TRIBUTARIO & PUBBLICO IMPIEGO:
il Consiglio di Stato rimette alla Corte Costituzionale
la "vexata quaestio" degli atti d'accertamento
firmati da funzionari e non da dirigenti
dell'Agenzia delle Entrate
(Cons. St., Sez. IV,
sentenza 18 novembre 2013 n. 5451).
Mi spiace ribadirlo, ma il "favor "erarii" è principio cogente del nostro ordinamento in ogni giurisdizione (compresa quella costituzionale), come attesta lo stesso "nuovo" art. 81 Cost..
La legge poi è l'atto politico per eccellenza... Ed il Giudice delle leggi perché dovrebbe esser di natura diversa (per 1/3 è nominato dagli eletti del popolo peraltro)? Direi, anzi, che è il Giudice "politico" per eccellenza, in senso fisiologico (e non patologico).
Staremo a vedere.
Buona lettura.
FF
Massima
1. E' l'art. 108 C.p.A. a disciplinare nel processo amministrativo l'opposizione di terzo, recependo le due classiche figure omonime, disciplinate dall’art. 404 cp.c., e cioè l’opposizione di terzo ordinaria (co. 1) e l’opposizione di terzo revocatoria (co. 2).
2. L'estensione al giudizio amministrativo dell’opposizione di terzo discende dalla sentenza n. 177/95 della Corte Costituzionale, con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 28 e 36 della L. n. 1034/1971, nella parte in cui gli stessi non prevedevano l’opposizione di terzo ordinaria tra i mezzi di impugnazione esperibili avverso le sentenze del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.
3. La giurisprudenza amministrativa ha successivamente approfondito le indicazioni della Corte costituzionale, precisando (Cons. St., Ad. Plen. n. 2/07), che la legittimazione a proporre la opposizione di terzo, nei confronti della decisione amministrativa resa tra altri soggetti, va riconosciuta:
a) ai controinteressati pretermessi;
b) ai controinteressati sopravvenuti (beneficiari di un atto consequenziale, quando una sentenza abbia annullato un provvedimento presupposto all'esito di un giudizio cui siano rimasti estranei);
c) ai controinteressati non facilmente identificabili;
d) in generale ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma ed incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione.”, specificandosi altresì che “non sono legittimati i titolari di una situazione giuridica derivata ovvero i soggetti interessati solo di riflesso (ad es. soggetti legati da rapporti contrattuali con i legittimati all'impugnazione).
Ne consegue che solo attraverso l’opposizione di terzo può sanarsi la contraddizione tra “cosa giudicata” in senso sostanziale (ex art. 2909 cod. civ.), che tuttavia, come è noto, definisce e limita l’efficacia dell’accertamento contenuto in sentenza alle “parti” del giudizio, e posizione di colui che tale qualifica di parte non ha potuto incolpevolmente acquisire,
Questa situazione, unitamente a quella del soggetto titolare di posizione giuridica fondata su provvedimento amministrativo consequenziale a quello impugnato è proprio ciò che più caratterizza il processo amministrativo (nella sua specifica veste di giudizio impugnatorio), rispetto al processo civile, potendosi cioè avere – proprio per la tipicità del giudizio, ma soprattutto per la presunzione di legittimità che assiste i provvedimenti amministrativi, ancorché oggetto di impugnazione e che consente l’ulteriore attività amministrativa - l’insorgenza di posizioni giuridiche successivamente al giudizio instaurato, e quindi possibili legittimazioni ad opposizione di terzo derivanti, non già dal mancato rispetto del principio del contraddittorio, bensì dalla sopravvenienza di nuovi atti fondativi di posizioni giuridiche.
4. Nel caso di specie, appare del tutto evidente la sussistenza di legittimazione ed interesse ad agire dei soggetti (che hanno proposto opposizione di terzo per il tramite di intervento nel giudizio di appello già instaurato), ossia di funzionari già destinatari di conferimento di incarico dirigenziale, ancorché privi della relativa qualifica, che vedrebbero frustrata ogni ulteriore possibilità di conferimento per intervenuto annullamento della deliberazione di modifica della norma regolamentare.
5. Nelle more del giudizio, è entrato in vigore l’art. 8, co. 24, D.L. n. 16/12, conv. in L. n. 44/12, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento".
La disposizione in esame, nell’autorizzare l’espletamento di procedure concorsuale da parte delle Agenzie fiscali, ed in particolare da parte dell’Agenzia delle Entrate, prevede che “nelle more dell'espletamento di dette procedure l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso”.
Per un verso, dunque, la norma autorizza l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari delle stesse Agenzie nelle more dello svolgimento dei concorsi; per altro verso, fa salvi gli incarichi “già affidati”, vale a dire gli incarichi dirigenziali già affidati a funzionari privi di qualifica dirigenziale.
Appare evidente come la norma ora richiamata, legittimando ex post l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, si pone quale factum principis sopravvenuto, tale da determinare la declaratoria di improcedibilità degli appelli per sopravvenuto difetto di interesse alla decisione.
Non a caso, a seguito dell’entrata in vigore della norma in esame, la Dirpubblica, parte appellata, ha proposto “motivi aggiunti” nell’ambito del presente giudizio, al fine di eccepire l’illegittimità costituzionale di detta norma, per violazione degli artt. 3, 24, 97, 101, 111, 113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU.
Il Collegio ritiene che occorre rimettere alla Corte Costituzionale, stante la sua rilevanza ai fini della decisione e la sua non manifesta infondatezza, la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’ articolo 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44, per le ragioni meglio esplicitate con separata ordinanza.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di
registro generale 2979 del 2011, proposto da:
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Dirpubblica-Federazione
dei Funzionari, delle Elevate Professionalità, dei Professionisti e dei
Dirigenti delle Pa, rappresentata e difesa dall'avv. Carmine Medici, con
domicilio eletto presso Carmine Medici in Roma, via Properzio, 37;
e con l'intervento di
[...]
sul ricorso numero di
registro generale 8834 del 2011, proposto da:
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Dirpubblica -
Federazione dei Funzionari, Elevate Professionalità, Professionisti e Dirigenti
delle P.A. e Agenzie, rappresentata e difesa dall'avv. Carmine Medici, con
domicilio eletto presso Carmine Medici in Roma, via Properzio, 37;
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
[...]
sul ricorso numero di
registro generale 2203 del 2012, proposto da:
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Dirpubblica (Federazione
dei Funzionari, delle Elevate Professionalità, dei Professionisti e Dirigenti
delle Pa, rappresentata e difesa dall'avv. Carmine Medici, con domicilio eletto
presso Carmine Medici in Roma, via Properzio, 37;
per la riforma
quanto al ricorso n.
2979 del 2011:
della sentenza del T.AR
Lazio - Roma: Sezione II n. 00260/2011, resa tra le parti, concernente
CONFERIMENTO INCARICHI DIRIGENZIALI A FUNZIONARI PRIVI DELLA QUALIFICA
DIRIGENZIALE;
quanto al ricorso n.
8834 del 2011:
della sentenza del T.AR
Lazio - Roma: Sezione II n. 06884/2011, resa tra le parti, concernente CONFERIMENTO
DI INCARICHI DIRIGENZIALI IN FAVORE DEI FUNZIONARI NON IN POSSESSO DELLA
QUALIFICA DIRIGENZIALE;
quanto al ricorso n.
2203 del 2012:
della sentenza del TAR
Lazio - Roma: Sezione II n. 07636/2011, resa tra le parti, concernente
SELEZIONE-CONCORSO PER RECLUTAMENTO DI 175 DIRIGENTI DI SECONDA FASCIA.
Visti i ricorsi in
appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di
costituzione in giudizio di Dirpubblica-Federazione dei Funzionari, delle
Elevate Professionalità, dei Professionisti e dei Dirigenti delle P.A.;
Visti gli atti di
intervento ad adiuvandum e ad opponendum come sopra indicati;
Viste le memorie
difensive;
Visti tutti gli atti
della causa;
Relatore nell'udienza
pubblica del giorno 3 luglio 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le
parti gli avvocati Carmine Medici, Aristide Police, Amedeo Elefante e Fabrizio
Fedeli (avv.ti St.)
Ritenuto e considerato
in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con l’appello r.g. n.
2979/2011, l’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza 13 gennaio 2011 n. 260, con
la quale il TAR per il Lazio, sez. II, non definitivamente pronunciando sul
ricorso proposto dall’organizzazione sindacale Dirpubblica, ha rigettato le
questioni preliminari di inammissibilità del ricorso e disposto istruttoria.
La controversia concerne,
in sostanza, la delibera del Comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate,
con la quale è stato modificato l’art. 24 del regolamento di amministrazione,
consentendo il conferimento, fino al 31 dicembre 2010, di incarichi
dirigenziali in favore di funzionari non in possesso della relativa qualifica.
Nel riconoscere la
legittimazione ad agire della Dirpubblica, la sentenza afferma, in particolare:
- “la legittimazione al
ricorso di associazioni rappresentative di categorie di lavoratori si fonda . .
. sul presupposto della rappresentatività di un interesse collettivo riferibile
in maniera generica ed indistinta a tutti gli appartenenti al gruppo o alla
categoria rappresentata; interesse di cui l’ente esponenziale assume la
titolarità, in base allo statuto, ai soli fini della legittimazione
processuale, considerato che il nostro ordinamento processuale è costruito
intorno alla tutela di interessi di titolarità individuale”;
- “in seno all’interesse
collettivo . . . è possibile discernere interessi soggettivamente riferibili a
singoli componenti o a determinate parti del gruppo di riferimento soltanto in
via descrittiva; mentre sul piano della sua effettiva dimensione ontologica
l’interesse mantiene una natura unitaria, caratterizzandosi in termini di inscindibilità
e diffusività indistinta su un piano superindividuale”;
- ne consegue che “per
tale sua caratterizzazione ontologica esso è destinato ad essere tutelato
soltanto da parte di soggetti superindividuali, esponenziali e rappresentativi
del gruppo, che ne assumano l’obiettivo di salvaguardia a livello statutario; e
la legittimazione ad agire dell’associazione rappresentativa o dell’ente
esponenziale si atteggia come originaria ed esclusiva, ovvero non soltanto
indipendente ed autonoma rispetto a quella dei singoli, ma anche riservata
esclusivamente all’associazione o all’ente in relazione ai suoi scopi
statutari”;
- in definitiva, “la
possibile disomogeneità degli interessi dei singoli componenti il gruppo o la
categoria rappresentata non può incidere sulla legittimazione ad agire
dell’associazione rappresentativa o dell’ente esponenziale a tutela
dell’interesse collettivo oggettivato e tipizzato all’atto della individuazione
della finalità statutarie del soggetto rappresentativo”.
Avverso tale decisione vengono
proposti i seguenti motivi di appello:
a) violazione artt. 77,
81, 99 c.p.c.; art. 2601 c.c.; art. 26 R.D. n. 1054/1924; art. 7 d. lgs. n.
104/2010; insufficienza della motivazione su circostanza decisive del giudizio,
poiché la sentenza ha disatteso il tradizionale insegnamento giurisprudenziale
“secondo cui deve escludersi la legittimazione a ricorrere delle associazioni
di categoria quando le stesse facciano valere in giudizio gli interessi
peculiari di una sola parte dei propri associati e non della totalità dei
propri componenti, trascurando quelli eventualmente di segno contrario, come
avvenuto nel caso di specie”. Nel caso di specie, Dirpubblica “non ha chiarito,
tuttavia, nel ricorso a tutela di quale interesse, secondo le finalità stabilite
nel proprio statuto, il sindacato agisce in giudizio”, aspetto che “assumeva
importanza fondamentale ai fini della verifica dell’interesse ad agire”.
Hanno spiegato
intervento ex artt. 108 e 109, co. 2, Cpa, una pluralità di funzionari terzi
controinteressati (Imparato ed altri; Nicolò ed altri), in quanto “titolari di
incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 24 del Regolamento”, proponendo i
seguenti motivi di impugnazione:
b) erroneità della
sentenza, nella parte in cui si afferma la legittimazione attiva di
Dirpubblica; violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c.; difetto di
legittimazione attiva di Dirpubblica; ciò in quanto la legittimazione
dell’associazione non può essere definita come “originaria ed esclusiva”, posto
che ciò comporterebbe che “ogni qualvolta venisse in rilievo la lesione di un
interesse che in astratto riguarda una categoria di soggetti, i privati non
sarebbero singolarmente legittimati ad agire per la sua tutela bensì dovrebbero
necessariamente aderire ad una associazione di categoria, la quale poi dovrebbe
agire per loro conto”; al contrario “la legittimazione dell’associazione
sussiste in quanto si rinviene un interesse del privato che risulta comune a
tutta una categoria di cittadini e che, oltre ad essere tutelabile uti singuli,
può essere oggetto di tutela per mezzo dell’ente esponenziale”. Nel caso della
Dirpubblica, essa tutela posizioni eterogenee di pubblici dipendenti, sia
dirigenti che funzionari;
c) violazione e falsa
applicazione art. 21 l. n. 1034/1971; inammissibilità del ricorso introduttivo
del giudizio di I grado per mancata notifica ai controinteressati, poiché
Dirpubblica “avrebbe dovuto notificare l’atto introduttivo del giudizio di I
grado ad almeno uno dei funzionari incaricati portatori di interessi oppositivi
uguali e contrari rispetto a quelli dei quali l’associazione ricorrente
chiedeva tutela”.
Si è costituita in
giudizio l’appellata Dirpubblica e all’udienza di trattazione, la causa è stata
riservata in decisione.
2. Con l’appello n.
8834/2011 r.g., l’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza 1 agosto 2011 n.
6884, con la quale il TAR per il Lazio, sez. II, all’esito dell’istruttoria
disposta con sentenza n. 260/2011, in accoglimento del ricorso proposto da
Dirpubblica, ha annullato la delibera del Comitato di gestione dell’Agenzia
delle Entrate, con la quale è stato sostituito l’art. 24 del Regolamento di
amministrazione della medesima Agenzia.
La sentenza – dichiarata
la giurisdizione del giudice amministrativo – afferma, in particolare:
- la delibera del
Comitato di gestione impugnata, come già analoghe delibere adottate fin dal
2006, “ha perpetuato fino al 31 dicembre 2010 la prassi del conferimento di
incarichi dirigenziali, asseritamente in provvisoria reggenza, a copertura di
posizioni dirigenziali vacanti”, incarichi conferiti a funzionari non
dirigenti;
- “configurandosi il
conferimento di un incarico dirigenziale in favore di un funzionario non
dirigente alla stregua dell’assegnazione di mansioni superiori al di fuori
delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, il relativo atto di
conferimento deve considerarsi radicalmente nullo ai sensi dell’art. 52, co. 5
del d. lgs. n. 165/2001”;
- “le fattispecie
disciplinate dall’art. 24 del Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle
Entrate non sono riconducibili nell’ambito degli incarichi di temporanea
reggenza, implicando piuttosto il conferimento di veri e propri incarichi
dirigenziali a soggetti privi della relativa qualifica, così collocandosi in
rotta di collisione con i principi di cui agli artt. 19 e 52 del d. lgs. n.
165/2001”.
Avverso tale decisione,
vengono proposti i seguenti motivi di impugnazione:
a2) omessa pronuncia
sulla eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza
(originaria) di interesse ad agire, sollevata riguardo all’impugnazione della
norma regolamentare distinta dai concreti atti di conferimento degli incarichi
dirigenziali;
b2) improcedibilità del
ricorso di I grado per sopravvenuta carenza di interesse ad agire, “stante la
pubblicazione del bando della procedura concorsuale per la copertura di posti
dirigenziali vacanti”;
c2) violazione art. 24
del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate; dell’art. 71,
co. 3, d. lgs. n. 300/1988; degli artt. 19 e 52 d. lgs. n. 165/2001; ciò in
quanto la sentenza non tiene conto della sfera di autonomia che l’art. 71, co.
3, d. lgs. n. 300/1999 ha inteso riconoscere all’Agenzia delle Entrate,
consentendole di emanare un regolamento di amministrazione tenuto conto dei
principi di cui al d. lgs. n. 29/1993 (ora d. lgs. n. 165/2001), senza essere,
però, tenuta “alla pedissequa applicazione delle norme ivi contenute”. E’,
dunque, consentito al regolamento (che rientra nella categoria dei regolamenti
di attuazione), di disporre in piena autonomia e nel rispetto dei soli
“principi” del citato decreto, in particolare in tema di “regole per l’accesso
alla dirigenza”. Peraltro, dopo la l. n. 145/2002, l’Agenzia delle Entrate non
ha potuto bandire concorsi per dirigente, perché in attesa del regolamento previsto
dall’art. 28, co. 3, e poi perché impedita dal cd. blocco delle assunzioni,
nonché da altre circostanze (v. pagg. 33 – 35 app.). In definitiva, si è
verificata una situazione di carenza di personale dirigenziale, “cui si è
potuto far fronte solo attraverso incarichi consentiti ed adottati ai sensi
dell’art. 24, co. 2 del regolamento di amministrazione” (il cui ambito di
operatività è stato più volte prorogato, da ultimo con la delibera impugnata n.
55/2009 del Comitato di gestione).
Anche nel presente
giudizio hanno spiegato intervento ex artt. 108 e 109, co. 2, Cpa, una
pluralità di funzionari terzi, destinatari di contratti di conferimento di
incarico dirigenziale (Imparato Giovanni ed altri), i quali hanno proposto i
seguenti motivi di impugnazione:
d2) erroneità della
sentenza nella parte in cui afferma la legittimazione attiva di Dirpubblica;
violazione e falsa applicazione art. 100 c.p.c.; difetto di legittimazione
attiva di Dirpubblica;
e2) violazione e falsa
applicazione art. 21 l. n. 1034/1971; inammissibilità del ricorso instaurativo
del giudizio di I grado per mancata notificazione ai controinteressati; poiché
l’azione proposta per l’annullamento dell’art. 24 del regolamento “lungi dal
poter essere considerata azione proposta contro un atto avente portata
generale, riguardava un provvedimento che, per la sua portata prescrittiva,
andava a incidere sulle posizioni giuridiche di soggetti personalmente
individuabili” (cioè i soggetti parte di contratti individuali a termine volti
a conferire incarichi dirigenziali);
f2) omissione di
pronuncia sull’eccezione di inammissibilità del ricorso di I grado per carenza
originaria di interesse ad agire, connessa con l’impugnazione regolamentare
separatamente dai concreti atti di conferimento degli incarichi dirigenziali;
g2) improcedibilità del
ricorso di I grado per sopravvenuta carenza di interesse ad agire, “attesa la
intervenuta pubblicazione del bando relativo alla procedura concorsuale per la
copertura di posti dirigenziali vacanti”;
h2) violazione art. 24
regolamento di amministrazione Agenzia delle Entrate; dell’art. 71, co. 3 d.
lgs. n. 300/1999 e 52 d. lgs. n. 165/2001; poiché non è stato considerato
l’ambito di autonomia attribuito all’Agenzia delle Entrate, abilitata ad
emanare un regolamento di amministrazione informato ai “principi” di cui al d.
lgs. n. 29/1993, “ma non certo al pedissequo richiamo delle previsioni nello
stesso contenute”.
Hanno spiegato atto di
intervento ex art. 108 e 109, co. 2, Cpa ulteriori funzionari, destinatari dei
contratti di conferimento di incarico dirigenziale (Nicolò Sebastiano ed
altri), proponendo motivi di gravame analoghi a quelli riportati per il
precedente atto di intervento.
Hanno altresì spiegato
intervento ad opponendum altri funzionari dell’Agenzia delle Entrate (Pani
Franca ed altri), i quali hanno preliminarmente eccepito l’inammissibilità
degli atti di intervento, poiché i medesimi avrebbero dovuto essere spiegati
nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 260/2011; hanno comunque concluso
richiedendo il rigetto dell’appello dell’Agenzia delle Entrate e del ricorsi ex
artt. 108 e 109, co. 2 Cpa.
Nelle more del giudizio
- entrato in vigore (nel suo testo definitivo) l’art. 8, co. 24, d.l. 2 marzo
2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44 - la Dirpubblica ha proposto
“motivi aggiunti” nell’ambito del presente giudizio, al fine di eccepire
l’illegittimità costituzionale di detta norma, per violazione degli artt. 3,
24, 97, 101, 111, 113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU (v. pagg. 22
– 43).
Questo Collegio, con
ordinanza 29 novembre 2011 n. 5199, ha accolto la domanda di misure cautelari
proposta dall’Agenzia delle Entrate, disponendo la sospensione dell’esecutività
della sentenza impugnata, ritenendo:
“che sussiste il danno
grave ed irreparabile derivante dalla esecuzione della sentenza appellata
(ferma ogni migliore valutazione del fumus in sede di esame nel merito della
controversia), e ciò in relazione alla funzionalità degli uffici e, quindi,
alla correntezza dell’attività amministrativa nel delicato settore
dell’amministrazione finanziaria, in tal modo giudicando, nella doverosa
comparazione degli interessi coinvolti, prevalente l’interesse pubblico su
quello fondante l’azione dell’appellata organizzazione sindacale”.
All’udienza di
trattazione, dopo deposito di memorie, la causa è stata riservata in decisione.
3. Con un terzo appello
n. 2203/2012, l’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza 30 settembre 2011 n.
7636, con la quale il TAR per il Lazio, sez. II, ha annullato il provvedimento
29 ottobre 2010, con il quale il direttore dell’Agenzia delle Entrate ha
bandito una selezione–concorso per il reclutamento di 175 dirigenti di seconda
fascia, riservando il 50% dei posti al personale interno.
La sentenza – rigettata
l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva
della Dirpubblica, sulla base delle argomentazioni di cui alla propria sentenza
n. 260/2009 – ha ulteriormente richiamato, a sostegno della pronuncia di
annullamento, quanto già espresso nella precedente sentenza n. 6884/2011.
Avverso tale decisione,
vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a3) difetto di
legittimazione passiva della Federazione Dirpubblica (da intendersi come
difetto di legittimazione passiva in grado di appello e, dunque, di legittimazione
attiva in I grado di giudizio);
b3) carenza di iter
logico–giuridico; violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e
il pronunciato ex art. 112 c.p.c., poiché i motivi di ricorso accolti “non
censuravano la violazione degli artt. 19 e 52 d. lgs. n. 165/2001, come
asserito dal TAR nella motivazione della sentenza”;
c3) violazione art. 3,
co. 1 e 2 Cpa; violazione del dovere di motivazione chiara e sintetica, poiché
la motivazione della sentenza “non consente di ripercorrere l’iter logico–giuridico
seguito dal Collegio per giungere alla decisione di accoglimento”. La sentenza,
infatti, “si incentra nel richiamo pressoché integrale delle statuizioni della
precedente pronuncia . . . senza lasciare intendere quali – e in che misura –
siano state le previsioni del bando di concorso impugnato giudicate
illegittime”.
L’Agenzia delle Entrate
ribadisce inoltre (pagg. 13 – 20) le difese articolate nel precedente grado di
giudizio, avverso gli ulteriori motivi di ricorso proposti ed assorbiti dalla
pronuncia.
Anche nel presente
giudizio - entrato in vigore nelle more (nel suo testo definitivo) l’art. 8,
co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44 - la
Dirpubblica ha proposto “motivi aggiunti”, al fine di eccepire l’illegittimità
costituzionale di detta norma, per violazione degli artt. 3, 24, 97, 101, 111,
113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU (v. pagg. 22 – 43).
All’udienza di
trattazione, dopo deposito di memorie, la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
4. Il Collegio ritiene
innanzi tutto necessario disporre la riunione dei tre ricorsi, ex art. 70 Cpa,
stante la evidente connessione, perché gli stessi possano essere decisi con
un’unica sentenza.
5. Preliminarmente, il
Collegio deve procedere all’esame di una pluralità di questioni (similmente
presenti nei tre giudizi riuniti, ovvero in taluno di essi), relative alla
sussistenza (o persistenza) delle condizioni dell’azione, in parte riproposte
con specifici motivi di appello da parte dell’Agenzia delle Entrate, in parte
introdotte con ricorso ex artt. 108 e 109, co. 2, Cpa, da parte dei funzionari
indicati nella esposizione in fatto, in parte proposte da interventori ad
opponendum.
Tali questioni
preliminari, afferenti, come si è detto, alla legittimazione (attiva e passiva)
ed all’interesse ad agire, possono essere così indicate:
- in primo luogo, si
eccepisce la carenza originaria di legittimazione attiva del sindacato
Dirpubblica. Tale questione preliminare costituisce, nella sostanza, l’unico
motivo di appello (sub a) da parte dell’Agenzia delle Entrate, nonché il primo
motivo di ricorso (sub b) dei funzionari Imparato ed altri rispetto alla
sentenza n. 260/2011; costituisce altresì motivo di ricorso dei funzionari
(Imparato ed altri; Nicolò ed altri: sub d2), avverso la sentenza n.
6884/2011). Essa costituisce, infine, oggetto del primo motivo di appello (sub
a3) della Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 7636/2011;
- in secondo luogo, si
eccepisce il difetto originario di interesse ad agire della Dirpubblica per
avere impugnato l’atto regolamentare, indipendentemente dagli atti di questo
applicativi. Tale questione costituisce l’oggetto del primo motivo di appello
(sub a2) dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 6884/2011, nonché il
terzo motivo di ricorso dei funzionari Sebastiano ed altri, Nicolò ed altri
(sub f2);
- in terzo luogo, si
eccepisce l’inammissibilità del ricorso originario per omessa notifica ad
almeno un controinteressato, da identificarsi in uno dei funzionari cui è
conferito l’incarico dirigenziale, pur in assenza della relativa qualifica.
Tale questione costituisce il secondo motivo di ricorso dei predetti funzionari
(sub c) avverso la sentenza n. 260/2011, nonché il secondo motivo di ricorso
(sub e2), dei medesimi avverso la sentenza n. 6884/2011;
- in quarto luogo, si
eccepisce l’improcedibilità dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse,
essendo stato medio tempore indetto un concorso per posti dirigenziali. Tale
questione costituisce oggetto del secondo motivo di appello (sub b2)
dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 6884/2011, nonché oggetto del
quarto motivo di ricorso (sub g2) dei funzionari più volte citati, avverso la
medesima sentenza;
- in quinto luogo, si
eccepisce, da parte di ulteriori funzionari Pani ed altri nel proprio
intervento ad opponendum, l’inammissibilità dei ricorsi dei funzionari Imparato
ed altri; Nicolò ed altri, perché gli stessi avrebbero dovuto essere proposti
nell’ambito del primo giudizio di appello avverso la sentenza n. 260/2011.
6. Al fine di definire
le effettive parti del giudizio di appello, così come risultante dalla disposta
riunione dei ricorsi, ed anche al fine di poter conseguentemente vagliare le
questioni preliminari da ciascuno proposte, il Collegio ritiene necessario
esaminare innanzi tutto l’eccezione relativa alla ammissiblità dei ricorsi
proposti dai funzionari Imparato ed altri e Nicolò ed altri, nell’ambito del
giudizio di impugnazione della sentenza n. 6684/2011.
Il Collegio ritiene che
il ricorso proposto dai funzionari citati sia ammissibile in generale (così
come quello proposto per impugnare la sentenza n. 260/2011), e, in particolare,
che lo stesso sia ammissibile nell’ambito del secondo giudizio di appello (in
tal modo rigettando la relativa eccezione), posto che sussiste un interesse dei
medesimi in ordine alla presente pronuncia.
Occorre ricordare che i
ricorsi sono stati proposti ai sensi degli artt. 108 e 109, co. 2, Cpa:
- il primo disciplina,
in generale, il rimedio dell’opposizione di terzo, affermando (comma 1): “Un
terzo può fare opposizione contro una sentenza del Tribunale amministrativo
regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché
passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi”;
- il secondo (co. 2,
primo periodo), prevede che “se è proposto appello contro la sentenza di primo
grado, il terzo deve introdurre la domanda di cui all’art. 108 intervenendo nel
giudizio di appello”.
Orbene, il Codice del
processo amministrativo recepisce, quindi - pur con i dovuti adattamenti
necessitati dal diverso contesto sostanziale (la presenza nel giudizio
amministrativo anche della posizione di interesse legittimo) e processuale - le
due classiche figure di opposizione di terzo, disciplinate dall’art. 404 cod.
proc. civ., e cioè l’opposizione di terzo ordinaria (primo comma) e
l’opposizione di terzo revocatoria (secondo comma).
Sul punto, la relazione
illustrativa del Codice precisa che si è intesa superare “la giurisprudenza del
giudice amministrativo che, in carenza di una disciplina dell’opposizione di
terzo, ammetteva l’appello anche di chi non fosse stato parte del giudizio di
primo grado”.
Come è noto,
l’estensione al giudizio amministrativo dell’opposizione di terzo discende
dalla sentenza 17 maggio 1995 n. 177 della Corte Costituzionale, con la quale
venne dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 28 e 36 della legge
n. 1034/1971, nella parte in cui gli stessi non prevedevano l’opposizione di
terzo ordinaria tra i mezzi di impugnazione esperibili avverso le sentenze del
Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.
Secondo la Corte
costituzionale, “l'esigenza del rimedio è . . . desunta dalla constatazione
della possibilità che - nonostante la regola generale, dettata dall'art. 2909
del codice civile, dell'inefficacia della sentenza nei confronti di soggetti
diversi dalle parti del processo a conclusione del quale essa sia stata
pronunciata - si presentino casi in cui, per effetto della cosa giudicata,
venga a determinarsi una obbiettiva incompatibilità fra la situazione giuridica
definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto
ai destinatari della stessa. Il mezzo di impugnazione di cui si tratta trae
perciò ispirazione da tale evenienza e consente a coloro che non sono stati
coinvolti nel processo di far valere le loro ragioni, infrangendo lo schermo
del giudicato per rimuovere il pregiudizio che da esso possa loro derivare. Ciò
sia nel caso che la situazione vantata dall'opponente ed incompatibile con
quella affermata dal giudicato venga considerata dal diritto sostanziale
prevalente rispetto a quest'ultima, sia nel caso che la sentenza cui ci si
oppone risulti . . . pronunciata senza il rispetto di regole processuali.”.
La Corte evidenzia due
distinte situazioni:
- il caso “in cui un
controinteressato, parte necessaria, sia stato pretermesso e non abbia potuto
far valere le sue ragioni”;
- il caso di soggetti
diversi dai destinatari in senso formale della sentenza, posto che vi sono casi
in cui “l'azione amministrativa, direttamente o di riflesso, coinvolge per sua
natura una pluralità di soggetti che non sempre sono ritenuti parte necessaria
nelle controversie oggetto del giudizio”; e poiché il processo amministrativo,
“come attualmente configurato, si svolge normalmente tra i soggetti interessati
dall'atto impugnato, è possibile che la sentenza che lo conclude possa poi dar
luogo, per la sua attuazione, ad altri procedimenti interferenti su rapporti
facenti capo a soggetti che non dovevano o, in alcuni casi, addirittura non
potevano partecipare al processo e dunque diversi dai destinatari in senso
formale della sentenza medesima.”.
La giurisprudenza
amministrativa ha successivamente approfondito le indicazioni della Corte
costituzionale, precisando (Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007 n. 2), che
“la legittimazione a proporre la opposizione di terzo, nei confronti della
decisione amministrativa resa tra altri soggetti, va riconosciuta: a) ai
controinteressati pretermessi; b) ai controinteressati sopravvenuti
(beneficiari di un atto consequenziale, quando una sentenza abbia annullato un
provvedimento presupposto all'esito di un giudizio cui siano rimasti estranei);
c) ai controinteressati non facilmente identificabili; d) in generale ai terzi
titolari di una situazione giuridica autonoma ed incompatibile, rispetto a
quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza
oggetto di opposizione.”, specificandosi altresì che “non sono legittimati i
titolari di una situazione giuridica derivata ovvero i soggetti interessati
solo di riflesso (ad es. soggetti legati da rapporti contrattuali con i
legittimati all'impugnazione) (in senso conf. Cons Stato, sez. VI, 29 gennaio
2008 n. 230).
In particolare, la
posizione del ricorrente in opposizione è tutelata dall’ordinamento giuridico
(in quanto fondata su norma di legge e/o regolamento, ovvero su diverso
provvedimento amministrativo assistito da presunzione di legittimità) e si
caratterizza per un contenuto (il bene che forma oggetto della posizione
giuridica, argomentando dall’art. 810 cod. civ.) assolutamente in contrasto con
la sentenza pronunciata e che risulta da questa pregiudicato, senza che il
titolare abbia avuto la possibilità di agire in giudizio avverso le parti costituite.
Ne consegue che solo
attraverso l’opposizione di terzo può sanarsi la contraddizione tra “cosa
giudicata” in senso sostanziale (ex art. 2909 cod. civ.), che tuttavia, come è
noto, definisce e limita l’efficacia dell’accertamento contenuto in sentenza
alle “parti” del giudizio, e posizione di colui che tale qualifica di parte non
ha potuto incolpevolmente acquisire, risolvendosi così quella “incompatibilità
fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia
titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa”, già rilevata
dalla Corte costituzionale.
Questa situazione,
unitamente a quella del soggetto titolare di posizione giuridica fondata su
provvedimento amministrativo consequenziale a quello impugnato (situazione, quest’ultima,
che può essere ricostruita anche come una specie della precedente), è proprio
ciò che più caratterizza il processo amministrativo (nella sua specifica veste
di giudizio impugnatorio), rispetto al processo civile, potendosi cioè avere –
proprio per la tipicità del giudizio, ma soprattutto per la presunzione di
legittimità che assiste i provvedimenti amministrativi, ancorché oggetto di
impugnazione e che consente l’ulteriore attività amministrativa - l’insorgenza
di posizioni giuridiche successivamente al giudizio instaurato, e quindi
possibili legittimazioni ad opposizione di terzo derivanti, non già dal mancato
rispetto del principio del contraddittorio, bensì dalla sopravvenienza di nuovi
atti fondativi di posizioni giuridiche.
Alla luce di quanto
esposto:
- per un verso, appare
del tutto normale la possibilità che, a fronte della sussistenza di
legittimazione ed interesse ad agire in opposizione, i soggetti per i quali
tali condizioni sussistono, ben possono non avere posizione di controinteressati
nel giudizio conclusosi con la sentenza avverso la quale ora essi esperiscono
il rimedio impugnatorio straordinario;
- per altro verso,
appare del tutto evidente la sussistenza di legittimazione ed interesse ad
agire dei soggetti che hanno proposto opposizione di terzo nella presente sede,
per il tramite di intervento nel giudizio di appello già instaurato. Si tratta
di funzionari già destinatari di conferimento di incarico dirigenziale,
ancorché privi della relativa qualifica, che vedrebbero frustrata ogni
ulteriore possibilità di conferimento per intervenuto annullamento della
deliberazione di modifica della norma regolamentare.
D’altra parte (e ad
abundantiam), anche prima del riconoscimento dell’opposizione di terzo nel
giudizio amministrativo, si è affermato che la legittimazione ad appellare le
sentenze del giudice amministrativo di primo grado spetta anche a soggetti che,
pur non essendo controinteressati in senso proprio, in quanto non direttamente
contemplati dall'atto, o comunque da esso non facilmente identificabili, sono
tuttavia portatori di una situazione di vantaggio in ordine ad un bene della
vita, dipendente dal potere amministrativo esercitato, ma dotato di autonomia
(Cons. Stato, Sez. V, 11 aprile 1990 n. 372).
Da quanto esposto consegue
che non può trovare accoglimento l’eccezione proposta dagli interventori ad
opponendum, ed occorre affermare la sussistenza della legittimazione ed
interesse ad agire, in entrambi i giudizi di appello in cui – ex art. 109, co.
2 Cpa - ciò è avvenuto, in capo ai ricorrenti Imparato ed altri e Niccolò ed
altri.
7. Il Collegio ritiene
infondati i motivi di appello con i quali, evidenziando l’error in iudicando
della sentenza n. 260/2011 e, dunque, della successiva sentenza n. 6884/2011,
si ribadisce l’inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado
per difetto di legittimazione attiva del sindacato Dirpubblica.
Tali motivi si fondano,
in sostanza, sulle seguenti ragioni:
- in primo luogo, si
sostiene che la sentenza ha disatteso il tradizionale insegnamento
giurisprudenziale “secondo cui deve escludersi la legittimazione a ricorrere
delle associazioni di categoria quando le stesse facciano valere in giudizio
gli interessi peculiari di una sola parte dei propri associati e non della
totalità dei propri componenti, trascurando quelli eventualmente di segno
contrario, come avvenuto nel caso di specie”. Peraltro, ciò comporterebbe –
poiché nel caso di specie, Dirpubblica “non ha chiarito . . . a tutela di quale
interesse, secondo le finalità stabilite nel proprio statuto, il sindacato
agisce in giudizio”, una sostanziale impossibilità di verifica dell’interesse
ad agire (v. app. Agenzia, pagg. 12 – 24);
- in secondo luogo, si
sostiene l’erroneità della sentenza, poiché la legittimazione dell’associazione
non può essere definita come “originaria ed esclusiva”, posto che ciò
comporterebbe che “ogni qualvolta venisse in rilievo la lesione di un interesse
che in astratto riguarda una categoria di soggetti, i privati non sarebbero
singolarmente legittimati ad agire per la sua tutela bensì dovrebbero
necessariamente aderire ad una associazione di categoria, la quale poi dovrebbe
agire per loro conto”; al contrario “la legittimazione dell’associazione
sussiste in quanto si rinviene un interesse del privato che risulta comune a
tutta una categoria di cittadini e che, oltre ad essere tutelabile uti singuli,
può essere oggetto di tutela per mezzo dell’ente esponenziale”; il che esclude
(ancora una volta) la possibilità di tutela, da parte dell’associazione, di interessi
“disomogenei” (e segnatamente da parte di Dirpubblica che, per Statuto,
raccoglie tra i suoi iscritti sia dirigenti sia funzionari);
- in definitiva, “gli
interessi individuali che confluiscono all’interno di Dirpubblica, trovando
astratta esplicitazione nello Statuto, e per la cui tutela essa si adopera, si
sublimano in quelli del genus “pubblico dipendente che ricopre posizioni
apicali e di elevata qualificazione”, e non in quelli specifici delle varie
categorie di pubblici dipendenti che vi aderiscono” (v. ricorso in opposiz.,
Imparato e altri, pag. 24).
Il Collegio ritiene tali
argomentazioni non condivisibili e, dunque, ritiene di dover confermare – pur
con le precisazioni in ordine alla motivazione, di seguito esposte – le
sentenze di I grado, stante l’infondatezza dei motivi proposti e precisamente:
sub a) da parte
dell’Agenzia delle Entrate; primo motivo di ricorso (sub b) dei funzionari
Imparato ed altri rispetto alla sentenza n. 260/2011; motivo sub d2) dei
funzionari Imparato ed altri, Nicolò ed altri avverso la sentenza n. 6884/2011;
motivo sub a3) della Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 7636/2011.
8. Occorre innanzi tutto
osservare che ad un soggetto dell’ordinamento è attribuita la qualifica di ente
esponenziale di collettività (cd. ente collettivo), in ragione di una
possibilità di individuazione di tale collettività, attraverso l’appartenenza –
giuridicamente definita e persistente nel tempo - di coloro che le compongono a
un medesimo territorio, ovvero ad una medesima categoria produttiva.
Tali enti possono essere
sia riconosciuti come tali dall’ordinamento giuridico (gli enti territoriali
trovano il proprio riconoscimento negli articoli 5 e 114 Cost.; le
organizzazioni sindacali nell’art. 39 Cost.), sia manifestarsi per effetto
della libertà di associazione, espressamente riconosciuta dall’ordinamento
(art. 18 Cost.).
In quest’ultimo caso,
tuttavia, perché la loro costituzione possa renderli titolari di interessi
collettivi, occorre che i singoli associati si caratterizzino non già per
essere una aggregazione meramente seriale ed occasionale, ma per essere
identificabili in relazione ad un vincolo che, in quanto afferente ad una
realtà territoriale o ad una medesima manifestazione non occasionale della vita
di relazione, si presenti come concreto (quanto al suo oggetto) e temporalmente
persistente (quanto alla sua durata).
Gli enti collettivi –
oltre ad avere caratteristiche diverse quanto alla personalità giuridica –
possono quindi essere titolari sia (al pari dei soggetti singoli) di posizioni
giuridiche proprie (diritti soggettivi ed interessi legittimi), sia di
posizioni giuridiche “collettive” (appunto, interessi collettivi).
In questa seconda
ipotesi, si è affermato (Cons. Stato, comm. spec., parere 26 giugno 2013 n.
3014, medio tempore pubblicato), che:
“in capo all’ente
esponenziale l’interesse diffuso, se omogeneo, in quanto comune (ai)
rappresentati, si soggettivizza, divenendo interesse legittimo, nella forma del
c.d. “interesse collettivo”, fermo restando che “l’interesse diffuso (che
attraverso l’ente esponenziale diviene interesse collettivo e quindi interesse
legittimo) è, per sua natura, indifferenziato, omogeneo, seriale, comune a
tutti gli appartenenti alla categoria”.
In tale contesto, si è
affermato che “l’ente esponenziale è lo “strumento” elaborato dalla
giurisprudenza per consentire la giustiziabilità dei c.d. “interessi diffusi”,
cioè degli interessi omogenei e indifferenziati degli appartenenti alla
categoria. È attraverso la costituzione dell’ente esponenziale che l’interesse
diffuso, sino a quel momento adespota e indifferenziato, si soggettivizza e si
differenzia, assurgendo al rango di interesse legittimo meritevole di tutela
giurisdizionale”.
Sulla base di tale
premessa, “l’ente collettivo non può agire a tutela degli interessi di alcuni
appartenenti al gruppo contro gli altri. Al contrario, verrebbero meno la sua
funzione e la sua stessa ragion d’essere e, quindi, l’interesse collettivo del
quale l’ente è titolare”; di modo che “è proprio questo profilo che consente di
introdurre un “filtro” o un criterio di selezione al riconoscimento della
legittimazione al ricorso degli enti esponenziali: condizione imprescindibile è
che l’ente faccia valere un interesse omogeneo della categoria, ovvero che
l’atto impugnato leda l’interesse di tutti e non solo di alcuni dei suoi
aderenti”.
In coerenza con tali
premesse, la legittimazione ad agire degli enti in esame si fonda, secondo la
giurisprudenza, sulla titolarità di interessi collettivi, individuati come
interessi propri della intera categoria da essi rappresentata e sempreché gli
interessi individuali degli iscritti o degli appartenenti alla categoria siano
univocamente conformi a quello a tutela del quale l’associazione agisce (in tal
senso, Cons. Stato, sez.VI, 14 gennaio 2003, n.93; sez. IV 2 aprile 2004 n.
1826; sez. V, 20 febbraio 2009, n.1032; sez, IV, 27 maggio 2002, n.292).
Di modo che è stato
anche ritenuto che la legittimazione ad agire non è configurabile per la
salvaguardia di interessi propri di una parte sola degli iscritti, ove,
appunto, non sia ravvisabile una omogeneità di posizioni soggettive (Cons.
Stato, Sez.VI, n.7792 del 2004).
Il Collegio, pur
condividendo in linea generale le considerazioni sopra riportate, ritiene
tuttavia che le stesse debbano costituire il presupposto per ulteriori
riflessioni, volte a meglio precisare la posizione giuridica definita quale
“interesse collettivo”, anche al fine di evitare possibili disomogeneità in
tema di conseguente determinazione della legittimazione ad agire.
Ed infatti, se per
interesse collettivo si intende – come sopra riportato - l’interesse diffuso
comune a tutti i soggetti facenti parte della collettività (e dall’ente
rappresentati) – interesse diffuso che, proprio perché comune, si
“soggettivizza” – ne consegue:
- per un verso, che tale
interesse non costituisce (né può mai costituire) posizione soggettiva dei
singoli, ma esso sorge quale posizione sostanziale direttamente e solo in capo
all’ente esponenziale;
- per altro verso, che
esso, soggettivizzandosi in capo all’ente esponenziale, costituisce posizione
propria (e solo) di questo. Esso è una “derivazione” dell’interesse diffuso per
sua natura adespota, non già una “superfetazione” o una “posizione parallela”
di un interesse legittimo comunque ascrivibile anche in capo ai singoli
componenti della collettività.
In questo contesto,
dunque, sul piano della tutela giurisdizionale, non sussiste la ontologica
possibilità di ipotizzare che “l’ente collettivo non può agire a tutela degli
interessi di alcuni appartenenti al gruppo contro gli altri”.
E ciò in quanto, in
questa ipotesi, si dà (contraddicendo la tesi) per assunto che sussistano
interessi legittimi differenti tra gli appartenenti alla collettività, laddove
l’interesse collettivo non costituisce posizione sostanziale di alcun
componente della collettività medesima, ma solo della collettività in quanto
tale.
Ne consegue che, se – al
fine di riconoscere la legittimazione ad agire - è condivisibile l’affermazione
che “condizione imprescindibile è che l’ente faccia valere un interesse
omogeneo della categoria”, perché questa è un caratteristica dell’interesse
collettivo, non necessariamente, invece, tale interesse si relaziona ad un atto
amministrativo che “leda l’interesse di tutti e non solo di alcuni dei suoi
aderenti”.
Questo “interesse di
tutti” è diverso dall’ “interesse collettivo”, come interesse della
collettività indistinta (e quindi entità diversa dalla pluralità dei suoi
componenti).
Meglio analizzando, si
avverte che, con l’espressione (atecnica) “interesse di tutti” può definirsi,
infatti, sia un interesse coincidente di ciascun componente della categoria (un
interesse legittimo identico e replicato per ciascun componente della categoria
medesima), sia un interesse collettivo in senso proprio, in titolarità
esclusiva dell’ente esponenziale.
Si intende affermare che
l’ente esponenziale – oltre ad essere titolare di posizioni giuridiche proprie
quale persona giuridica, non diversamente dai singoli soggetti
dell’ordinamento, persone fisiche e giuridiche – risulta altresì titolare:
- sia di posizioni
giuridiche che appartengono anche a ciascun componente della collettività da
esso rappresentata, tutelabili dunque sia dall’ente sia da ciascun singolo
componente (ed in questo senso l’interesse collettivo assume connotazioni
proprie di interesse “superindividuale”;
- sia posizioni
giuridiche di cui è titolare in via esclusiva, cioè interessi collettivi
propriamente detti, la cui titolarità è solo dell’ente, proprio perché
risultanti da un processo di soggettivizzazione dell’interesse altrimenti
diffuso ed adespota.
Da ciò consegue che,
mentre nel primo caso, la tutela giurisdizionale può essere attivata sia
dall’ente esponenziale, sia dal singolo componente della categoria, nel secondo
caso la tutela giurisdizionale è azionabile solo dall’ente esponenziale, quale
unico titolare della posizione giuridica lesa.
Mentre nel primo caso,
per ragioni che appaiono evidenti, in tanto è possibile riconosce all’ente
legittimazione ad agire in quanto l’atto impugnato “leda l’interesse di tutti e
non solo di alcuni dei suoi aderenti” (in quanto la posizione giuridica di cui
l’ente esponenziale è titolare è in questo caso “sovrapponibile” alla posizione
giuridica di cui è titolare ogni singolo componente); nel secondo caso, l’ente,
godendo di una titolarità sua propria di posizione giuridica soggettiva, gode
ex se di legittimazione ad agire e può anche rappresentarsi il caso che la sua
azione, volta alla tutela dell’interesse collettivo della categoria, possa porsi
in contraddizione/contrasto con l’interesse del singolo componente della
collettività.
In definitiva, come è
noto che il risultato finale di una somma costituisce entità distinta dai
singoli, identici addendi che la compongono (assumendo esso conformazioni
ontologiche sue proprie, pur condividendo aspetti dei suoi singoli addendi),
allo stesso modo l’ente esponenziale ha sia legittimazione ad agire per la
tutela di posizioni giuridiche per le quali ha titolarità tanto quanto i
singoli componenti (che in questo caso sono titolari – ciascuno di essi - di
identiche posizioni giuridiche), sia legittimazione ad agire per la tutela di
posizioni giuridiche (interessi collettivi) di cui ha titolarità esclusiva.
Alla luce delle
considerazioni sin qui esposte, il Collegio non intende discostarsi da quanto
sin qui affermato (come sopra succintamente riportato) dalla giurisprudenza
amministrativa, ma ritiene che tali affermazioni non esauriscano gli aspetti
del problema (se si vuole, del rapporto tra ente esponenziale e singoli
associati, con le rispettive posizioni giuridiche), cogliendo solo un tratto
(probabilmente, il più ricorrente) di tale complesso rapporto.
Di modo che, mentre con
rispetto ad una delle (possibili) posizioni giuridiche di cui l’ente
esponenziale è titolare, può affermarsi il difetto di legittimazione ad agire
allorché l’interesse tutelato non coincida con l’interesse di ciascun
associato/componente dell’ente, al tempo stesso può ben affermarsi, in altri
casi (quelli dove è più tecnicamente utilizzabile l’espressione “interesse
collettivo”), la sussistenza della legittimazione ad agire ancorché l’interesse
collettivo “contrasti” con l’interesse di un singolo appartenente.
E’ questo il caso che si
verifica allorché venga adottato da una pubblica amministrazione un atto
amministrativo che si pone in contrasto con l’interesse collettivo del quale
l’ente esponenziale della categoria è titolare (interesse collettivo per come
conformato dalla legge), sebbene esso risulti produttivo di effetti favorevoli per
una parte (o anche uno solo) degli appartenenti alla categoria medesima.
Ritenere che la
legittimazione ad agire sussiste solo qualora l’atto leda l’interesse di tutti
e non solo di alcuni appartenenti alla categoria (a prescindere dal problema
dell’esatta configurazione dell’interesse collettivo, di cui si è detto),
comporta che l’ente esponenziale non è legittimato ad impugnare un atto,
ritenuto illegittimo, e lesivo degli interessi collettivi, sol perché esso
porta vantaggi (magari verosimilmente illegittimi) ad una parte dei suoi
componenti.
Orbene, se non è
corretto sostenere che l’ente esponenziale sia l’unico legittimato ad impugnare
un atto che lede interessi legittimi di tutti i suoi aderenti, dovendosi
ragionevolmente affiancare la legittimazione ad agire di questi ultimi a quella
dell’ente, non è altrettanto corretto ritenere che l’interesse collettivo (come
interesse dell’intera collettività e/o categoria) possa ricevere tutela solo
allorquando coincida con l’interesse (benché meramente materiale e fondato
sugli effetti di attività amministrativa illegittima) di tutti i componenti
della collettività.
Tale apparente
“contraddizione” sul piano sostanziale (che tuttavia si presenta produttiva di
conseguenze in tema di definizione della legittimazione ad agire) si risolve
laddove, come si è avuto modo di considerare, si evidenzia la duplicità di
situazioni giuridiche indistintamente riunite sotto la definizione di
“interesse collettivo”.
9. La presenza di una
“duplicità” di situazioni giuridiche esistenti sotto l’unitaria definizione di
“interesse collettivo”, è percepibile anche nella motivazione della prima delle
sentenze appellate (n. 260/2011), tuttavia determinandosi – per il fatto che
tale duplicità non è pienamente e consapevolmente evidenziata - talune
contraddizioni.
Ed infatti, si afferma
che “la legittimazione al ricorso di associazioni rappresentative di categorie
di lavoratori si fonda . . . sul presupposto della rappresentatività di un
interesse collettivo riferibile in maniera generica ed indistinta a tutti gli
appartenenti al gruppo o alla categoria rappresentata”; affermazione
condivisibile, purché si convenga, alla luce delle considerazioni sopra
espresse, sul fatto che la “riferibilità generica ed indistinta a tutti gli
appartenenti del gruppo” è una situazione giuridica diversa dalla “riferibilità
alla categoria rappresentata”.
Proprio (e solo)
cogliendo tale distinzione, può condividersi quanto affermato in sentenza,
secondo la quale l’interesse collettivo “per tale sua caratterizzazione
ontologica è destinato ad essere tutelato soltanto da parte di soggetti
superindividuali, esponenziali e rappresentativi del gruppo, che ne assumano
l’obiettivo di salvaguardia a livello statutario; e la legittimazione ad agire
dell’associazione rappresentativa o dell’ente esponenziale si atteggia come
originaria ed esclusiva, ovvero non soltanto indipendente ed autonoma rispetto
a quella dei singoli, ma anche riservata esclusivamente all’associazione o
all’ente in relazione ai suoi scopi statutari”.
Una legittimazione ad
agire “originaria ed esclusiva” può conseguire solo ad una titolarità
originaria ed esclusiva di posizione soggettiva.
Ma tale ipotesi – che si
è affermata esistente – è solo una delle due situazioni giuridiche che (a volte
confusamente) vengono assemblate sotto la comune denominazione di “interesse
collettivo”.
Non evidenziare che essa
è solo una delle ipotesi possibili (anzi, quella che propriamente fonda la
definizione di “interesse collettivo”), espone al rilievo (in concreto effettuato,
nel presente giudizio, dai ricorrenti in opposizione), in base al quale “ogni
qualvolta venisse in rilievo la lesione di un interesse che in astratto
riguarda una categoria di soggetti, i privati non sarebbero singolarmente
legittimati ad agire per la sua tutela bensì dovrebbero necessariamente aderire
ad una associazione di categoria, la quale poi dovrebbe agire per loro conto”.
Così come, per le
medesime ragioni, non può specularmente condividersi quanto sostenuto dai
ricorrenti in opposizione, laddove affermano che “la legittimazione
dell’associazione sussiste in quanto si rinviene un interesse del privato che
risulta comune a tutta una categoria di cittadini e che, oltre ad essere
tutelabile uti singuli, può essere oggetto di tutela per mezzo dell’ente
esponenziale”; e ciò in quanto tale situazione è, come più volte affermato,
solo una delle due ipotizzzabili.
Occorre, anzi,
aggiungere che tale ultima prospettazione finisce con il far riconoscere, sul
piano concreto, la legittimazione attiva solo ad organizzazione caratterizzate
da forte omogeneità dei propri componenti, in tal modo finendo per delimitare
fortemente, sul piano generale, la libertà di associazione e, sul piano
concreto della tutela sindacale, le possibili aggregazioni di lavoratori.
In tale ultimo caso,
infatti, seguendo la suddetta prospettazione, ci si limiterebbe a riconoscere
legittimazione ad agire solo ad associazioni di ristrette categorie di
lavoratori dello stesso settore, se non ad associazioni di lavoratori della
stessa area o qualifica (così determinando, ab esterno, una forte compressione
della tutela dei lavoratori per il tramite delle loro associazioni, che si
risolve in una indiretta compressione della libertà sindacale, assicurata
dall’art. 39 Cost.).
In conclusione, è alla
luce delle considerazioni sin qui rappresentate che può convenirsi con la
conclusione della sentenza n. 260/2011, laddove essa afferma che “la possibile
disomogeneità degli interessi dei singoli componenti il gruppo o la categoria
rappresentata non può incidere sulla legittimazione ad agire dell’associazione
rappresentativa o dell’ente esponenziale a tutela dell’interesse collettivo
oggettivato e tipizzato”.
Per tutte le ragioni sin
qui esposte, nel confermare sul punto, e con le integrazioni motivazionali
espresse nella presente sede, la sentenza appellata, n. 260/2011, devono essere
rigettati i motivi di appello, come sopra puntualmente indicati, con i quali si
afferma il difetto di legittimazione attiva dell’organizzazione sindacale
ricorrente.
10. L’impugnazione di un
atto generale a contenuto normativo, di un regolamento, costituisce un esempio
evidente della esistenza di un interesse collettivo, distinto dagli interessi
dei singoli componenti della collettività (ente territoriale, organizzazione di
categoria, associazione), e tutelabile indipendentemente dalla sua coincidenza
con l’interesse “di tutti”.
Questo Consiglio di
Stato (sez. IV, 12 febbraio 2012 n. 812) ha già avuto modo di precisare, in
tema di esercizio di potestà regolamentare ed impugnabilità dei regolamenti:
“La natura
amministrativa dell’atto regolamento – non riconducibile alla categoria degli
atti politici per i quali (ora ai sensi dell’art. 7, co. 1, Cpa) non è ammesso
sindacato giurisdizionale amministrativo – consente la impugnazione dello
stesso e, quindi, la sua sindacabilità da parte del giudice amministrativo, in
ciò adempiendo a quanto prescritto dall’art. 113, secondo comma Cost..
Ma poiché la tutela nei
confronti degli atti amministrativi è dall’art. 113 sempre ammessa – in concreta
attuazione del generale diritto alla tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. –
per i diritti soggettivi e gli interessi legittimi, ciò comporta che non può in
concreto richiedersi tutela (al giudice ordinario o al giudice amministrativo,
secondo la disposizione costituzionale), se non per tutela di quelle posizioni
soggettive avverso una lesione e/o pregiudizio che dall’atto amministrativo
esse subiscono.
Da ciò consegue che la
concreta ammissibilità dell’impugnazione del regolamento (e, quindi, anche la
necessità di impugnarlo entro il termine decadenziale previsto) non può che
presupporre la sussistenza dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), che sorge
in presenza di una lesione e/o pregiudizio attuale.
Anzi, nel caso del
regolamento, stante la sua natura di fonte normativa – e quindi la
insussistenza, al momento dell’esercizio del potere regolamentare, di
destinatari definibili e concretamente individuabili – ciò che sorge, in un
momento successivo all’esercizio del potere regolamentare e per il tramite
dell’atto applicativo, non è il solo interesse ad agire, ma anche la posizione
stessa di interesse legittimo. . .
Con riferimento ai
regolamenti, ciò comporta che, al momento dell’esercizio della potestà
regolamentare, non solo non si producono immediatamente (attualmente) lesioni
di posizioni soggettive, ma generalmente non sono configurabili posizioni
sostanziali di interesse legittimo, le quali – come posizioni circoscritte
dall’essere “personali” e “dirette” – insorgono normalmente in un momento
successivo all’esercizio del potere (se il regolamento presuppone
l’instaurazione di un procedimento ad istanza di parte, al momento di
proposizione della domanda di autorizzazione o concessione).
Al contrario, laddove
ricorra l’ipotesi di un “regolamento–provvedimento”, l’identificabilità
concreta del destinatario rende sussistente, al momento stesso dell’esercizio
del potere regolamentare (ma si tratta, nella sostanza, di un potere affatto
diverso), sia l’interesse legittimo sia l’interesse ad agire.
In definitiva, al
momento dell’adozione del regolamento, ciò che manca non è la lesione di una
posizione soggettiva di interesse legittimo (e quindi l’interesse ad agire a
sua tutela), bensì lo stesso interesse legittimo, che non può che sorgere in un
momento successivo, in dipendenza di fatti o atti che pongono l’interessato a
contatto con l’esercizio di un potere amministrativo diverso da quello
regolamentare, e che proprio nella norma regolamentare trova il suo fondamento.
. .
Solo l’atto di concreta
specificazione dell’esercizio dell’ulteriore potere amministrativo, non già
regolamentare ma conferito all’amministrazione dal regolamento, fa sorgere, ove
non favorevole all’interessato, l’interesse ad agire all’impugnazione del
provvedimento applicativo e, per suo tramite (se necessario) della norma
regolamentare sulla quale tale atto si fonda.
Che poi dalla pronuncia
del giudice, che investe la norma regolamentare quale presupposto dell’atto
applicativo impugnato, derivi l’annullamento (totale o parziale) dell’atto
regolamento, e quindi un’efficacia della pronuncia che trascende il rapporto
processuale inter partes, ciò deriva dalla natura dell’atto, dal suo contenuto
normativo, dall’efficacia esterna ed erga omnes delle sue disposizioni (Cass.
civ., sez. I, 13 marzo 1998 n. 2734).”
Orbene, con riferimento
ai regolamenti, mentre la posizione di interesse legittimo generalmente sorge
in capo al singolo per effetto dell’esercizio in concreto del potere
amministrativo fondato (anche) sulla norma regolamentare, ben può sorgere
immediatamente una posizione di interesse collettivo della quale è titolare
l’ente esponenziale.
Come questo Consiglio di
Stato (parere n. 3014/2013 cit.) ha avuto modo di affermare, con considerazioni
che si intendono condivise e riproposte nella presente sede:
“La legittimazione al
ricorso deve, infatti, essere valutata in relazione alla situazione giuridica
soggettiva fatta valere e si atteggia, quindi, diversamente a seconda che venga
dedotto in giudizio un interesse individuale oppure un interesse collettivo. .
.
Non vi è dubbio che la
norma regolamentare, pur non potendo, per il suo carattere di generalità e
astrattezza, provocare un pregiudizio immediato in capo al singolo (che sarà
inciso solo dal provvedimento applicativo), può, tuttavia, essere fonte di
prescrizioni che colpiscono indistintamente e in maniera indifferenziata,
l’interesse omogeneo di tutti gli appartenenti alla categoria. È questo
interesse omogeneo che è oggetto della situazione giuridica soggettiva della
quale è titolare l’ente esponenziale. . . La lesione di tale interesse
omogeneo, proprio perché indifferenziato e seriale, non può essere fatta valere
dal singolo (essendo questi privo, appunto, di legittimazione al ricorso), ma
può certamente essere fatta valere dall’ente in capo al quale quell’interesse
si soggettivizza. In questo caso, infatti, la legittimazione al ricorso nasce
proprio dalla lesione dell’interesse collettivo (da intendersi come interesse
omogeneo degli appartenenti alla categoria rappresentata). Tale lesione non è
potenziale e futura, ma attuale e immediata, verificandosi come immediata e
diretta conseguenza dell’introduzione nell’ordinamento di una prescrizione che,
in maniera generale e astratta, arreca un vulnus agli interessi
indifferenziati, e quindi omogenei, della categoria.
In questo caso, non è
necessario attendere il provvedimento applicativo affinché la lesione si
attualizzi. Il provvedimento applicativo adottato nei confronti di una
determinata impresa avrà, infatti, l’effetto di differenziare la posizione del
soggetto che ne è destinatario, consentendogli di adire autonomamente gli
organi di giustizia per tutelare la propria posizione individuale. Al
contrario, trattandosi di tutelare gli interessi del gruppo, quest’ultimo è
leso per il solo fatto dell’introduzione nell’ordinamento di una norma il cui
contenuto arreca una menomazione a tutti gli appartenenti alla categoria
rappresentata”.
In sostanza, ciò che
determina la differenziazione tra ente esponenziale e singolo componente nei
confronti del regolamento, con immediata proiezione sulla tutela
giurisdizionale nei confronti del medesimo, è costituito – con riferimento al
caso sopra riportato (analogo a quello in esame) – l’insorgenza immediata
dell’interesse collettivo per effetto del mero esercizio della potestà
regolamentare, a fronte della insorgenza successiva dell’interesse legittimo,
in capo al singolo componente, per effetto del concreto esercizio del potere
amministrativo provvedimentale.
Quanto ora evidenziato
rende evidente come, a fronte del medesimo atto, possono esservi posizioni
soggettive diversificate, e precisamente l’interesse collettivo dell’ente
esponenziale e, solo successivamente e mediatamente, l’interesse legittimo del
singolo componente della collettività. Rende altresì evidente l’autonomia
dell’interesse collettivo come “interesse della collettività”, che ben può
porsi in contrasto con situazioni soggettive di singoli associati che – per
effetto di successiva applicazione del regolamento – potranno singolarmente giovarsi
della previsione regolamentare illegittima.
Infine, è proprio
l’insorgenza, temporalmente diversificata, di due distinte posizioni a rendere
possibile l’immediata lesione dell’interesse collettivo, e dunque l’immediata
impugnazione del regolamento, e a diversificare la lesione, quanto alla sua
attualità, tra sfera dell’ente esponenziale e sfera del singolo componente.
11. Le considerazioni
espresse al precedente par. 10 sostengono anche la reiezione dei motivi di
appello con i quali, nel censurare la sentenza impugnata n. 6884/2011, si
evidenzia l’inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado
per difetto di interesse ad agire, avendo la Dirpubblica impugnato l’atto
regolamentare indipendentemente dagli atti di questo applicativi (motivo di
appello sub a2) dell’Agenzia delle Entrate; motivo di ricorso dei funzionari
Sebastiano ed altri, Nicolò ed altri sub f2).
Si è detto che con la
delibera impugnata con il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, il
Comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate, modificando l’art. 24 del
regolamento di amministrazione, ha consentito il conferimento, fino al 31
dicembre 2010, di incarichi dirigenziali in favore di funzionari non in
possesso della relativa qualifica.
Appare, dunque, evidente
come la deliberazione assunta costituisce, nella prospettazione della
organizzazione sindacale ricorrente, un atto immediatamente lesivo
dell’interesse collettivo (del quale essa è titolare) alla corretta
attribuzione, nell’ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica
Amministrazione, degli incarichi dirigenziali. E in quanto tale, l’atto
determina, sul piano delle condizioni dell’azione (impregiudicata ogni
valutazione nel merito), la sussistenza della legittimazione ad agire.
Né, per le ragioni
esposte, rileva che tale disposizione potrebbe eventualmente favorire, in sede
di propria concreta applicazione, (anche) funzionari iscritti alla stessa
organizzazione sindacale ricorrente, posto che ciò che rileva è:
sul piano sostanziale,
la sussistenza ed identificabilità di un interesse collettivo;
sul piano processuale:
.- la sussistenza di
legittimazione ad agire, che consegue alla sussistenza del titolo (e non è
revocata in dubbio dalla eventuale – presente o futura – insorgenza di
posizioni di interesse legittimo difforrmi dall’interesse collettivo in capo ai
singoli;
.-l’attualità della
lesione che evidenzia l’interesse ad agire.
12. Le ragioni che hanno
innanzi consentito di ritenere sussistenti le condizioni dell’azione in capo ai
ricorrenti in opposizione di terzo sono le medesime che fondano il rigetto dei
motivi da questi stessi proposti, e relativi alla ritenuta inammissibilità del
ricorso della Dirpubblica instaurativo del giudizio in I grado (cui fanno
seguito le sentenze appellate nn. 260 e 6884 del 2011), per omessa notifica ad
almeno un controinteressato [secondo motivo di ricorso dei predetti funzionari
(sub c) avverso la sentenza n. 260/2011, e secondo motivo di ricorso (sub e2),
dei medesimi avverso la sentenza n. 6884/2011].
Si è innanzi rilevato
come sussiste la legittimazione ad agire dei ricorrenti in opposizione di
terzo, ancorché gli stessi - secondo gli insegnamenti della Corte
costituzionale. (sent. n. 177/1995) e dell’Adunanza plenaria (sent. n. 2/2007)
costituiscano “controinteressati sopravvenuti”, cioè soggetti (in questo caso
potenzialmente beneficiari di un atto consequenziale), quando una sentenza
abbia annullato un provvedimento presupposto all'esito di un giudizio cui siano
rimasti estranei, e comunque non facilmente identificabili come tali.
Le ragioni che
consentono di affermare la legittimazione ad agire dei ricorrenti in
opposizione di terzo impediscono di ritenere inammissibile il ricorso
instaurativo del giudizio per omessa notifica ad almeno un controinteressato, posto
che, in sede di impugnazione della delibera di modifica regolamentare non
sussistevano controinteressati.
Tale conclusione risulta
viepiù avvalorata alla luce di quanto si è affermato in ordine alla
insussistenza di posizioni di interesse legittimo di singoli a fronte
dell’esercizio della potestà regolamentare (par. 8/10 precedenti).
Infine, devono essere
rigettati anche il motivo di appello (sub b2) dell’Agenzia delle Entrate,
nonché il motivo di ricorso sub g2), dei funzionari più volte citati, avverso
la sentenza n. 6884/2011, motivi con i quali si sostiene l’improcedibilità
dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse, essendo stato medio tempore
indetto un concorso per posti dirigenziali.
Appare evidente, alla
luce di tutto quanto sin qui esposto, l’irrilevanza dell’intervenuta indizione
di un concorso per qualifiche dirigenziali sulla persistenza dell’interesse ad
agire per ottenere l’annullamento della delibera di modifica regolamentare
impugnata.
13. Esaurito l’esame dei
motivi di appello e di ricorso afferenti ai profili di inammissibilità e di
improcedibilità, ai fini dell’esame degli ulteriori motivi, relativi al merito,
e dunque alla prospettata illegittimità degli atti impugnati, il Collegio deve
rilevare che, nelle more del giudizio, è entrato in vigore l’art. 8, co. 24,
d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44, recante
“Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di
efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento.
Tale disposizione prevede:
“Fermi i limiti
assunzionali a legislazione vigente, in relazione all'esigenza urgente e
inderogabile di assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture,
volta a garantire una efficace attuazione delle misure di contrasto
all'evasione di cui alle disposizioni del presente articolo, l'Agenzia delle
dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio sono autorizzate ad
espletare procedure concorsuali da completare entro il 31 dicembre 2013 per la
copertura delle posizioni dirigenziali vacanti, secondo le modalità di cui
all'articolo 1, comma 530, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e all'articolo
2, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203,
convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248. Nelle more
dell'espletamento di dette procedure l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle
entrate e l'Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno
attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di
contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione
al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso. Gli
incarichi sono attribuiti con apposita procedura selettiva applicando
l'articolo 19, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Ai
funzionari cui è conferito l'incarico compete lo stesso trattamento economico
dei dirigenti. A seguito dell'assunzione dei vincitori delle procedure
concorsuali di cui al presente comma, l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle
entrate e l'Agenzia del territorio non potranno attribuire nuovi incarichi
dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo
determinato, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 19, comma 6 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Agli oneri derivanti dall'attuazione del
presente comma si provvede con le risorse disponibili sul bilancio dell'Agenzia
delle entrate, dell'Agenzia delle dogane e dell'Agenzia del territorio. Alla
compensazione degli effetti in termini di fabbisogno e di indebitamento netto,
pari a 10,3 milioni di euro a decorrere dall'anno 2013, per l'Agenzia delle
dogane e per l'Agenzia del territorio si provvede mediante corrispondente
utilizzo del Fondo di cui all'articolo 6, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre
2008, n. 154, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n.
189. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con
propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.”
Giova osservare che la
disposizione in esame, nell’autorizzare l’espletamento di procedure concorsuale
da parte delle Agenzie fiscali, ed in particolare da parte dell’Agenzia delle
Entrate, prevede che “nelle more dell'espletamento di dette procedure l'Agenzia
delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio, salvi gli
incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri
funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui
durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto
vacante tramite concorso”.
Per un verso, dunque, la
norma autorizza l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari delle
stesse Agenzie nelle more dello svolgimento dei concorsi; per altro verso, fa
salvi gli incarichi “già affidati”, vale a dire gli incarichi dirigenziali già
affidati a funzionari privi di qualifica dirigenziale.
Appare evidente come la
norma ora richiamata, legittimando ex post l’attribuzione di incarichi
dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, si pone quale factum
principis sopravvenuto, tale da determinare la declaratoria di improcedibilità
degli appelli per sopravvenuto difetto di interesse alla decisione.
Non a caso, a seguito
dell’entrata in vigore della norma in esame, la Dirpubblica, parte appellata,
ha proposto “motivi aggiunti” nell’ambito del presente giudizio, al fine di
eccepire l’illegittimità costituzionale di detta norma, per violazione degli
artt. 3, 24, 97, 101, 111, 113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU.
Il Collegio ritiene che
occorre rimettere alla Corte Costituzionale, stante la sua rilevanza ai fini
della decisione e la sua non manifesta infondatezza, la questione relativa alla
legittimità costituzionale dell’ articolo 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16,
conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44, per le ragioni meglio esplicitate con
separata ordinanza.
Ogni decisione in merito
alle spese, diritti ed onorari di giudizio è riservata alla sentenza
definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in
sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sugli
appelli proposti dall’Agenzia delle Entrate (nn.2979/2011, 8834/2011, 2203/2012
r.g.):
a) riunisce gli appelli;
b) rigetta l’appello ed
i ricorsi in opposizione di terzo proposti avverso la sentenza n. 260/2011 del
TAR per il Lazio;
c) rigetta i motivi di
appello e i motivi dei ricorsi in opposizione di terzo, come specificamente
indicati in motivazione, rivolti avverso le sentenze nn. 6884/2011 e 7636/2011
del TAR per il Lazio;
c) rimette con separata
ordinanza alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale
dell’ articolo 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012
n. 44;
d) riserva alla sentenza
definitiva ogni pronuncia in merito alle spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente
sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma
nella camera di consiglio del giorno 3 luglio 2012 con l'intervento dei
magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 18/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)