venerdì 30 agosto 2013

RISARCIMENTO: sussiste la responsabilità aquiliana della P.A. in caso di attuazione tardiva del giudicato (T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, sentenza 22 novembre 2012 n. 695).


RISARCIMENTO: 
sussiste la responsabilità aquiliana della P.A.
in caso di attuazione tardiva del giudicato 
(T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 
sentenza 22 novembre 2012 n. 695). 



Sentenza interessantissima.
Non rilevato il difetto di giurisdizione a favore del G.O.; esteso l'effetto conformativo del giudicato d'annullamento al "bene della vita" o al suo surrogato per equivalente; applicazione dell'art. 2043 c.c. per violazione dei canoni di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.; mancata applicazione dell'art. 1227 c.c. per l'omessa attivazione del ricorrente in sede di ottemperanza.
Chi ne ha altre aggiunga, prego ...
FF


Massima

1. In materia di appalti, e più in generale negli ambiti in cui si esplica un’attività economica soggetta alle regole del mercato, il “fattore tempo” è un elemento di estremo rilievo, in quanto il suo eccessivo protrarsi può determinare il mutamento delle condizioni economiche in base alle quali è stata presentata una determinata offerta in sede di gara ed avere dunque una pesante incidenza sulla convenienza economica dell’attività da svolgere. 
2. Nel caso di specie, l’offerta è stata formulata nell’ambito della procedura ad evidenza pubblica che ha avuto luogo nei primi mesi del 2004; lo stesso giudicato si è formato nel 2005, l'aggiudicazione provvisoria e l'offerta della P.A. di stipulare il contratto risale al 2009, ed il ricorso per risarcimento dei danni da ritardata esecuzione del giudicato al 2009 stesso.
3.  Dopo un giudicato da cui deriva l’obbligo dell’Amministrazione di aggiudicare e stipulare con la parte vittoriosa in giudizio, la responsabilità per mancata stipulazione non può essere qualificata come responsabilità precontrattuale, ma come responsabilità per inosservanza degli obblighi derivanti dal giudicato. Infatti un conto è la conduzione di una trattativa contrattuale, da cui non deriva mai un obbligo di stipulare un contratto, ma solo l’obbligo del rispetto dei principi di buona fede (con conseguente responsabilità precontrattuale in caso di inosservanza), un conto è essere obbligati, in virtù di un giudicato, a procedere ad aggiudicazione e stipulazione (cfr. Cons. Stato VI 11 gennaio 2010 n. 20).
4. Ciò precisato, sussistono nel caso in esame i presupposti per ritenere integrata la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.
E’ ravvisabile innanzi tutto l’ingiustizia del danno, sotto il duplice profilo del danno arrecato non iure e contra ius. Che le imprese ricorrenti avessero diritto all’aggiudicazione della gara è circostanza incontestabile, stabilita dalla sentenza n. 865/2004. L’inerzia serbata dall’Amministrazione per un lungo periodo di tempo non trova giustificazione alcuna. Peraltro la difesa del Comune non adduce alcuna argomentazione in ordine al ritardo nel compimento degli atti necessari all’esecuzione della sentenza sopra citata.
Sussiste dunque anche il carattere gravemente colposo del comportamento serbato dall’amministrazione, avendo la stessa ritardato, per un lungo lasso di tempo, di rideterminarsi in ordine alla riaggiudicazione dell’appalto in palese violazione del giudicato di questo Tribunale. In ogni caso, deve ricordarsi, la Corte di Giustizia CE, Sez. III - 30 settembre 2010 (C-314/09) ha a chiare lettere affermato che la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un'amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, finanche se la normativa preveda una presunzione di colpevolezza vincibile solo attraverso la dimostrazione della scusabilità dell’errore. Nel caso di specie peraltro, come già rilevato, nessuna deduzione è stata spiegata per prospettare l’eventuale scusabilità dell’errore.
5. Sussiste altresì il nesso di causalità tra il comportamento serbato dall’Amministrazione e il mancato ottenimento dell’appalto, considerato che il rifiuto alla stipulazione da parte delle ricorrenti non può quindi essere considerato come comportamento rinunziatario, sintomo di disinteresse delle imprese, ma come legittimo esercizio di una facoltà prevista dalla legge, a fronte di un comportamento ingiustificatamente dilatorio ed omissivo della stazione appaltante.
Dunque, sussistono tutti i presupposti per l’imputazione del danno all’amministrazione.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria
Sezione Staccata di Reggio Calabria
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 56 del 2009, proposto da:
T&M Costruzioni e Servizi S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, Trivel Sud di Talarico Antonio, in persona del legale rappresentante, ATI T&M Costruzioni e Servizi S.r.l. e Trivel Sud di Talarico Antonio, rappresentati e difesi dall'avv. Massimiliano Carnovale, con domicilio eletto presso lo Studio dell’avv. Mario Antonio Plutino in Reggio Calabria, via Bolzano n. 12; 
contro
Comune di Caulonia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Michele Salazar e Katiuscia Dimasi, con domicilio eletto presso lo Studio del primo in Reggio Calabria, via Re Ruggero, 9; 
per la condanna
del Comune di Caulonia al risarcimento del danno derivante dall’annullamento, in sede giurisdizionale, della determinazione n 104 del 14 04..2004 con cui è stata disposta l'aggiudicazione definitiva dell'appalto dei lavori di bonifica del dissesto idrogeologico - rupe centro storico nel Comune di Caulonia.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Caulonia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 ottobre 2012 la dott.ssa Valentina Mameli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1) Le società ricorrenti, quali componenti dell’ATI T&M Costruzioni e Servizi S.r.l. e Trivel Sud di Talarico Antonio, partecipavano alla gara indetta dal Comune di Caulonia per l’esecuzione di lavori di bonifica del dissesto idrogeologico – Rupe Centro storico nel Comune di Caulonia Centro, per l’importo a base di gara di € 1.668.835,03, di cui € 25.000,00 per oneri della sicurezza non soggetti a ribasso.
La gara veniva aggiudicata all’ATI Circosta Costruzioni.
Le odierne ricorrenti promuovevano ricorso, chiedendo l’annullamento dell’aggiudicazione, oltre al risarcimento del danno.
Con sentenza n. 865 del 12/11/2004 questo Tribunale accoglieva il ricorso quanto alla domanda di annullamento dell’aggiudicazione. In ordine alla domanda risarcitoria, invece, la sentenza stabiliva che “non può trovare ingresso nel presente giudizio la richiesta di risarcimento del danno in quanto proposta in modo generico senza la prova di tutti gli elementi costitutivi del danno per fatto illecito”.
In data 22 febbraio 2005 il Comune chiedeva alle ricorrenti, ai fini della stipula del contratto, la produzione dei seguenti documenti: certificato camerale recante l’informazione di cui all’art. 9 DPR n. 252/1998 e l’indicazione di eventuali fallimenti; certificato carichi pendenti; certificato casellario giudiziario; certificato SOA in originale.
In data 7 dicembre 2006 le società ricorrenti diffidavano il Comune a corrispondere il risarcimento del danno e formulavano istanza di accesso agli atti. Il Comune riscontrava l’istanza di accesso in data 23/01/2007.
Con determina n. 87 del 24 aprile 2007 il Comune, in esecuzione della sentenza del Tribunale, procedeva ad aggiudicare l’appalto in via provvisoria alle ricorrenti, dandone comunicazione alle interessate in pari data e richiedendo la produzione dei documenti già richiesti nel 2005, oltre al DURC.
Le ricorrenti, in data 11/05/2007, depositavano presso gli uffici i documenti richiesti.
Con determina n. 114 del 22 maggio 2007 il Comune, preso atto della documentazione depositata dalle imprese e verificata la conformità a legge della stessa, disponeva l’aggiudicazione definitiva in favore dell’ATI, autorizzando la stipula del contratto.
In data 6 novembre 2007 il responsabile dell’area tecnica, in esecuzione della determina n. 144/2007, invitava le società a depositare i documenti già richiesti, oltre all’atto costitutivo ATI in originale.
Seguiva, in data 14 novembre 2007, una comunicazione del legale delle ricorrenti con la quale le società, contestando il comportamento dilatorio tenuto dall’Amministrazione, dichiaravano di non voler procedere alla stipula del contratto, in considerazione del tempo trascorso che aveva determinato il mutamento delle condizioni e dei presupposti del lavoro, riservandosi di richiedere il risarcimento del danno.
Indi con atto notificato in data 26 gennaio 2009 al Comune di Caulonia proponevano il ricorso oggi in esame, per chiedere il risarcimento del danno derivante sia dalla mancata aggiudicazione della gara sia dal ritardo nell’esecuzione della sentenza n. 865 del 12/11/2004.
Si costituiva in giudizio il Comune di Caulonia, chiedendo il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza pubblica fissata per il 24 ottobre 2012, le parti hanno depositato memorie e repliche ai sensi dell’art. 73 cod. proc. amm. Indi la causa è stata trattenuta in decisione.
2) Il Comune ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per sopravvenuto giudicato sulla richiesta risarcitoria, deducendo che nel ricorso iscritto al RG n. 1332/2004, conclusosi con la sentenza n. 865 del 12/11/2004, le imprese ricorrenti avevano formulato domanda di risarcimento del danno patito per la mancata aggiudicazione della gara, e che detta domanda era stata rigettata dal Tribunale.
In replica all’eccezione di inammissibilità le ricorrenti argomentano che nel ricorso RG n. 1332/2004 la domanda risarcitoria era stata posta “in termini meramente apodittici” (cfr. pag. 6 memoria di replica depositata in data 1° ottobre 2012) e che su tale domanda non vi sarebbe stata una pronuncia di rigetto, tant’è che nel dispositivo della sentenza non vi sarebbe alcuna statuizione a riguardo.
Esaminando il fascicolo del ricorso RG 1332/2004, il Collegio osserva che le imprese ricorrenti avevano formulato, in quella sede, domanda risarcitoria nei seguenti termini: “La declaratoria di illegittimità degli atti impugnati comporterà l’aggiudicazione dell’appalto all’ATI ricorrente, quale reintegrazione in forma specifica, connessa alla definitività delle operazioni di gara rappresentate nel verbale del 5.2.04. Tuttavia essa non potrà ristorare il pregiudizio sofferto, dovendosi ad essa aggiungere il danno corrispondente alle lavorazioni (eventualmente) eseguite dalla attuale aggiudicataria che può essere quantificato nel 10% dell’importo dei lavori, oltre quanto determinato dall’Ecc.mo Tribunale in via equitativa per altre ragioni (perdita di chances, inutilizzo totale o parziale dei mezzi e delle risorse umane aziendali, aggravi finanziari)”.
Rispetto alla domanda così formulata il Tribunale ha ritenuto, con la sentenza n. 865 del 12/11/2004, che “non può trovare ingresso nel presente giudizio la richiesta di risarcimento del danno in quanto proposta in modo generico senza la prova di tutti gli elementi costitutivi del danno per fatto illecito”.
La sentenza è passata in giudicato (circostanza pacifica tra le parti).
Il Collegio non condivide l’assunto di parte ricorrente, secondo il quale sulla domanda risarcitoria non vi sarebbe stata, da parte del Tribunale, una pronuncia di rigetto. Il chiaro riferimento della sentenza all’assenza di prova è di per sé indicativo del fatto che il Tribunale ha esaminato la domanda, ritenendola tuttavia generica e non supportata dalla necessaria dimostrazione degli elementi costitutivi del danno. L’aver posto la domanda “in termini meramente apodittici” è una scelta delle ricorrenti, che tuttavia non “dequota” certo l’istanza, ritualmente introdotta nel giudizio e scrutinata dal Tribunale. Il dispositivo, che secondo le ricorrenti non recherebbe un’esplicita statuizione in ordine alla domanda risarcitoria, deve invece essere letto unitamente alla (essenziale) parte motivazionale della sentenza, cui, peraltro, il dispositivo espressamente rinvia laddove accoglie il ricorso “nei sensi indicati in motivazione”.
Stabilito dunque che il Tribunale, con la sentenza n. 865/2004, si è pronunciato sulla domanda risarcitoria e che la sentenza è passata in giudicato, il ricorso oggi all’esame, nella parte in cui si chiede il risarcimento del danno a seguito dell’illegittima aggiudicazione della gara, deve essere dichiarato inammissibile, essendo tale domanda coperta dal giudicato formatosi in relazione alla sentenza n. 865 del 12/11/2004.
3) Le ricorrenti avanzano altresì domanda risarcitoria per l’illegittima condotta tenuta dal Comune di Caulonia successivamente alla sentenza del Tribunale. Lamentano in sostanza il ritardo nell’esecuzione della sentenza, ovvero nella riaggiudicazione della gara a seguito della decisione, protrattosi per così tanto tempo da indurre le imprese ricorrenti a rifiutare la stipula del contratto, alla quale sono state invitate in data 6 novembre 2007, non avendovi più convenienza.
Ad avviso del Collegio la domanda è fondata, con le precisazioni di cui infra.
Giova ricordare che in occasione della partecipazione alla gara indetta dal Comune di Caulonia per i “lavori di bonifica del dissesto idrogeologico rupe centro storico” l’offerta presentata dalle ricorrenti veniva, in un primo momento, considerata la migliore per il massimo ribasso operato. Successivamente la stazione appaltante, procedendo ad una verifica dei prezzi unitari offerti dalle concorrenti, rettificava l’aggiudicazione, ritenendo migliore l’offerta dell’ATI Circosta Costruzioni s.r.l. Con la sentenza n. 865/2004 questo Tribunale ha rilevato che, sulla base del disciplinare di gara, doveva darsi prevalenza, in caso di discordanza tra i prezzi unitari offerti e il ribasso percentuale, a quest’ultimo, senza alcuna possibilità di rettifica sulla base dei prezzi unitari. Sulla base di tale rilievo veniva annullata l’aggiudicazione disposta a favore della Circosta Costruzioni.
Risultando dunque l’ATI odierna ricorrente la migliore offerente, con un ribasso percentuale pari a 18,672% e con un prezzo offerto di € 1.336.898,15, la stazione appaltante avrebbe dovuto, in esecuzione della sentenza, aggiudicare a questa la gara, procedendo alla stipula del contratto.
Nella vicenda oggi all’esame, invece, il Comune, dopo aver chiesto, nel febbraio 2005, i documenti necessari alla stipulazione del contratto, soltanto con la determina n. 87 del 24 aprile 2007, dunque a distanza di circa due anni e mezzo dalla sentenza, in esecuzione della pronuncia del Tribunale, procedeva ad aggiudicare l’appalto in via provvisoria alle ricorrenti, richiedendo alle imprese la produzione di una serie di documenti (gli stessi chiesti nel 2005, oltre il DURC). Le ricorrenti depositavano presso gli uffici i documenti richiesti in data 11/05/2007. Successivamente, il 6 novembre 2007, il responsabile dell’area tecnica, in esecuzione della determina n. 144/2007, invitava le società a depositare i documenti già richiesti, oltre all’atto costitutivo ATI in originale. Seguiva, in data 14 novembre 2007, una comunicazione del legale delle ricorrenti, con la quale le società dichiaravano di non voler procedere alla stipula del contratto, in considerazione del tempo trascorso che aveva determinato il mutamento delle condizioni e dei presupposti del lavoro, riservandosi di richiedere, comunque, il risarcimento del danno.
E’ opportuno precisare che il rifiuto alla stipula del contratto è facoltà espressamente prevista dall’art. 11 comma 9 del D.lgs. 163/2006, qualora il contratto non venga stipulato entro il termine stabilito, ovvero entro 60 giorni dall’aggiudicazione definitiva. Nel caso di specie, considerato che la riaggiudicazione è stata disposta con determina del 22 maggio 2007 e che l’invito alla stipulazione è avvenuto con la comunicazione del 6 novembre 2007, certamente non è stato rispettato il termine dei 60 giorni previsto dalla norma sopra citata. Deve poi ricordarsi che l’art. 11 comma 6 del D.lgs. 163/2006 stabilisce che l’offerta è vincolante per il periodo di 180 giorni (se il bando o l’invito non indicano un termine diverso).
Nel caso di specie deve poi considerarsi l’inerzia ingiustificata tenuta dal Comune per lungo tempo (quasi tre anni) per porre in essere gli adempimenti amministrativi discendenti dalle statuizioni del Tribunale.
In materia di appalti, e più in generale negli ambiti in cui si esplica un’attività economica soggetta alle regole del mercato, il “fattore tempo” è un elemento di estremo rilievo, in quanto il suo eccessivo protrarsi può determinare il mutamento delle condizioni economiche in base alle quali è stata presentata una determinata offerta in sede di gara ed avere dunque una pesante incidenza sulla convenienza economica dell’attività da svolgere. Nel caso di specie, l’offerta è stata formulata nell’ambito della procedura ad evidenza pubblica che ha avuto luogo nei primi mesi del 2004.
Alla luce di quanto sopra, il rifiuto alla stipulazione da parte delle ricorrenti non può quindi essere considerato come comportamento rinunziatario, sintomo di disinteresse delle imprese (secondo la lettura data dalla difesa del Comune resistente), ma come legittimo esercizio di una facoltà prevista dalla legge, a fronte di un comportamento ingiustificatamente dilatorio ed omissivo della stazione appaltante.
Il Collegio aggiunge, in proposito, che dopo un giudicato da cui deriva l’obbligo dell’Amministrazione di aggiudicare e stipulare con la parte vittoriosa in giudizio, la responsabilità per mancata stipulazione non può essere qualificata come responsabilità precontrattuale, ma come responsabilità per inosservanza degli obblighi derivanti dal giudicato. Infatti un conto è la conduzione di una trattativa contrattuale, da cui non deriva mai un obbligo di stipulare un contratto, ma solo l’obbligo del rispetto dei principi di buona fede (con conseguente responsabilità precontrattuale in caso di inosservanza), un conto è essere obbligati, in virtù di un giudicato, a procedere ad aggiudicazione e stipulazione (cfr. Cons. Stato VI 11 gennaio 2010 n. 20).
Ciò precisato, sussistono nel caso in esame i presupposti per ritenere integrata la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.
E’ ravvisabile innanzi tutto l’ingiustizia del danno, sotto il duplice profilo del danno arrecato non iure e contra ius. Che le imprese ricorrenti avessero diritto all’aggiudicazione della gara è circostanza incontestabile, stabilita dalla sentenza n. 865/2004. L’inerzia serbata dall’Amministrazione per un lungo periodo di tempo non trova giustificazione alcuna. Peraltro la difesa del Comune non adduce alcuna argomentazione in ordine al ritardo nel compimento degli atti necessari all’esecuzione della sentenza sopra citata.
Sussiste dunque anche il carattere gravemente colposo del comportamento serbato dall’amministrazione, avendo la stessa ritardato, per un lungo lasso di tempo, di rideterminarsi in ordine alla riaggiudicazione dell’appalto in palese violazione del giudicato di questo Tribunale. In ogni caso, deve ricordarsi, la Corte di Giustizia CE, Sez. III - 30 settembre 2010 (C-314/09) ha a chiare lettere affermato che la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un'amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, finanche se la normativa preveda una presunzione di colpevolezza vincibile solo attraverso la dimostrazione della scusabilità dell’errore. Nel caso di specie peraltro, come già rilevato, nessuna deduzione è stata spiegata per prospettare l’eventuale scusabilità dell’errore.
Sussiste altresì il nesso di causalità tra il comportamento serbato dall’Amministrazione e il mancato ottenimento dell’appalto, considerato che, come detto sopra, la rinuncia alla stipula formalizzata dalle imprese ricorrenti costituisce esercizio di una facoltà pienamente giustificata nel caso di specie.
Dunque, sussistono tutti i presupposti per l’imputazione del danno all’amministrazione.
Non resta che procedere alla relativa liquidazione sulla base del pregiudizio allegato e provato dalle ricorrenti.
Le imprese articolano come segue la domanda risarcitoria:
a) spese sostenute per la predisposizione della partecipazione alla gara e quindi dell’offerta, quantificata secondo prassi nell’importo dell’1% dell’importo originario dell’appalto (€ 1.668.835,03), e pari quindi a € 16.688, 53;
b) (mancato) utile che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto pari alla misura del 20% dell’importo a base dell’appalto, al netto del ribasso offerto (ovvero pari a € 1.336.898,15), corrispondente alla somma di € 267.379,60; in subordine nella misura del 10% dell’importo a base dell’appalto al netto del ribasso come da art. 345 L. n. 2248/1865 All. F;
c) perdita di un ulteriore accreditamento per l’ATI e per le imprese costituenti l’ATI, derivante dalla impossibilità di conseguire ulteriore certificazione utile ai fini della SOA;
d) ulteriori disagi e perdite di tempo, con inevitabili ricadute economiche derivanti dalla condotta illegittima tenuta dall’Ente resistente e dai suoi preposti anche dopo l’annullamento della gara;
e) mancato accreditamento delle società ricorrenti.
Il Collegio precisa che i danni valutabili in questa sede sono soltanto quelli prodottisi dopo la pronuncia della sentenza n. 865 del 12/11/2004. I danni determinatisi nel periodo antecedente rimangono coperti dal giudicato che ha respinto la relativa domanda per difetto di prova e per genericità. Invero le ricorrenti, nell’ambito del giudizio RG n. 1332/2004, avevano chiesto il danno corrispondente alle lavorazioni già eseguite dall’allora aggiudicataria, la Circosta Costruzioni. Conseguentemente devono ritenersi inammissibili nell’odierno giudizio le voci di danno maturate prima della sentenza n. 865/2004, in quanto hanno già formato oggetto di specifica domanda, respinta da questo Tribunale. Pertanto dall’importo posto a base dell’appalto, al netto del ribasso offerto, quale parametro per la quantificazione del lucro cessante, deve essere detratto il costo corrispondente ai lavori eseguiti dalla Circosta Costruzioni prima del deposito della sentenza. In particolare dallo stato di avanzamento lavori n. 1, depositato dalla parte ricorrente, si evince che fino al 3 novembre 2004 l’allora aggiudicataria ha realizzato lavori per un importo pari a € 428.854,05. Tale somma deve essere detratta, come detto, dall’importo posto a base dell’appalto, al netto del ribasso offerto.
Il parametro di riferimento per la determinazione del lucro cessante, sotto il profilo dell’utile di impresa, deve dunque individuarsi nell’importo di € 908.044,1, determinato detraendo dall’importo offerto dalle ricorrenti il costo corrispondente ai lavori realizzati dall’allora aggiudicataria prima del deposito della sentenza.
E’ questo infatti il corrispettivo che avrebbe dovuto essere conseguito dalle ricorrenti in caso di tempestiva riaggiudicazione, in esecuzione della sentenza di questo Tribunale più volte citata.
Sull’importo così determinato il Collegio ritiene congruo stabilire l’utile di impresa nel 10%, facendo riferimento, secondo la prevalente giurisprudenza, all'art. 345 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. F (riprodotto dall'art. 122 del regolamento, emanato con D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e dall'art. 37 septies, comma 1, lettera c, della legge 11.2.1994, n. 109, ora art. 134, d.lgs. 163 del 2006).
Conseguentemente la somma da liquidare alle ricorrenti per tale causale è di € 90.804,41.
Tale quantificazione, tuttavia, deve essere dimezzata perché le imprese ricorrenti non hanno dimostrato di essere state nell'impossibilità di utilizzare, durante il tempo trascorso in attesa della riaggiudicazione dell’appalto, mezzi e maestranze per l'espletamento di altri e diversi servizi (Cons. Stato, V 24 ottobre 2002, n. 5860; VI, 9 novembre 2006, n. 6607; Cons. Stato, VI 13 gennaio 2012 n. 115).
Invero, come rilevato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 18 marzo 2011, n. 1681), ad evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa locupletare un effetto finanziario addirittura migliore rispetto a quello in cui si sarebbe trovato in assenza dell'illecito, dall'importo così calcolato va detratto quanto percepito dall'impresa grazie allo svolgimento di attività lucrative diverse, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l'appalto in contestazione. L'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde perceptum vel percipiendum grava sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente diligente (cfr. art. 1227 Cod. civ.) non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile (Cons. Stato, VI 13 gennaio 2012 n. 115). A maggior ragione nella vicenda oggi all’esame, caratterizzata dalla lunga inerzia della stazione appaltante protrattasi per quasi tre anni, periodo nel quale non pare verosimile che le ricorrenti siano rimaste inattive.
V’è poi un ulteriore elemento da considerare che giustifica la riduzione della quantificazione del lucro cessante, come sopra determinata.
Gli artt. 1227 comma 2 c.c. e 30 comma 3 cod. proc. amm. dispongono che il risarcimento non è dovuto per i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.
Nel lungo tempo trascorso tra la pronuncia di questo Tribunale che annullava la precedente aggiudicazione e il ricorso oggi all’esame, le imprese ricorrenti si sono limitate a diffidare l’Amministrazione, senza tuttavia porre in essere strumenti maggiormente cogenti per far valere le proprie ragioni, quali, ad esempio, un giudizio per ottemperanza.
Considerati gli elementi sopra evidenziati, appare allora equo riconoscere alle imprese ricorrenti, a titolo di utile mancato, la somma di euro 45.402,20 corrispondente al 5% della offerta presentata in gara detratto l’importo dei lavori eseguiti prima del deposito della sentenza n. 865/2004.
Ulteriore voce di danno richiesta dalle imprese a titolo risarcitorio consiste nella perdita di accreditamento dell’ATI e, per le imprese costituenti l’ATI, nella perdita della possibilità di conseguire ulteriore certificazione utile ai fine della SOA. Tali voci ritiene il Collegio possano essere ascritte al c.d. danno curriculare, non potendo far valere le imprese ricorrenti, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell'appalto non eseguito.
Tale voce di danno può essere liquidata in via equitativa. La giurisprudenza individua quale parametro di riferimento ai fini della relativa quantificazione talvolta l’importo dell’appalto (come da offerta presentata in gara), talvolta la somma liquidata a titolo di lucro cessante.
Il Collegio ritiene più coerente con l’interesse sostanziale oggetto di risarcimento (ovvero l’arricchimento del proprio curriculum professionale grazie all’esecuzione di un appalto di un determinato valore) quantificare il danno curricolare avendo riguardo al valore dell’offerta proposta in sede di gara. Nel caso di specie (anche per le ragioni che hanno indotto il Tribunale alla riduzione del lucro cessante) reputa congruo determinare nell’ 1% dell’offerta tale voce di danno, per una somma pari a € 13.368,98.
Le ulteriori voci che formano oggetto della domanda risarcitoria non possono invece trovare riconoscimento. Quanto alle spese sostenute per la partecipazione alla gara, queste non possono essere riconosciute, trattandosi di spese che, in caso di aggiudicazione, le imprese avrebbero dovuto sostenere integralmente (Cons. Stato VI n. 2751/2008; Cons. Stato, VI, n. 2384/2010; Tar Milano sez. I 20 giugno 2011 n. 1580), determinandosi altrimenti per l’impresa non aggiudicataria un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall’aggiudicazione.
Con riferimento agli “ulteriori disagi e perdite di tempo con inevitabili ricadute economiche”, tale voce di danno è prospettata in termini assolutamente generici, priva di alcuna allegazione probatoria seppur minima: come tale non può essere presa in considerazione da parte del Tribunale.
In conclusione la domanda risarcitoria deve essere accolta nei limiti di cui sopra. L’Amministrazione deve pertanto essere condannata a corrispondere a titolo di risarcimento del danno la somma complessiva di € 58.771,18.
La somma così individuata, costituendo obbligazione di valore, deve essere annualmente rivalutata con decorrenza dal 12/11/2004 (data di deposito della sentenza, immediatamente esecutiva, da cui conseguiva l’obbligo dell’Amministrazione di procedere alla riaggiudicazione dell’appalto), sino alla data di pubblicazione della presente sentenza.
Com’è noto, in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento occorre inoltre considerare anche il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento (somma che, se corrisposta per tempo, avrebbe potuto essere investita per lucrarne un vantaggio finanziario). Siffatto danno forfettariamente risarcibile a mezzo degli interessi al saggio legale, deve essere calcolato non sulla somma originaria, né sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero sulla somma originaria rivalutata in base ad un indice medio con la decorrenza già indicata, in linea con il fondamentale insegnamento di Cass. SS.UU. n. 1712/1995.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Sezione Staccata di Reggio Calabria
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e per l’effetto condanna il Comune di Caulonia al pagamento in favore dell’impresa ricorrente della complessiva somma di € 58.771,18 oltre rivalutazione ed interessi, secondo quanto in premessa chiarito.
Condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite che si liquidano forfettariamente in €.2.500,00, oltre IVA e CPA come per legge e rimborso spese generali nella misura del 12,50%. Il contributo unificato è posto a carico dell’amministrazione soccombente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Reggio Calabria nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Ettore Leotta, Presidente
Caterina Criscenti, Consigliere
Valentina Santina Mameli, Referendario, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/11/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


giovedì 29 agosto 2013

PROCEDIMENTO: la legittimazione procedimentale e quella processuale non sono un'endiadi (Cons. St., Sez. V, sentenza 15 luglio 2013 n. n. 3824).


PROCEDIMENTO: 
la legittimazione procedimentale 
e quella processuale non sono un'endiadi 
(Cons. St., Sez. V, 
sentenza 15 luglio 2013 n. n. 3824) 

Massima

1.  La legittimazione ad agire (o "processuale") non discende automaticamente dalla pregressa partecipazione procedimentale, atteso che quest'ultima, a differenza della prima, può trovare piena giustificazione in una finalità collaborativa, che non presuppone la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata, che è invece requisito necessario per riconoscere a chi agisce la legittimazione processuale .
2.  Non può riconoscersi legittimazione a ricorrere alle associazioni sindacali quando l'interesse dedotto in giudizio riguardi una parte soltanto degli associati o in ogni caso in cui le posizioni delle categorie rappresentate possano essere tra loro contrapposte, sussistendo in questo caso un conflitto di interessi con alcuni dei suoi associati.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5186 del 2010, proposto da:
Organizzazione Sindacale Federazione Provinciale Coldiretti di Trento, in persona del legale rappresentante in carica, Mariano Ress, Quintino Filippi, Giovanni Fischer, Tullio Ress, Enrico Toscana, Rodolfo Bragagna, Francesco Chiettini, Ambrogio Tonon, Osvaldo Dallago, Costantino Filippi, Aldo Calovi, Lino Magotti, Tullio Tonon, Carmen Ferretti, Giovanni Fiamozzi, Palma Filippi, Carlo Tonon, Maurizio Tonon, Franco Fiamozzi, Emilio Ress, Franco Simoni, Carlo Viola, Franco Melchiori, Aldo Clementi, Maristella Benedetti, Massimiliano Dallago, Bruno Moser, Rocco Fontana, Franco Tait, Marco Marcon, Thomas Battisti, Benito Rossi, Nicolo' Sandri, Anna Sonn, Lina Cattani, Viola Fontana, Imelda Moscon, Bruno Moscon, Fausto Visentin e Remo Ress, rappresentati e difesi dagli avvocati Simonetta Paradisi e Andrea Maria Valorzi, con domicilio eletto presso Simonetta Paradisi in Roma, via Giovanni Nicotera, 29; 
contro
Comune di San Michele All'Adige, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Maccaferri e Armando Montarsolo, con domicilio eletto presso Armando Montarsolo in Roma, via Silvio Pellico, 42; 
nei confronti di
Gianni Fontana, Annamaria Agosti; 
per la riforma
della sentenza del Tribunale regionale di giustizia amministrativa (TRGA) - DELLA PROVINCIA DI TRENTO, n. 311/2009, resa tra le parti, concernente bandi di gara per la cessione in affitto di terreni.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di San Michele All'Adige;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 giugno 2013 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e uditi per le parti gli avvocati Petretti su delega dell’avvocato Valorzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
1. Con ricorso indirizzato al TRGA di Trento, la Federazione provinciale Coldiretti e 46 coltivatori impugnavano: a) i bandi/avvisi di gara n. 1, 2 e 3 prot. nn. 2583, 2584 e 2585 dell’11.3.2009, aventi ad oggetto la cessione in affitto, mediante asta pubblica, di appezzamenti di terreno agricolo di proprietà comunale denominati "Sort comunali" rispettivamente con durata quindicinale, quinquennale e annuale; b) la delibera del Consiglio comunale di San Michele all'Adige n. 3 del 6.3.2009, di approvazione dei suddetti bandi e del verbale di gara a firma del Segretario comunale di S. Michele all’Adige del 16.4.2009, relativo all'apertura delle offerte ed al calcolo della loro media; c) nonché ogni altro atto presupposto, connesso, conseguente e/o collegato alla procedura di gara di cui sopra.
L’atto introduttivo del giudizio proponeva le seguenti doglianze avverso i citati atti: 1) violazione dell’art. 6 del D.lgs. 18.5.2001, n. 228 che prescriverebbe, come sistema di scelta del contraente, la licitazione privata o la trattativa privata e non l’asta pubblica; 2) violazione dell’art. 39, comma 2, della L.p. 19.7.1990, n. 23 di cui non sarebbe stata rispettata la procedura; 3) in subordine, indeterminatezza dei bandi per mancata previsione della possibilità di offerta per singoli appezzamenti, ma solo per qualità di colture, nonché per illogicità e contraddittorietà; 3bis) in subordine, violazione dell’art. 4bis della legge 3.5.1982, n. 203 e dell’art. 23 della legge 11.2.1971, n. 11, in combinato disposto con l’art. 2113, comma 1, del codice civile, nella parte in cui si obbligherebbero i precedenti affittuari a rinunciare alla prelazione, in caso di offerta per un appezzamento diverso da quello precedentemente coltivato; 4) violazione dell’art. 4bis della legge 3.5.1982, n. 203 per violazione della disciplina sulla prelazione dei fondi rustici; 5) violazione dell’art. 23 della legge 11.2.1971, n. 11 e degli artt. 16 e 17 della legge 3.5.1982, n. 203 relativamente alle condizioni generali di contratto (art. 9 dei bandi) in quanto la Coldiretti non intenderebbe aderire alla controversa procedura di stipulazione dei contratti di affitto.
1.1. Con ricorso per motivi aggiunti venivano introdotte ulteriori censure: 1) violazione del principio di revisione dei corrispettivi nei contratti pubblici di durata e contraddittorietà con l’istruttoria, non risultando previsto un meccanismo di adeguamento periodico dei canoni di affitto; 2) difetto o travisamento dei presupposti, in relazione alla erronea qualificazione come vigneto di elevato pregio della coltura Teroldego negli appezzamenti fuori dalla zona DOC; 3) difetto o travisamento dei presupposti, in relazione alla erronea qualificazione come vigneti di elevato pregio degli appezzamenti privi di impianti; 4) eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, essendo state ammesse offerte anomale.
1.2. Infine, con un secondo ricorso per motivi aggiunti, gli originari ricorrenti proponevano altre doglianze, esclusivamente funzionali, però, alla sospensione cautelare del procedimento di stipula dei contratti di affitto, a seguito della prelazione esercitata.
2. Il TRGA di Trento, con sentenza n. 311 depositata il 17 dicembre 2009, estrometteva dal giudizio la ricorrente Federazione provinciale Coldiretti e respingeva il ricorso sulla scorta delle seguenti considerazioni, quanto alle questioni preliminari, avendo valutato: 1) fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposto dalla Federazione provinciale Coldiretti per conflitto di interessi all’interno della categoria che l’associazione ricorrente rappresenta, reputando non sufficiente l’astratta pretesa alla legittimità degli atti impugnati, ma traguardando la legittimazione sulla scorta del concreto interesse, fatto valere; 2) infondato il difetto di legittimazione dei coltivatori; 3) infondata l’eccezione di tardività di motivi aggiunti, essendo stati notificati tali motivi entro il termine di 60 giorni dall’avvenuta pubblicazione dei bandi avversati; 4) fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione sul quinto motivo di ricorso, essendo state con esso censurate, non le prescrizioni del bando relative al procedimento di scelta del contraente, ma le condizioni generali di contratto; 5) fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione sul primo motivo aggiunto, con cui veniva lamentata la mancata previsione di un meccanismo di adeguamento periodico dei canoni di affitto, riguardando la pretesa lesione esclusivamente diritti soggettivi e non interessi legittimi afferenti al procedimento di scelta dei contraenti.
2.1. Quanto alle questioni di merito il primo Giudice poneva a fondamento della propria decisione le seguenti premesse: a) l’importo a base d’asta è fissato per unità di misura (metro quadrato) in base al tipo di colture; b) ciascun concorrente non può ottenere in affitto più di un appezzamento; c) è garantito ai precedenti affittuari, con contratti scaduti il 10 novembre 2008, il diritto di prelazione da esercitarsi entro 30 giorni dalla comunicazione dell’esito della gara, sulla base del prezzo medio derivante da tutte le offerte presentate; d) l’ex-affittuario che intenda esercitare il diritto di prelazione deve presentare offerta solo relativamente alla qualità dell’appezzamento avuto in affitto, oppure rinunciare alla prelazione se intende presentare offerta per appezzamenti di diversa qualità; e) gli appezzamenti rimasti da assegnare dopo l’esercizio della prelazione sono scelti dai migliori offerenti, secondo l’ordine della graduatoria.
2.2. Il TRGA di Trento riteneva infondati i molteplici motivi di censura proposti:
a) quanto al primo motivo va applicato l’art. 39 della L.p. 19.7.1990, n. 23, nella formulazione vigente ratione temporis, e non la norma statale dell’art. 6, comma 4, del D. lgs. 18.5.2001, n. 228, che prevede l’assegnazione dei terreni con licitazione privata o trattativa privata, in quanto si tratta di beni del patrimonio disponibile e non indisponibile o demaniali. Inoltre è materia rientrante nella competenza concorrente tra Stato e Provincia autonoma, ma la legge statale non assurge al rango di principio fondamentale, tanto da prevalere sulla disciplina provinciale.
b) Col secondo motivo i ricorrenti lamentavano che non sarebbe stata puntualmente seguita la procedura prescritta dall’art. 39, comma 2, della L.p. 19.7.1990, n. 23, prima della modifica portata dall’art. 45 della L.P. Trento n. 2 del 28 marzo 2009. Ma, a seguito di Corte costituzionale 28.10.2004, n. 315, la disciplina in questione non è più applicabile, tanto che la modifica contenuta nel citato art. 45 riserva il procedimento solo per l’affitto degli immobili urbani. Né trova fondamento la doglianza in merito alla mancata fissazione di requisiti soggettivi a tutela delle colture, esigenza che può essere soddisfatta in sede di stipulazione negoziale e che in astratto risulta assicurata dalla circostanza che ogni nucleo familiare può avere un solo appezzamento.
c) Anche il terzo motivo va disatteso, infatti, il sistema delle offerte per qualità di coltivazione, l’unicità delle offerte e la garanzia della prelazione parametrata, non sul canone più elevato conseguibile, ma sulla media dei prezzi offerti, sembrano rispondere pienamente a tali apprezzabili esigenze di pubblico interesse.
d) Stessa sorte merita il motivo terzo-bis sulla lesione del diritto di prelazione, perché il divieto di concorrere per ulteriori appezzamenti, oltre a quello per il quale viene esercitata la prelazione, avrebbe gravemente inciso il criterio dell’unicità dei lotti assegnabili per ciascun nucleo familiare, rispondente all’anzidetto pubblico interesse alla distribuzione dei terreni agricoli al maggior numero di coltivatori, onde evitare fenomeni di accaparramento e di concentrazione, dannosi per l’economia agricola locale.
e) Col quarto motivo si deduceva la violazione della disciplina dettata dall’art. 4bis della legge 3.5.1982, n. 203, che non sussiste in quanto non appare applicabile la norma in questione per difetto dei presupposti: non era possibile la comunicazione, almeno 90 giorni prima della scadenza dei contratti, di offerte mai ricevute dal Comune ed alle quali, comunque, esso non aveva intenzione di dar corso.
f) Infondati sarebbero il secondo e terzo motivo aggiunto in relazione all’erronea qualificazione come vigneti di elevato pregio della coltura Teroldego, negli appezzamenti fuori dalla zona DOC, e degli appezzamenti privi di impianti. Tale mezzo, con riferimento alla varietà Teroldego, è, tuttavia, inconferente in quanto la perizia di stima De Ros, sulla base della quale sono stati formati i bandi di gara, ha operato una classificazione per appezzamenti omogenei, calcolando i valori dei vigneti di elevato pregio con riferimento alla varietà Pinot grigio, e non alla varietà Teroldego.
Circa gli appezzamenti privi di impianti, l’art. 9, lett. e) del bando li fa rientrare nella coltura più pregiata, in attesa di un corrispondente reimpianto.
g) Infondato il quarto motivo aggiunto: trattandosi di una procedura di scelta dei contraenti in contratti comportanti entrate per l’ente, alcuna plausibile ragione di pubblico interesse può comportare l’esclusione di offerte di importo (asseritamente) troppo elevato, per le quali la lex specialis non prevede affatto un meccanismo teso ad escludere il fenomeno dell’anomalia.
h) Infine, per quanto sopra esposto, venivano disattesi pure gli ulteriori motivi aggiunti, esclusivamente funzionali alla sospensione del procedimento di stipula dei contratti di affitto a seguito della prelazione esercitata dai ricorrenti.
3. Con atto d’appello, notificato il 25 maggio 2010 e depositato il 10 giugno 2010, gli originari ricorrenti impugnano la sentenza indicata in epigrafe, chiedendone la riforma per i seguenti motivi:
1) Erroneità della pronuncia gravata nella parte in cui ha dichiarato il difetto di legittimazione di Coldiretti, estromettendola dal giudizio, atteso che quest’ultima fa valere l’interesse al rispetto della disciplina a favore degli affittuari agricoli. Inoltre, sarebbe destituita di fondamento la tesi proposta dal TRGA, secondo la quale ricorrerebbe un’ipotesi di conflitto di interessi, perché tutti i coltivatori diretti sarebbero avvantaggiati nel caso di aggiudicazione con licitazione privata o trattativa privata. Infatti, anche se vi fosse un soggetto che potrebbe trarre beneficio dal sistema prescelto dal Comune, è situazione fisiologica che non elide la necessità di tutelare l’interesse di categoria. Inoltre, la legittimazione ad impugnare per Coldiretti discenderebbe dalla sua previa partecipazione procedimentale, nonché dalla finalità statutaria di assistenza sindacale, che ne connota l’esistenza.
2) Erronea sarebbe la declaratoria di difetto di giurisdizione sul primo motivo aggiunto, perché, sebbene tale censura contesti la disciplina confluita nelle clausole del contratto, la stessa è stata fissata unilateralmente dalla pubblica amministrazione (p.a.) con il bando. Quindi, non si sarebbe alla presenza di una controversia su diritti soggettivi, ma si farebbe valere la supposta lesione di un interesse legittimo, perché l’atto contestato è posto in essere dall’amministrazione appellata in una fase antecedente alla stipulazione negoziale. Va, quindi, a giudizio degli appellanti esaminato il motivo o disposto sul punto annullamento con rinvio.
3) Nel valutare il primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata si rivelerebbe erronea, perché, ai sensi dei commi 1 e 4 dell’art. 6, d.lgs. n. 228/2001, la norma si applica anche ai beni del patrimonio disponibile stante il riferimento agli enti territoriali e non territoriali. L’art. 6, infatti, estenderebbe “anche” ai beni indisponibili e demaniali una disciplina prima utilizzata (art. 22, l. n. 11/1971 e art. 51, l. n. 203/1982) per i beni patrimoniali disponibili. Inoltre, andrebbe preferita l’applicazione della disciplina statale, perché l’attività in questione ricade all’interno della materia di tutela della concorrenza e di applicazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali ex art. 117 cost., comma 2, lett. m). Né rappresenterebbe un ostacolo la giurisprudenza della Consulta (sentenza n. 318/2002 e n. 315/2004), che ha censurato l’ancoraggio dell’equo canone a dati catastali obsoleti, atteso che non avrebbe inciso sulle modalità di scelta dell’affittuario. Pertanto, non potrebbe trovare applicazione la L.P. Trento, n. 23/1990. A riprova di ciò si potrebbe portare l’incompatibilità tra diritto di prelazione e sistemi aperti di selezione in omaggio ai principi comunitari. Il coordinamento tra la disciplina statale e quella provinciale dovrebbe avvenire sulla scorta di quanto disposto dall’art. 105 dello Statuto speciale di autonomia, secondo il quale in mancanza di una norma provinciale si applica la disciplina statale. Lo stesso art. 45 L.P. Trento, n. 2/2009, nel rivedere l’art. 39 (co. 2 bis), avrebbe fatto rinvio alla disciplina statale, che è norma ricognitiva, con la quale si è chiarita la disciplina applicabile all’affitto di fondi rustici.
4) In merito al rigetto del secondo motivo di ricorso, erronea sarebbe la sentenza, perché avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina contenuta nell’art. 39, co. 2, L.P. Trento, n. 23/90, prima delle ultime modifiche portate dall’art. 45 della L.P. Trento n. 2/09 e non l’art. 17 L.P. Trento n. 23/90, che prevede l’asta pubblica, perché o si doveva ritenere operante il comma 2 bis dell’art. 39 introdotto dal citato art. 45 che fa rinvio alla disciplina statale o doveva ritenersi irrilevante la modifica portata dal suddetto art. 45. Inoltre circa la mancata richiesta di specifici requisiti soggettivi ulteriori rispetto a quelli di poter contrattare con la p.a., che mette a rischio le colture pregiate praticate sui fondi, non potrebbe condividersi il principio affermato dalla sentenza secondo il quale la presenza dei requisiti tecnico-organizzativi poteva essere recuperata in sede di stipulazione negoziale.
5) Quanto al rigetto del terzo motivo che censurava l’indeterminatezza del bando nella parte in cui ancora l’offerta alla tipologia di coltura e non al singolo lotto, non risulterebbero convincenti le conclusioni raggiunte dal primo Giudice, perché sarebbe indeterminato anche il prezzo a base d’asta senza la possibilità di offerte in ribasso; circostanza che pone un problema per gli appezzamenti di minor valore.
6) Viene, inoltre, riproposto il primo motivo aggiunto inerente la mancata previsione di un meccanismo di adeguamento del canone di affitto in contrasto con il principio contenuto nell’art. 115 del codice dei contratti pubblici, non esaminato dalla sentenza gravata che ha concluso per l’insussistenza della giurisdizione del g.a..
7) Circa il secondo motivo aggiunto, proposto in primo grado, sarebbe erronea la sentenza che non ha valutato come gli appezzamenti coltivati con vitigno Toroldego non possono essere considerati pregiati, perché gli appezzamenti del comune non ricadono in zona.
8) Quanto al terzo motivo aggiunto, proposto in primo grado, erronea sarebbe l’equiparazione tra appezzamenti privi di colture e appezzamenti coltivati con vigneto pregiato: si dovevano, invece, applicare gli artt. 16 e 17, l. n. 203/1982.
9) Quanto al quarto motivo aggiunto, proposto in primo grado, avrebbe errato il primo Giudice nel non rilevare l’illegittimità degli atti impugnati nella parte in cui non si provvedeva all’esclusione delle offerte anomale, nonostante la delibera di approvazione dei bandi n. 3/09 richiamasse la volontà di evitare le offerte anomale.
3.1. Vi è rinuncia al quarto motivo di ricorso di primo grado.
3.2. Sul quinto motivo aggiunto vi è espressa acquiescenza degli appellanti rispetto al decisum della pronuncia sul difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
4. Con memoria depositata il 27 luglio 2010 si costituiva in giudizio l’amministrazione comunale, invocando la reiezione dell’appello.
5. Con memoria depositata il 3 maggio 2012 gli appellanti confermavano l’interesse alla decisione in relazione all’assenza di un meccanismo di aggiornamento periodico dei canoni di affitto ed a tutte le altre censure proposte con l’atto d’appello.
6. Successive memorie venivano scambiate tra le parti, che ribadivano le proprie difese.
7. Con ordinanza n. 6518 del 19 dicembre 2012 il Consiglio chiedeva all’amministrazione appellata di relazionare sugli esiti della procedura di gara per i soli affitti quinquennali e quindicennali e a fornire l’elenco dei relativi assegnatari.
8. In data 31 gennaio 2013 l’amministrazione comunale di San Michele All’Adige depositava la relazione richiesta con l’ordinanza sopra citata, chiarendo che la scadenza degli affitti quinquennali è fissata al 10 novembre 2013, mentre quella per gli affitti quindicennali è fissata al 10 novembre 2023 e indicando i nominativi degli assegnatari dei terreni.

DIRITTO
1. L’odierno gravame è solo parzialmente fondato, non potendosi condividere il ritenuto difetto di giurisdizione da parte del primo giudice sulla censura spiegata nei confronti dei bandi impugnati, in relazione alla modalità “bloccata” di determinazione del prezzo d’affitto e alla mancata previsione, per gli affitti pluriennali, di meccanismi di adeguamento periodico.
2. Preliminarmente, va confermata la statuizione del TRGA di Trento, sull’estromissione dal giudizio della Federazione provinciale Coldiretti. Infatti, secondo l’orientamento costante di questo Consiglio, non può riconoscersi legittimazione a ricorrere alle associazioni sindacali quando l’interesse dedotto in giudizio riguardi una parte soltanto degli associati o in ogni caso in cui le posizioni delle categorie rappresentate possano essere tra loro contrapposte, sussistendo in questo caso un conflitto di interessi con alcuni dei suoi associati (Cons. St., Sez. VI, 18 aprile 2012, n. 2208; Id., Sez. IV, 30 maggio 2005, n. 2804; Id., 22 aprile 1996, n. 523). Nella fattispecie non vale a fondare la legittimazione della Federazione provinciale Coldiretti, l’asserito interesse alla legittimità degli atti impugnati, giacché la presenza di una posizione giuridica soggettiva legittimante va comunque traguardata sulla scorta di un interesse materiale concreto, che nella controversia in esame non risulta individuato. Inoltre, la potenziale contrarietà dell’azione spiegata dalla Federazione provinciale Coldiretti, che sagoma la sua reazione processuale su quella dei precedenti affittuari dei terreni, con l’interesse di quelli tra i suoi associati che hanno inteso partecipare alla procedura di gara è sufficiente, per ritenere sussistente una ragione di impedimento al riconoscimento della legittimazione a ricorrere. Del pari, la legittimazione ad agire non può discendere automaticamente dalla pregressa partecipazione procedimentale, atteso che quest’ultima, a differenza della prima, può trovare piena giustificazione in una finalità collaborativa, che non presuppone la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata, requisito necessario, invece, per riconoscere in capo a chi agisce la legittimazione processuale.
3. Non merita, invece, di essere condivisa la conclusione alla quale è giunto il primo Giudice, che ha rilevato il difetto di giurisdizione del g.a. in ordine all’impugnazione della clausola del bando con la quale l’amministrazione ha imposto che, all’interno della disciplina contrattuale, il prezzo pattuito per il canone d’affitto dovesse rimanere bloccato, senza possibilità di adeguamento periodico. Non appare, infatti, convincente la ricostruzione del TRGA di Trento che fa discendere la natura della posizione giuridica azionata dalla circostanza che la clausola del bando dovesse divenire oggetto della disciplina contrattuale. Nella controversia all’attenzione del Consiglio, gli appellanti hanno contestato la clausola del bando unilateralmente determinata dall’amministrazione comunale nell’esercizio di un potere autoritativo rispetto al quale gli odierni appellanti sono titolari di una posizione di interesse legittimo. Non rileva, al riguardo, che gli stessi appellanti, qualora dovessero stipulare il contratto d’affitto, perché assegnatari dei terreni all’esito della gara, in relazione alla stessa regola trasfusa nel contratto sarebbero titolari di una posizione giuridica di diritto. Il primo Giudice, infatti, finisce per confondere i piani di azione dell’attività amministrativa: con l’esercizio di un potere pubblico di fissazione unilaterale delle regole di gara e del contenuto del contratto l’amministrazione agisce nelle vesti di autorità; mentre, a valle di ciò ed all’esito della stipulazione negoziale, la stessa amministrazione vestirà i panni del soggetto privato. Sicché, mentre nella prima fase, che si chiude con la stipulazione del contratto, la relazione giuridica tra l’amministrazione e gli odierni appellanti si atteggia nelle forme del binomio potere pubblico – interesse legittimo; nella seconda, invece, la stessa relazione giuridica si atteggia nelle forme del binomio diritto – obbligo. Pertanto, spetta al giudice amministrativo la decisione sulla controversia nella quale si contesti l’attività dell’amministrazione in veste d’autorità e non dell’amministrazione in veste di contraente privato. Infatti, nella prima ipotesi sarà data agli appellanti la possibilità di stigmatizzare l’operato dell’amministrazione che non si sia conformata a quelle regole e principi che sono strumentali al raggiungimento dell’insieme di interessi pubblici che alla stessa sono rimessi. Nella seconda, invece, il privato potrà solo contestare il mancato rispetto di quelle norme alle quali deve ispirarsi qualsiasi contraente privato, chiamato ad agire entro il recinto di regole che scandiscono l’ordinario evolversi delle transazioni civili. Nonostante la censura in questione non ricada nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, essendosi alla presenza di un contratto attivo, non v’è dubbio che ricorre la giurisdizione generale di legittimità in omaggio al criterio della causa petendi imposto dalla carta costituzionale. Pertanto, la disamina del motivo di censura in questione non operata dal primo giudice sull’erroneo presupposto del difetto di giurisdizione del g.a. va rimessa al TRGA di Trento ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a..
4. Non può, invece, condividersi la ricostruzione della disciplina operata dagli appellanti che, operando una lettura forzata dei commi 1 e 4 dell’art. 6, del d.lgs. n. 228/2001, desumono dall’utilizzo della congiunzione “anche” l’applicabilità ai beni disponibili della disciplina prevista per i beni demaniali e per quelli indisponibili. Così trascurando non solo la rubrica della norma: “Utilizzazione agricola dei terreni demaniali e patrimoniali indisponibili” e la mancata indicazione esplicita dei beni patrimoniali disponibili, ma anche il carattere eccezionale di una simile prospettazione ricostruttiva, che finirebbe per far coincidere la disciplina dell’affitto di beni demaniali e patrimoniali indisponibili con quella dei beni patrimoniali disponibili in assenza di un’espressa previsione e nonostante la grande distanza che, specie sotto il profilo teleologico, giuridicamente separa le citate categorie.
4.1. Del pari non convince l’argomento secondo il quale la disciplina statale in ipotesi dubbia dovrebbe essere preferita a quella della Provincia autonoma, perché atti ricadenti nella materia di tutela della concorrenza e di applicazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali ex art. 117, comma 2, lett. m), cost., spettante in via esclusiva alla competenza dello Stato legislatore. Questa indicazione, da un lato, non appare conferente nel richiamare la materia delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali ex art. 117, comma 2, lett. m), cost.; dall’altro, se pure fosse vero che il tema in questione sia afferente alla materia della tutela della concorrenza, trascura che proprio la disciplina legislativa provinciale premia maggiormente la tutela della concorrenza di quanto farebbe l’applicazione dell’invocata disciplina statale, che prevede una procedura aperta di ricerca del contraente, pertanto non appare possibile invocarne alcuna lesione. Corretta, invece, appare la riconduzione operata dal primo Giudice della questione all’interno del settore dei contratti comportanti entrate per l’ente, che rientra nella competenza concorrente Stato - Provincia autonoma in materia di finanza locale, ex art. 16 del D.Lgs. 16.3.1992, n. 268, che è norma di attuazione dello Statuto di autonomia che prescrive che: “Spetta alla regione e alle province emanare norme in materia di bilanci, di rendiconti, di amministrazione del patrimonio e di contratti della regione e delle province medesime e degli enti da esse dipendenti”. In tale materia, invero, ai sensi dell'art. 80 dello Statuto di autonomia, le Province autonome di Trento e di Bolzano dispongono di una potestà legislativa di tipo concorrente soggetta al solo limite dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali come chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale, 20 dicembre 2002, n. 533.
4.2. Allo stesso tempo non può sostenersi l’ultravigenza del meccanismo di selezione degli affittuari dei fondi rustici disposto dalla l. n. 203/1982. Le sentenze della Corte costituzionale n. 318/2002 e n. 351/2004, hanno determinato non solo il venir meno del meccanismo di determinazione del canone di equo affitto basato sul reddito dominicale stabilito a norma del regio decreto-legge 4 aprile 1939, n. 589 convertito, con modificazioni, in legge 29 giugno 1939, n. 976, ma hanno sostanzialmente impedito la possibilità di utilizzare quelle modalità selettive degli affittuari, stabilite con l’art. 6, del citato d.lgs. n. 228/2001, che ruotavano attorno la determinazione del canone di equo affitto censurato dalla Consulta. Pertanto, venuta meno quella disciplina correttamente l’amministrazione ha fatto applicazione del dettato dell’art. 39, L.P. Trento, n. 23/1990. Né può invocarsi l’applicazione del meccanismo contenuto nell’art. 105 dello Statuto speciale di autonomia, secondo il quale in mancanza di una norma provinciale si applica la disciplina statale, perché, da un lato una simile lacuna non si registra; dall’altro, la norma statale invocata vale solo per i beni demaniali e per quelli patrimoniali indisponibili. Ne è una riprova, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, proprio il comma 2-bis introdotto nell’art. 39 dall’art. art. 45 L. P. Trento, n. 2/2009, che è chiaramente disposizione innovativa del precedente panorama giuridico, non applicabile ratione temnporis alla fattispecie de qua.
5. Del pari infondata è l’ulteriore censura con la quale si contesta che non sia stata correttamente seguita la procedura indicata nel comma 2 dell’art. 39, che, nella versione antecedente alle modifiche portate dall’art. 45, L.P. Trento, n. 2/2009, così recitava: “Resta ferma l'applicazione delle leggi statali in materia di affitto di fondi rustici e di locazione di immobili urbani per quanto relativo alla determinazione legale del canone. In tali casi, la cessione è preceduta dalla pubblicazione di un avviso contenente l'indicazione del bene e delle condizioni contrattuali, nonché delle modalità e del termine entro cui gli interessati possono presentare domanda di assegnazione. La cessione ha luogo sulla base di apposita graduatoria formata in relazione a requisiti predeterminati nel provvedimento a contrarre”. A giudizio degli appellanti o si doveva ritenere operante implicitamente nel sistema quel rinvio alla legislazione statale consacrato con l’introduzione del comma 2 bis del citato art. 39 o doveva ritenersi irrilevante la modifica sopravvenuta. In realtà anche questa lettura non può essere avallata: proprio il venir meno della determinazione legale del canone, infatti, ha spinto il legislatore provinciale ad intervenire per porre rimedio allo stato claudicante della legislazione all’indomani delle pronunce della Consulta, dettando una sorta diversa, peraltro, per gli immobili urbani e per i fondi rustici.
5.1. Non coglie nel segno l’altro profilo di doglianza introdotto con l’originario secondo motivo di ricorso, proposto anche in seconde cure, circa la mancanza di richiesta di specifici requisiti soggettivi in capo agli eventuali assegnatari. Da un lato, infatti, va rammentato come i bandi richiedevano il possesso dei requisiti per contrattare con la p.a. e vietavano la partecipazione alla gara di più di un componente appartenente al medesimo nucleo familiare o alla medesima azienda agricola, come il divieto per i concorrenti di ottenere l’aggiudicazione di più di un appezzamento. Dall’altro, non solo come correttamente sostenuto dal primo Giudice l’indagine sul possesso dei requisiti specifici, come in concreto accaduto, poteva demandarsi al momento della stipula negoziale, ma in assenza di un obbligo espresso in capo all’amministrazione, nulla avrebbe vietato anche la sopravvenuta acquisizione da parte degli assegnatari di competenze specifiche prima non possedute, specie se si ponga mente alla circostanza che alcuni appezzamenti venivano assegnati privi di coltivazioni già impiantate. Ancora va sottolineato come i bandi in questione prevedessero la potestà dell’amministrazione di monitorare la corretta conduzione dei fondi, riservandosi la possibilità di risolvere in caso di riscontrate e rilevanti inosservanze del criterio di buona gestione agraria.
6. Risulta infondato anche l’ulteriore motivo di censura con il quale gli appellanti contestano la scelta dell’amministrazione di ancorare l’offerta alla tipologia di coltura e non al singolo lotto e di fissare un prezzo a base d’asta in ragione della tipologia colturale e non delle dimensioni del lotto. Rientra, infatti, nella piena discrezionalità dell’amministrazione in assenza di diverse indicazioni normative una soluzione siffatta, che raggiunge l’obiettivo di ottenere il maggior profitto possibile, valorizzando, al contempo, la tipologia di coltura rispetto alle dimensioni del lotto, cercando così di favorire il mantenimento di un sistema di coltivazione diffuso, in grado di premiare la specificità delle singole coltivazioni. Sotto questo profilo, inoltre, appare del tutto logica la scelta di agganciare l’esercizio del diritto di prelazione alla media dei prezzi offerti, piuttosto che alla miglior offerta presentata, seguendo un meccanismo che, da un lato, salvaguarda la posizione dei precedenti affittuari; dall’altro, evita di premiare offerte che generino posizioni per gli affittuari offerenti non sostenibili nel lungo periodo. Senza dire che a tutela dei precedenti affittuari titolari del diritto di prelazione i bandi prevedevano la facoltà di scelta dell’appezzamento.
7. Devono essere respinte anche le censure mosse alla sentenza gravata nella parte in cui ha disatteso il secondo ed il terzo motivo aggiunto, con i quali è stato lamentato difetto o travisamento dei presupposti, in relazione alla erronea qualificazione come vigneti di elevato pregio della coltura Teroldego, negli appezzamenti fuori dalla zona DOC, e degli appezzamenti privi di impianti. Quanto al primo profilo la sentenza gravata ha correttamente rilevato che la perizia di stima De Ros, sulla base della quale sono stati formati i bandi di gara, ha calcolato i valori dei vigneti di elevato pregio con riferimento alla varietà Pinot grigio, e non alla varietà Teroldego, facendo uso in modo non illogico della discrezionalità amministrativa. Allo stesso tempo la scelta, contenuta nell’art. 9, lett. e) del bando, di far rientrare gli appezzamenti privi di impianti nella coltura più pregiata, in attesa di un corrispondente reimpianto, appare del tutto razionale, in quanto valuta la potenzialità degli appezzamenti di ricevere impianti della coltura più pregiata. Mentre del tutto in conferente appare il richiamo agli artt. 16 e 17, l. n. 203/1982, dai quali non può desumersi in alcun modo un diverso obbligo in capo all’amministrazione appellata.
8. Da ultimo, va respinto anche il motivo di appello con il quale si contesta il mancato accoglimento del quarto motivo aggiunto con cui è stato dedotto eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, essendo state ammesse alcune offerte anomale: superiori al doppio del valore minimo del canone stimato nella perizia De Ros. Al riguardo, la sentenza gravata evidenzia a buon titolo non solo l’assenza di un obbligo di esclusione delle offerte anomale nel caso di un contratto attivo per l’amministrazione, che intende, legittimamente, conseguire il maggior profitto possibile; ma anche, la presenza di un meccanismo di esercizio del diritto di prelazione, basato sulla media dei prezzi offerti, di per sé in grado di estromettere quelle offerte eccessivamente alte o eccessivamente basse, connotate, quindi, da tratti di anomalia. Quest’ultimo espediente soddisfa in pieno quell’indirizzo contenuto nella delibera di approvazione dei bandi n. 3/09, che richiama la volontà di evitare le offerte anomale, senza operare alcun rinvio a meccanismi previsti dal legislatore in campi del tutto distinti, quali quello degli appalti pubblici.
9. In ragione delle conclusioni sopra rassegnate non resta, quindi, che accogliere l’odierno appello solo nella misura in cui ha, condivisibilmente, valutato erronea la scelta del primo giudice di ritenere sussistente il difetto di giurisdizione del g.a. in relazione al primo motivo aggiunto di primo grado, con cui è stata lamentata la mancata previsione di un meccanismo di adeguamento periodico dei canoni di affitto. Merita, invece, piena conferma la sentenza gravata con conseguente reiezione di tutte le altre censure.
10. La complessità delle questioni trattate e la soccombenza reciproca costituiscono validi motivi per compensare le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente e per l’effetto annulla la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in relazione al primo motivo aggiunto di primo grado, con rinvio al medesimo giudice.
Respinge nel resto l’appello.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.


Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 giugno 2013 con l'intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Saltelli, Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 15/07/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)