ADUNANZE PLENARIE:
la P.E.C. bussa vieppiù alla porta
del processo amministrativo
e diviene oggetto di una Plenaria
(Ad. Plen. ordinanza 10 dicembre 2014,n. 33)
Principi di diritto enunciati
L'Adunanza Plenaria n. 33/2014 afferma i i seguenti principi di diritto:
1. le comunicazioni di segreteria tramite posta elettronica certificata sono valide anche se riferite a ricorsi notificati prima dell’entrata in vigore del c.p.a. (purché, comunque, successive a esso) e anche se indirizzate a un difensore che aveva omesso di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nel ricorso o nel primo atto difensivo;
2. la validità e l’efficacia della comunicazione tramite posta elettronica certificata possono essere contestate solo adducendo un difetto di funzionamento del sistema informatico o una causa di forza maggiore non imputabile al destinatario;
3. a fronte di una comunicazione effettuata ai sensi della lett.a), non può essere concesso il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile previsto dall’art.37 c.p.a., sulla base della sola deduzione (e del coerente rilievo) dell’incertezza giuridica sulla validità dell’utilizzo dello strumento di trasmissione della PEC.
Ordinanza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza
Plenaria)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso in opposizione proposto da
Gorla Alessandra, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Maurizio
Cossa Majno Di Capriglio, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma,
viale Parioli, 180; Messina Giovanni;
avverso il decreto presidenziale
n. 563 in data 19 aprile 2013 che ha
dichiarato estinto per perenzione il giudizio
in relazione al ricorso numero di registro
generale 5198 del 2006, proposto da:
Gorla Alessandra, rappresentato e difeso
dagli avv. Mario Sanino, Maurizio Cossa Majno Di Capriglio, con domicilio
eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli, 180; Messina Giovanni;
contro
Contestabile Maria Luigia, Nardelli
Silvano, rappresentati e difesi dagli avv. Carlo Sarasso, Marcello Corradi, con
domicilio eletto presso Marcello Corradi in Roma, Via Baldo degli Ubaldi,250;
nei confronti di
Comune di Verrua Savoia, rappresentato e
difeso dagli avv. Andrea Manzi, Antonio Finocchiaro, con domicilio eletto
presso Andrea Manzi in Roma, Via Federico Confalonieri, 5;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PIEMONTE -
TORINO: SEZIONE I n. 01877/2006, resa tra le parti, concernente permesso di
costruire;
Visto il decreto presidenziale n.563 del
2013;
visto il ricorso in opposizione a tale
decreto, notificato il 4 luglio 2013;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del
giorno 19 novembre 2014 il Cons. Carlo Deodato e uditi per le parti gli avvocati
Sanino, Corradi, e Salvatore Di Mattia per delega di Andrea Manzi;
Visti gli artt. 85, co. 4, 5, e 6 e 87,
co. 3, cod. proc. amm.
FATTO
Con la sentenza n.1877 del 2006, il
Tribunale amministrativo regionale del Piemonte, in accoglimento del ricorso proposto
dai Sigg.ri Maria Luigia Contestabile e Silvano Nardelli, annullava il permesso
di costruire n.67 del 30 dicembre 2004 e l’autorizzazione sanitaria del 27
dicembre 2005 rilasciati dal Comune di Verrua Savoia in favore dei
controinteressati Sigg.ri Alessandra Gorla e Giovanni Messina per la
realizzazione e l’esercizio dell’attività di allevamento di tredici cani
nell’immobile di loro proprietà, giudicandoli viziati da difetto di motivazione
in ordine al rispetto della distanza delle industrie insalubri dalle abitazioni
prescritta dall’art.216 r.d. 27 luglio 1934, n.1265.
Avverso la predetta decisione proponevano
appello i Sigg.ri Gorla e Messina, contestando la correttezza della statuizione
gravata e domandandone la riforma.
Si costituiva in giudizio il Comune di
Verrua Savoia, aderendo alle deduzioni svolte dagli appellanti e concludendo
per la riforma della decisione appellata.
Resistevano i Sigg.ri Contestabile e
Nardelli, contestando la fondatezza dell’appello, proponendo appello
incidentale condizionato avverso la reiezione del secondo motivo del ricorso di
primo grado e concludendo per la conferma della sentenza impugnata, in ipotesi
con diversa motivazione.
Con ordinanza n.3971, adottata nella
camera di consiglio del 28 luglio 2006, veniva sospesa l’esecutività della
sentenza appellata.
Con decreto presidenziale n.563 del 19
aprile 2013 il ricorso veniva dichiarato perento ai sensi dell’art.85 c.p.a.
Gli appellanti proponevano opposizione
avverso il predetto decreto, con atto del 2 luglio 2013, deducendo, in sintesi,
l’invalidità (nei termini meglio chiariti infra) della comunicazione
dell’avviso di perenzione all’indirizzo di posta elettronica certificata (d’ora
innanzi: PEC) del difensore, chiedendone la revoca e domandando la fissazione
dell’udienza di merito.
Il Comune di Verrua Savoia aderiva alle
conclusioni degli opponenti, mentre gli appellati invocavano la reiezione
dell’opposizione al decreto di perenzione.
Con ordinanza n.4211 del 6 agosto 2014 la
quarta sezione rimetteva all’Adunanza Plenaria la questione, di seguito meglio
illustrata, della validità della comunicazione dell’avviso di perenzione
tramite PEC al difensore degli appellanti.
Il ricorso veniva trattenuto in decisione
alla camera di consiglio del 19 novembre 2014, dinanzi all’Adunanza Plenaria.
DIRITTO
1.- La questione rimessa alla delibazione
dell’Adunanza Plenaria dalla quarta sezione può essere sintetizzata nel
problema della ritualità e, quindi, della validità della comunicazione
dell’avviso di perenzione effettuata tramite PEC a un difensore che aveva
omesso di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica nel primo atto
difensivo.
Per una migliore e più compiuta
comprensione di tutti gli aspetti della questione così riassunta, occorre,
tuttavia, procedere a una preliminare ricognizione degli elementi di fatto del
caso concretamente controverso e a una rassegna della disciplina normativa di
riferimento, alla cui stregua dev’essere giudicata la validità del decreto di
perenzione impugnato.
2.- Principiando dalla ricostruzione della
situazione di fatto, si deve rammentare che nel ricorso in appello del 25
maggio 2006 non era stato indicato l’indirizzo di posta elettronica dei
difensori dei ricorrenti, che la segreteria della quarta sezione aveva
provveduto a comunicare il 13 luglio 2012 tramite PEC a uno dei difensori degli
appellanti l’avviso di perenzione ultraquinquennale previsto dall’art.82
c.p.a., che nel termine prescritto da quest’ultima disposizione non era stata
presentata nuova istanza di fissazione di udienza, che il ricorso era stato
dichiarato perento con decreto presidenziale del 19 aprile 2013, che in data 2
luglio 2013 gli appellanti avevano presentato opposizione al predetto decreto,
sulla base dell’assunto dell’omessa ricezione di un valido avviso, e che con
ordinanza del 6 agosto 2014 la quarta sezione, riscontrando un contrasto
giurisprudenziale sulla questione della validità della comunicazione via PEC a
un difensore che aveva omesso l’indicazione del proprio indirizzo PEC nel primo
atto difensivo, siccome pertinente ad un procedimento iniziato prima
dell’entrata in vigore del c.p.a., ne ha rimesso la delibazione e la soluzione
all’Adunanza Plenaria.
Occorre, ancora, precisare che non
risultano contestati, in fatto, sia la correttezza dell’indirizzo PEC al quale
era stato inviato l’avviso, sia l’avvenuta ricezione del messaggio contenente
la comunicazione prevista dall’art.82 c.p.a.
3.- Procedendo alla definizione del
sistema di regole che integra il paradigma di legalità del decreto di
perenzione opposto dagli appellanti, appare utile seguire un criterio
cronologico, nell’indicazione della sequenza delle diverse disposizioni
intervenute a disciplinare la materia delle comunicazioni digitali degli atti
processuali, riservando all’analisi di cui infra l’identificazione dei criteri
ermeneutici di risoluzione delle antinomie o delle aporie registrabili
all’esito di tale rassegna.
L'art.16, comma 4, del d.P.R. 11 febbraio
2005, n. 68 (Regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta
elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003,
n. 3) ha espressamente escluso dall’ambito applicativo della disciplina
contestualmente introdotta l’uso “degli strumenti informatici e telematici nel
processo civile, nel processo penale, nel processo amministrativo, nel processo
tributario e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei
conti, per i quali restano ferme le specifiche disposizioni normative”.
Gli artt. 45 e 48 del d.lgs. 7 marzo 2005,
n.82 (codice dell’amministrazione digitale) hanno regolato gli effetti
giuridici delle comunicazioni via PEC.
L’art.136 del codice di procedura civile,
per come modificato dalla legge 28 dicembre 2005, n.263, ha ammesso lo
strumento della posta elettronica quale modalità di trasmissione delle
comunicazioni di cancelleria.
L’art.16 (commi 7-9) del d.l. 29 novembre
2008, n. 185 ha imposto ai professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti
con legge dello Stato e alle pubbliche amministrazioni di dotarsi di un
indirizzo PEC e ha stabilito che le comunicazioni tra di essi possono essere
inviate tramite PEC “senza che il destinatario debba dichiarare la propria
disponibilità ad accettarne l’utilizzo” (art.16, comma 9, d.l. cit.).
L’art.136 del c.p.a. (come modificato
dall’art.1 d.lgs. n.195 del 2011, decreto correttivo del codice) ha obbligato i
difensori a indicare nel ricorso o nel primo atto difensivo un indirizzo PEC,
prevedendo espressamente una presunzione di conoscenza delle comunicazioni
trasmesse allo stesso.
L’art.2, comma 6, dell’Allegato 2 al
c.p.a. ha previsto che la segreteria effettua le comunicazioni alle parti ai
sensi dell’art.136 o, altrimenti, nelle forme previste dall’art.45 delle
disposizioni di attuazione del c.p.c.
L’art.16 del d.l. 18 ottobre 2012, n.179
ha disciplinato compiutamente le comunicazioni e le notificazioni nel processo
civile prevedendo l’utilizzo della PEC quale modalità esclusiva di trasmissione
degli atti.
L' art. 16-ter (Pubblici elenchi per
notificazioni e comunicazioni) del d.l. 18 ottobre 2012, n.179, inserito
dall'art. 1, comma 19, n. 2), della legge 24 dicembre 2012, n. 228, ha previsto
che “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e
comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e
stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli
4 e 16, comma 12, del presente decreto; dall'articolo 16, comma 6, del
decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28 gennaio 2009, n. 2, dall'articolo 6-bis del decreto legislativo 7
marzo 2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici,
gestito dal Ministero della giustizia”.
L’art.7, comma 2, della legge 31 dicembre
2012, n.247 (ordinamento professionale forense) ha imposto agli ordini
professionali di pubblicare in apposito elenco, consultabile dalle pubbliche
amministrazioni, gli indirizzi PEC comunicati dagli iscritti “anche al fine di
consentire notifiche di atti e comunicazioni per via telematica da parte degli
uffici giudiziari”.
L’art.42 del d.l. 24 giugno 2014, n.90 ha
esteso al processo amministrativo la disciplina contenuta nel d.l. n.179 del
2012.
L’art.45-bis del d.l. n.90 del 2014 ha
modificato l’art.136 del c.p.a., eliminando l’obbligo di indicazione
dell’indirizzo PEC nel primo atto difensivo, sulla base del presupposto che gli
indirizzi dei difensori risultano dai pubblici elenchi ai quali le segreterie
hanno (ormai) accesso diretto.
4.- Così chiariti i termini di fatto della
situazione esaminata e la cornice regolatoria che configura la disciplina
normativa di riferimento, si deve ricercare, nella sequenza delle disposizioni
legislative sopra indicate, il paradigma di legalità della comunicazione
controversa e, cioè, la regola alla cui stregua dev’essere giudicata la
validità di quest’ultima.
Dalla rassegna delle norme dedicate a
regolare le comunicazioni digitali tra pubbliche amministrazioni e
professionisti che si sono succedute dal 2005 a oggi si ricava, tuttavia,
l’impressione di un quadro legislativo frammentato e incoerente e, come tale,
privo di quel coordinamento sistematico e di quella chiarezza lessicale che
assicurerebbero parametri affidabili di identificazione del precetto di
riferimento.
Procedendo, nondimeno, alla disamina delle
disposizioni sopra indicate, deve, innanzitutto, chiarirsi che anche la ricerca
della disposizione applicabile alla fattispecie in esame resta soggetta alla
regola generale espressa nel brocardo tempus regit actum (da valersi quale
criterio fondamentale di governo dell’attività ermeneutica del diritto
processuale).
Deve, quindi, escludersi l’utilizzabilità,
quali parametri di legalità, di innovazioni legislative successive alla
comunicazione dell’avviso controverso (se non nella limitata misura in cui
servano a chiarire la portata precettiva di disposizioni precedenti).
4.1- Passando all’esame delle disposizioni
astrattamente applicabili ratione temporis, va, innanzitutto, negata
l’applicabilità al processo amministrativo dell’innovazione apportata nel 2005
alla disciplina processualcivilistica delle modalità di comunicazione del
biglietto di cancelleria.
E ciò sia perché, come argomento
ermeneutico generale, la diretta applicabilità delle disposizioni processuali
civili al processo amministrativo è consentita (anzi: imposta) nelle sole
ipotesi in cui il primo ordinamento esprima principi generali che non
rinvengono nel secondo una sufficiente ed esaustiva declinazione regolatoria,
come, peraltro, confermato dall’art.39 del c.p.a. (cfr. ex multis Cons. St.,
sez. IV, 8 novembre 2011, n.5903), ma tale evenienza dev’essere esclusa nella
fattispecie in esame (non potendosi certo qualificare come principio generale
la disciplina delle modalità tecniche delle comunicazioni di cancelleria), sia
(e, forse, soprattutto) perché l’introduzione di forme di trasmissione digitale
di avvisi di segreteria postula (di fatto, prima che di diritto) la
predisposizione di un sistema informatico tecnicamente capace di utilizzare
strumenti elettronici di comunicazione.
In altri termini, l’introduzione
legislativa di modalità digitali di comunicazione esige la preliminare
organizzazione amministrativa che ne consenta il corretto funzionamento (tanto
che l’utilizzo della PEC nel processo amministrativo è stato normativamente
previsto solo dopo che il sistema informatico della giustizia amministrativa
era stato collaudato come idoneo a sostenere quell’innovazione), sicché resta
preclusa ogni applicazione analogica o estensiva al processo amministrativo di
disposizioni sulle comunicazioni elettroniche specificamente destinate al solo
processo civile.
4.2- Più complessa si rivela, invece, la
ricerca della portata precettiva delle innovazioni contenute nel decreto legge
n.185 del 2008 e, in particolare, della riferibilità dei precetti ivi
consacrati anche alle comunicazioni processuali.
La formulazione in termini generali delle
disposizioni che impongono ai professionisti e alle pubbliche amministrazioni
la dotazione di un indirizzo PEC e che ammettono l’uso di tale strumento per le
comunicazioni tra di essi, unitamente all’assenza, nel testo delle relative
norme, di esplicite esclusioni, dal perimetro del loro ambito applicativo, di
segmenti soggettivi od oggettivi, parrebbero imporre all’interprete la
conclusione della soggezione alla nuova disciplina anche delle comunicazioni
attinenti ai rapporti tra i professionisti (nella specie: gli avvocati) e
l’amministrazione della giustizia (sia essa ordinaria o amministrativa).
Tale opzione ermeneutica va, tuttavia,
rifiutata, sulla base delle considerazioni di seguito esposte.
L’ordinamento processuale (in generale) e
il regime delle modalità di comunicazione o di notificazione degli atti
giudiziari (in particolare) esigono, infatti, come, peraltro, espressamente
previsto in materia di comunicazioni a mezzo PEC dall’art.16, comma 4, d.P.R.
n.68 del 2005, una disciplina speciale, in ragione della oggettiva differenza
degli interessi e dei diritti (anche di rango costituzionale) dallo stesso
implicati e della palese peculiarità delle relative esigenze regolatorie, e non
tollerano modifiche non specificamente pensate, strutturate e destinate alla
revisione delle regole del processo.
Se è vero, in altri termini, che anche
l’amministrazione della giustizia resta astrattamente soggetta alla disciplina
generalmente dettata per le pubbliche amministrazioni, è anche vero che le
regole che si rivolgono alla gestione del processo devono trovare una fonte
speciale nell’ordinamento processuale e non possono essere desunte, in esito a
un incerto percorso ermeneutico, dall’esegesi di disposizioni rivolte, in via
generale, alle pubbliche amministrazioni.
Anche la storia degli ordinamenti
processuali insegna che la disciplina delle procedure giurisdizionali ha sempre
rinvenuto la sua unica fonte in atti legislativi espressamente dedicati alla
costruzione o alla revisione delle regole di ogni peculiare tipologia di
processo, così da integrare sottosistemi dell’ordinamento, caratterizzati da
autonomia e specialità.
Nondimeno, dev’essere riconosciuta alle
innovazioni introdotte dall’art.16 d.l. n.185 del 2008 una valenza non
trascurabile, ancorchè non decisiva, nella ricostruzione delle dinamiche del
processo di informatizzazione dei rapporti tra pubbliche amministrazioni e
professionisti.
La disposizione in commento, infatti, pur
non prevedendo l’utilizzo della PEC per le comunicazioni processuali, ha,
tuttavia, imposto a tutti i professionisti (e, perciò, anche agli avvocati) di
dotarsi di un indirizzo PEC e, quindi, di apprestare un’organizzazione
professionale idonea alla ricezione di comunicazioni amministrative con le
modalità e la valenza giuridica della PEC (per come stabilita dagli artt.45 e
48 del CAD).
Ne consegue che, fin dal 2008, i
professionisti hanno dovuto attrezzare i loro studi (mediante l’utilizzo di
adeguati strumenti informatici e l’impiego di personale appositamente formato)
in modo da poter ricevere, conoscere e archiviare tutte le comunicazioni
amministrative trasmesse via PEC, in tempi e modalità coerenti con le esigenze
di una corretta e funzionale gestione dei rapporti con le pubbliche
amministrazioni di riferimento.
Dal momento, in altri termini, della
comunicazione del proprio indirizzo PEC al consiglio dell’ordine, gli avvocati
erano, quindi, edotti (anche in ragione della peculiare competenza implicata
dalla loro attività professionale) degli effetti giuridici di quella
innovazione e, quindi, della radicale trasformazione delle modalità di comunicazione
tra di essi e la pubblica amministrazione (in generale e di quella della
giustizia in particolare).
4.3- Così esclusa, con le precisazioni
appena formulate, la diretta applicabilità al processo amministrativo anche del
d.l. n.185 del 2008, non resta che identificare l’art.136 del c.p.a. come
paradigma di legalità (ratione temporis) utilizzabile al fine di scrutinare la
validità dell’avviso di perenzione nella specie opposto (in quanto comunicato
dopo l’entrata in vigore della predetta disposizione processuale).
Sennonchè, la questione (apparentemente
semplice) è complicata dalla formulazione testuale dell’art.136, là dove, prima
dell’ultima modifica, imponeva ai difensori l’indicazione del loro indirizzo
PEC nel ricorso o nel primo atto difensivo e ricollegava (o, meglio, sembrava
ricollegare) a tale indicazione la presunzione di conoscenza delle comunicazioni
effettuate con tale sistema.
4.3.1- Tale disposizione si presta,
quindi, a una duplice interpretazione: quella che, valorizzando la prescritta
indicazione dell’indirizzo PEC, condiziona a tale adempimento l’operatività
della previsione relativa all’utilizzo della stessa PEC e quella che, al
contrario, reputa valide le comunicazioni effettuate con tale strumento, a
prescindere dall’avvenuta indicazione dell’indirizzo PEC nel primo atto
processuale (e sempre che l’indirizzo sia corretto e che il sistema di
trasmissione abbia funzionato).
4.3.2- L’Adunanza Plenaria aderisce alla
seconda opzione ermeneutica, per le ragioni appresso illustrate.
Con l’entrata in vigore del c.p.a. (e,
poi, con la correzione operata all’art.136 dal d.lgs. n.195 del 2011) la trasmissione
degli avvisi tramite PEC è stata introdotta come modalità ordinaria delle
comunicazioni processuali, tanto che l’art. 2, comma 6, dell’Allegato 2 al
c.p.a. prescrive alle segreterie di effettuare le comunicazioni ai sensi
dell’art.136, o (solo) altrimenti, nelle forme di cui all’art.45 delle
disposizioni di attuazione del c.p.c.
Orbene, a fronte dell’introduzione nel
processo amministrativo dell’utilizzo della PEC come valido strumento di
comunicazione tra segreterie e difensori (del chè non è lecito dubitare), della
predisposizione di un apparato organizzativo informatico capace di sostenere
efficacemente tale innovazione e della digitalizzazione (già da tre anni, al
momento dell’entrata in vigore del c.p.a.) delle comunicazioni tra professionisti
e amministrazioni, reputa l’Adunanza che l’omessa indicazione dell’indirizzo
PEC del difensore resti del tutto ininfluente ai fini della validità della
comunicazione effettuata con quello strumento.
La prescrizione relativa all’indicazione
dell’indirizzo PEC del difensore dev’essere, invero, intesa come preordinata al
solo fine di agevolare la segreteria, in attesa di un accesso diretto (ormai
operativo) a un elenco pubblico, nella ricerca della casella di riferimento, ma
non può essere decifrata come condizione di efficacia della norma (che
resterebbe, altrimenti, inammissibilmente rimessa, anche per i ricorsi
successivi all’entrata in vigore del c.p.a., all’iniziativa arbitraria del
difensore, pur in presenza della generale digitalizzazione, già dal 2008, dei
rapporti tra professionisti e pubbliche amministrazioni).
Diversamente opinando, invero, si
giungerebbe alla paradossale convinzione di giudicare invalida una
comunicazione via PEC, ancorchè tale strumento, al momento della sua
utilizzazione, fosse stato previsto come modalità ordinaria di trasmissione
degli avvisi nel processo amministrativo e nonostante il corretto funzionamento
del sistema; con ciò smentendo o, comunque, ridimensionando, inammissibilmente,
l’operatività di una delle innovazioni più significative nel processo di
digitalizzazione dei procedimenti giurisdizionali.
D’altra parte, il combinato disposto della
disposizione, del 2008, che obbligava gli avvocati a dotarsi di un indirizzo
PEC e a comunicarlo al loro consiglio dell’ordine, e dell’art.136 del c.p.a.,
che sanciva in via generale l’estensione al processo amministrativo di tale
modalità informativa, non può che essere letto, in esito a un’esegesi
sistematica e coordinata dei due precetti, come prescrittivo dell’introduzione
a regime (dall’entrata in vigore della norma processuale) delle comunicazioni
digitali nei giudizi amministrativi, restando così confermate l’assenza di
qualsivoglia valenza condizionante (rispetto all’efficacia della disposizione)
dell’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore nel primo atto difensivo e la
sua mera funzione di ausilio ai (nuovi) compiti di segreteria.
4.3.3- La validità di tale interpretazione
risulta, peraltro, avvalorata dall’art.7, comma 2, della legge n.247 del 2012,
che, laddove obbliga gli ordini professionali a pubblicare in apposito elenco,
consultabile dalle pubbliche amministrazioni, gli indirizzi PEC comunicati
dagli iscritti, “anche al fine di consentire notifiche di atti e comunicazioni
per via telematica da parte degli uffici giudiziari”, chiarisce che le
comunicazioni processuali via PEC possono essere effettuate anche a prescindere
dall’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore nel singolo processo di
riferimento e tramite l’accesso diretto delle segreterie e delle cancellerie all’elenco
pubblico formato dagli ordini professionali (come del resto confermato
dall’art.16 ter del d.l. n.179 del 2012).
Tale disposizione, a ben vedere,
costituisce la conferma più efficace dell’opzione interpretativa preferita,
nella misura in cui esclude, implicitamente, ma altrettanto chiaramente, che
l’operatività dell’innovazione esaminata resti subordinata all’indicazione
dell’indirizzo PEC nel primo atto difensivo.
4.4- Così riconosciuta l’operatività del
sistema della comunicazione via PEC, anche in mancanza dell’indicazione
dell’indirizzo nel primo atto processuale, occorre esaminare l’efficacia della
relativa trasmissione e dettagliare le possibilità di contestazione del suo
perfezionamento da parte del destinatario.
Si deve, al riguardo, premettere che la
comunicazione del documento informatico per via telematica, mediante l’utilizzo
di posta elettronica certificata, risulta assistita, sul piano tecnico,
dall’utilizzo di protocolli di trasmissione che ne assicurano l’assoluta
affidabilità, in ordine all’indirizzo del mittente, a quello del destinatario,
al contenuto della comunicazione e all’avvenuto recapito del messaggio, tanto
che l’art.48, comma 2, del CAD, equipara tale comunicazione alla notificazione
per mezzo di posta ordinaria e che l’art.136 c.p.a. sanziona con la presunzione
di conoscenza l’utilizzo della PEC.
A fronte delle garanzie tecniche di
sicurezza della PEC e della richiamata disciplina dell’efficacia giuridica
delle relative comunicazioni, occorre rilevare che al destinatario che intenda
contestarne, in concreto, la valenza e l’idoneità alla trasmissione della
conoscenza dell’atto processuale non resta che dedurre il difetto di
funzionamento del sistema o una causa di forza maggiore, come tale non
imputabile al destinatario, che gli abbia impedito la ricezione del messaggio.
Al di fuori di queste circoscritte ed
eccezionali evenienze, il sistema resta presidiato da fattori tecnologici di
affidabilità tali da escludere la deducibilità di contestazioni afferenti a
cause genericamente impeditive della tempestiva conoscenza del documento
processuale trasmesso via PEC.
Nel caso di specie, peraltro, non solo
difetta l’allegazione di fattori ostativi alla ricezione e alla lettura del
messaggio, ma, al contrario, lo stesso risulta essere stato letto, sicchè non
residua alcun dubbio sul funzionamento del sistema e sul recapito della
comunicazione.
4.5- Tali ultime considerazioni
consentono, d’altra parte, di assegnare una valenza decisiva al principio della
sanatoria per l’avvenuto raggiungimento dello scopo (codificato all’art.156,
comma 3, c.p.c.), che, com’è noto, esprime una regola di scrutinio della
validità degli atti processuali che impedisce di riconoscerne la nullità,
nell’ipotesi in cui gli stessi, nonostante la loro invalidità, abbiano
conseguito, comunque, il fine al quale risultano preordinati.
Il rispetto di tale principio, che, per la
sua evidente valenza generale, deve intendersi applicabile anche nel processo
amministrativo in ragione del rinvio esterno cristallizzato nell’art.39, comma
1, c.p.a. (si veda ex multis Cons. St., sez. III, 16 aprile 2014, n.1965),
impone di giudicare, in ogni caso, sanata, in ossequio all’art.156, comma 3,
c.p.c., la comunicazione in questione, quand’anche ritenuta nulla per
violazione dell’art.136 c.p.a. (ove interpretato secondo l’opzione ermeneutica
prima rifiutata), per aver conseguito lo scopo al quale era preordinata e,
cioè, la trasmissione al difensore degli appellanti dell’avviso di perenzione
(nella misura in cui è pacificamente entrato nella sfera di conoscenza del
destinatario).
5.- Così riconosciuta la validità della
comunicazione dell’avviso in questione, occorre verificare la sussistenza dei
presupposti che, ai sensi dell’art.37 c.p.a., autorizzano la rimessione in
termini per errore scusabile, concedibile d’ufficio e, comunque, espressamente
invocato dai ricorrenti.
5.1- Occorre premettere che il beneficio
della rimessione in termini per errore scusabile riveste carattere eccezionale,
nella misura in cui si risolve in una deroga al principio fondamentale di
perentorietà dei termini processuali (ivi incluso quello entro il quale è
necessario, per evitare la perenzione, presentare domanda di fissazione di
udienza per i ricorsi ultraquinquennali), con la conseguenza che la
disposizione che lo ha codificato (art.37 c.p.a.) deve ritenersi di stretta
interpretazione (Cons. St., sez. V, 28 luglio 2014, n.3986).
E’ stato, infatti, opportunamente chiarito
che un’amministrazione eccessivamente generosa di tale beneficio finirebbe per
inficiare il principio, quantomeno di pari dignità rispetto all’esigenza di
assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, della parità delle parti
relativamente all’osservanza dei termini processuali perentori (Cons. St., sez.
IV, 27 giugno 2014, n.3231).
Il beneficio dell’errore scusabile va,
quindi, riconosciuto solo in esito a un rigoroso accertamento dei presupposti
che lo legittimano, ai sensi dell’art.37 c.p.a., e, quindi, a fronte di
obiettive incertezze normative o in presenza di gravi impedimenti di fatto, non
imputabili alla parte (Cons. St., sez. V, 15 luglio 2014, n.3708).
5.2- Così precisato il rigore che deve
circondare la verifica delle condizioni che autorizzano la concessione del
beneficio in questione, si rileva che le ragioni di incertezza su questioni di
diritto o i gravi impedimenti di fatto devono riferirsi all’esercizio della
potestà processuale che è stata persa per effetto dell’inutile scadenza del
termine perentorio entro il quale avrebbe dovuto essere esercitata, e non anche
a profili diversi.
Posto, infatti, che l’errore rispetto al
quale dev’essere accertata la scusabilità è quello relativo all’omessa,
tempestiva attivazione di un potere processuale, non v’è dubbio che le ragioni
che l’hanno impedita devono riferirsi a difficoltà interpretative della
normativa di riferimento circa i presupposti, le modalità, i termini o gli
effetti dell’esercizio della potestà in questione ovvero a cause di forza
maggiore che hanno materialmente impedito l’adempimento processuale scaduto.
5.3- Così chiarito l’ambito di
identificabilità delle ragioni che hanno indotto la parte in errore, deve
rilevarsi che, nella fattispecie in esame, non vengono addotte motivazioni di
incertezza circa la disciplina processuale della presentazione dell’istanza che
scongiura la dichiarazione della perenzione del ricorso (chiaramente contenuta
nell’art.82, comma 1, c.p.a.), ma si allega una presunta invalidità della
comunicazione dell’avviso dalla cui ricezione decorre il termine perentorio
nella specie non osservato.
5.4- Sennonchè, si è già rilevato che
l’avviso era stato validamente comunicato e che, comunque, era stato, di fatto,
ricevuto e letto dal destinatario, sicchè l’inosservanza del termine perentorio
in questione va ascritta esclusivamente alla negligenza del difensore e non a
incertezze di diritto relative al regime processuale della perenzione.
6.- Dev’essere, da ultimo, esaminata la
questione, sollevata nell’atto di opposizione al decreto di perenzione, della
compatibilità dell’opzione ermeneutica preferita con gli artt.24 e 11 della
Costituzione e con l’art.6 della CEDU.
6.1- Assumono, al riguardo, i ricorrenti
che la disciplina di riferimento, per come interpretata da questa Adunanza
Plenaria, confligge con i principi cristallizzati nella Costituzione e nella
CEDU a presidio del diritto di difesa e del giusto processo.
6.2- L’assunto è infondato e va disatteso.
6.3- Come già rilevato, infatti, il
sistema delle comunicazioni tramite PEC degli atti processuali risulta
assistito da garanzie tecniche di sicurezza, così affidabili da poter essere
equiparato, ai fini che qui rilevano, al sistema delle notificazioni per posta
ordinaria.
Non solo, ma l’utilizzo della PEC è stato
introdotto nel processo amministrativo circa tre anni dopo che i professionisti
erano stati obbligati, seppur ad altri fini, a dotarsi di una casella PEC, a
usarla per le comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e, quindi, in
definitiva, a impadronirsi degli strumenti di governo dei nuovi processi di
trasmissione delle informazioni, in un arco temporale sicuramente idoneo ad
assimilarne tempi e modi di utilizzo.
6.4- Deve, quindi, escludersi qualsivoglia
lesione dei principi del giusto processo o dell’integrità del diritto di
difesa, che non risultano in alcun modo vulnerati dall’utilizzo di uno
strumento di comunicazione degli atti processuali del tutto idoneo a garantire
la certezza della trasmissione della conoscenza degli avvisi e, quindi, a
consentire il tempestivo e utile esercizio delle potestà processuali dagli
stessi implicate.
7.- Alla stregua delle suesposte
considerazioni possono essere enunciati i seguenti principi di diritto:
a) le comunicazioni di segreteria tramite
posta elettronica certificata sono valide anche se riferite a ricorsi
notificati prima dell’entrata in vigore del c.p.a. (purchè, comunque,
successive a esso) e anche se indirizzate a un difensore che aveva omesso di indicare
il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nel ricorso o nel primo
atto difensivo;
b) la validità e l’efficacia della
comunicazione tramite posta elettronica certificata possono essere contestate
solo adducendo un difetto di funzionamento del sistema informatico o una causa
di forza maggiore non imputabile al destinatario;
c) a fronte di una comunicazione
effettuata ai sensi della lett.a), non può essere concesso il beneficio della
rimessione in termini per errore scusabile previsto dall’art.37 c.p.a., sulla
base della sola deduzione (e del coerente rilievo) dell’incertezza giuridica
sulla validità dell’utilizzo dello strumento di trasmissione della PEC.
8.- Alle considerazioni che precedono
consegue il rigetto dell’opposizione al decreto di perenzione.
9.- Le spese seguono la soccombenza, come
prescritto dall’art.85, comma 5, c.p.a., e vengono liquidate come in
dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando
sull’opposizione al decreto di perenzione indicata in epigrafe, così provvede:
formula i principi di diritto di cui in
motivazione;
respinge l’opposizione al decreto di
perenzione n. 563 del 2013;
condanna gli opponenti e il Comune di
Verrua Savoia, in solido tra loro, a rifondere ai resistenti le spese della
presente fase processuale, che liquida in complessivi Euro 1.500,00.
Così deciso in Roma nella camera di
consiglio del giorno 19 novembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Deodato, Consigliere, Estensore
Nicola Russo, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/12/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)