sabato 21 giugno 2014

PROCESSO: il controinteressato sopravvenuto e quello occulto (T.A.R. Abruzzo, Pescara, sentenza 30 aprile 2014 n. 204).


PROCESSO: 
il controinteressato sopravvenuto,
e quello occulto
(T.A.R. Abruzzo, Pescara, 
sentenza 30 aprile 2014 n. 204).



Due figure processuali di conio pretorio che dimostrano l'intrinseca vivacità del processo amministrativo

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Massima

1. Nel processo amministrativo, per controinteressato sopravvenuto deve intendersi colui che abbia conseguito un titolo abilitativo, un beneficio o uno status derivante da un provvedimento ulteriore conseguente alla conclusione di un procedimento autonomo rispetto a quello presupposto già impugnato.
2. Controinteressato occulto è invece colui che sostanzialmente è un controinteressato (in quanto la sentenza di accoglimento del ricorso lederebbe in via immediata l'interesse che egli nutre alla conservazione del provvedimento amministrativo o alla sua mancata adozione), ma non è facilmente individuabile dalla lettura dell'atto impugnato.
3. Entrambi i soggetti in questione, non avendo la qualità di controinteressato cui andava notificato il ricorso originario, per proporre l'opposizione di terzo devono, pertanto, risultare titolari di una posizione giuridica autonoma e incompatibile, come in tutte le altre ipotesi nelle quali un terzo pretenda di proporre opposizione.

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Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo
sezione staccata di Pescara (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 472 del 2013, proposto da:
Edison S.p.A., rappresentata e difesa dagli avv. Andreina Degli Esposti, Wladimiro Troise Mangoni, Lorenzo Passeri Mencucci, Riccardo Villata, con domicilio eletto presso Lorenzo Passeri in Pescara, via Falcone e Borsellino, 38; 
contro
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in L'Aquila, via Buccio di Ranallo C/ S.Domenico; 
per l'annullamento
del provvedimento prot. n. 0047512/TRI del 9 settembre 2013 con il quale il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare ha diffidato la società ricorrente alla rimozione di rifiuti depositati nelle discariche realizzate nell'area nel Comune di Bussi dove è localizzato lo stabilimento industriale di proprietà della società stessa, al ripristino lo stato dei luoghi e alla eventuale bonifica delle matrici ambientali interessate.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 aprile 2014 il dott. Massimiliano Balloriani e uditi per le parti l'avv. Lorenzo Passeri Mencucci, l'avv. Riccardo Villata e l'avv. Wladimiro Troise Mangoni per la società ricorrente, l'avv. Distrettuale dello Stato Generoso Di Leo per l’Amministrazione resistente;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1.- La ricorrente impugna il provvedimento n. 47512 del 9 settembre 2013 con il quale il Ministero dell’Ambiente le ha ordinato di rimuovere tutti i rifiuti depositati in modo incontrollato nelle discariche denominate “Tre Monti”, “2A” e “2B”; ripristinare integralmente lo stato dei luoghi mediante la rimozione delle discariche e delle altre fonti di contaminazione ancora attive; procedere alla bonifica della matrici ambientali che all’esito della completa rimozione dei rifiuti risultassero contaminate.
Con l’avviso che, in caso di mancato adempimento nel termine di 30 giorni dal ricevimento della diffida, provvederà l’Amministrazione in danno.
2.1. - La ricorrente, quanto alla discarica “Tre Monti”, espone che il conferimento sarebbe cessato sin dal 1973, quindi oltre trenta anni prima dell’adozione del provvedimento impugnato, con la conseguente decorrenza del termine di cui all’articolo 303 lett. g) del codice dell’ambiente; essendo ogni attività di discarica cessata nel 1973, poi, non sarebbe neanche applicabile il d.p.r. n. 915 del 1982, entrato in vigore 10 anni dopo, mentre la normativa in vigore non prevedeva alcuna ipotesi di discarica abusiva, come peraltro dimostrerebbe l’articolo 31 del medesimo d.p.r. che, nel regolamentare il regime transitorio per chi intendesse proseguire l’attività, nulla ha disposto per il periodo pregresso; dal 2008 al 2011 l’attuale ricorrente avrebbe concorso, su sollecitazione del Commissario straordinario competente, alla livellazione e copertura del terreno ed alla sistemazione delle sponde del fiume Pescara.
2.2. Quanto alla discariche 2A e 2B, la ricorrente rileva che le medesime non sono di sua proprietà ma della società Solvay; in particolare per la 2A, la soc. Montefluos (poi Ausimont ed oggi Solvay), in data 11 marzo 1982 avrebbe chiesto l’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività di discarica, già in atto da diversi anni, ai sensi dell’articolo 31 del d.p.r. succitato, accolta dalla Regione in data 5 agosto 1987, e poi la discarica sarebbe stata chiusa nel 1990 come da dichiarazione della soc. Montefluos (poi Ausimont ed oggi Solvay); per la 2B, la soc. Montefluos (poi Ausimont ed oggi Solvay), in data 22 dicembre 1986 avrebbe proposto domanda di autorizzazione ad una discarica per rifiuti speciali, rilasciata dalla Giunta regionale in data 5 maggio 1988, e poi anche tale discarica sarebbe stata chiusa nel 1990; per entrambe tali discariche, poi, Solvay avrebbe provveduto, nel 2010, alla costruzione di una barriera idraulica e alla realizzazione di una copertura impermeabile; non vi sarebbe inoltre alcuna prova circa l’epoca dell’eventuale deposito di rifiuti eccedenti le autorizzazioni da parte della soc. Montefluos (poi Ausimont ed oggi Solvay).
2.3. - In merito alla normativa applicabile, la ricorrente espone che l’Amministrazione avrebbe errato nell’applicare l’articolo 3 comma 32 della legge n. 549 del 1995, secondo cui “Fermi restando l'applicazione della disciplina sanzionatoria per la violazione della normativa sullo smaltimento dei rifiuti di cui al D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, e successive modificazioni, e l'obbligo di procedere alla bonifica e alla rimessa in pristino dell'area, chiunque esercita, ancorché in via non esclusiva, l'attività di discarica abusiva e chiunque abbandona, scarica o effettua deposito incontrollato di rifiuti, è soggetto al pagamento del tributo determinato ai sensi della presente legge e di una sanzione amministrativa pari a tre volte l'ammontare del tributo medesimo. Si applicano a carico di chi esercita l'attività le sanzioni di cui al comma 31. L'utilizzatore a qualsiasi titolo o, in mancanza, il proprietario dei terreni sui quali insiste la discarica abusiva, è tenuto in solido agli oneri di bonifica, al risarcimento del danno ambientale e al pagamento del tributo e delle sanzioni pecuniarie ai sensi della presente legge, ove non dimostri di aver presentato denuncia di discarica abusiva ai competenti organi della regione, prima della costatazione delle violazioni di legge. Le discariche abusive non possono essere oggetto di autorizzazione regionale, ai sensi dell'articolo 6 del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915”.
Ciò in quanto, a parte la sua espressa abrogazione ad opera del d.lgs. n. 152 del 2006, e già, implicitamente, da parte del d.lgs. n. 22 del 1997 (poi integrato dal d.m. n. 471 del 1999), la discarica Tre Monti sarebbe inattiva già dagli anni Settanta, mentre, quanto alla 2A e la 2B, anch’esse chiuse da oltre vent’anni, non vi sarebbe alcuna prova in ordine ad un uso non corretto delle medesime.
2.4. - Vi sarebbe peraltro una carenza di istruttoria, atteso che l’Amministrazione avrebbe agito sulla base di semplici ipotesi investigative avanzate dalla Procura della Repubblica, a tutt’oggi ancora al vaglio dei Giudici, in fase dibattimentale, nonché sulla base di una caratterizzazione del sito effettuata da Solvay “avente interessi contrastanti con quelli dell’odierna ricorrente” (cfr. pag 9 della memoria depositata il 17 marzo 2014).
2.5. - Il provvedimento impugnato sarebbe poi in contrasto con gli altri citati e di carattere meramente conservativo già adottati per mettere in sicurezza le discariche.
2.6. - I termini per provvedere, infine, sarebbero del tutto esigui in relazione all’entità delle opere richieste e peraltro non vi sarebbe la possibilità di provvedere in ragione del sequestro delle aree da parte dell’Autorità giudiziaria ordinaria.
3. - Si è costituito il Ministero dell’Ambiente, depositando anche una dettagliata relazione.
3.1. - In essa si evidenzia che dalle indagini condotte dalla locale Procura della Repubblica e, sempre nell’ambito del procedimento penale, dalla consulenza dell’Ispra, emergerebbe che nelle due discariche autorizzate sono stati smaltiti rifiuti diversi da quelli autorizzati, mentre in quella denominata Tre Monti ed anche nelle aree vicine a quelle autorizzate sono state realizzate vere e proprie discariche abusive.
3.2. - Quanto alla responsabilità di Montedison (oggi Edison), si evidenzia che la discarica Tre Monti è tutt’ora di proprietà di Edison spa e nel corso della caratterizzazione eseguita nell’ambito delle indagini penali di cui si è detto, così come dalla relazione tecnica dell’Ispra, sarebbe emerso il deposito incontrollato e senza alcuna impermeabilizzazione di rifiuti identificati come scarti della produzione industriale dello stabilimento di proprietà della medesima società (solventi clorurati, idrocarburi policiclici aromatici, metalli pesanti) e la contaminazione avrebbe interessato non soltanto il terreno ma anche la falda, determinando una contaminazione di 8 pozzi di captazione per l’acqua potabile, destinato a soddisfare il fabbisogno idrico-alimentare di tutta la Val Pescara.
Con riguardo alle aree 2A e 2B, rispettivamente occupanti una superficie di 1,2 e 0,8 ettari, in esse è stata autorizzata la prosecuzione di attività di discarica in favore della soc. Montefluos, dopo l’entrata in vigore del d.p.r. n. 915 del 1982, nella prima per rifiuti urbani e speciali, nella seconda per rifiuti speciali industriali derivanti da processi produttivi.
Si precisa, poi, che la Montedison (prima Montecatini) ha mantenuto la proprietà dell’intero sito industriale di cui si discute sino al 1981, anno in cui il medesimo è stato conferito alla soc. Ausimont, spa controllata al 100% dal Montedison spa, che quindi avrebbe continuato a mantenere un’ingerenza e controllo nella sua attività, anche in materia ambientale, almeno fin quando, nel 2002, le azioni di Ausimont sono passate da Montedison a Solvay spa che ha acquisito per incorporazione Ausimont e quindi è succeduta nella gestione del sito limitatamente alle aree indicate come discariche 2A e 2B, atteso che Montedison (poi Edison) ha mantenuto la proprietà di quelle ad esse limitrofe e pur interessate da discarica abusiva e di quelle della zona denominata Tre Monti (a tal proposito, nella memoria del 17 marzo 2014, la ricorrente replica che l’imputazione a responsabilità della controllante per le attività poste in essere dalla società figlia sarebbe solo oggi codificato dall’articolo 2497 codice civile secondo la formulazione introdotta nel nostro ordinamento dalla legge n. 6 del 2003, e quindi tale principio non sarebbe applicabile a fatti avvenuti tra il 1991 e il 2002; fino a quel momento, ex articolo 2359 codice civile, il controllo rilevante nell’ambito di un gruppo societario sarebbe potuto essere solo quello di tipo contrattuale; inoltre la giurisprudenza sia di quel periodo che attuale escluderebbe, in virtù dell’indipendenza soggettiva, la responsabilità in capo alla capogruppo dell’attività svolta dalla controllata seppure in attuazione della politica del gruppo, salvo ipotesi eccezionali e tassative; inoltre la medesima ricorrente evidenzia che la fusione per incorporazione di Ausimont in Solvay avrebbe determinato una vicenda analoga alla successione a titolo universale, secondo i principi affermati in giurisprudenza, e quindi sarebbe quest’ultima ad averne ereditato tutti gli obblighi).
3.3. - E’ stato poi chiarito, sempre dall’Amministrazione resistente, che gli interventi di messa in sicurezza del sito Tre Monti sono stati in realtà effettuati dal Commissario straordinario con la partecipazione economica di Montedison ma si sarebbero rivelati a tutt’oggi inefficaci, sarebbero cioè non definitivi e parziali (nella successiva memoria, la ricorrente rimarca la circostanza, apparentemente contraddittoria, che, da lato, l’Amministrazione nella relazione, a pag. 6, afferma che le opere di messa in sicurezza e di caratterizzazione del sito da parte del Commissario straordinario non sono terminate, dall’altro, che esse si sono comunque già rivelate parziali e non definitive; inoltre dal verbale della conferenza di servizio del 6 dicembre 2012 emergerebbe la necessità di ulteriori rilievi e caratterizzazioni del sito per verificare se sia sufficiente o meno una messa in sicurezza permanente del medesimo).
Quanto alle altre due discariche, 2A e 2B, viceversa, è stata la stessa Solvay nel 2004, dopo essere subentrata nella gestione, a rinvenire e segnalare, previa caratterizzazione, depositi non autorizzati di rifiuti industriali.
Dall’esito delle indagini da quest’ultima condotte e trasmesse al Ministero dell’Ambiente, in particolare, è emerso che in tali discariche a quella data risultavano smaltiti rifiuti non autorizzati e pertanto la struttura di protezione contro il percolamento non aveva impedito l’infiltrazione di essi nel sottosuolo e nelle falde acquifere (metalli pesanti, idrocarburi, composti alifatici clorurati cancerogeni).
Successivi monitoraggi effettuati da Solvay nel 2011 hanno poi confermato le concentrazioni di tali sostanze inquinanti in prossimità delle aree di discarica e di nei piezometri.
3.4. - Oltre alle riferite circostanza che imputano la gestione di tutte e tre le discariche alla ricorrente, l’Amministrazione resistente ha altresì evidenziato che la medesima sarebbe da ritenersi responsabile per il sol fatto di avere omesso la comunicazione di cui all’articolo 9 del d.m. n. 471 del 1999, in presenza di contaminazioni ancora attive (a tal proposito, la ricorrente ha replicato sostenendo genericamente che la dichiarazione sarebbe stata presentata da Ausimont, unica obbligata a presentarla, e che comunque tale dichiarazione non si doveva accompagnare ad attività di messa in sicurezza in urgenza, prevista solo in via eventuale dall’articolo 9 cit.; in ogni caso tale violazione non sarebbe stata indicata nel provvedimento impugnato).
Quanto alla non applicabilità della fattispecie di cui all’articolo 3 comma 32 della legge n. 549 del 1995 a discariche effettuate in periodo antecedente all’entrata in vigore del d.p.r. n. 915 del 1982, l’Amministrazione evidenzia che tale articolo 3 comma 32 ha portata più generale, riguardando ogni deposito incontrollato di rifiuti e non solo l’esercizio di discariche non autorizzate ex d.p.r. n. 915 del 1982; condotta peraltro già da considerare comunque illecita in virtù dell’articolo 2050 del codice civile, nonché, ancor prima del d.p.r. n. 915 del 1982, dalla legge n. 319 del 1976.
Si contesta poi l’avvenuta abrogazione del d.p.r. n. 915 del 1982 da parte del d.lgs. n. 152 del 2006, e in ogni caso si ritiene che l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi (ben più radicale della mera bonifica, quale riduzione della contaminazione) deriverebbe direttamente dall’obbligo di risarcimento del danno in forma specifica e quindi già ex articolo 18 della legge n. 489 del 1986, che trova applicazione agli eventi antecedenti all’entrata in vigore del d.lgs. n. 152 del 2006 (a tal proposito, la ricorrente replica rilevando che il risarcimento del danno ambientale non può comunque essere richiesto trascorsi i 30 anni di cui all’articolo 303 lett. g) del codice dell’ambiente).
4. - All’udienza del 17 aprile 2014 la causa è passata in decisione.
1. Questioni preliminari
Come rilevato dall’Amministrazione resistente il ricorso è inammissibile, almeno in parte (laddove cioè impugna il provvedimento anche nella parte in cui si riferisce a terreni non attualmente di proprietà della ricorrente, e ammesso che il suo contenuto possa ritenersi scindibile, essendo comunque unico il danno ambientale considerato), atteso che il provvedimento impugnato riguarda anche le due discariche situate sui terreni attualmente di proprietà delle soc. Solvay, e, come rilevato dalla stessa ricorrente, quest’ultima impresa ha interessi contrastanti rispetto a quelli della ricorrente medesima (cfr. pag. 9 delle memorie depositate il 17 marzo 2014), sicchè essa doveva ricevere la notifica del ricorso introduttivo, in quanto, pur non espressamente menzionata nel provvedimento impugnato, risulta da esso facilmente individuabile, atteso appunto il riferimento espresso alle due discariche 2 A e 2 B che insistono sui terreni di sua proprietà (come chiarito da Consiglio di Stato, a. pl., sentenza n. 2 del 1996, per controinteressato si deve intendere quel soggetto titolare di un interesse alla conservazione dell'atto, che il ricorrente intende superare, individuato nell'atto stesso o facilmente individuabile).
Difatti, appare evidente che, ove il ricorso dovesse risultare fondato, in mancanza dell’individuazione del responsabile, quantomeno l’onere della bonifica graverebbe in capo al proprietario (seppure cioè non l’obbligo di provvedervi in via diretta, cfr. Consiglio di Stato a.pl., sentenza n.25 del 2013, che ha rimesso alla Corte di Giustizia la questione interpretativa se i principi dell'Unione europea in materia ambientale sanciti dall'art. 191, par. 2, del trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 - art. 1 e 8 n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando - ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli art. 244, 245, 253 d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all'Autorità amministrativa di imporre l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell'inquinamento, prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi di bonifica).
Per tali ragioni Solvay spa si presentava, sin dal momento della instaurazione del giudizio, come un controinteressato palese e non occulto o sopravvenuto (cfr. per tali categorie, Consiglio di Stato, sentenza n. 652 del 2014), e quindi le doveva essere notificato il ricorso, ai fini dell’ammissibilità, ai sensi dell’articolo 41 comma 2 c.p.a..
2. Questioni di merito.
In ogni caso, il ricorso è infondato.
In sostanza, con il provvedimento impugnato è stato ingiunto a Edison spa di provvedere, entro 30 giorni, alla rimozione di tutti i rifiuti depositati in modo incontrollato nelle aree individuate come “Tre Monti”, 2A e 2B, situate nei pressi dello stabilimento industriale di proprietà Edison; nonché al ripristino integrale dello stato dei luoghi mediante la rimozione delle discariche e di altre fonti di contaminazione ancora attive; infine di procedere alla bonifica delle matrici ambientali che all’esito della rimozione dei rifiuti dovessero risultare contaminate.
2.1. Sulla riferibilità causale dell’inquinamento agli stabilimenti nel periodo in cui erano gestiti dal Gruppo Montecatini-Montedison-Edison.
Edison spa contesta innanzitutto che tale attività sia a sé imputabile in punto di fatto.
Occorre premettere che nel diritto processuale amministrativo, così come in quello civile, quanto all’onere della prova, specie con riferimento all’accertamento del nesso causale in materia di evento illecito, vige il principio del “più probabile che non” (cfr. Tar Lazio Roma, sentenza n. 998 del 2014; Cassazione sentenza n. 21619 del 2007) e non invece quello penalistico che richiede una certezza al di là di ogni ragionevole dubbio (cfr. Cassazione civile, sentenza n. 13214 del 2012).
Ciò premesso, non appare analiticamente ed efficacemente contestato che nei siti in esame sono state rinvenute sostanze altamente inquinanti e che esse costituiscono scarti e prodotti industriali tipici dell’attività ivi esercitata da Edison spa.
Dalla relazione Ispra, redatta per conto del Ministero dell’ambiente per il procedimento penale n. 12/2006 RGNR e depositata agli atti del presente giudizio il 17 marzo 2014, risulta che il polo industriale di Bussi sul Tirino (Pe) si sviluppa lungo l’asse dell’omonimo fiume, a monte della sua confluenza con il fiume Pescara, su ambo i lati, per una superficie complessiva di circa 191.000 mq.
Circa 2 km a valle del polo industriale è situato il campo pozzi di Colle S. Angelo, che concorre all’approvvigionamento di acqua potabile di molti comuni della Val Pescara, tra cui, la stessa città di Pescara.
Risulta inoltre che tale polo è stato gestito inizialmente da diverse aziende che sono state tutte man mano acquisite dalla soc. Montecatini negli anni Trenta.
Dagli anni Sessanta e fino al 1990 su quelle aree si è insediata anche la SIAC (società italiana additivi per carburanti) che ha ivi prodotto antidetonanti per benzine fino al 1990.
La Montecatini, poi riorganizzata e suddivisa in varie società (tra cui Ausimont e Montefluos spa), ha mantenuto la proprietà delle aree e degli impianti fino al 2002, allorchè i medesimi sono passati sotto il controllo di Solvay spa attraverso l’acquisizione per incorporazione di Ausimont spa.
Dal 2003, poi, la Solvay spa di è trasformata in Solvay Solexis spa e nel 2005 è stata fondata Solvay Chimica Bussi spa, che attualmente è proprietaria degli impianti e li gestisce, mentre la Solvay Solexis ha la proprietà delle aree.
Gli impianti che compongono il polo industriale in esame sono tre: l’impianto cloro-soda, in esercizio dall’insediamento del polo e a tutt’oggi attivo; l’impianto cloro-metani, realizzato negli anni Sessanta e dismesso nel 2007; l’impianto SIAC, realizzato nel 1966 e dismesso nel 1990.
La contaminazione dei suoli è dovuta principalmente a tre tipi di sostanze: i composti organici clorurati, il mercurio e il piombo; e queste sostanze sono state utilizzate o prodotte proprio nei tre impianti appena indicati.
Tale contaminazione, inoltre, è avvenuta a causa di perdite delle strutture impiantistiche medesime o per via di una scorretta gestione dei rifiuti dello stabilimento.
La circostanza che i rilasci siano dovuti agli impianti è stata riscontrata attraverso l’analisi dei luoghi in prossimità di essi e del tipo di sostanze ivi rinvenute, riconducibili a quelle prodotte o utilizzate nell’impianto stesso: per il mercurio il pennacchio (maggiore concentrazione) di contaminazione è stato rinvenuto proprio nell’area dello stabilimento cloro-soda, i composti organici clorurati nell’area di quello cloro-metani, il piombo nell’area dello stabilimento SIAC.
In particolare, si è accertato che tali sostanze di rifiuto erano costituite dai depositi sul fondo dei serbatoi e dalle acque derivanti da operazioni di pulizia e di manutenzione, oltre che da residui di produzione (specie per quanto riguarda i cloro-metani, risultanti dal processo di distillazione dei cloro-metani).
Inoltre, alcuni inquinanti (in particolare i clorurati) hanno contaminato alcuni materiali utilizzati nelle apparecchiature del processo produttivo poi oggetto di illecito smaltimento nelle discariche, sia in quelle abusive sia nelle due autorizzate per rifiuti diversi (ma soprattutto nella discarica 2B).
Tali rifiuti sono poi stati anche utilizzati come materiale di riporto per interventi di riempimento e livellamento all’interno e all’esterno delle aree aziendali.
Ciò è stato accertato con il rinvenimento di composti organici clorurati, mercurio e piombo in prossimità di tali opere di livellamento e riempimento.
Con riferimento agli altri inquinanti rinvenuti nei suoli aziendali e nelle acque delle falde (arsenico, cromo, nichel, boro, idrocarburi, composti organo-alogenati), non si è riusciti ad associarli a specifiche lavorazioni degli stabilimenti in questione.
In ogni caso, le acque, sia superficiali che sotterranee, sono risultate contaminate principalmente dalle stesse succitate tre categorie di sostanze individuate quali scarti aziendali e rinvenute in prossimità degli impianti e nelle discariche abusive e autorizzate per rifiuti diversi.
In particolare, in quelle superficiali sono stati rinvenuti il piombo (che, secondo la classificazione IARC – agenzia internazionale per la ricerca sul cancro – è classificato nel gruppo 2A, cioè probabile cancerogeno per l’uomo) e alcuni composti organici clorurati (tricloroetilene –anch’esso 2A quindi probabile cancerogeno, sospettato di provocare alterazioni genetiche, provoca irritazione cutanea, è inoltre nocivo per gli organismi acquatici, con effetti di lunga durata - , tetracloroetilene –2A, quindi probabile cancerogeno, tossico per gli organismi acquatici e con effetti di lunga durata - , 1,2 dicloroetilene –nocivo se inalato e nocivo per gli organismi acquatici e con effetti di lunga durata -, cloroformio o tricloroetano –2B quindi possibile cancerogeno per l’uomo, è inoltre nocivo se ingerito-, tetraclorometano –2B, quindi possibile cancerogeno per l’uomo, è inoltre tossico se inalato, se viene a contatto con la pelle e se ingerito; è anche nocivo per gli organismi acquatici e ha effetti di lunga durata - ); in quelle sotterranee sono stati rinvenuti il piombo (di cui si è detto), il mercurio –letale se inalato, provoca danni agli organi in caso di esposizione prolungata o ripetuta, tossico per gli organismi acquatici, con effetti di lunga durata - e alcuni composti organici clorurati di cui si è già riferito (tricloroetilene, tetracloroetilene, 1,2 dicloroetilene, cloroformio, tetraclorometano, esacloroetano –2B, possibile cancerogeno per l’uomo, nocivo per inalazione, contatto con la pelle e per ingestione -).
L’inquinamento delle acque sotterranee con tali sostanze ha determinato una perdita di potabilità delle acque dell’acquedotto della Val Pescara, accertata sin dal 2002 (cfr. pag. 13 della relazione dell’Ispra).
La contaminazione dei suoli aziendali e delle discariche (con una profondità da 2,5 a 7,5 metri) è stata riscontrata nel periodo dal 2004 al 2007 ad opera dei tecnici della Solvay prima e dei consulenti nominati nel procedimento penale poi; quella delle acque della falda, benché emersa fin dai primi anni Novanta, è stata caratterizzata solo negli anni Duemila (come si è appena detto, in particolare, nel 2002 è stato accertato il superamento dei limiti previsti per il consumo umano).
Tali dettagliate e circostanziate evidenze non risultano oggetto di specifiche e documentate contestazioni da parte della ricorrente, sicchè ad avviso del Collegio esse costituiscono prova della circostanza che gli inquinamenti accertati sia nei siti aziendali che extra aziendali (le discariche abusive e quelle autorizzate per rifiuti diversi) sono riconducibili alle attività produttive svolte negli stabilimenti del polo industriale in esame; e ciò per l’ovvia circostanza che essi costituiscono gli scarti tipizzati di tale produzione e sono stati rinvenuti sia in prossimità dei siti aziendali sia nei riporti di terra e nelle discariche.
E’ ovvio pertanto che i responsabili di detto inquinamento non possono che essere individuati, sempre secondo il criterio del “più probabile che non”, in coloro che hanno gestito tali impianti nel periodo antecedente a quello in cui gli inquinamenti hanno iniziato ad essere rilevati.
Considerate inoltre l’estensione e la profondità di tale inquinamento, nonché i sui notevoli effetti già causati sull’ambiente (dati compiutamente analizzati ed esposti nella relazione Ispra), appare evidente come si verta su un’attività di inquinamento protratta e risalente nel tempo.
A conferma di un’attività inquinante risalente e protratta nel tempo, v’è anche il rinvenimento, assieme alle altre sostanze, di notevoli concentrazioni di piombo, che, per le ragioni indicate, è ricollegabile all’impianto della società SIAC, realizzato nel 1966 e dismesso già nel 1990.
Benchè il superamento dei limiti di potabilità sia stato accertato solo nel 2002, già da metà degli anni Novanta, tuttavia, sono stati effettuati riscontri della compromissione delle acque con tali agenti inquinanti (in particolare i composti organo-alogenati, cfr. pag. 30 relazione Ispra).
Al cospetto di tale quadro indiziario, sia in ordine all’epoca dell’inquinamento che in ordine alle sue causa, la Edison non avrebbe potuto limitarsi a ventilare genericamente il dubbio circa una possibile responsabilità di terzi, ma avrebbe dovuto provare e documentare con pari analiticità la reale dinamica degli avvenimenti e indicare a quale altra impresa, in virtù di una specifica e determinata causalità, debba addebitarsi la condotta causativa dell’inquinamento (cfr., su analoga controversia che ha visto coinvolta Edison spa in altra vicenda di inquinamento ambientale, Consiglio di Stato, sentenza n. 6055 del 2008).
A tal proposito, è appena il caso di osservare che, anche se Solvay spa è attualmente proprietaria di parte delle aree, “l’ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la norma configuri un’ipotesi legale di responsabilità oggettiva” (cfr. Tar Napoli, sentenza n. 1043 del 2014).
2.2. Sulla responsabilità di Edison spa per le condotte delle varie società operative del gruppo Montedison spa che si sono succedute nella gestione degli impianti.
Tutto ciò premesso, non risulta contestato che, fino al 2002 (data in cui, come evidenziato, gli effetti dello specifico inquinamento causato dagli stabilimenti hanno già cominciato ad essere rilevati e documentati), a gestire il sito industriale sia stato principalmente il gruppo Montecatini-Montedison-Edison nelle varie denominazioni e organizzazioni proprietarie che si sono succedute.
Dalla caratterizzazione effettuata nel 2007 dai consulenti tecnici nel procedimento penale (vds. pagg. 16 e seg. relazione Ispra), è emerso che nella discarica abusiva di località Tre Monti sono stati rinvenuti agenti inquinanti quali piombo, mercurio e solventi organici clorurati; in quella autorizzata nel 1983 come 2A e per il deposito di soli rifiuti inerti (ed anche nell’ulteriore discarica abusiva inquinante ad essa adiacente e divisa in due aree), sono stati rinvenuti mercurio, piombo e in minor misura composti organici clorurati; in quella autorizzata nel 1988 come categoria 2B per rifiuti degli impianti dello stabilimento (ma diversi dagli agenti inquinanti di cui si discute), sono stati rinvenuti principalmente composti organici clorurati.
Benchè, come illustrato, l’inquinamento da piombo appaia dalla relazione Ispra principalmente riconducibile all’attività della SIAC, tuttavia, tra i motivi di ricorso, non ve n’è alcuno riferito alla circostanza che a tale inquinamento abbia concorso in via autonoma anche la SIAC (peraltro non evocata in giudizio) e che quindi anche quest’ultima debba essere destinataria del provvedimento impugnato; non risulta neanche dettagliatamente e specificamente confutato, inoltre, che anche quest’ultima sia riconducibile al gruppo Montecatini-Montedison-Edison.
Ferme restando le esposte considerazioni che, in virtù del periodo temporale, del tipo di sostanze e dei luoghi del loro rinvenimento, inducono a riferire l’inquinamento principalmente all’attività degli impianti nel periodo in cui era il gruppo Montecatini-Montedison-Edison a gestirli, appare anche inammissibile il motivo con cui la ricorrente tende a rilevare che obbligata al ripristino ed alla bonifica dovrebbe essere Solvay spa, per aver incorporato Ausimont spa (e a tal fine la prospettazione non muta, sia che sia accolga la tesi giurisprudenziale della continuità dei soggetti incorporati, secondo la disciplina vigente prima della riforma del diritto societario del 2003, sia quella della successione per atto tra vivi, essendo Ausimont spa comunque esistente nella vigenza del d.lgs. n. 22 del 1997, cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 6055 del 2008), società operativa del medesimo gruppo, atteso che, in tal caso, la ricorrente medesima mirerebbe ad un annullamento in parte qua del provvedimento, e proprio nella parte in cui il controinteressato (Solvay spa, appunto) appare immediatamente individuabile (per essere l’attuale gestore di quei medesimi impianti) e quindi avrebbe dovuto essere sin dall’origine evocato in giudizio (non essendovi altri controinteressati evocati ex articolo 41 comma 2 c.p.a.) con la notifica del ricorso principale.
In ogni caso, tale censura non varrebbe ad escludere la responsabilità del gruppo Montecatini-Montedison-Edison (e quindi oggi di Edison spa) per l’attività di inquinamento compiuta in quel sito, sino al 2002, anche dalla propria società operativa Ausimont spa, e i cui effetti sulle acque sono stati accertati già da metà degli anni Novanta e poi nel 2002, quindi ancor prima della caratterizzazione effettuata dalla stessa Solvay nel 2004.
Peraltro, oltre alle considerazioni che si approfondiranno a breve in merito alla responsabilità di gruppo, è opportuno osservare sin d’ora che, possedendo il gruppo Montedison-Edison in tale periodo il 100% delle azioni di Ausimont spa, sotto il profilo sostanziale appare più equo allocare gli oneri ripristinatori e di bonifica a carico di chi ha avuto effettivamente il controllo e la direzione dell’attività della società operativa, nel periodo in cui essa ha determinato l’inquinamento, e ne ha tratto utilità.
Risulta dagli atti di causa e dalle produzioni delle parti che il gruppo societario in esame (Montecatini-Montedison-Edison) ha mantenuto la proprietà dell’intero sito industriale di cui si discute sino al 1981, anno in cui il medesimo sito è stato conferito alla soc. Ausimont spa, pur sempre controllata al 100% dal Montedison spa, che quindi ha continuato a mantenere un’ingerenza e controllo sulla sua attività, anche in materia ambientale, almeno fin quando, nel 2002, le azioni di Ausimont sono state cedute da Montedison a Solvay spa che ha acquisito per incorporazione Ausimont e quindi è succeduta nella gestione del sito limitatamente alle aree indicate come discariche 2A e 2B, atteso che Montedison (poi Edison) ha mantenuto la proprietà di quelle ad esse limitrofe (e pur interessate da discarica abusiva) e di quelle della zona denominata Tre Monti.
A fronte di questo chiaro quadro soggettivo, non risulta peraltro contestato che tutte le società che, fino al 2002, si sono succedute nella proprietà e gestione del sito industriale siano riconducibili al gruppo Montedison spa (poi rinominata Edison spa), attraverso varie architetture societarie.
Quello che la ricorrente contesta in questa sede è che la responsabilità per illeciti delle controllate possa ricadere sulla controllante o comunque sull’intero gruppo, inteso a tal fine come soggettività unica e non più distinta nelle varie persone giuridiche autonome che lo compongono (cfr. pag. 11 delle memorie depositate in data 17 marzo 2014).
Ciò premesso, atteso che si verte in materia comunque di rilievo anche comunitario, e quindi nell’applicazione di direttive comunitarie attuate nel nostro ordinamento, il Collegio ritiene che ai fini della loro corretta applicazione e quindi dell’accertamento di illeciti ambientali commessi da gruppi societari debba essere accolta la concezione sostanzialistica di impresa fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria (giurisprudenza maturata soprattutto in tema di concorrenza), e quindi applicato il principio della prevalenza dell’unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, secondo cui per illeciti commessi dalle società operative la responsabilità si estende anche alle società madri, che ne detengono le quote di partecipazione in misura tale, come nel caso di specie, da evidenziare un rapporto di dipendenza e quindi escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate stesse (nel caso di controllo totalitario, come nel caso di specie per la Ausimont spa, poi, l’assenza di autonomia decisionale è presunta, cfr. cfr. Corte di Giustizia CE, 25 ottobre 1983, causa 107/82).
Ne consegue che la responsabilità in capo alla ricorrente Edison spa per le attività esercitate nel tempo dalle varie società del gruppo deriva direttamente da tali principi e quindi a prescindere dalla contestata applicabilità degli articoli 2497 e 2497 sexies c.c..
Il criterio comunitario testè richiamato, peraltro, attiene all’imputazione della responsabilità intera e finale in capo alla holding e al gruppo nel suo complesso e non alla misura del concorso nella responsabilità, sicchè a tale applicazione non osta la previsione di cui all’articolo 9 della direttiva 2004/35/Ce, secondo cui “la presente direttiva lascia impregiudicata qualsiasi disposizione del diritto nazionale riguardante l'imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del danno, in particolare per quanto concerne la ripartizione della responsabilità tra produttore e utente di un prodotto”.
In ogni caso, tale disposizione, nel lasciare impregiudicate le disposizioni di diritto nazionale, non esclude che, soprattutto per l’ipotesi di mancanza di queste, il criterio debba essere preferibilmente rinvenuto in principi di matrice comunitaria diversi e ulteriori da quelli contenuti nella direttiva stessa.
Ciò, specie se tale applicazione sostanzialistica favorisce l’effetto utile dell’applicazione di principi fondamentali della materia comunitaria in questione, quale quello secondo cui “chi inquina paga” (espresso già nell’articolo 15 della direttiva n. 91/156/CEE, attuata con il d.lgs. n. 22 del 1997).
Al fine di rinforzare le considerazioni sin qui svolte, giova ricordare che anche il Consiglio di Stato (cfr. sentenza n. 6055 del 2008) ha affermato l’applicabilità dei principi sostanzialistici elaborati dalla Corte di Giustizia in materia di concorrenza (nella specie quello della successione economica tra imprese) ai fini dell’individuazione del soggetto obbligato alla bonifica e al ripristino ambientale, proprio in virtù della effettività che tali principi sostanzialistici assicurano all’attuazione del canone fondamentale secondo cui “chi inquina paga”: “In particolare, nei provvedimenti contingibili e urgenti l’imputazione soggettiva degli obblighi di attivazione, discrezionalmente individuati dall’amministrazione procedente, può motivatamente seguire anche le diverse regole della successione c.d. “economica” (per un’applicazione della successione economica in materia di concorrenza, è utile il richiamo alla recente sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee 11.12.2007, in causa C-280/06, pronunciata su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato) che consentono, per la migliore e immediata tutela di fondamentali interessi superindividuali, di derogare al generale principio della personalità e, in ossequio al canone del “chi inquina paga”, di onerare chi abbia beneficiato delle valenze economiche, anche latenti, di un bene-impresa dei correlativi costi dell’internalizzazione delle diseconomie esterne prodotte”.
Orbene, nel caso di specie, il Collegio ritiene applicabile il principio comunitario dell’unicità economica del gruppo, al fine di allocare l’obbligo di bonifica su chi per lungo tempo si è giovato di tali attività realizzate anche mediante società operative.
L’illustrato principio della responsabilità di gruppo fatto proprio dalla risalente giurisprudenza comunitaria nella materia degli illeciti concorrenziali, ad avviso del Collegio, diviene in ogni caso un principio generale di diritto amministrativo interno (nel cui ambito rientrano indubbiamente gli ordini di ripristino e bonifica ambientale, che sotto il profilo della fattispecie sostanziale, oltre che della giurisdizione, si distinguono nettamente dall’obbligo risarcitorio di cui all’articolo 2043 c.c., cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 6055 del 2008), e quindi deve essere applicato dalle Amministrazioni nell’adottare anche i provvedimenti del tipo in esame, per via dell’effetto “spill over” dei principi comunitari, oggi del resto codificato espressamente all’articolo 1 della legge n. 241 del 1990.
2.3. Sulla legittimità di ordinare il ripristino e la bonifica per attività inquinanti compiute prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 22 del 1997.
Affermata l’imputabilità in capo a Edison spa della responsabilità, ai fini della presente controversia, in ordine agli inquinamenti in esame, occorre esaminare le ulteriori censure concernenti una presunta impossibilità di ordinare il ripristino e la bonifica (cioè comportamenti attivi ed ulteriori rispetto al mero obbligo risarcitorio, derivante già in virtù della previsione di cui all’articolo 2043 c.c.), per fatti che si assumono avvenuti prima dell’entrata in vigore del d.p.r. n. 915 del 1982, della legge n. 489 del 1986, della legge n. 549 del 1995, del d.lgs. n. 22 del 1997, del d.m. n. 471 del 1999 e del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, che tali obblighi avrebbero introdotto e disciplinato.
Rilevato che appare prevalente, oltre che condivisibile, la tesi secondo cui non vi è continuità tra la previsione dell’obbligo risarcitorio derivante in via generale dalla violazione del precetto del neminem laedere (ex articolo 2043 e seg. c.c.) e quella di obblighi specifici di ripristino e bonifica in materia ambientale (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 6055 del 2008), il Collegio condivide la giurisprudenza secondo cui (cfr. Tar Toscana, sentenza n. 573 del 2011) l'inquinamento è una situazione di danno ingiusto che si rinnova e aggrava nella sua lesività e quindi di illecito permanente, in quanto esso perdura e si aggrava fino a che non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro i limiti normativamente accettabili.
In quanto situazione di danno permanente, la responsabilità di chi lo pone in essere può essere scissa in due condotte, una commissiva, generatrice dell’inquinamento stesso, ed una omissiva, laddove ci si astiene dal porre in essere quelle condotte per eliminare la situazione dannosa e permanente causata (in base al principio dell’assunzione di una posizione di garanzia secondo Consiglio di Stato, sentenza n. 6055 del 2008).
Ciò comporta che già le previsioni del d.lgs. n. 22 del 1997 possano essere applicate a qualunque sito che risulti inquinato sotto la sua vigenza, a prescindere dalla circostanza che il fatto o i fatti generatori della situazione patologica siano anche antecedenti (secondo quanto sopra specificato) all’entrata in vigore del medesimo d.lgs..
Già le previsioni di cui al d.lgs. n. 22 del 1997, giustificano pertanto l’ordine di ripristino e bonifica ambientale nel caso di specie.
Inoltre, l’ordine di ripristino e bonifica ambientale può essere rivolto al soggetto responsabile dell’inquinamento anche qualora quest’ultimo non sia più nella disponibilità delle aree, com’è almeno in parte nel caso di specie (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 5283 del 2007).
Ne consegue che appaiono giustificati e supportati da un’adeguata previsione normativa (articolo 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 – oggi abrogato dall'articolo 264, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ma con una sostanziale continuità di disciplina, cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 6055 del 2008 - come del resto evidenziato anche nella relazione dell’Amministrazione resistente, depositata in atti dall’Avvocatura erariale in data 17 marzo 2014, cfr. pag. 15) gli ordini di ripristino e bonifica enunciati nel provvedimento impugnato, a prescindere dalla disciplina normativa invocata formalmente dalla Pa (l’errore di sussunzione normativa appare nella specie meramente formale, da un lato, non incidendo sulla legittimità sostanziale del provvedimento, per tutte le considerazioni espresse, dall’altro, consentendo comunque di intendere i soggetti, il tipo, l’oggetto e la causa del provvedimento adottato, come dimostra la difesa svolta dalla ricorrente; esso pertanto si risolve in un errore di motivazione non invalidante, anche ai sensi dell’articolo 21 octies della legge n. 241 del 1990, ed anche in considerazione dei chiarimenti forniti nella citata memoria del 17 marzo 2014 dalla difesa erariale) .
Del resto, l’articolo 3 comma 32 della legge n. 549 del 1995, citato dall’Amministrazione nel provvedimento, fa salve proprio le disposizioni, anche successive, che prevedono la bonifica e il ripristino.
2.4. Sulle altre questioni di merito.
2.4.1. Quanto alla circostanza che sarebbe decorso il termine di cui all’articolo 303 lett. g) del codice dell’ambiente, secondo cui la parte sesta del d.lgs. n. 152 del 2006, riguardante tra l’altro il risarcimento del danno ed il ripristino ambientale, “non si applica al danno in relazione al quale siano trascorsi più di trent'anni dall'emissione, dall'evento o dall'incidente che l'hanno causato”; al di là di ogni ulteriore considerazione appare innanzitutto opportuno evidenziare che, per le ragioni già chiarite, il danno ambientale di cui si discute si è verificato anche con una condotta omissiva di carattere permanente.
In ogni caso, i periodi relativi alla formale autorizzazione delle discariche nulla provano in ordine alle circostanza di tempo degli sversamenti e depositi del tutto abusivi di cui si discute, tanto più che essi riguardano sostanze non ricomprese nelle medesime autorizzazioni.
2.4.2. Quanto alla presunta carenza istruttoria, si è dato atto della circostanziata analisi dell’Ispra, basata pure non solo sulle risultanze degli accertamenti compiuti dai tecnici della Solvay ma anche di quelli compiuti dai periti nominati nel procedimento penale più volte menzionato.
A fronte di tale analisi, chiara, esaustiva e logicamente coerente, come già evidenziato, la ricorrente avrebbe dovuto indicare, in modo altrettanto chiaro e circostanziato, altre specifiche cause di inquinamento di quei siti, rimasti nella disponibilità del gruppo Montedison-Edison fino al 2002, quando erano già emersi i primi segni documentati degli effetti poi confermati dalle successive caratterizzazioni del 2004 e del 2007.
2.4.3. Con riferimento alla circostanza che l’Amministrazione avrebbe già disposto alcune attività di messa in sicurezza, ad avviso del Collegio essa non dimostra alcuna contraddittorietà nell’azione amministrativa, in considerazione del fatto che le attività di messa in sicurezza hanno finalità preventive di un ulteriore aggravio del danno, e quindi sono distinte funzionalmente da quelle di ripristino e bonifica.
Tra l’altro, l’Amministrazione ha chiarito e documentato, senza alcuna contestazione specifica e di pari analiticità di parte ricorrente, che tali interventi di messa in sicurezza si sono rivelati allo stato del tutto inadeguati per evitare l’aggravamento del danno, in ogni caso già prodotto.
2.4.4. Quanto ai termini per provvedere, il provvedimento impugnato dispone l’esecuzione in danno “in mancanza di tempestivo e spontaneo adempimento nel termine di 30 giorni dal ricevimento dell’atto” .
Rilevato che il fondamento dell’obbligo di ripristino è da individuare già nell’articolo 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (che, come già evidenziato, è oggi abrogato dall'articolo 264, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ma con una sostanziale continuità normativa e di disciplina, cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 6055 del 2008), si osserva che esso prevede una procedura che impone, nei trenta giorni, la presentazione alla Regione e al Comune di un piano di bonifica.
Anche dagli articoli 305 e 306 del d.lgs. n. 152 del 2006, che ratione temporis affidano la competenza al Ministero dell’Ambiente (esercitata correttamente nel caso di specie, secondo il principio tempus regit actum) e disciplinano il procedimento di adozione dell’ordine di ripristino in esame, emerge una procedura analoga: il Ministero dell’Ambiente ordina il rispristino e il destinatario della misura propone al massimo entro trenta giorni un piano che dovrà essere approvato dal medesimo Ministero, salve, s’intende, le misure cautelari di carattere immediato.
Il termine appare pertanto congruo con riferimento alla prima fase del ripristino, vale a dire alla predisposizione del piano di cui alla normativa testè indicata, salve la facoltà del Ministero di imporre in qualsiasi momento, ex articolo 305 del d.lgs. n. 152 del 2006, tutte le misure urgenti che dovessero rilevarsi opportune.
2.4.5. Quanto infine alla circostanza che il sito sarebbe attualmente sotto sequestro, è appena il caso di osservare che essa, da un lato, non è una causa di illegittimità del provvedimento impugnato, attenendo alla fase esecutiva e non a quella genetica di validità, dall’altro, non si presenta ex ante come una causa giustificativa assoluta dell’inadempimento o ritardo, dovendo quantomeno la ricorrente chiedere, all’Autorità che ha disposto il sequestro, la sua rimozione o la rideterminazione del vincolo reale (ove possibile), al solo fine di consentire quelle attività necessarie per eseguire l’ordine di bonifica e ripristino, con le cautele che saranno indicate (e anche sotto la vigilanza del Ministero resistente che ha ordinato la bonifica e il ripristino ambientale).
Solo l’eventuale diniego assoluto dell’Autorità medesima potrebbe essere allegato come motivo giustificativo del ritardo.
2.5. Sulle spese del giudizio.
Le spese seguono il criterio della soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo sezione staccata di Pescara (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile, secondo quanto indicato in motivazione, e comunque infondato.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione resistente, della somma complessiva di euro 5.000/00 a titolo di spese processuali, oltre iva e cpa, e accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Pescara nella camera di consiglio del giorno 17 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:
Michele Eliantonio, Presidente
Alberto Tramaglini, Consigliere
Massimiliano Balloriani, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 30/04/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

venerdì 20 giugno 2014

PROCESSO: l'interruzione ai sensi dell'art. 80 co. 3 C.p.A. (Cons. St., Sez. V, sentenza 27 maggio 2014 n. 2713).


PROCESSO:
 l'interruzione 
ai sensi dell'art. 80 co. 3 C.p.A. 
(Cons. St., Sez. V, 
sentenza 27 maggio 2014 n. 2713).



Massima

1. Ai sensi dell’art. 80, co. 3, C.p.A., la decorrenza dei termini per la prosecuzione di un giudizio interrotto ha come riferimento iniziale la “data di conoscenza legale dell’atto interruttivo”, in conformità al principio secondo cui l’interruzione del giudizio è conseguenza automatica dell’evento, a cui la legge collega tale effetto, con valore puramente dichiarativo della successiva pronuncia del giudice al riguardo.
2. Il “dies a quo” del termine per la riassunzione decorre, pertanto,  non dal giorno della dichiarazione della morte, né da quando si è verificato l’evento interruttivo, ma dalla data in cui detto evento sia venuto in forma legale a conoscenza della parte interessata alla riassunzione, ossia da quando vi è prova della ufficiale conoscenza, tramite comunicazione della segreteria, dell’intervenuta pronuncia di interruzione, non bastando nemmeno la presenza del legale della parte interessata all’udienza in cui è avvenuta la dichiarazione di morte.

*
*   *

Sentenza per esteso

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2428 del 2001, proposto dal signor Filippin Giacinto, rappresentato e difeso dall’avv. Bruno Barel, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell’avv. Federica Scafarelli, via Giosuè Borsi, 4; 
contro
Comune di Canazei (Tn),in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Giorgio De Pilati e dall’avv. Giuseppe Antonini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180; 
nei confronti di
Il signor Dezulian Danilo, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’avv. Luciano Perco e dall’avv. Andrea Manzi, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Federico Confalonieri, 5; 

sul ricorso numero di registro generale 7426 del 2012, proposto dal signor Filippin Giacinto, rappresentato e difeso dall’avv. Bruno Barel e dall’avv. Luigi Manzi, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Federico Confalonieri, 5; 
contro
Comune di Canazei (Tn), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Giorgio De Pilati e dall’avv. Giuseppe Antonini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Michele Mercati,51; 
nei confronti di
Il Comune di Livinallongo del Col di Lana (Bl); 
per la riforma
quanto al ricorso n. 2428 del 2001:
della sentenza del T.R.G.A. della Provincia di Trento n. 437 dd. 14 novembre 2000, resa tra le parti e concernente la demolizione di opere edilizie.
quanto al ricorso n. 7426 del 2012:
della sentenza del T.R.G.A. della Provincia di Trento n. 278 dd. 13 settembre 2012, resa tra le parti, concernente il divieto di inizio di una attività commerciale di vendita al dettaglio - ris. danni;

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Canazei;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2014 il Cons. Fulvio Rocco e uditi per l’appellante l’avv. Federica Scafarelli, su delega dell’avv. Bruno Barel, e per il Comune di Canazei l’avv. Giuseppe Antonini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1.1. Per la definizione dei due ricorsi in epigrafe, va esposta una dettagliata esposizione dei fatti di causa.
Negli anni cinquanta il padre dell’appellante Giacinto Filippin, ossia il sig. Pietro Filippin, iniziò a svolgere attività di commercio ambulante di articoli di maglieria con un banco fisso a Passo Pordoi, su di un terreno che all’epoca era inserito nelle mappe catastali del Comune di Livinallongo,
ricadente nella Provincia di Belluno.
Il Passo Pordoi è un valico alpino delle Dolomiti posto a 2.239 m. sul livello del mare, situato tra il Gruppo del Sella e alcune alture frontistanti a loro volta il gruppo della Marmolada, ed è attraversato dalla Strada Statale n. 48 delle Dolomiti.
La località, già facente parte del c.d. Welschtirol absburgico, è stata annessa all’Italia dopo il primo conflitto mondiale per effetto del Trattato di Saint Germain-en-Laye del 10 settembre 1919, e il Passo medesimo, che consente la comunicazione tra valli indifferentemente abitate da popolazioni di lingua ladina (Val di Fassa e Livinallongo, ossia – rispettivamente –Fascia e Fodom, i cui abitanti egualmente denominano nel loro comune idioma la località predetta Jouf de Pordou), è ora attraversato nella sua sommità dalla demarcazione amministrativa tra la Regione del Veneto e la Provincia Autonoma di Trento e, quindi – rispettivamente – tra il Comune di Pieve di Livinallongo (La Pli de Fodom) e il Comune di Canazei (Cianacéi).
L’appellante afferma che tale attività esercitata dal padre è comprovata da un provvedimento rilasciato in data 13 aprile 1960 del Commissario Prefettizio del Comune di Livinallongo e in forza del quale il sig. Pietro Filippin era –per l’appunto - autorizzato ad occupare “tutti i giorni della settimana l’area di proprietà comunale in località “Passo Pordoi” nel posto indicato al mappale n.52 (segnato in rosso) di mq. 220 circa, con il banco per la vendita di maglierie e confezioni varie” (cfr. doc. l fascicolo primo grado).
L’appellante espone pure di aver collaborato con il padre nella gestione di tale attività, per poi subentrarvi personalmente, e che nel 1964 il banco di vendita ha assunto le caratteristiche di una vera e propria costruzione costituita da una parete in legno, da una in lamiera e da altre due dotate di porte apribili, con pavimento in legno e copertura.
A conferma di ciò, egli ha depositato le dichiarazioni rese dai due falegnami ai quali era stata commissionata la costruzione e la posa in opera della parete in legno e, nell’anno successivo, delle porte. I falegnami medesimi hanno dichiarato pure che nel 1964, quando vennero incaricati di realizzare le porte, di aver denotato la presenza di una vera e propria costruzione con strutture fisse, pavimento in legno e copertura.
L’appellante riferisce di aver esercitato la propria attività di vendita al minuto di articoli di maglieria nel chiosco costruito nel 1964: e ciò in forza dell’avvenuto rilascio delle autorizzazioni commerciali da parte del Comune di Livinallongo.
IEgli – altresì - riferisce e documenta che nel 1975 si è per lui prospettata l’opportunità di acquistare il terreno, di proprietà del medesimo Comune di Livinallongo, sul quale insisteva il manufatto sopradescritto, e che tale era il suo interesse ad acquisire la proprietà della piccola area di alcune decine di mq. su cui aveva realizzato il chiosco che ha accettato di trasferire in permuta all’anzidetto Comune un terreno di oltre 7000 mq. ubicato nell’immediata periferia della frazione di Arabba (Reba) (cfr. decreto di intavolazione dd. 12 marzo 1976, prodotto quale doc. 2 nel fascicolo primo grado sub R.G. 108 del 1997 , dal quale consta che, a’ sensi dell’art. 2 del R.D. 28 marzo 1929, n. 499, - vigente, tra l’altro, nei territori comunali sia di Livinallongo, sia di Canazei - il sig. Filippin ha acquistato dal Comune di Livinallongo il fondo allibrato al mappale n.69 del fg.52 del Nuovo Catasto Terreni cedendo all’Amministrazione l’appezzamento di terreno di cui ai mappali n.34, 36 e 67 del fg. 38 del Comune censuario di Livinallongo).
Consta pure che nel corso del 1978 l’appellante, necessitando l’esecuzione di lavori di manutenzione del manufatto di cui trattasi, ha chiesto e ottenuto dal Comune di Livinallongo il rilascio di una concessione gratuita per la sua manutenzione straordinaria (cfr. ibidem, doc.3 del fascicolo di primo grado ).
1.2. A metà degli anni ’80 è insorta, peraltro, tra la Regione Veneto e la Provincia Autonoma di Trento (e, quindi, anche tra il Comune di Livinallongo e il Comune di Canazei) una controversia circa il tracciato dei confini tra i rispettivi territori nelle aree del Gruppo della Marmolada e di Passo Pordoi, indotta da talune incertezze circa il confine tra Italia e Impero austro-ungarico così come fissato dalle due delegazioni nel 1911, recepito nel Protocollo d’intesa tra i due Stati firmato nel 1912 e quindi divenuto delimitazione amministrativa tra i Comuni di Rocca Pietore (Bl) e Livinallongo da un lato, e Canazei dall’altro.
La disputa, che ha formato oggetto di trattazione anche in sede contenziosa innanzi al T.A.R. del Veneto, nonché innanzi a questo stesso Consiglio di Stato, era indotta anche dal comprensibile interesse di tutti e tre gli anzidetti Comuni di esercitare le proprie funzioni su di un’area importante sotto il profilo economico, in quanto interessata sia nella stagione invernale che in quella estiva da un forte afflusso turistico, dal quale era conseguita la realizzazione di strutture ricettive, di esercizi commerciali e di impianti di risalita.
In tale contesto, quindi, è stata rilevata nell’area del Passo Pordoi una sovrapposizione di rappresentazione cartografica nelle mappe catastali dei Comuni di Canazei e di Livinallongo, segnatamente tra il catasto della Provincia Autonoma di Trento e il Catasto Veneto, e in dipendenza di ciò nel 1985 l’allora Ministero delle Finanze ha pertanto provveduto a cancellare l’anzidetto mappale n. 69, di proprietà del signor Filippin, dal comune censuario di Livinallongo.
Tale provvedimento (anche in forza dell’inderogabile principio di concordanza tra libri fondiari e catasto a tutt’oggi imposta nei territori annessi all’Italia a seguito dell’anzidetto Trattato di Saint Germain-en-Laye del 10 settembre 1919 dal tuttoggi vigente § 11 della Legge austriaca 23 maggio 1883, B.L.I. n.83 e confermato dalla L.R. Trentino Alto Adige 19 dicembre 1980, n. 12) avrebbe pertanto dovuto determinare anche il trasferimento del mappale anzidetto e, quindi, della proprietà del signor Filippin, dal c.d. Libro di archiviazione del comune censuario di Livinallongo (affine a quelli fondiari e impiantato per effetto dello Statuto tirolese del 1573) al Libro fondiario del comune catastale di Canazei.
In effetti, dagli atti di causa si evinceva, all’epoca dei fatti di causa, una materiale corrispondenza tra l’antico mappale n. 69 di Livinallongo con la particella fondiaria (p.f.) 2824/1 inscritta nel libro fondiario di Canazei: ma dalle risultanze dell’Ufficio tavolare di Cavalese (Tn) constava che la proprietà non era intestata al Comune di Livinallongo, né al signor Filippin, ma al Club Alpino Italiano (C.A.I.), Sede centrale di Milano, essendo la particella anzidetta attigua alla Casa Alpina con l’annesso Centro di formazione per la montagna“Bruno Crepaz”,entrambi di proprietà di tale sodalizio.
Dal che, pertanto, si dovrebbe dedurre che l’eliminazione del mappale n. 69 del comune censuario di Livinallongo intestato al signor Filippin aveva fatto venir meno la documentazione del suo titolo di proprietà sul mappale medesimo, sostituito nell’evidenza tavolare e nel conseguente rigore del relativo ordinamento (“Das Buch hat immer Recht”: cfr. la recezione del relativo principio nell’art. 2, primo comma, del predetto R.D. 499 del 1929, in forza del quale “a modificazione di quanto è disposto dal codice civile italiano, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali sui beni immobili non si acquistano per atto tra vivi se non con la iscrizione del diritto nel libro fondiario”) dalle contrarie risultanze - divenute in ogni senso “esclusive” proprio in dipendenza dell’eliminazione medesima – evincibili presso l’Ufficio tavolare di Cavalese, dalle quali infatti altro soggetto risultava titolare della proprietà sul medesimo appezzamento di terreno.
Giova anche evidenziare che nell’ordinamento tavolare comunemente in vigore nella Provincia Autonoma di Trento e di Bolzano a’ sensi dell’anzidetta L.R. T.A.A. 19 dicembre 1980, n. 12, la “particella fondiaria” (ossia “p.f.”, o “Grundparzelle”) è entità indicativa delle realità immobiliari che nel sistema di coordinamento tra il catasto fabbricati e il libro fondiario di cui al R.D. 28 marzo 1929, n. 499, e successive modifiche non risultano edificate; viceversa, le realità sulle quali è stata realizzata attività di edificazione, ancorchè parziale, sono denominate“particelle edificiali” (“p.ed.”, ovvero “Bauparzellen”).
Secondo le risultanze dell’Ufficio tavolare di Cavalese, la superficie della p.f. 2824/1 non risultava quindi a quel tempo edificata e, conseguentemente, neppure accatastata.
Va inoltre chiarito, per una migliore comprensione della fattispecie ed in particolare per quanto riferito al § 3.1. e al § 3.3. della presente sentenza, che nel “sistema” tavolare medesimo, le particelle fondiarie edificiali e fondiarie hanno due numerazioni distinte, progressive per comune catastale, e che nella suddivisione di una particella originaria in più lotti si mantiene il numero originario di particella seguito da una barra e da un numero progressivo che identifica il singolo lotto (ad es., per l’appunto: 2824/1).
Consta sempre dagli atti di causa che il Comune di Canazei ha comunque attribuito al chiosco del sig. Filippin il civico comunale n. 101 della “Strèda” (Strada) del Pordoi.
Il provvedimento di cancellazione del predetto mappale n. 69 dal comune censuario di Livinallongo è stato invero impugnato dall’Amministrazione comunale di Livinallongo con ricorso proposto sub R.G. 22 del 1986 innanzi al T.A.R. per il Veneto, ma lo stesso Comune ha poi rinunciato alla relativa azione, e l’adito T.A.R. ha dato atto di ciò con sentenza n. 82 dd. 12 novembre 1996.
1.3. Il mese successivo al deposito di tale sentenza, con ordinanza n. 23 dd. 18 dicembre 1996 il Sindaco di Canazei ha imposto a’ sensi dell’art. 122, comma 1, della Legge provinciale 5 settembre 1991, n. 22, al sig. Filippin quale responsabile dell’abuso edilizio e al Club Alpino Italiano quale proprietario del sedime sul quale l’abuso medesimo era stato realizzato, di demolire il chiosco anzidetto in quanto edificato senza rilascio di titolo edilizio in epoca susseguente all’entrata in vigore della L. 6 agosto 1967 n. 765 (c.d. “legge ponte”).
Tale provvedimento è stato impugnato dal Filippin con ricorso proposto sub R.G. 108 del 1997 innanzi al T.R.G.A., Sede di Trento.
Non consta che il Club Alpino Italiano abbia proposto impugnative al riguardo; né lo stesso sodalizio è intervenuto in tale giudizio.
Nel giudizio medesimo è – viceversa - intervenuto ad opponendum il sig. Danilo Dezulian, residente nel territorio di Pozza di Fassa (Tn), proprietario di un terreno confinante con quello di proprietà del sig. Filippin e sul quale sorge un esercizio alberghiero condotto con la sua famiglia.
1.4. L’adito T.R.G.A., dopo aver disposto con l’ordinanza cautelare n. 52 dd. 20 marzo 1997 la sospensione del provvedimento impugnato in dipendenza del danno dedotto, con sentenza n. 437 dd. 14 novembre 2000 ha respinto il ricorso.
Il giudice di primo grado ha ritenuto che le risultanze processuali portavano infatti ad escludere che il chiosco anzidetto fosse esistito prima del settembre del 1967, posto che “il 16 maggio 1968 il Sindaco di Livinallongo concedeva in affittanza al Sig. Filippin Giacinto un terreno al Passo Pordoi, affinché lo stesso vi potesse esercitare il commercio ambulante. Tale concessione viene ripetuta il 10 gennaio 1970. Solo il 7 gennaio 1975 il Sig. Filippin richiede l’apertura di un nuovo esercizio di commercio fisso al Passo Pordoi. La domanda viene accolta dal Sindaco di Livinallongo con autorizzazione n. 118 dd. 5 maggio 1975. Solo da tale momento il Sig. Filippin avrebbe potuto quindi erigere una qualche costruzione. In realtà fino al 1977 compare il solito tendone dei commercianti ambulanti. La realizzazione della nuova costruzione invece è iniziata solo il 24 ottobre 1977, con l’esecuzione di scavi della profondità di 60 cm. su una superficie di 50 mq. In tale scavo il giorno 28 ottobre 1977 sono stati gettati quattordici plinti di calcestruzzo, completati con tirafondi in ferro. Tali fatti vengono segnalati da tali Perathoner Fiorenzo e Giambisi Aimo di Cavalese, nonché da Dezulian Danilo di Livinallongo con denuncia inviata alla Procura della Repubblica di Trento, a quella di Belluno, ai Sindaci di Livinallongo e Canazei ed al Club Alpino Italiano (CAI) , proprietario intavolato della superficie in questione. Pur avendo ricevuto tale denuncia, il Sindaco di Livinallongo rilascia in data 1 aprile 1978 una “concessione gratuita” relativa al foglio 52 sul mappale”demanio comunale”. Tale concessione, che si riferisce alla manutenzione straordinaria di una costruzione mai licenziata o concessa, verrà poi rettificata il 26 ottobre 1991 con l’indicazione che la stessa si riferisce non al mappale del citato demanio comunale, ma al mappale 69. Nella stessa rettifica si afferma che la revisione delle mappe catastali non si sarebbe conclusa, pur risultando la stessa conclusa nel 1985. L’attuale costruzione, del tutto diversa dal tendone precedente, risulta pertanto realizzata nell’autunno del 1977 per la base in calcestruzzo e, per la posa del prefabbricato, non oltre i primi mesi del 1978. E’ del tutto irrilevante che prima di tali date il Sig. Filippin già gestisse fino al 1975 un commercio ambulante e successivamente al 5 maggio 1975 un punto fisso di commercio. L’attuale costruzione risulta esser stata realizzata ex novo dieci anni dopo la Legge ponte, per cui il primo motivo è privo di fondamento. … Il Sindaco di Livinallongo era del tutto incompetente a rilasciare una concessione per un territorio da sempre facente parte del Comune di Canazei. La grossolana falsificazione delle mappe catastali venete, tra l’altro ripetuta in vari punti del confine tra le due regioni, non poteva certo ingannare il Sindaco di Livinallongo. Una concessione per manutenzione straordinaria non poteva non indicare la concessione o licenza in base alla quale la costruzione sarebbe stata realizzata. Tra l’altro – nella fretta – la concessione è stata rilasciata per un’area diversa da quelladove sorgeva la costruzione, tanto è vero che nel 1991 il Sindaco pro tempore ha cambiato l’oggetto della concessione del 1978, affermando falsamente che la rettifica delle mappe catastali non era conclusa. Oltretutto il Sindaco aveva ricevuto la denuncia di privati sulla costruzione eseguita nell’ottobre 1977, scavando per 60 cm. tutta l’area e gettando nello scavo plinti di calcestruzzo, per cui nulla poteva essere rimasto di un’eventuale costruzione preesistente (le foto indicano però che prima esisteva solo un bancone da ambulante coperto di teli). Non vi era quindi nulla da “mantenere” e del resto l’amministrazione disponeva di una serie di propri atti dimostranti almeno l’inesistenza di costruzioni fino al maggio 1975. Nel terzo motivo il ricorrente ignora la disposizione dell’art. 122, comma 1, della Legge provinciale 5 settembre 1991 n. 22 che recita: “In caso di opere abusive eseguite in assenza di concessione o in difformità da essa, il Sindaco emette ingiunzione di rimessa in pristino entro il termine di 90 giorni, termine eventualmente prorogabile solo per ragioni tecniche comprovate”. L’invio della ingiunzione è quindi un atto dovuto ed anche un atto garantistico, perché permette all’intimato di sottrarsi alle penalità previste dalla legge ripristinando i luoghi. Le penalità seguono poi con successivo atto ed è in tale sede che il comune compirà le proprie valutazioni e determinerà le penalità appropriate. Giova però osservare che il Sig. Filippin era già stato intimato di ripristinare i luoghi nel 1986, per cui l’atto impugnato è solo una reiterazione della precedente ingiunzione. Ciò nonostante il Sig. Filippin, avendo costruito senza licenza, non si è nemmeno preoccupato di richiedere il condono edilizio, né ha richiesto la concessione in sanatoria, lasciando scadere due volte il termine per proporla. Infine il Sig. Filippin non ha richiesto l’autorizzazione paesaggistica, senza la quale lo stesso Sindaco non potrebbe rinunciare all’abbattimento della costruzione. … L’evidente infondatezza del ricorso permette di non esaminare d’ufficio l’esistenza di un caso di inammissibilità del ricorso. Il ricorso appare infatti notificato al solo Comune di Canazei, mentre l’art. 21, comma 1, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 prescrive che l’atto deve essere notificato anche ai controinteressati o almeno ad uno di essi. Ora l’ingiunzione è stata espressamente fondata, oltre che sul difetto di concessione edilizia, anche sulla mancanza dell’autorizzazione della Commissione per la Tutela del paesaggio. Di tale tutela paesaggistica è titolare la Provincia Autonoma di Trento, che doveva quindi essere citata come controinteressata. Ed in merito a tale difetto di autorizzazione provinciale non sono state proposte nemmeno difese”.
Il T.R.G.A. ha compensato integralmente tra tutte le parti le spese e gli onorari di tale primo grado del giudizio.
2.1. Avverso tale sentenza il signor Filippin ha proposto il primo degli appelli in epigrafe (R.G. 2428 del 2001).
Al riguardo l’appellante ha dedotto i motivi di impugnazione qui appresso descritti.
a) L’assunto del giudice di primo grado - secondo il quale il chiosco in questione sarebbe stato costruito, in difetto di rilascio del titolo edilizio in epoca posteriore al 1967 - è contestato dal Filippin mediante l’allegazione della dichiarazione resa dai falegnami secondo i quali nel 1964 sarebbe stata realizzata una struttura fissa con copertura e pavimentazione in legno, dotata di una parete in lamiera, una in legno e di altre due con porte apribili.
b) In merito alla dedotta illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico che giustificherebbe l’irrogazione della sanzione della demolizione, l’appellante rileva che il T.R.G.A. si sarebbe limitato ad affermare che l’ordinanza di demolizione assume la natura di atto dovuto.
Secondo l’appellante tale assunto oblitererebbe il lungo lasso di tempo decorso e l’affidamento ingeneratosi prima dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
3) A differenza di quanto affermato dal giudice di primo grado, la Provincia Autonoma di Trento non risulterebbe nella specie titolare di un interesse diretto ed immediato alla conservazione dell’atto impugnato, posto che l’eventuale annullamento del provvedimento di demolizione, adottato per carenza degli atti abilitativi di competenza del Comune, non interferirebbe sui poteri sanzionatori, autonomi e distinti, che fanno capo alla Provincia medesima nella sua qualità di Ente preposto alla tutela del paesaggio.
2.2. Si sono costituiti anche in tale ulteriore grado di giudizio il Comune di Canazei e il signor Dezulian, concludendo per la reiezione dell’appello.
2.3. Con ordinanza n. 2109 dd. 3 aprile 2001, questa Sezione ha respinto la domanda di sospensione cautelare della sentenza resa in primo grado, avanzata dall’appellante.
3.1. Nel frattempo, con ordinanza n. 14 dd. 29 ottobre 2001 il Sindaco di Canazei ha disposto a’ sensi dell’art. 122, comma 3, della Legge Provinciale 5 settembre 1991, n. 22,“l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune di Canazei del chiosco abusivamente realizzato sulla p.f. 2824/1 in comune censuario di Canazei con l’area su cui insiste, oggi individuato catastalmente con la p.ed. (particella edificiale) 1185 del comune catastale Canazei, come da tipo di frazionamento n. 505 del 2001 a firma del dott. Marco Simeoni”.
In questo modo, pertanto, il Comune di Canazei ha fatto costituire per scorporo, agli effetti dell’acquisizione al proprio patrimonio della realità abusiva e del relativo sedime, la nuova p.ed. 1185 dalla p.f. 2824/1, rendendo con ciò per la prima volta evidente nel concordante regime di pubblicità immobiliare e catastale l’avvenuta realizzazione del chiosco sull’area in questione.
Con ricorso straordinario proposto innanzi al Presidente della Repubblica a’ sensi dell’art. 8 e ss. del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1191, il signor Filippin ha pertanto chiesto l’annullamento di tale provvedimento, nonché dell’autorizzazione n. 5012 dd. 9 agosto 2001 all’accesso alla p.f. 2824/1 ai fini della redazione del frazionamento del chiosco abusivo ivi realizzato, del tipo di frazionamento n. 505/2001 dd. 31 agosto 2001, redatto dal dott. Marco Simeoni e con il quale il chiosco di cui trattasi è stato catastalmente individuato con la nuova p. ed. 1185 nel Comune catastale di Canazei, di mq. 65.
3.2. Tale ricorso è stato accolto con D.P.R. 22 ottobre 2008, emesso previo parere n. 2196 dd. 24 ottobre 2007 reso dalla Sez. II del Consiglio di Stato, così testualmente motivato:
“Il sig. Giacinto Filippin espone di essere subentrato al padre nell’esercizio dell’attività di venditore ambulante (nella specie, vendita di articoli di maglieria), in un’area di proprietà comunale in località “Passo Pordoi”, concessagli in godimento dal Comune di Livinallongo (Provincia di Belluno - Regione Veneto). Su detta area, il sig. Filippin realizzava un manufatto da adibire all’intrapresa attività. Successivamente, il ricorrente otteneva dal Comune di Livinallongo l’autorizzazione ad esercitare la vendita in modo stabile, anziché come ambulante. Al contempo, egli concludeva con il predetto Comune un contratto di permuta, in virtù del quale, quest’ultimo si impegnava a cedere al sig. Filippin, previa sdemanializzazione, la proprietà dell’area su cui lo stesso esercitava l’attività commerciale, in cambio del trasferimento di un vasto terreno edificabile di proprietà del ricorrente, sito nella località turistica di Arabba. A distanza di ben 21 anni, a seguito di rettifica delle mappe catastali eseguita dall’Ufficio Tecnico Erariale di Belluno, la porzione di territorio nella quale ricadeva l’area di proprietà del Filippin è stata fatta rientrare nel territorio di competenza del Comune di Canazei (Provincia di Trento – Regione Trentino-Alto Adige).
Con provvedimento del 18 novembre 1996, il Comune di Canazei ha ordinato al ricorrente, la demolizione del manufatto adibito all’esercizio della propria attività commerciale e, con successivo provvedimento, accertata l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, ha disposto l’acquisizione dello stesso al patrimonio indisponibile dell’Amministrazione.
Il ricorrente ha impugnato gli atti indicati in epigrafe deducendo a fondamento del gravame i seguenti motivi di censura: inesistenza dell’atto impugnato per assoluta carenza di potere; eccesso di potere rilevante sotto svariati profili; violazione dell’art. 126 D.G.P. 18 gennaio 1994, n. 273; violazione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità e dei principi generali dell’ordinamento (certezza del diritto).
I motivi sono fondati.
Il Collegio rileva che l’Amministrazione non abbia ben operato.
Lo svolgimento di adeguata istruttoria avrebbe infatti consentito all’Amministrazione di tenere in debita considerazione la circostanza, per la quale, da tempo risalente, l’area interessata dal preteso abuso edilizio è ritenuta parte del territorio del Comune di Livinallongo che, pertanto, ha sempre esercitato sulla stessa tutte le potestà inerenti e conseguenti al suo esclusivo diritto territoriale: rilascio di concessioni in godimento del suolo pubblico, rilascio delle autorizzazioni per l’esercizio dell’attività commerciale, nonché per le opere di manutenzione straordinaria da eseguirsi sul manufatto ivi realizzato, procedura di sdemanializzazione dell’area e cessione in proprietà di quest’ultima in favore del ricorrente, oggetto dell’intervenuto contratto di permuta.
I provvedimenti impugnati sono manifestamente inficiati dal denunciato vizio di eccesso di potere (per violazione dei canoni di imparzialità e buon andamento, in particolare). Nella specie, l’acquisizione non solo è stata adottata dopo moltissimi anni, ma le situazioni asseritamente abusive erano ben note e sono state sempre avallate con i diversi atti sopra menzionati, con i quali è stata espressa costantemente la volontà di lasciare inalterata la situazione posta in essere dal ricorrente.
Pertanto, la situazione per la quale viene invocata tutela, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso, per il protrarsi dell’inerzia – e, ancor più - per l’emanazione di provvedimenti favorevoli al ricorrente, è stata illegittimamente vulnerata dall’Amministrazione comunale di Canazei”.
3.3 Giova anche evidenziare che, dopo l’emanazione dell’anzidetto D.P.R. 22 ottobre, con atto a rep. n. 26795 – racc. n. 7034 dd. 24 marzo 2010 a rogito del dott. Michele Palumbo, notaio in Sedico (Bl), il signor Filippin ha concluso a’ sensi e per gli effetti dell’art. 1965 cod. civ. un atto di transazione con la Sede centrale del Club Alpino Italiano, ottenendo da quest’ultima il riconoscimento della sua proprietà sulle anzidette p.f. 2824/1 e p.ed. 1185 del comune censuario di Canazei, con il contestuale riconoscimento al sodalizio anzidetto del diritto a posizionare nel sottosuolo della predetta p.f. 2824/1 dei serbatoi d’acqua ad uso potabile e di prevenzione incendi con possibilità di utilizzo anche da parte del Consorzio acquedotto del Passo Pordoi, nonché del diritto ad erigere sul sedime della stessa particella una pensilina a ridosso del marciapiede e destinata alla sosta delle autocorriere (cfr. doc. 33 di parte resistente sub R.G. 7426 del 2012).
I relativi diritti costituiti a favore delle due parti nel contratto risultano quindi debitamente intavolati sulla base di tale titolo d’acquisto (cfr. ibidem), con la conseguente incorporzione della p.ed. 1185 e della p.f. nella nuova partita tavolare (P.T.) 1820 del comune catastale di Canazei a nome di Giacinto Filippin (cfr. decreto tavolare G.N. 1178/2010 dd. 18 maggio 2010 formato presso l’Ufficio tavolare di Cavalese).
In tale contesto, pertanto, lo stesso appellante, al fine di inscrivere le sue proprietà nel Libro fondiario del Comune catastale di Canazei, si è indubitabilmente avvalso del frazionamento già disposto dal Comune di Canazei (nonostante lo stesso risulterebbe, di per sé, formalmente annullato per effetto dell’anzidetto D.P.R. decisorio: ma, evidentemente, il giudice tavolare ha applicato al riguardo il principio utile per inutile non vitiatur, posto che indiscutibilmente lo stesso sig. Filippin avrebbe potuto comunque predisporre per effetto del medesimo D.P.R. decisorio altro piano di frazionamento del tutto identico), e ad oggi risulta pertanto intestatario della proprietà sia della p.f. 2824/1, sia della p.ed. 1185 unificate nella nuova P.T. 1820.
4.1. Nondimeno, con ulteriore provvedimento n. 1 dd. 22 febbraio 2011 il Responsabile dell’Ufficio commercio e pubblici esercizi del Comune di Canazei, in esito a due denunce di inizio di attività di vendita al dettaglio di abbigliamento nel chiosco di cui trattasi, ivi presentate dal sig. Filippin sub n. 8626 dd. 15 novembre 2010 e n. 614 dd. 25 gennaio 2011, ha fatto divieto di svolgere l’attività medesima a’ sensi dell’art. 23 della Legge Provinciale 30 novembre 1992, n. 23.
4.2. Il sig. Filippin ha impugnato anche tale provvedimento sub R.G. 111 del 2011 innanzi al T.R.G.A., Sede di Trento, deducendo le seguenti censure:
a) eccesso di potere per ingiustizia manifestata, per illogicità, per travisamento dei fatti ed erronea valutazione del presupposto e violazione del giudicato;
b) violazione di principi costituzionali (imparzialità e buon andamento) e principi generali dell’ordinamento (certezza del diritto);
c) violazione e falsa applicazione dell’art. 8 della Legge Provinciale 30 luglio 2010, n. 17, nonchè violazione della deliberazione della Giunta provinciale n. 177 del 8 febbraio 2010.
Con l’impugnazione è stata - altresì - proposta una domanda di condanna del Comune di Canazei al risarcimento dei danni.
4.3. Il Comune si è costituito in tale primo grado di giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso.
4.4. Con ordinanza n. 39 del 9 giugno 2011, l’adito T.R.G.A. ha disposto l’accoglimento della sospensiva, “Rilevato che l’impugnato divieto di inizio attività commerciale di vendita di maglieria nel chiosco a Passo Pordoi, di cui alla D.I.A. del gennaio 2011, è stato opposto all’Amministrazione comunale in ragione di un risalente abuso edilizio perpetrato dal ricorrente nelle more della lite territoriale fra i comuni di Canazei e Livinallongo, poi compostasi nel 1985 allorchè il Ministero delle Finanze provvide a cancellare dal catasto del Comune di Livinallongo il mappale che si sovrapponeva a quello di Canazei; che con la sentenza n. 437 del 2000 questo Tribunale respingeva il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire emessa dal comune di Canazei, avendo il Sig. Filippin costruito il chiosco senza licenza; Considerato: che, ad una prima sommaria delibazione tipica della fase cautelare ed impregiudicata ogni definitiva decisione in rito, nel merito e sulle spese di giudizio, il ricorso appare assistito da sufficiente fumus boni iuris, atteso che l’accoglimento definitivo (equiparabile ad un giudicato) in data 22.10.2008 del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso il provvedimento sindacale di acquisizione gratuita al patrimonio del Comune di Canazei del manufatto abusivamente realizzato, travolge nella specie la fase acquisitiva al patrimonio comunale della procedura sanzionatoria edilizia, lasciando di conseguenza il ricorrente nella disponibilità giuridica del chiosco per l’esercizio dell’attività commerciale in questione; che, pertanto, sussistono i requisiti di cui alle citate disposizioni normative, anche in relazione alla concorrente esistenza del lamentato pregiudizio”.
4.5. Con susseguente sentenza n. 278 dd. 13 settembre 2012, il medesimo T.R.G.A. ha peraltro respinto il ricorso, rilevando testualmente che con il primo ordine di censure il sig. Filippin aveva dedotto “eccessodi potere sotto vari profili, negando l’esistenza dell’abuso e della conseguente illiceità del manufatto, che comunque sarebbe sanato dalla decisione del Capo dello Stato che ha annullato il provvedimento di acquisizione del chiosco in questione al patrimonio del Comune di Canazei. Il Comune sostiene, per contro, di non poter assentire l’attività commerciale, non essendosi ancora completato il procedimento sanzionatorio, atteso che l’ordinanza ingiunzione del 1996 sarebbe tuttora valida.
Osserva il Collegio che la decisione del Presidente della Repubblica sul ricordato ricorso straordinario , riguardando nello specifico l’ordinanza sindacale numero 14/2001, non investe l’ingiunzione di demolizione per le opere edilizie eseguite in assenza di titolo abilitativo emessa in data 18 dicembre 1996.
Invero, il decreto del Capo dello Stato ha sì annullato il provvedimento di acquisizione del manufatto al patrimonio del Comune di Canazei, restituendo all’interessato la disponibilità dell’immobile, ma non poteva certo estendere i suoi effetti anche all’ordinanza ingiunzione del 1996 che rimane, come correttamente sostenuto dal Comune, ancora valida ed efficace.
Del resto, tale ordinanza ingiuntiva è fondata, oltre che sull’assenza di concessione edilizia, anche sulla mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, la cui previa acquisizione era imprescindibile, trovandosi il chiosco nell’area di pertinente tutela provinciale.
Invero, l’art. 8 della Legge Provinciale 30 luglio 2010 n. 17 (Disciplina dell’attività commerciale), pur consentendo l’apertura dei cosiddetti esercizi di vicinato con la semplice presentazione di DIA, la subordina al rispetto dei criteri di programmazione urbanistica del settore commerciale e anzitutto delle norme urbanistiche ed ambientali. L’immobile destinato all’attività commerciale deve cioè essere perfettamente regolare, sia dal punto di vista urbanistico – edilizio, sia da quello paesaggistico - ambientale e naturalmente munito di licenza di agibilità. L’attività commerciale non può infatti essere esercitata in immobili affetti da abusi edilizi e/o paesaggistico – ambientali o anche solo privi di agibilità”.
Lo stesso giudice si è quindi richiamato al contenuto della predetta sentenza n. 437 del 2000 per concludere che “in definitiva, il chiosco, in cui l’interessato intende esercitare l’attività commerciale, risulta abusivo e allo stato privo della necessaria conformità urbanistica e ambientale”.
Per quanto attiene al secondo ordine di censure, il T.R.G.A. rileva che con esso il sig. Filippin aveva sostenuto l’avvenuta violazione dei principi di imparzialità e buon andamento, nonché della certezza del diritto in relazione alla esistenza di pregressi titoli edilizi, asseritamente legittimanti il chiosco in contestazione, rilasciati dal Comune di Livinallongo nelle more della definizione del contenzioso territoriale tra detto con quello di Canazei e che, peraltro, anche tale tematica risulterebbe affrontata nella medesima sentenza n. 437 del 2000 in senso sfavorevole per il medesimo sig. Filippin, ribadendo anche in quest’ultima sentenza che il Sindaco di Livinallongo sarebbe stato del tutto ‘incompetente’ a rilasciare provvedimenti per un territorio da sempre facente parte del Comune di Canazei e , per di più, comunque incidenti su di un’area diversa da quella dove sorgeva la costruzione, tanto è vero che nel 1991 il Sindaco medesimo avrebbe cambiato l’oggetto della concessione per manutenzione straordinaria da lui rilasciata nel 1978, affermando falsamente che la rettifica delle mappe catastali non risultava ancora conclusa.
Lo stesso T.R.G.A. ha anche respinto il terzo ordine di censure dedotto dal sig. Filippin, con il quale era stata dedotta la violazione dell’art. 8 della Legge Provinciale n. 17 del 2010, nonché della deliberazione della Giunta provinciale n. 177 del 8 febbraio 2010, rilevando che l’art. 8 anzidetto dispone al suo comma 1 che, “ fermo restando il rispetto delle norme urbanistiche e ambientali, l'apertura, l’ampliamento della superficie e il trasferimento di sede degli esercizi di vicinato sono subordinati al rispetto dei criteri di programmazione urbanistica del settore commerciale e sono soggetti a dichiarazione di inizio attività da presentare al comune competente per territorio ai sensi dell'articolo 23 della legge provinciale 30 novembre 1992 n. 23” e che – anche al di là della circostanza che il chiosco di cui trattasi risulterebbe situato in zona classificata dalla vigente strumentazione urbanistica come “ area sciabile “, nella quale sarebbe astrattamente consentita una limitata espansione edificatoria a vocazione turistica, necessiterebbe comunque “ribadire che nella specie si discute della assentibilità o meno di un’attività di natura commerciale, legittimamente subordinata, ai sensi del richiamato art. 8 della Legge Provinciale n. 17 del 2010, alla positiva verifica della conformità dei locali di svolgimento dell’attività alla normativa edilizio – urbanistica ed ambientale; conformità, come si è detto, assente al momento dell’adozione del diniego impugnato, posto che la già citata sentenza n. 437 del 2000 di questo Tribunale, allo stato esecutiva, ha statuito che il manufatto in contestazione debba essere considerato abusivo”.
Dalla reiezione di tutti gli ordini di censure proposti dal signor Filippin il T.R.G.A. ha fatto conseguire anche la reiezione della domanda di risarcimento dei danni da lui contestualmente proposta.
Lo stesso giudice ha anche condannato il sig. Filippin al pagamento delle spese e degli onorari di tale primo grado di giudizio, complessivamente liquidati nella misura di € 3.000,00 (tremila), “oltre ad I.V.A., C.N.P.A. ed al 12,5% sull’importo dei diritti e degli onorari a titolo di spese generali”.
5.1. Con il secondo appello in epigrafe (R.G. 7426 del 2012) il Filippin chiede ora la riforma anche di tale seconda sentenza, deducendo al riguardo i motivi di impugnazione qui appresso descritti
a) Error iuris; violazione, falsa applicazione e comunque falsa interpretazione della decisione sul ricorso straordinario; riesame e riproposizione integrale del primo motivo di ricorso già proposto in primo grado.
b) Error iuris; erroneo rigetto del secondo motivo di ricorso.
c) Error iuris con riferimento al terzo motivo di ricorso.
d) Riesame della domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti del Comune di Canazei.
5.2. Si è costituito anche in tale grado di giudizio il Comune di Canazei, replicando ai motivi d’appello e concludendo per la loro reiezione.
6. Tutte le parti hanno prodotto in entrambi i procedimenti diffuse e puntuali memorie a sostegno delle rispettive tesi e in replica a quelle avversarie.
7.1. Alla pubblica udienza del 26 febbraio 2013 entrambi gli appelli in epigrafe sono stati chiamati per la decisione.
Peraltro, il difensore del signor Dezulian - interveniente ad opponendum nel giudizio di primo grado proposto sub R.G. 108 del 1997 e costituitosi nel procedimento in appello proposto sub R.G. 2428 del 2001 - ha in tale sede richiamato la circostanza di aver depositato il 16 gennaio 2013 il certificato di morte del proprio assistito, medio tempore deceduto in data 12 aprile 2005.
Con ordinanza n. 1752 dd. 26 febbraio 2013 la Sezione ha pertanto provveduto a riunire i due appelli in epigrafe, a’ sensi dell’art. 70 cod. proc. amm., “sussistendo intima connessione tra i due giudizi, in quanto il divieto di esercizio dell’attività commerciale, oggetto del ricorso n. 7426 del 2012, ha quale presupposto l’abusività del manufatto ed il correlato ordine di demolizione, oggetto del giudizio n. 2428 del 2001”, e ha dato atto dell’interruzione del giudizio, a’ sensi del combinato disposto dell’art. 79, comma 2, cod. proc. amm. e dell’art. 300, commi 1 e 2, cod. proc. civ.
7.2. Con atto notificato il 24 aprile 2013 e depositato il 16 maggio 2013 l’appellante ha provveduto alla riassunzione del giudizio.
7.3. A sua volta, il patrocinio del Comune di Canazei ha eccepito la tardività della riassunzione medesima, nonché la tardività – segnatamente, a’ sensi dell’art. 104, comma 2, cod. proc. amm. – del deposito agli atti di causa da parte del difensore dell’appellante, di altra documentazione costituita dalla copia informe di un accordo asseritamente concluso in data 24 maggio 2000 tra lo stesso Comune di Canazei e il Comune di Livinallongo in ordine alla “definizione della competenza di funzioni amministrative al Passo Pordoi”.
7.4. Alla pubblica udienza dell’11 febbraio 2014 la causa è stata nuovamente trattenuta per la decisione.
8.1. Il Collegio deve innanzitutto esaminare l’eccezione formulata dal Comune di Canazei in ordine alla tempestività della riassunzione del giudizio da parte dell’appellante.
Secondo la prospettazione dell’appellato Comune, tale riassunzione sarebbe tardiva in quanto, al di là della formale dichiarazione resa alla pubblica udienza del 26 febbraio 2013 (cfr. ivi: “L’Avvocato Reggio D’Aci” - delegato dall’Avv. Andrea Manzi - dichiara la morte della parte come da certificato depositato in data 13 gennaio 2013”), rileverebbe, quale dies a quo agli effetti del computo dei 90 giorni fissati per la riassunzione a’ sensi dell’art. 80 cod. proc. amm., non già la data della pubblica udienza nella quale la dichiarazione del decesso sarebbe stata resa, ma – per l’appunto – la data del deposito agli atti di causa del certificato di morte della parte: dal che discenderebbe, pertanto, che la notificazione della riassunzione sarebbe nella specie avvenuta dopo 98 giorni, e quindi dopo la consunzione del termine di 90 giorni previsto dalla norma.
8.2. Tale eccezione della parte appellata non può essere accolta.
Il comma 3 dell’art. 80 cod. proc. amm. dispone, per quanto qui segnatamente interessa, che “il processo deve essere riassunto, a cura della parte più diligente, con apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione”.
Le vicende che danno luogo all’interruzione del processo amministrativo sono — per espresso richiamo contenuto nell’art. 79 cod. proc. amm. — le stesse contemplate dall’art. 299 cod. proc. civ., ma le modalità e i termini della riassunzione del processo sono sensibilmente diverse.
L’art. 303, secondo comma, cod. proc. civ. dispone infatti che l’atto di riassunzione deve essere notificato entro il termine decorrente “dalla morte … della parte” (cfr. ivi), nel mentre per il processo amministrativo il termine per la riassunzione, definito espressamente come “perentorio”, decorre – come si è detto innanzi – “dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione”.
A tale riguardo è già stato evidenziato che a’ sensi sia dell’art. 80, comma 3, cod. proc. amm., sia del previgente art. 24, secondo comma, della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, la decorrenza dei termini per la prosecuzione di un giudizio interrotto ha come riferimento iniziale la “data di conoscenza legale dell’atto interruttivo”, in conformità al principio, secondo cui l’interruzione del giudizio è conseguenza automatica dell’evento, a cui la legge collega tale effetto, con valore puramente dichiarativo della successiva pronuncia del giudice al riguardo (così Cons. Stato, Sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 6730); e, pertanto, in tale contesto il “dies a quo” del termine per la riassunzione decorre non dal giorno della dichiarazione della morte, né da quando si è verificato l’evento interruttivo, ma dalla data in cui detto evento sia venuto in forma legale a conoscenza della parte interessata alla riassunzione, ossia da quando vi è prova della ufficiale conoscenza, tramite comunicazione della segreteria, dell’intervenuta pronuncia di interruzione, non bastando nemmeno la presenza del legale della parte interessata all’udienza in cui è avvenuta la dichiarazione di morte (così Cons. Stato, Sez. IV, 31 dicembre 2010, n. 9608; Cons. giust. amm. sic., 29 aprile 2013, n. 421).
9. Il Collegio, sempre in via preliminare, rileva che l’eccezione della tardività del deposito, da parte dell’appellante, di copia informe di un accordo asseritamente concluso in data 24 maggio 2000 tra lo stesso Comune di Canazei e il Comune di Livinallongo in ordine alla “definizione della competenza di funzioni amministrative al Passo Pordoi”, non rileva nell’economia di causa, posto che la stessa può essere decisa anche a prescindere da tale atto.
10.1. Tutto ciò premesso, gli appelli in epigrafe vanno accolti.
10.2.1. La difesa del Comune di Canazei reputa che per la definizione nel merito della presente causa si debba prescindere dal D.P.R. 22 ottobre 2008, emesso previo parere n. 2196 dd. 24 ottobre 2007 reso dalla Sez. II del Consiglio di Stato e per effetto del quale sono stato annullati l’ordinanza n. 14 dd. 29 ottobre 2001, con la quale il Sindaco di Canazei aveva disposto a’ sensi dell’art. 122, comma 3, della L.P. 22 del 1991 l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune il chiosco in questione, nonché i prodromici provvedimenti con i quali era stata autorizzato l’accesso all’area sulla quale era sorto il chiosco medesimo ai fini del necessario frazionamento catastale e tavolare, nonché il tipo di frazionamento n. 505/2001 dd. 31 agosto 2001 conseguentemente redatto.
Il Comune argomenta in tal senso che il decreto decisorio del ricorso straordinario al riguardo proposto dal signor Filippin risulterebbe comunque un provvedimento ‘amministrativo’ e non ‘giurisdizionale’, che esso sarebbe stato emesso in violazione delle regole del contraddittorio (in quanto non sarebbero state in alcun modo considerate le memorie difensive inoltrate dalla medesima Amministrazione comunale a sostegno delle proprie ragioni) e fa da ultimo propria la tesi sviluppata dallo stesso T.R.G.A. nella sua sentenza n. 278 dd. 13 settembre 2012, qui impugnata sub R.G. 7426 del 2012 e riguardante il divieto di inizio attività commerciale di vendita al dettaglio opposto al signor Filippin, ossia che l’annullamento disposto per effetto dell’anzidetto decreto presidenziale decisorio riguarderebbe soltanto il provvedimento di acquisizione del chiosco al patrimonio del Comune medesimo e gli anzidetti atti ad essa direttamente prodromici, nel mentre non sarebbe stata caducata – e rimarrebbe quindi ad oggi del tutto efficace – l’ingiunzione a demolire il manufatto disposta con l’ordinanza n. 23 dd. 18 dicembre 1996 e ravvisata legittima dalla sentenza n. 437 dd. 14 novembre 2000, precedentemente resa dal T.R.G.A.
10.2.2. Il Collegio non concorda con l’insieme di tali affermazioni.
Quanto alla decisione del Presidente della Repubblica, resa il 22 ottobre 2008, è decisivo considerare che la sua cogenza non può essere messa in discussione nel presente giudizio, perché essa è stata resa nel regime della alternatività.
Al riguardo, rileva la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale – a seguito del mutamento del quadro normativo disposto dall’art. 69 della L.18 giugno 2009, n. 69, e dal codice del processo amministrativo – ha chiarito che, per le decisioni straordinarie rese prima di tali riforme, vanno distinte quelle rese nel regime della alternatività, da quelle rese prater legem su una controversia rimessa alla giurisdizione del giudice civile.
Per quelle rese nel regime della alternatività ‘prima’ della revisione, le citate riforme hanno preso atto della loro già indiscussa cogenza ed immodificabilità ed hanno aggiunto il rimedio del giudizio d’ottemperanza, «a prescindere dall'epoca di proposizione» del ricorso straordinario (per tutte, Sez. Un., 28 gennaio 2011, n. 2065, § 2.14; Sez. Un., 7 febbraio 2011, nn. 2818, 2819, 2829, 2830 fino a 2939; Sez. Un., 10 marzo 2011, n. 5684; Sez. Un. 28 aprile 2011, n. 9447; Sez. Un., 19 luglio 2011, n. 15765).
Per quelle rese prater legem ‘prima’ della revisione su una controversia rimessa alla giurisdizione del giudice civile (ormai precluse dall’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo: cfr. Corte Cost., sent. n. 73 del 2014), esse – in quanto disapplicabili dal medesimo giudice e non decisorie della controversia – hanno invece conservato natura amministrativa (Sez. Un., n. 20569 del 2013, Sez. III, nn. 19531 e n. 20054 del 2013), non potendo la legge sopravvenuta determinare una soccombenza non prevista dalla normativa previgente.
Pertanto, la decisione del 22 ottobre 2008, in quanto resa nel regime della alternatività in ragione della impugnazione di provvedimenti autoritativi incidenti di interessi legittimi, ha comportato la soccombenza dell’allora amministrazione resistente e non può essere posta in discussione in questa sede.
Pertanto, il collegio non può sottrarsi dal prendere atto che una statuizione giudiziale ha nella specie annullato il provvedimento finale di un procedimento puntualmente normato dall’art. 122, commi 1, 2 e 3, della L.P. 22 del 1991 alla stessa guisa di quanto all’epoca disposto dall’allora vigente art. 7 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, e pertanto, consistente in un primo provvedimento che ingiunge al contravventore la demolizione dell’opera abusiva e in un secondo provvedimento che, nell’ipotesi di inottemperanza dell’ingiunzione dopo il decorso del termine fissato ex lege, dispone l’acquisizione gratuita dell’opera medesima al patrimonio indisponibile del Comune.
Pertanto, nessun rilievo può essere attribuito al provvedimento annullato con la decisione straordinaria, sicché il Comune di Canazei non risulta titolare del bene oggetto del presente giudizio.
10.2.4. Va anche evidenziata la sostanziale coincidenza tra le censure dedotte dal medesimo signor Filippin in sede di ricorso straordinario - e accolte con la decisione del 2008 - e le censure formulate nell’appello da lui proposto sub R.G. 2428 del 2001 (volto ad ottenere, in riforma della sentenza impugnata, l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 23 dd. 18 dicembre 1996)
Egli ha infatti fondatamente dedotto in entrambi i procedimenti il vizio di difetto di istruttoria e di motivazione: e, infatti, non è stata considerata a tale riguardo, né dal Comune di Canazei, né dal T.R.G.A,, la sostanziale valenza assunta dalla concessione gratuita rilasciata nel 1978 dal Comune di Livinallongo al medesimo sig. Filippin (per l’esecuzione di lavori di “manutenzione straordinaria struttura portante banco vendita”, cioè del manufatto di cui trattasi, così come, peraltro, gli atti impugnati in primo grado non hanno tenuto conto neppure del fatto che il Sindaco di Livinallongo in data 16 maggio 1968 ha concesso in affittanza al signor Filippin il terreno, per lo svolgimento del commercio ambulante (con atto reiterato in data 10 maggio 1970), ed ha accolto in data 5 maggio 1975 l’istanza volta alla apertura di un nuovo esercizio per il commercio fisso.
Il primo di tali provvedimenti,- tutti divenuti inoppugnabile, poiché nessuno a quel tempo ne ha contestato la legittimità - costituisce un titolo che giustifica il mantenimento del manufatto, e ciò a prescindere dall’epoca della sua originaria costruzione, considerandolo quindi per implicito come legittimamente realizzato per l’innanzi, mentre gli altri due atti evidenziano che il Comune di Livinallongo ha più volte esercitato i propri poteri istituzionali con riferimento alle aree in questione.
Queste circostanze non possono non avere ricadute sull’esito del presente giudizio.
Così come il Presidente della Repubblica con la decisione del 22 ottobre 2008 ha annullato il provvedimento di acquisizione, per corrispondenti ragioni questo Collegio ritiene di annullare l’ordinanza di demolizione n. 23 del 18 dicembre 1996.
Infatti, il Comune di Canazei e lo stesso T.R.G.A. non hanno tenuto in adeguata considerazione il contenuto e l’anzidetta valenza della concessione gratuita anzidetta: essi hanno considerato che “da sempre” il relativo sedime sarebbe stato incluso nel territorio comunale di Canazei, e ciò proprio in quanto il problema confinario tra il medesimo Comune di Canazei è insorto soltanto nel 1985.
Tuttavia, l’amministrazione comunale qui appellata – e, in primis, con i suoi provvedimenti impugnati in primo grado – avrebbe dovuto tener conto non solo della preesistente storia amministrativa dei luoghi e dei provvedimenti abilitativi più volte emessi dal Comune di Livillongo.
Del resto, il Comune di Canazei era anche a propria volta a conoscenza delle varie attività poste in essere dal sig. Filippin e dal suo dante causa, da tempo note e oggetto di altri provvedimenti, se non altro poiché il sedime di cui si discute era stato inscritto – come rilevato innanzi - nel libro fondiario del comune catastale di Canazei: ciò avrebbe reso ben possibile nei termini dovuti una impugnazione degli atti del Comune di Livillongo da parte dello stesso Comune di Canazei, se si assume come veritiero il proprio assunto circa il fatto che l’area in questione era “da sempre” ricadente nel suo territorio.
Sempre in dipendenza di ciò, peraltro, neppure risulta condivisibile l’assunto contenuto nelle premesse motivazionali dell’ingiunzione a demolire, secondo il quale “presso il Comune di Livinallongo non risulta essere depositata nessuna concessione in sanatoria relativamente al chiosco abusivo in località Passo Pordoi”, posto che il Comune di Canazei era in ogni caso tenuto a considerare al riguardo anche l’esistenza dell’anzidetto titolo edilizio rilasciato nel 1978 all’appellante dal Comune di Livillongo, oltre agli altri provvedimenti rilasciati dal medesimo Comune
Parrebbe di capire che nell’implicita prospettazione del Comune di Canazei, nonché dello stesso T.R.G.A., i provvedimenti emanati nei riguardi dell’appellante da parte del Comune di Livinallongo dovrebbero essere ritenuti ‘nulli’ in quanto viziati da incompetenza assoluta, in quanto eccedenti la competenza territoriale di quest’ultimo: ma la stessa e ben dirimente circostanza dell’incertezza del confine tra i due Comuni e l’invero significativa circostanza che il mappale n. 69 del Comune censuario di Livinallongo risultava ab origine inscritto come proprietà di quest’ultimo induce il Collegio a rilevare che la nullità del provvedimento amministrativo per difetto assoluto di attribuzione, prevista dall’art. 21-septies della L. 7 agosto 1990, n. 241, va circoscritta ai soli casi di incompetenza assoluta o di c.d. “carenza di potere in astratto”, ossia al caso in cui manchi del tutto una norma che attribuisca all’amministrazione il potere in fatto esercitato (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 28 gennaio 2011, n. 676).
Tale evenienza non è nella specie ravvisabile, e in dipendenza di ciò i richiamati provvedimenti rilasciati dal Comune di Livinallongo (anche quello del 1978) non possono essere dichiarati nulli da questo giudice a’ sensi di quanto disposto dall’art. 31, comma 4, seconda parte, cod. proc. amm. e, semmai, considerati, in dipendenza della sua intervenuta inoppugnabilità, quale implicita legittimazione circa l’insistenza in loco del manufatto.
In altri termini, al riguardo rileva un principio generale del diritto pubblico, per il quale – se un ente locale esercita i propri poteri con riferimento ad alcune particelle che ritiene rientrare nell’ambito del proprio territorio – i relativi provvedimenti sono idonei a diventare inoppugnabili in assenza dell’impugnazione di un soggetto interessato (incluso il Comune che lamenti l’invasione dei propri poteri istituzionali): per esigenze di tutela dell’affidamento dei consociati, posto a base anche dei principi riguardanti il funzionario di fatto, si deve ritenere che – se, in base ad accertamenti sopravvenuti, un’area considerata rientrante nel territorio di un Comune in realtà risulta rientrare nel territorio di un altro Comune – conservano piena rilevanza giuridica gli atti amministrativi emessi dal Comune poi risultato incompetente.
10.2.5. Neppure può essere accolta la tesi del Comune di Canazei e fatta sempre propria dal T.R.G.A., secondo la quale rimarrebbe comunque salva la parte dell’anzidetta ingiunzione a demolire, che richiama la difformità del chiosco in questione rispetto al vincolo paesaggistico gravante sull’area in cui tale manufatto è stato realizzato.
E’ decisivo considerare che, non essendo state valutate decisive circostanze di fatto e di diritto, la medesima ordinanza n. 23 del 1996 va annullata nella sua unitarietà.
Peraltro, si deve anche osservare come, a’ sensi dell’art. 8, comma 1, nn. 5 e 6 dello Statuto di autonomia speciale della Regione Trentino Alto Adige, approvato con D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, la Provincia Autonoma di Trento ha competenza esclusiva non solo in materia di “urbanistica e piani regolatori”, ma anche di “tutela del paesaggio” (cfr. ivi).
Orbene, nelle premesse motivazionali dell’ingiunzione a demolire è invero richiamata anche la circostanza che il manufatto in questione è stato realizzato “senza la necessaria autorizzazione della Commissione Comprensoriale per la tutela del paesaggio, competente al riguardo a’ sensi dell’art. 98 della L.P. 22 del 1991.
Tuttavia, il potere di ingiunzione in concreto esercitato dal Sindaco di Canazei identifica una repressione di un’attività confliggente con un interesse edilizio, e non già paesaggistico, posto che a’ sensi dell’art. 131 della L.P. 22 del 1991 il procedimento per il ripristino dei luoghi è di competenza della Giunta Provinciale, e non già del Sindaco.
Nel caso di specie risulta quindi applicato l’art. 122 della medesima L.P. 22 del 1991, il quale - per l’appunto - disciplina la repressione degli abusi edilizi, e non già paesaggistici: circostanza, questa, ulteriormente comprovata anche dal puntuale richiamo, operato sempre nelle premesse dell’ingiunzione a demolire, della disciplina contenuta al riguardo nella L. 28 gennaio 1977, n. 10.
10.3. Dall’annullamento in questa sede dell’ingiunzione a demolire n. 23 del 18 dicembre 1996 (e risultando già annullato l’atto di acquisizione emesso nel 2001 con la decisione del Presidente della Repubblica), discende per ineludibile necessità l’annullamento anche del provvedimento n. 1 dd. 22 febbraio 2011 con il quale il Responsabile dell’Ufficio commercio e pubblici esercizi del Comune di Canazei, in esito a due denunce di inizio di attività di vendita al dettaglio di abbigliamento nel chiosco di cui trattasi, ivi presentate dal signor Filippin sub n. 8626 dd. 15 novembre 2010 e n. 614 dd. 25 gennaio 2011, ha fatto divieto di svolgere l’attività medesima a’ sensi dell’art. 23 della Legge Provinciale 30 novembre 1992, n. 23.
Anche a prescindere dalla già assorbente circostanza per cui la sentenza n. 278 dd. 13 settembre 2012 resa al riguardo dal T.R.G.A. fonda sostanzialmente il proprio impianto motivazionale in termini di stretta consequenzialità rispetto alla predetta – e, per quanto detto innanzi, non corretta – sentenza n. 437 del 2000, concernente l’anzidetta ingiunzione a demolire, va comunque evidenziato che l’art. 8 della L.P. 30 luglio 2010, n. 17, laddove subordina l’attività commerciale al “rispetto delle norme urbanistiche e ambientali”, presuppone – all’evidenza – che il mancato rispetto di tali norme sia stato già accertato dalle autorità a ciò competenti: il che, nella specie non può dirsi proprio perché gli atti sanzionatori al riguardo emessi dallo stesso Comune sono risultati illegittimi, dapprima con la decisione straordinaria del 22 ottobre 2008 (quanto all’atto di acquisizione) e poi con la presente sentenza (quanto all’ordinanza di demolizione del chiosco).
11. Se, per tutto quanto detto innanzi, le sentenze impugnate con i due appelli in epigrafe devono essere riformate accogliendo i relativi ricorsi proposti in primo grado dal Filippin, nondimeno la sua domanda di risarcimento del danno da lui in primo grado sub R.G. 111 del 2011 e qui reiterata nell’appello proposto sub R.G. 7426 del 2012 va respinta: e ciò non solo in quanto difetta un’idonea comprova dei danni da lui subiti, ma per la considerazione – del tutto assorbente – che il medesimo signor Filippin, pur potendo attivare il proprio esercizio commerciale in dipendenza dell’ordinanza cautelare n. 39 del 9 giugno 2011 - a lui favorevole - emessa dal T.R.G.A., non ha provveduto a ciò.
Deve pertanto concludersi nel senso che il mancato esercizio da parte dell’appellante dell’attività commerciale è dipeso da una sua scelta imprenditoriale che in alcun modo può essere imputata per le sue conseguenze al Comune.
D’altra parte, la complessità delle questioni emerse nel corso dei procedimenti evidenzia l’assenza della rimproverabilità dell’amministrazione appellata.
12. Le spese e gli onorari di entrambi i gradi dei giudizi possono essere integralmente compensati tra le parti.
Vanno peraltro poste carico del Comune di Canazei le somme corrisposte per entrambi i gradi dei due giudizi a titolo di contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 31 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe – previa loro riunione – li accoglie (appelli: n. 2428 del 2000 e n. 7426 del 2012) e, per l’effetto, in riforma delle sentenze impugnate, accoglie i ricorsi rispettivamente proposti in primo grado e annulla gli atti con essi impugnati, nei sensi precisati in motivazione.
Respinge la domanda di risarcimento del danno presentata dal signor Filippin Giacinto.
Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari di entrambi i gradi dei due giudizi.
Pone a carico del Comune di Canazei le somme corrisposte per entrambi i gradi dei due giudizi a titolo di contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 31 maggio 2002 n. 115.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 febbraio 2014 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Antonio Amicuzzi, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore
Antonio Bianchi, Consigliere
Raffaele Prosperi, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 27/05/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)