promanare dagli organi tecnici;
Gli appellati si sono difesi, stigmatizzando il comportamento sostanzialmente soprassessorio, oltre che defatigatorio del Comune. Così anche i numerosi interventori..
Nell’imminenza dell’udienza pubblica fissata per la discussione l’appellante ha depositato, in data 7 marzo 2013, note e documenti relativi alla proposta di adozione di una deliberazione con la quale la Giunta Comunale si stava accingendo a respingere definitivamente il progetto di lottizzazione. In sede di discussione ha dato altresì notizia dell’avvenuta adozione, in data 7 marzo 2013, della detta deliberazione di Giunta Comunale.
Gli appellati si sono opposti all’acquisizione della produzione documentazione, in quanto palesemente tardiva.
La causa è trattenuta in decisione all’esito della pubblica udienza dell’8 marzo 2013.

DIRITTO
1.1. L’appello è improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.
1.2. Non è dubbio che oggetto di causa siano atti di natura endoprocedimentale, e che essi siano stati impugnati perché ritenuti ostativi di una satisfattiva conclusione del procedimento amministrativo avviatosi con la proposta di lottizzazione. A dire del primo Giudice, la nota 13 ottobre 2011, prot. 240.691 e l’istruttoria tecnica allegata, avrebbe comportato un arresto procedimentale, anche alla luce della prassi del Comune di Bari di non sottoporre il piano di lottizzazione bocciato dagli organi tecnici, alla valutazione di quelli politici, e ciò in tesi sarebbe sufficiente a radicare l’interesse all’impugnazione.
2.1. L’affermazione non può essere condivisa nei termini in cui è formulata.
2.2. Di arresto procedimentale può parlarsi ove ci si trovi dinanzi a fattispecie endoprocedimentali sostanzialmente provvedimentali, ossia preclusive delle aspirazioni dell’istante o comunque di uno sviluppo diverso e per esso maggiormente favorevole: è il caso, ad es., delle clausole escludenti, o delle statuizioni terminative di fasi del procedimento destinato a concludersi con provvedimenti favorevoli a terzi (Cfr. Cons. di Stato, Ad. plen., 10 luglio 1986, n. 8; da ultimo Ad.Plen. 28 gennaio 2012, n. 1). Esse onerano il destinatario del tempestivo esperimento dell’azione di annullamento, pena la decadenza (non così per i pareri vincolanti. Sul punto, da ultimo, Cons. Stato Sez. IV, Sent., 28-03-2012, n. 1829)
2.3. La giurisprudenza più risalente accomuna, quoad effectum, all’arresto procedimentale anche l’atto soprassessorio, sul presupposto che esso, rinviando il soddisfacimento dell'interesse pretensivo ad un accadimento futuro ed incerto nel quando, determini un arresto a tempo indeterminato del procedimento amministrativo così generando un’immediata lesione della posizione giuridica dell'interessato (la definizione è quella di Cass. SSUU, 27/06/2005, n. 13707; nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, cfr. inizialmente Ad. plen., 10 luglio 1986, n. 8, cit., e poi, Sez. VI, n. 1246/04; Sez. V, n.1902/01; Sezione VI, n. 1377/98; Sez. IV, n. 226/97).
L’analogia fra le due fattispecie è il frutto di una impostazione pretoria giustificata dalla storica (ma ormai superata) concentrazione delle prospettive di tutela unicamente nell’azione di annullamento, restando (al tempo) quella sul silenzio, utile ad accertare, sullo sfondo di un’amministrazione totalmente inerte ed in una logica puramente attizia, l’esistenza di un obbligo di provvedere e l’attualità di tale obbligo, talchè l’esistenza di un atto anche se soprassessorio conduceva ad una declaratoria di inammissibile o improcedibilità dell’azione.
Il varo del codice del processo amministrativo, ma, ancor prima, la configurazione di poteri speciali del giudice per l’ipotesi di azione avverso l’inerzia, estesi in via eccezionale alla cognizione dell’eventuale fondatezza dell’istanza (già previsti dall’art. 6 bis della legge n. 80/2005), ha fatto venir meno la necessità di accomunare le due fattispecie, rendendo possibile anche in presenza di un atto soprassessorio l’azione sul silenzio: e ciò sul presupposto che siffatto atto non costituisca il provvedimento terminativo del procedimento che l’amministrazione ha l’obbligo di emanare quale che sia il contenuto, ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato.
L’atto è in questo caso essenzialmente conosciuto dal giudice non già in relazione ai suoi aspetti di satisfattività per l’istante, ma in relazione alla sua idoneità ad integrare adempimento della primaria obbligazione di provvedere, con il corollario che la sentenza è dichiarativa dell’obbligo generico di provvedere o, nei casi in cui l’attività è ab origine o ex post divenuta vincolata, anche dell’obbligo di adottare un provvedimento di tenore predeterminato. E’ evidente tuttavia che poichè l’interesse a ricorrere deriva non dall’inerzia assoluta ma dal comportamento soprassessorio, l’azione è ritualmente introdotta attraverso l’impugnazione del sedicente provvedimento conclusivo, ma esso è traguardato e stigmatizzato per il contenuto elusivo dell’obbligo di provvedere, ossia quale atto sussumibile nella fattispecie composita dell’inerzia . L’impugnazione è cioè strumentale ad una pronuncia che constatata la natura soprassessoria dell’atto e dichiarata la permanenza dell’obbligo di provvedere, condanni l’amministrazione ad emanarlo immediatamente.
2.4. Vi è poi una terza e peculiare fattispecie il cui richiamo appare opportuno in questa sede: quella dei provvedimenti provvisori, ossia di quei provvedimenti tipici promananti da organi straordinari o commissioni tecniche, che preannunciano il tenore della decisione amministrativa, e che sono destinati ad essere sostituiti dal provvedimento definitivo emesso dall’organo ordinariamente competente ad impegnare definitivamente la volontà dell’amministrazione.
In relazione ai provvedimenti provvisori, la giurisprudenza consente l’impugnazione immediata quale mera facoltà alla quale comunque deve seguire nel corso del giudizio l’impugnazione del provvedimento definitivo, evidentemente guidata, nella delineazione di tale assetto, dalla considerazione che, di norma, il provvedimento definitivo interviene in uno stretto torno temporale, espressamente o comunque per implicito (silenzio assenso). Ovviamente, in mancanza di provvedimento definitivo, l’impugnazione avverso il provvedimento provvisorio non soddisfa di per sè sola i requisiti di lesività presupposti dall’azione demolitoria, con conseguente inammissibilità o improcedibilità della stessa. La situazione è dunque dissimile dall’arresto procedimentale.
3.1. Tornando al caso di specie, l’azione proposta dall’originario ricorrente è di impugnazione di un atto oggettivamente endoprocedimentale (parere tecnico del dirigente in ordine a proposta di lottizzazione) sul presupposto che esso, sulla base di una prassi invalsa nel Comune di Bari, costituisca in realtà l’epilogo provvedimentale.
Lo schema proposto è quindi quello proprio dell’arresto procedimentale. Il ricorrente sostiene cioè che non vi debbano o possano essere sviluppi procedimentali ulteriori, con conseguente immediato pregiudizio per la sfera giuridica connessa ai propri interessi pretensivi. Inappropriato è invece il riferimento all’atto soprassessorio, poichè esso per definizione, come già visto, implica successivi sviluppi nel tempo, ai quali rinvia sub conditione.
3.2. Ciò nondimeno difettano, in concreto, i presupposti per definire il parere tecnico negativo, un arresto procedimentale; ed è il riferimento alla “prassi” che appare in proposito dirimente.
L’arresto procedimentale che astrattamente giustifica ed anzi impone l’immediata azione di annullamento in base all’equiparazione provvedimentale quoad effectum, non può sfuggire al principio di legalità ed ai suoi corollari di tipicità e tassatività, ed è pertanto configurabile ove tragga origine e fondamento dalla stessa dinamica contemplata dalla legge nell’esegesi che ne da in chiave applicativa il giudice.
La prassi, intesa quale costante sperimentazione di protocolli procedimentali, praeter o addirittura contra legem, tesi ad elidere (come nel caso di specie) fasi essenziali del procedimento amministrativo, ivi compreso il provvedimento finale, è per converso inidonea a generare oneri di impugnazione, ponendosi piuttosto, essa stessa, come comportamento violativo dell’obbligo di concludere il procedimento.
3.3. Dinanzi ad una siffatta prassi, l’unica tutela praticabile è l’azione di accertamento e condanna a provvedere.
Il giudice può certamente conoscere dei contenuti del parere ed anzi può dirsi che quest’ultimo riduca la discrezionalità a tal punto da consentire al giudice l’accertamento della fondatezza o meno della pretesa. L’azione sul silenzio è tuttavia strumentale al provvedere, e diviene recessiva, salvo ovviamente la risarcibilità del pregiudizio inferto, una volta che l’amministrazione provvede autonomamente.
E’quanto è successo nell’odierno giudizio. Il ricorrente ha chiesto l’annullamento dell’atto istruttorio a mezzo di un’azione sostanzialmente qualificabile quale azione di accertamento e condanna, ma nel corso del giudizio è sopravvenuto il provvedimento terminativo del procedimento determinandone l’improcedibilità.
4. Le conclusioni non muterebbero ove l’azione potesse configurarsi quale impugnazione facoltativa di un atto provvisorio, poiché anche in questo caso la mancata impugnazione dell’atto definitivo sopravvenuto determinerebbe l’improcedibilità.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti costantemente affermato che "la formula - di carattere pretorio - della improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse riguarda propriamente le fattispecie in cui l'atto amministrativo impugnato abbia comunque cessato di produrre i suoi effetti, o per il mutamento della situazione di fatto o di diritto presente al momento della presentazione del ricorso, che faccia venir meno l'effetto del provvedimento impugnato, ovvero per la intervenuta adozione, da parte dell'amministrazione, di un provvedimento idoneo a ridefinire l'assetto degli intereressi in gioco e tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, ancorché l'atto risulti eventualmente privo di effetto satisfattivo nei confronti del ricorrente."(Consiglio Stato, sez. V, 09 ottobre 2007, n. 5256; sez IV, 30 luglio 2012, n. 4187).
5. Piuttosto deve darsi risposta alle obiezioni degli appellati in ordine alla conoscibilità del provvedimento amministrativo finale tardivamente depositato. Essi sostengono che il divieto di produzione documentale investa anche i provvedimenti amministrativi; comunque stigmatizzano il comportamento del Comune, il quale avrebbe sostanzialmente posto nel nulla la lunga parentesi giudiziaria attendendo i giorni prossimi alla decisione finale per determinarsi.
L’obiezione, seppur dettata da comprensibili ragioni di tutela sostanziale, non può essere condivisa.
Il Comune ha sia in primo grado che in appello sostenuto la tesi dell’inammissibilità dell’impugnativa in ragione del carattere endoprocedimentale dell’atto gravato e, benché tardivamente, ha dato coerente sfogo provvedimentale alla tesi processuale sostenuta, emanando infine il diniego di approvazione.
Il provvedimento emanato dalla parte pubblica resistente, incidente sull’assetto di interessi portato in giudizio dal ricorrente, non è equiparabile ad un documento astrattamente utile ai fini della decisione, ma è un atto che riverbera direttamente su una delle condizioni dell’azione (l’interesse a ricorrere, che com’è noto deve sussistere al momento della pronuncia), facendola venire meno. La sua conoscenza da parte del giudice può avvenire anche a mezzo di semplice dichiarazione in udienza, purchè non contestata, e comunque il Giudicante, ove nutra dubbi sulla natura e portata dell’atto, può, ed anzi deve, comunque acquisirlo d’ufficio.
6. Da ultimo una qualche considerazione deve pur essere fatta in ordine alla correttezza processuale del comportamento del Comune. Non v’è dubbio che quest’ultimo avrebbe potuto per tempo adottare l’atto, ed adottandolo in limine alla decisione ha di fatto ottenuto una vittoria meramente processuale che suona come un diniego di giustizia per il ricorrente.
Occorre tuttavia sottolineare che il ritardo è evenienza patologica che può essere efficacemente combattuta in prima istanza unicamente con l’azione di accertamento ed adempimento: e l’adempimento tardivo, anche se di tenore reiettivo, costituisce in questa fase pur sempre un risultato utile in direzione del superamento dell’inerzia. Il pregiudizio, patrimoniale e non, eventualmente derivante dalla tardività dell’adempimento, è materia di pertinenza della successiva ed eventuale azione demolitoria nonchè di quella risarcitoria ove ne ricorrano i presupposti. E’ in tale sede che le doglianze del ricorrente potranno trovare concreto ascolto.
7. In conclusione, in riforma della sentenza gravata, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile.
7. Avuto riguardo all’esito ed all’andamento del giudizio, le spese del doppio grado possono essere compensate.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, in riforma della sentenza gravata, dichiara improcedibile il ricorso.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.


Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2013 con l'intervento dei magistrati:
Sergio De Felice, Presidente FF
Andrea Migliozzi, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 09/05/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

mercoledì 11 settembre 2013

RESPONSABILITA' della P.A. & APPALTI: l' "an" ed il "quantum" del risarcimento in materia d'appalti (Cons. St., Sez. V, sentenza 3 settembre 2013 n. 4376).


RESPONSABILITA' della P.A. & APPALTI: 
l' "an" ed il "quantum" 
del risarcimento in materia d'appalti 
(Cons. St., Sez. V, 
sentenza 3 settembre 2013 n. 4376).


Sentenza utile per approfondire le voci di cui si deve comporre la domanda di risarcimento per equivalente (subordinata, ovviamente a quella in forma specifica, che spesso coincide con la domanda di aggiudicazione dell'appalto).
FF


Massima

1.  La comune ascrizione dell'illecito commesso dall'amministrazione nell'esercizio dell'attività provvedimentale allo schema della responsabilità extracontrattuale implica che incombe ad essa ricorrente l'onere di dimostrare (oltre all'esistenza di un pregiudizio patrimoniale e alla sua riconducibilità eziologia all'adozione del provvedimento illegittimo) la sua misura, come riconosciuto dall'indirizzo prevalente formatosi in seno alla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. V, 25 gennaio 2002, n.416).
Ne consegue che essa ricorrente non può limitarsi ad addurre l'illegittimità dell'atto, valendosi, ai fini della sua quantificazione, del principio dispositivo con metodo acquisitivo e, quindi, della sufficienza dell'allegazione di un principio di prova, ma è tenuta a compiere l'ulteriore sforzo probatorio di documentare il pregiudizio patrimoniale del quale chiede il ristoro nel suo esatto ammontare (pur con i limiti ontologici dell'assolvimento di tale onere).
Poiché la lesione lamentata concerne interessi pretensivi o procedimentali la dimostrazione della misura del danno patrimoniale patito dal privato si rivela non semplice.
A fronte, infatti, della mancata aggiudicazione di un appalto risulta estremamente arduo definire l'esatto ammontare della perdita economica patita dall'interessato.
E’ appena il caso, al riguardo, di rammentare che il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione offerta dall'art. 1223 c.c., del danno emergente e del lucro cessante.
Se per la prima voce di danno (quello emergente) non si pongono particolari problemi nell'assolvimento dell'onere della prova (è sufficiente documentare le spese sostenute), per la seconda (lucro cessante) si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.
2.  Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare, non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell'atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.
Come si vede, tale ultima dimostrazione presenta implicazioni di notevole complessità, attenendo a profili prognostici non facilmente apprezzabili nella loro effettiva consistenza ed attendibilità.
Soccorre, allora, l'applicazione di criteri presuntivi di determinazione del quantum, certamente invocabili dal privato in presenza della lesione di aspettative di ampliamento della sua sfera giuridica e patrimoniale.
Perché sia ritualmente assolto l'onere della prova, è necessario che il ricorrente danneggiato alleghi gli elementi di fatto e gli indizi sulla cui base possono individuarsi i parametri presuntivi di determinazione del danno.
2.1 Il criterio del 10% non può quindi essere oggetto di applicazione automatica (Cons. Stato, Sez. V, n. 2317/2012 cit.) e, in assenza di un criterio legale di determinazione del danno e a fronte della difficoltà di determinare nel suo preciso ammontare questo tipo di pregiudizio patrimoniale, non resta che ricorrere alla valutazione equitativa.
Comunque va osservato che il mancato utile nella misura integrale, nel caso di annullamento dell'aggiudicazione e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, spetta solo se quest'ultimo dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, mentre, in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e, pertanto, in tale ipotesi deve operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura per l' “aliunde perceptum vel percipiendum”.
2.2 Quanto alla perdita di “chance” dipendente dal mancato espletamento della gara per il singolo affidamento, ed al  danno curricolare, la giurisprudenza insegna che l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione della singola opera in sé, e ai relativi ricavi diretti. Ciò in quanto alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano indiretti nocumenti all'immagine della società e al suo radicamento nel mercato; per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino nel medesimo settore di mercato e in modo illegittimo si siano rese aggiudicatarie.
2.3 Per tali ragioni è reputato quindi risarcibile esso danno curriculare, che costituisce una specificazione del danno per perdita di “chance” e consiste nel pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del proprio "curriculum" professionale,
2.4 Quanto alla richiesta di interessi e rivalutazione la Sezione osserva che sulle dette somme riconosciute a titolo di risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale devono comunque riconoscersi gli interessi maturati e la rivalutazione monetaria da computarsi alla data del verificarsi dell’illecito, in funzione compensativa in relazione alla mancata tempestiva disponibilità in capo al debitore della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5383 del 2012, proposto da:
Rillo Costruzioni s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Andrea Abbamonte, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via degli Avignonesi, n. 5; 
contro
Comune di Faicchio, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Enrico Soprano, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via degli Avignonesi, n. 5;
Società Termotetti Costruzioni s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; 
per l'ottemperanza
della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 00546/2012, di accoglimento dell’appello proposto per la riforma della sentenza del T.A.R. Campania – Napoli, Sezione VIII, n. 07639/2009, con conseguente reiezione del ricorso originario proposto da Termotetti Costruzioni s.r.l. dinanzi a detto T.A.R.;
inoltre per il risarcimento del danno;

Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Faicchio;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Vista la propria sentenza non definitiva 16 gennaio 2013, n. 240;
Visto l'art. 114 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2013 il Cons. Antonio Amicuzzi e uditi per le parti gli avvocati A. Abbamonte e Lentini, su delega dell’avv. E. Soprano;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO
Con il ricorso in esame la Rillo Costruzioni s.r.l. ha chiesto l’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza del Consiglio di Stato in epigrafe indicata, con la quale è stato accolto l’appello dalla stessa proposto per la riforma della sentenza del T.A.R. Campania – Napoli, Sezione VIII, n. 07639/2009 e conseguentemente è stato respinto il ricorso originariamente proposto dinanzi ad esso T.A.R. dalla Termotetti Costruzioni s.r.l. (per l’annullamento del verbale di gara del 29.2.2008, di esclusione della società dalla gara per l’esecuzione dei lavori di realizzazione del “raccordo stradale al centro abitato di Faicchio”, nonché della graduatoria finale, degli atti di ammissione alla competizione dell’impresa Fuschini Costruzioni e della Rillo costruzioni s.r.l. e dei provvedimenti di aggiudicazione provvisoria e definitiva; inoltre, a seguito di motivi aggiunti, per l’annullamento di tutti i verbali di gara e delle note n. 1692 del 18.3.2008 e 2186 del 4.4.2008).
La attuale ricorrente ha quindi chiesto il risarcimento dei danni subiti ai sensi e per gli effetti dell’art. 112, comma 4, del d. lgs. n. 104/2010, deducendo che la mancata aggiudicazione ad essa della gara in forma specifica, che sarebbe stata possibile mediante tempestiva esecuzione della sentenza di cui trattasi, la legittima ad ottenere il risarcimento per equivalente, sussistendo l’elemento soggettivo della colpa della pubblica amministrazione (P.A.) (costituendo l’esecuzione della sentenza mediante aggiudicazione della gara alla Rillo Costruzioni s.r.l. atto dovuto, di semplice esecuzione), nonché l’elemento oggettivo.
Con sentenza non definitiva 16 gennaio 2013, n. 240 la Sezione ha respinto le eccezioni formulate dalla difesa del resistente Comune, di inammissibilità della istanza di risarcimento danni, nonché di insussistenza di colpa dell’Amministrazione e del nesso di causalità tra la sua condotta e l’evento dannoso; ha quindi affermato la sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno dovuto alla Rillo Costruzioni s.r.l. e, ai fini della relativa quantificazione, ha disposto l’acquisizione del fascicolo numero di R.G. del Consiglio di Stato 2079 del 2010, comprensivo del fascicolo di primo grado, necessario per quantificare adeguatamente le somme dovute alla parte ricorrente a titolo di risarcimento danni, mediante verifica di quale fosse la percentuale di utile prevista nella offerta economica di detta s.r.l.. Tanto è stato adempiuto.
In data 1.3.2013 la Rillo Costruzioni s.r.l. ha depositato perizia tecnica dell’ing. Elena Ucci.
In data 2.4.2013 il Comune di Faicchio ha depositato in giudizio perizia giurata dell’ing. Gianfranco Sarnelli.
Con memoria depositata il 5.4.2013 il Comune di Faicchio ha asserito che la Rillo Costruzioni s.r.l. non ha prodotto alcun valido elemento probatorio a supporto delle singole voci di danno di cui esige il ristoro; in particolare, con riferimento al lucro cessante, non avrebbe fornito la prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto (limitandosi a produrre nuova perizia in cui la percentuale di utile sperata è quantificata nella misura dell’8%) e non avrebbe dimostrato di non aver potuto utilizzare le proprie maestranze ed i propri mezzi per svolgere altre attività nel periodo che interessa; quanto alle richieste risarcitorie a titolo di perdita di “chance” e di danno emergente, esse secondo il Comune, non essendo citate nella sentenza interlocutoria, sarebbero state respinte.
Alla udienza in camera di consiglio del 23.4.2013 il ricorso in ottemperanza è stato trattenuto in decisione alla presenza degli avvocati delle parti, come da verbale di causa agli atti del giudizio.

DIRITTO
1.- Il giudizio in esame verte sulla richiesta, formulata dalla Rillo Costruzioni S.r.l., di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza del Consiglio di Stato in epigrafe indicata, con la quale è stato accolto l’appello proposto da detta società per la riforma della sentenza del T.A.R. Campania, Napoli, Sezione VIII, n. 07639/2009 (di accoglimento del ricorso proposto da Termotetti Costruzioni s.r.l. per l’annullamento della sua esclusione dalla gara per l’esecuzione dei lavori di realizzazione del “raccordo stradale al centro abitato di Faicchio”) e conseguentemente il ricorso introduttivo del giudizio è stato respinto.
La esecuzione è stata richiesta dalla Rillo Costruzioni s.r.l. mediante risarcimento per equivalente dei danni subiti ai sensi e per gli effetti dell’art. 112, comma 4, del d. lgs. n. 104/2010, deducendo di aver subito, come da perizia di parte, danno emergente, quantificato in € 30.840,89 per le spese generali della azienda, nonché in € 42.761,00 per spese di partecipazione alla gara; inoltre ha chiesto il ristoro del lucro cessante, ex art. 1223 del c.c., per mancato incasso dell’utile derivante dalla esecuzione della commessa, pari al 10% della offerta formulata, quantificato in € 198.616,68, e danni curriculari, per depauperamento delle capacità tecniche ed economiche della impresa, quantificati in € 139.963,31; il tutto oltre a rivalutazione ed interessi e maggior danno ex art. 1224 del c.c., dalla data di adozione della illegittima delibera di aggiudicazione definitiva della gara alla Termotetti Costruzioni s.r.l., fatta salva la valutazione equitativa degli stessi.
2.- Osserva la Sezione che con propria sentenza non definitiva n. 240/2013 ha già affermato la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, essendo caratterizzato il comportamento tenuto dal Comune di Faicchio nel caso di specie da tutti i requisiti dell'illecito, compreso il nesso di causalità immediato e diretto tra il danno di cui è stato chiesto il ristoro e il comportamento dell’Amministrazione.
Al fine della quantificazione di detto danno la Sezione, rilevato che agli atti di causa non risultava allegata la offerta della Rillo Costruzioni s.r.l., e ritenendo di non aderire al criterio per il quale il calcolo del lucro cessante è quantificato con riferimento al 10% del prezzo a base d'asta, ha quindi disposto, per effettuare una corretta valutazione di detto risarcimento, l’acquisizione del fascicolo n. 2079 del 2010 del R.G. del Consiglio di Stato, comprensivo del fascicolo di primo grado, al fine di accertare quale fosse la percentuale di utile prevista nella offerta economica di detta s.r.l. (in particolare con riguardo al lucro cessante, che, nella perizia di stima dell’ing. Elena Ucci in atti, era quantificato in via forfetaria nel 10%, del valore dell’appalto).
3.- Il Collegio, pur non avendo reperito dopo l’acquisizione di detto fascicolo la offerta economica presentata nella gara de qua dalla Rillo Costruzioni s.r.l., ritiene di non dover svolgere ulteriore istruttoria al riguardo, atteso che, sulla base dei dati ricavabili dalle perizie di parte in atti, risulta pacifico che, a fronte dell’importo a base di appalto di € 2.043.841,06, detta s.r.l. aveva effettuato una offerta di € 1.908.578,72.
Nella ulteriore perizia tecnica dell’ing. Elena Ucci, depositata dalla ricorrente in ottemperanza in data 1.3.2013, è asserito che, dall’esame delle giustificazioni preventive allegate alla offerta della Rillo Costruzioni s.r.l., si evince che è stato evidenziato nelle singole schede l’utile di impresa per ogni prezzo unitario di lavorazione pari all’8% del prezzo offerto per ogni singola lavorazione, pari a complessivo utile di impresa di € 152.686,30.
Nella perizia giurata dell’ing. Gianfranco Sarnelli, depositata in giudizio dal Comune di Faicchio in data 2 aprile 2013 è, tra l’altro, asserito che il calcolo di detto utile sarebbe errato anche facendo riferimento alla percentuale dell’8%, ammontando ad € 141.376,28, e che all’importo di detta offerta, che fa riferimento al solo importo posto a base d’asta, andrebbero sommate le spese per la sicurezza di € 77.597,99, sicché l’ammontare dell’ipotetico contratto sarebbe stato di € 1.986.176,70.
3.1.- Tanto premesso la Sezione, prima di quantificare le somme dovute a titolo di risarcimento effettivamente dovute dal Comune di Faicchio alla ricorrente in ottemperanza, osserva che essa ha dimostrato che la rimozione del provvedimento non soddisfa, di per sé, l'interesse azionato e che residua un danno ulteriore nella sua sfera patrimoniale, non interamente reintegrato (in forma specifica) per effetto della caducazione dell'atto.
La comune ascrizione dell'illecito commesso dall'amministrazione nell'esercizio dell'attività provvedimentale allo schema della responsabilità extracontrattuale implica che incombe ad essa ricorrente l'onere di dimostrare (oltre all'esistenza di un pregiudizio patrimoniale e alla sua riconducibilità eziologia all'adozione del provvedimento illegittimo) la sua misura, come riconosciuto dall'indirizzo prevalente formatosi in seno alla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. V, 25 gennaio 2002, n.416).
Ne consegue che essa ricorrente non può limitarsi ad addurre l'illegittimità dell'atto, valendosi, ai fini della sua quantificazione, del principio dispositivo con metodo acquisitivo e, quindi, della sufficienza dell'allegazione di un principio di prova, ma è tenuta a compiere l'ulteriore sforzo probatorio di documentare il pregiudizio patrimoniale del quale chiede il ristoro nel suo esatto ammontare (pur con i limiti ontologici dell'assolvimento di tale onere).
Poiché la lesione lamentata concerne interessi pretensivi o procedimentali la dimostrazione della misura del danno patrimoniale patito dal privato si rivela non semplice.
A fronte, infatti, della mancata aggiudicazione di un appalto risulta estremamente arduo definire l'esatto ammontare della perdita economica patita dall'interessato.
E’ appena il caso, al riguardo, di rammentare che il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione offerta dall'art. 1223 c.c., del danno emergente e del lucro cessante: e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato, per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e della perdita di un'occasione di guadagno o, comunque, di un'utilità economica connessa all'adozione o all'esecuzione del provvedimento illegittimo.
Se per la prima voce di danno (quello emergente) non si pongono particolari problemi nell'assolvimento dell'onere della prova (è sufficiente documentare le spese sostenute), per la seconda (lucro cessante) si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.
Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare, non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell'atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.
Come si vede, tale ultima dimostrazione presenta implicazioni di notevole complessità, attenendo a profili prognostici non facilmente apprezzabili nella loro effettiva consistenza ed attendibilità.
Soccorre, allora, l'applicazione di criteri presuntivi di determinazione del quantum, certamente invocabili dal privato in presenza della lesione di aspettative di ampliamento della sua sfera giuridica e patrimoniale.
Si tratta di presunzioni semplici che indicano, secondo la comune esperienza, parametri valutativi sufficientemente puntuali dell'entità della perdita economica patita dal privato per effetto dell'adozione dell'atto illegittimo ovvero della colpevole inerzia dell'amministrazione.
Perché sia ritualmente assolto l'onere della prova, è, quindi, necessario che il ricorrente danneggiato alleghi gli elementi di fatto e gli indizi sulla cui base possono individuarsi i parametri presuntivi di determinazione del danno.
4.- Tanto premesso, quanto alla richiesta di ristoro del danno emergente per le spese generali della azienda, quantificato dalla parte ricorrente in € 30.840,89, e per spese di partecipazione alla gara, quantificato da essa parte in € 42.761,00, la Sezione osserva quanto segue.
4.1.- Non sono risarcibili le spese generali ed i costi di immobilizzo della struttura aziendale. Nel caso di azione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale dell'Amministrazione, il danno relativo alle spese sostenute dal danneggiato non può che avere ad oggetto le voci strettamente afferenti alla partecipazione alla gara di appalto, con esclusione quindi di ulteriori e diversi elementi quali, ad esempio, il mantenimento della struttura aziendale.
Le spese sostenute per la retribuzione del personale dipendente all'interno della società e le spese generali per il funzionamento della struttura aziendale non debbono invero essere risarcite perché tali spese sarebbero state ugualmente sostenute, anche a prescindere dalla partecipazione alla gara di cui trattasi; né è stata fornita piena prova del danno che sia derivato alla ricorrente per l’attività svolta dal personale al riguardo per essere stato distolto da altre attività di spettanza.
4.2.- Quanto alla domanda di condanna al risarcimento del danno emergente relativo alle spese per la partecipazione alla gara, va osservato che il risarcimento per equivalente dell'interesse positivo e del relativo lucro che l'impresa avrebbe tratto dall'aggiudicazione della gara a suo favore resta in radice incompatibile con la risarcibilità dell'interesse negativo a non essere coinvolto in inutili e dispendiose attività partecipative.
Infatti, la partecipazione alla gara implica oneri che restano comunque a carico del soggetto che abbia inteso prendere parte a una procedura di selezione, con la conseguenza che, nel caso in cui il ricorrente opponga in giudizio proprio la sua fruttuosa partecipazione, per reclamare le utilità economiche che la stazione appaltante gli avrebbe ingiustamente negato mediante illegittima posposizione in graduatoria, è precluso poi allo stesso ricorrente di invocare il rimborso di quelle spese partecipative che costituiscono il presupposto fondante della sua stessa richiesta risarcitoria, basata per l'appunto sulle utilità economiche da mancata aggiudicazione.
Tali costi di partecipazione, nell'ipotesi in cui l'impresa benefici del risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione), non possono essere risarciti per equivalente, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione medesima.
In conclusione le spese sostenute per la partecipazione alla gara dall'impresa non risultata aggiudicataria non sono risarcibili, trattandosi di voci di costo che sarebbero comunque state sostenute dall'instante anche in caso di aggiudicazione o di mancata aggiudicazione (Cons. Stato: Sez. III, 7 marzo 2013, n.1381; Sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681) del servizio; per cui le stesse devono ritenersi incorporate nella differenza tra ricavi e costi, all'esito del quale si ottiene l'utile ritraibile dal servizio medesimo (Consiglio di Stato, sez. V, 18 aprile 2012, n. 2258).
5.- Quanto alla richiesta di lucro cessante, ex art. 1223 del c.c., per mancato incasso dell’utile derivante dalla esecuzione della commessa, quantificato dalla attuale ricorrente in € 198.616,68 (pari al 10% della offerta formulata), la Sezione osserva quanto segue.
5.1.- Occorre, innanzi tutto, distinguere la fattispecie in cui il ricorrente riesce a dimostrare che, in mancanza dell'adozione del provvedimento illegittimo, avrebbe vinto la gara dai casi in cui non è possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato l'esito della procedura in mancanza della violazione riscontrata.
La dimostrazione della spettanza dell'appalto all'impresa danneggiata risulta nel caso di specie configurabile perché la ricorrente era risultata aggiudicataria provvisoria dell’appalto e la somma commisurata all'utile d'impresa non deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura.
Non può tuttavia convenirsi con le richieste di cui al ricorso, quanto all’applicazione automatica del criterio equitativo del 10%, desunto in via analogica dall’art. 345 della l. n.2248/1865, all. F, con riferimento ad un'ipotesi (quella del recesso “ad nutum” della stazione appaltante nella fase di esecuzione del contratto), sia considerato che il criterio di liquidazione del danno in via forfettaria ed automatica, previsto da una norma speciale con riferimento ad un caso particolare, non è suscettibile di essere automaticamente applicato a fattispecie diverse da quella rispetto alla quale è espressamente contemplato e sia considerato che in questo modo si introdurrebbe una forma di indennizzo predeterminato che contrasta con i principi probatori al riguardo (Cons. Stato, Sez. V, 20 aprile 2012, n. 2317).
Il richiamato criterio del 10% non può quindi essere oggetto di applicazione automatica (Cons. Stato, Sez. V, n. 2317/2012 cit.) e, in assenza di un criterio legale di determinazione del danno e a fronte della difficoltà di determinare nel suo preciso ammontare questo tipo di pregiudizio patrimoniale, non resta che ricorrere alla valutazione equitativa.
Comunque va osservato che il mancato utile nella misura integrale, nel caso di annullamento dell'aggiudicazione e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, spetta solo se quest'ultimo dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, mentre, in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e, pertanto, in tale ipotesi deve operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura per l' “aliunde perceptum vel percipiendum”.
Appare anche utile richiamare al riguardo la conclusione giurisprudenziale secondo cui, ai sensi dell'art. 1227 c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno e nelle gare di appalto l'impresa non aggiudicataria, ancorché proponga un ricorso e possa ragionevolmente confidare di riuscire vittoriosa, non può mai nutrire la matematica certezza che le verrà aggiudicato il contratto, atteso che sono molteplici le possibili sopravvenienze ostative; per cui non costituisce normalmente condotta diligente quella di immobilizzare tutti i mezzi d'impresa nelle more del giudizio nell'attesa dell'aggiudicazione in proprio favore, essendo invece ben più razionale che l'impresa si attivi per svolgere nelle more altre attività, procurandosi prestazioni contrattuali alternative dalla quali trarre utili (Cons. Stato, Sez. V, n. 2317/2012 cit.).
In conclusione, considerate le circostanze e tenuto conto sia del fatto che non è stata data dimostrazione da parte del danneggiato dell’impossibilità di utilizzare diversamente gli strumenti d’impresa e sia del fatto che quella che viene in considerazione è, comunque, una semplice “chance” contrattuale (sia pure significativa, essendo la ricorrente, a suo tempo, risultata aggiudicataria provvisoria) e non un contratto alternativo definito e dunque definitivamente "certo", appare equo e ragionevole decurtare del 50% la somma pari al 10 % dell’offerta della ricorrente (il cui ammontare, sommate le spese per la sicurezza di € 77.597,99, sarebbe stato di € 1.986.176,70), che risulta, quindi, essere quella di € 99.308,83 il cui pagamento viene liquidato a favore della attuale ricorrente e posto a carico del Comune di Faicchio.
6.- Quanto al danno curriculare richiesto per depauperamento delle capacità tecniche ed economiche della impresa e quantificato dalla attuale parte ricorrente in € 139.963,31, va osservato quanto segue.
6.1.- E’ necessario ristorare detta ricorrente, come da domanda, non solo per la perdita di “chance” dipendente dal mancato espletamento della gara per il singolo affidamento, ma anche a titolo di danno curricolare.
Sotto questo profilo la giurisprudenza insegna, difatti, che l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione della singola opera in sé, e ai relativi ricavi diretti. Ciò in quanto alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano indiretti nocumenti all'immagine della società e al suo radicamento nel mercato; per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino nel medesimo settore di mercato e in modo illegittimo si siano rese aggiudicatarie.
Per tali ragioni è reputato quindi risarcibile esso danno curriculare, che costituisce una specificazione del danno per perdita di “chance” e consiste nel pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del proprio "curriculum" professionale, per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell'Amministrazione, laddove l'aggiornamento curriculare perduto avrebbe fatto conseguire all'impresa un vantaggio economicamente valutabile, poiché ne avrebbe accresciuto la capacità di competere sul mercato e, quindi, la possibilità di aggiudicarsi ulteriori commesse.
L'impresa ingiustamente privata dell'esecuzione di un appalto può pertanto rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al “curriculum” professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (Cons. St., VI, 9 giugno 2008, n. 2751 e 18 marzo 2011, n. 1681).
In conclusione, va a tale titolo corrisposto alla attuale ricorrente, a fini risarcitori per il titolo che interessa, da parte del Comune di Faicchio, un importo complessivo che si determina, equitativamente ed onnicomprensivamente, nella misura del 2,50% dell'importo del contratto che avrebbe dovuto essere sottoscritto (pari ad € 1.986.176,70) che risulta quindi essere quella di € 49.654,41.
7.- Quanto alla richiesta di interessi e rivalutazione la Sezione osserva che sulle dette somme riconosciute a titolo di risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale devono comunque riconoscersi gli interessi maturati e la rivalutazione monetaria da computarsi alla data del verificarsi dell’illecito, in funzione compensativa in relazione alla mancata tempestiva disponibilità in capo al debitore della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno.
Pertanto, occorre operare la rivalutazione del credito secondo valori monetari correnti e computare gli interessi calcolati dalla data del fatto, non sulla somma complessiva rivalutata alla data della liquidazione, bensì sulla somma originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici di rivalutazione monetaria (Consiglio di Stato, Sez. V, 27 marzo 2013 n. 1833).
8.- Il ricorso deve essere conclusivamente accolto in parte nei termini e nei limiti di cui in motivazione.
9.- Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidati come in dispositivo; nessuna determinazione in ordine alle spese può essere assunta con riguardo alla Termotetti Costruzioni s.r.l., non costituita in giudizio.

                                                               P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente decidendo, accoglie in parte il ricorso in esame nei termini e nei limiti di cui in motivazione.
Pone a carico dell’appellato Comune di Faicchio, le spese e gli onorari del presente grado, liquidate a favore della Rillo Costruzioni s.r.l. nella misura di € 4.000,00 (quattromila/00), di cui € 1.000,00 (mille/00) per esborsi, oltre ai dovuti accessori di legge (I.V.A. e C.P.A.).
Nulla per le spese nei confronti della Termotetti Costruzioni s.r.l., non costituita in giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Antonio Amicuzzi, Consigliere, Estensore
Antonio Bianchi, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere
Carlo Schilardi, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 03/09/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)