venerdì 22 novembre 2013

TRIBUTARIO: il Consiglio di Stato rimette alla Corte Costituzionale la "vexata quaestio" degli atti d'accertamento firmati da funzionari e non da dirigenti dell'Agenzia delle Entrate (Cons. St., Sez. IV, sentenza 18 novembre 2013 n. 5451).


TRIBUTARIO & PUBBLICO IMPIEGO: 
il Consiglio di Stato rimette alla Corte Costituzionale 
la "vexata quaestio" degli atti d'accertamento
 firmati da funzionari e non da dirigenti 
dell'Agenzia delle Entrate
 (Cons. St., Sez. IV, 
sentenza 18 novembre 2013 n. 5451).

Mi spiace ribadirlo, ma il "favor "erarii" è principio cogente del nostro ordinamento in ogni giurisdizione (compresa quella costituzionale), come attesta lo stesso "nuovo" art. 81 Cost..
La legge poi è l'atto politico per eccellenza... Ed il Giudice delle leggi perché dovrebbe esser di natura diversa (per 1/3 è nominato dagli eletti del popolo peraltro)? Direi, anzi, che è il Giudice "politico" per eccellenza, in senso fisiologico (e non patologico).
Staremo a vedere.
Buona lettura.
FF


Massima

1.  E' l'art. 108 C.p.A. a disciplinare nel processo amministrativo l'opposizione di terzo, recependo le due classiche figure omonime, disciplinate dall’art. 404 cp.c., e cioè l’opposizione di terzo ordinaria (co. 1) e l’opposizione di terzo revocatoria (co. 2).
2. L'estensione al giudizio amministrativo dell’opposizione di terzo discende dalla sentenza n. 177/95 della Corte Costituzionale, con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 28 e 36 della L. n. 1034/1971, nella parte in cui gli stessi non prevedevano l’opposizione di terzo ordinaria tra i mezzi di impugnazione esperibili avverso le sentenze del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.
3. La giurisprudenza amministrativa ha successivamente approfondito le indicazioni della Corte costituzionale, precisando (Cons. St., Ad. Plen. n. 2/07), che la legittimazione a proporre la opposizione di terzo, nei confronti della decisione amministrativa resa tra altri soggetti, va riconosciuta: 
a) ai controinteressati pretermessi; 
b) ai controinteressati sopravvenuti (beneficiari di un atto consequenziale, quando una sentenza abbia annullato un provvedimento presupposto all'esito di un giudizio cui siano rimasti estranei); 
c) ai controinteressati non facilmente identificabili; 
d) in generale ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma ed incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione.”, specificandosi altresì che “non sono legittimati i titolari di una situazione giuridica derivata ovvero i soggetti interessati solo di riflesso (ad es. soggetti legati da rapporti contrattuali con i legittimati all'impugnazione).
Ne consegue che solo attraverso l’opposizione di terzo può sanarsi la contraddizione tra “cosa giudicata” in senso sostanziale (ex art. 2909 cod. civ.), che tuttavia, come è noto, definisce e limita l’efficacia dell’accertamento contenuto in sentenza alle “parti” del giudizio, e posizione di colui che tale qualifica di parte non ha potuto incolpevolmente acquisire,
Questa situazione, unitamente a quella del soggetto titolare di posizione giuridica fondata su provvedimento amministrativo consequenziale a quello impugnato è proprio ciò che più caratterizza il processo amministrativo (nella sua specifica veste di giudizio impugnatorio), rispetto al processo civile, potendosi cioè avere – proprio per la tipicità del giudizio, ma soprattutto per la presunzione di legittimità che assiste i provvedimenti amministrativi, ancorché oggetto di impugnazione e che consente l’ulteriore attività amministrativa - l’insorgenza di posizioni giuridiche successivamente al giudizio instaurato, e quindi possibili legittimazioni ad opposizione di terzo derivanti, non già dal mancato rispetto del principio del contraddittorio, bensì dalla sopravvenienza di nuovi atti fondativi di posizioni giuridiche.
4. Nel caso di specie, appare del tutto evidente la sussistenza di legittimazione ed interesse ad agire dei soggetti (che hanno proposto opposizione di terzo per il tramite di intervento nel giudizio di appello già instaurato), ossia di funzionari già destinatari di conferimento di incarico dirigenziale, ancorché privi della relativa qualifica, che vedrebbero frustrata ogni ulteriore possibilità di conferimento per intervenuto annullamento della deliberazione di modifica della norma regolamentare.
5. Nelle more del giudizio, è entrato in vigore l’art. 8, co. 24, D.L. n. 16/12, conv. in L. n. 44/12, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento".
La disposizione in esame, nell’autorizzare l’espletamento di procedure concorsuale da parte delle Agenzie fiscali, ed in particolare da parte dell’Agenzia delle Entrate, prevede che “nelle more dell'espletamento di dette procedure l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso”.
Per un verso, dunque, la norma autorizza l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari delle stesse Agenzie nelle more dello svolgimento dei concorsi; per altro verso, fa salvi gli incarichi “già affidati”, vale a dire gli incarichi dirigenziali già affidati a funzionari privi di qualifica dirigenziale.
Appare evidente come la norma ora richiamata, legittimando ex post l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, si pone quale factum principis sopravvenuto, tale da determinare la declaratoria di improcedibilità degli appelli per sopravvenuto difetto di interesse alla decisione.
Non a caso, a seguito dell’entrata in vigore della norma in esame, la Dirpubblica, parte appellata, ha proposto “motivi aggiunti” nell’ambito del presente giudizio, al fine di eccepire l’illegittimità costituzionale di detta norma, per violazione degli artt. 3, 24, 97, 101, 111, 113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU.
Il Collegio ritiene che occorre rimettere alla Corte Costituzionale, stante la sua rilevanza ai fini della decisione e la sua non manifesta infondatezza, la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’ articolo 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44, per le ragioni meglio esplicitate con separata ordinanza.



Sentenza per esteso


INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2979 del 2011, proposto da:
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
contro
Dirpubblica-Federazione dei Funzionari, delle Elevate Professionalità, dei Professionisti e dei Dirigenti delle Pa, rappresentata e difesa dall'avv. Carmine Medici, con domicilio eletto presso Carmine Medici in Roma, via Properzio, 37; 
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
[...]

sul ricorso numero di registro generale 8834 del 2011, proposto da:
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
contro
Dirpubblica - Federazione dei Funzionari, Elevate Professionalità, Professionisti e Dirigenti delle P.A. e Agenzie, rappresentata e difesa dall'avv. Carmine Medici, con domicilio eletto presso Carmine Medici in Roma, via Properzio, 37; 
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
[...]

sul ricorso numero di registro generale 2203 del 2012, proposto da:
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
contro
Dirpubblica (Federazione dei Funzionari, delle Elevate Professionalità, dei Professionisti e Dirigenti delle Pa, rappresentata e difesa dall'avv. Carmine Medici, con domicilio eletto presso Carmine Medici in Roma, via Properzio, 37; 
per la riforma
quanto al ricorso n. 2979 del 2011:
della sentenza del T.AR Lazio - Roma: Sezione II n. 00260/2011, resa tra le parti, concernente CONFERIMENTO INCARICHI DIRIGENZIALI A FUNZIONARI PRIVI DELLA QUALIFICA DIRIGENZIALE;
quanto al ricorso n. 8834 del 2011:
della sentenza del T.AR Lazio - Roma: Sezione II n. 06884/2011, resa tra le parti, concernente CONFERIMENTO DI INCARICHI DIRIGENZIALI IN FAVORE DEI FUNZIONARI NON IN POSSESSO DELLA QUALIFICA DIRIGENZIALE;
quanto al ricorso n. 2203 del 2012:
della sentenza del TAR Lazio - Roma: Sezione II n. 07636/2011, resa tra le parti, concernente SELEZIONE-CONCORSO PER RECLUTAMENTO DI 175 DIRIGENTI DI SECONDA FASCIA.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Dirpubblica-Federazione dei Funzionari, delle Elevate Professionalità, dei Professionisti e dei Dirigenti delle P.A.;
Visti gli atti di intervento ad adiuvandum e ad opponendum come sopra indicati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 luglio 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Carmine Medici, Aristide Police, Amedeo Elefante e Fabrizio Fedeli (avv.ti St.)
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
1. Con l’appello r.g. n. 2979/2011, l’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza 13 gennaio 2011 n. 260, con la quale il TAR per il Lazio, sez. II, non definitivamente pronunciando sul ricorso proposto dall’organizzazione sindacale Dirpubblica, ha rigettato le questioni preliminari di inammissibilità del ricorso e disposto istruttoria.
La controversia concerne, in sostanza, la delibera del Comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate, con la quale è stato modificato l’art. 24 del regolamento di amministrazione, consentendo il conferimento, fino al 31 dicembre 2010, di incarichi dirigenziali in favore di funzionari non in possesso della relativa qualifica.
Nel riconoscere la legittimazione ad agire della Dirpubblica, la sentenza afferma, in particolare:
- “la legittimazione al ricorso di associazioni rappresentative di categorie di lavoratori si fonda . . . sul presupposto della rappresentatività di un interesse collettivo riferibile in maniera generica ed indistinta a tutti gli appartenenti al gruppo o alla categoria rappresentata; interesse di cui l’ente esponenziale assume la titolarità, in base allo statuto, ai soli fini della legittimazione processuale, considerato che il nostro ordinamento processuale è costruito intorno alla tutela di interessi di titolarità individuale”;
- “in seno all’interesse collettivo . . . è possibile discernere interessi soggettivamente riferibili a singoli componenti o a determinate parti del gruppo di riferimento soltanto in via descrittiva; mentre sul piano della sua effettiva dimensione ontologica l’interesse mantiene una natura unitaria, caratterizzandosi in termini di inscindibilità e diffusività indistinta su un piano superindividuale”;
- ne consegue che “per tale sua caratterizzazione ontologica esso è destinato ad essere tutelato soltanto da parte di soggetti superindividuali, esponenziali e rappresentativi del gruppo, che ne assumano l’obiettivo di salvaguardia a livello statutario; e la legittimazione ad agire dell’associazione rappresentativa o dell’ente esponenziale si atteggia come originaria ed esclusiva, ovvero non soltanto indipendente ed autonoma rispetto a quella dei singoli, ma anche riservata esclusivamente all’associazione o all’ente in relazione ai suoi scopi statutari”;
- in definitiva, “la possibile disomogeneità degli interessi dei singoli componenti il gruppo o la categoria rappresentata non può incidere sulla legittimazione ad agire dell’associazione rappresentativa o dell’ente esponenziale a tutela dell’interesse collettivo oggettivato e tipizzato all’atto della individuazione della finalità statutarie del soggetto rappresentativo”.
Avverso tale decisione vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) violazione artt. 77, 81, 99 c.p.c.; art. 2601 c.c.; art. 26 R.D. n. 1054/1924; art. 7 d. lgs. n. 104/2010; insufficienza della motivazione su circostanza decisive del giudizio, poiché la sentenza ha disatteso il tradizionale insegnamento giurisprudenziale “secondo cui deve escludersi la legittimazione a ricorrere delle associazioni di categoria quando le stesse facciano valere in giudizio gli interessi peculiari di una sola parte dei propri associati e non della totalità dei propri componenti, trascurando quelli eventualmente di segno contrario, come avvenuto nel caso di specie”. Nel caso di specie, Dirpubblica “non ha chiarito, tuttavia, nel ricorso a tutela di quale interesse, secondo le finalità stabilite nel proprio statuto, il sindacato agisce in giudizio”, aspetto che “assumeva importanza fondamentale ai fini della verifica dell’interesse ad agire”.
Hanno spiegato intervento ex artt. 108 e 109, co. 2, Cpa, una pluralità di funzionari terzi controinteressati (Imparato ed altri; Nicolò ed altri), in quanto “titolari di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 24 del Regolamento”, proponendo i seguenti motivi di impugnazione:
b) erroneità della sentenza, nella parte in cui si afferma la legittimazione attiva di Dirpubblica; violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c.; difetto di legittimazione attiva di Dirpubblica; ciò in quanto la legittimazione dell’associazione non può essere definita come “originaria ed esclusiva”, posto che ciò comporterebbe che “ogni qualvolta venisse in rilievo la lesione di un interesse che in astratto riguarda una categoria di soggetti, i privati non sarebbero singolarmente legittimati ad agire per la sua tutela bensì dovrebbero necessariamente aderire ad una associazione di categoria, la quale poi dovrebbe agire per loro conto”; al contrario “la legittimazione dell’associazione sussiste in quanto si rinviene un interesse del privato che risulta comune a tutta una categoria di cittadini e che, oltre ad essere tutelabile uti singuli, può essere oggetto di tutela per mezzo dell’ente esponenziale”. Nel caso della Dirpubblica, essa tutela posizioni eterogenee di pubblici dipendenti, sia dirigenti che funzionari;
c) violazione e falsa applicazione art. 21 l. n. 1034/1971; inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di I grado per mancata notifica ai controinteressati, poiché Dirpubblica “avrebbe dovuto notificare l’atto introduttivo del giudizio di I grado ad almeno uno dei funzionari incaricati portatori di interessi oppositivi uguali e contrari rispetto a quelli dei quali l’associazione ricorrente chiedeva tutela”.
Si è costituita in giudizio l’appellata Dirpubblica e all’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.
2. Con l’appello n. 8834/2011 r.g., l’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza 1 agosto 2011 n. 6884, con la quale il TAR per il Lazio, sez. II, all’esito dell’istruttoria disposta con sentenza n. 260/2011, in accoglimento del ricorso proposto da Dirpubblica, ha annullato la delibera del Comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate, con la quale è stato sostituito l’art. 24 del Regolamento di amministrazione della medesima Agenzia.
La sentenza – dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo – afferma, in particolare:
- la delibera del Comitato di gestione impugnata, come già analoghe delibere adottate fin dal 2006, “ha perpetuato fino al 31 dicembre 2010 la prassi del conferimento di incarichi dirigenziali, asseritamente in provvisoria reggenza, a copertura di posizioni dirigenziali vacanti”, incarichi conferiti a funzionari non dirigenti;
- “configurandosi il conferimento di un incarico dirigenziale in favore di un funzionario non dirigente alla stregua dell’assegnazione di mansioni superiori al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, il relativo atto di conferimento deve considerarsi radicalmente nullo ai sensi dell’art. 52, co. 5 del d. lgs. n. 165/2001”;
- “le fattispecie disciplinate dall’art. 24 del Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate non sono riconducibili nell’ambito degli incarichi di temporanea reggenza, implicando piuttosto il conferimento di veri e propri incarichi dirigenziali a soggetti privi della relativa qualifica, così collocandosi in rotta di collisione con i principi di cui agli artt. 19 e 52 del d. lgs. n. 165/2001”.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di impugnazione:
a2) omessa pronuncia sulla eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza (originaria) di interesse ad agire, sollevata riguardo all’impugnazione della norma regolamentare distinta dai concreti atti di conferimento degli incarichi dirigenziali;
b2) improcedibilità del ricorso di I grado per sopravvenuta carenza di interesse ad agire, “stante la pubblicazione del bando della procedura concorsuale per la copertura di posti dirigenziali vacanti”;
c2) violazione art. 24 del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate; dell’art. 71, co. 3, d. lgs. n. 300/1988; degli artt. 19 e 52 d. lgs. n. 165/2001; ciò in quanto la sentenza non tiene conto della sfera di autonomia che l’art. 71, co. 3, d. lgs. n. 300/1999 ha inteso riconoscere all’Agenzia delle Entrate, consentendole di emanare un regolamento di amministrazione tenuto conto dei principi di cui al d. lgs. n. 29/1993 (ora d. lgs. n. 165/2001), senza essere, però, tenuta “alla pedissequa applicazione delle norme ivi contenute”. E’, dunque, consentito al regolamento (che rientra nella categoria dei regolamenti di attuazione), di disporre in piena autonomia e nel rispetto dei soli “principi” del citato decreto, in particolare in tema di “regole per l’accesso alla dirigenza”. Peraltro, dopo la l. n. 145/2002, l’Agenzia delle Entrate non ha potuto bandire concorsi per dirigente, perché in attesa del regolamento previsto dall’art. 28, co. 3, e poi perché impedita dal cd. blocco delle assunzioni, nonché da altre circostanze (v. pagg. 33 – 35 app.). In definitiva, si è verificata una situazione di carenza di personale dirigenziale, “cui si è potuto far fronte solo attraverso incarichi consentiti ed adottati ai sensi dell’art. 24, co. 2 del regolamento di amministrazione” (il cui ambito di operatività è stato più volte prorogato, da ultimo con la delibera impugnata n. 55/2009 del Comitato di gestione).
Anche nel presente giudizio hanno spiegato intervento ex artt. 108 e 109, co. 2, Cpa, una pluralità di funzionari terzi, destinatari di contratti di conferimento di incarico dirigenziale (Imparato Giovanni ed altri), i quali hanno proposto i seguenti motivi di impugnazione:
d2) erroneità della sentenza nella parte in cui afferma la legittimazione attiva di Dirpubblica; violazione e falsa applicazione art. 100 c.p.c.; difetto di legittimazione attiva di Dirpubblica;
e2) violazione e falsa applicazione art. 21 l. n. 1034/1971; inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado per mancata notificazione ai controinteressati; poiché l’azione proposta per l’annullamento dell’art. 24 del regolamento “lungi dal poter essere considerata azione proposta contro un atto avente portata generale, riguardava un provvedimento che, per la sua portata prescrittiva, andava a incidere sulle posizioni giuridiche di soggetti personalmente individuabili” (cioè i soggetti parte di contratti individuali a termine volti a conferire incarichi dirigenziali);
f2) omissione di pronuncia sull’eccezione di inammissibilità del ricorso di I grado per carenza originaria di interesse ad agire, connessa con l’impugnazione regolamentare separatamente dai concreti atti di conferimento degli incarichi dirigenziali;
g2) improcedibilità del ricorso di I grado per sopravvenuta carenza di interesse ad agire, “attesa la intervenuta pubblicazione del bando relativo alla procedura concorsuale per la copertura di posti dirigenziali vacanti”;
h2) violazione art. 24 regolamento di amministrazione Agenzia delle Entrate; dell’art. 71, co. 3 d. lgs. n. 300/1999 e 52 d. lgs. n. 165/2001; poiché non è stato considerato l’ambito di autonomia attribuito all’Agenzia delle Entrate, abilitata ad emanare un regolamento di amministrazione informato ai “principi” di cui al d. lgs. n. 29/1993, “ma non certo al pedissequo richiamo delle previsioni nello stesso contenute”.
Hanno spiegato atto di intervento ex art. 108 e 109, co. 2, Cpa ulteriori funzionari, destinatari dei contratti di conferimento di incarico dirigenziale (Nicolò Sebastiano ed altri), proponendo motivi di gravame analoghi a quelli riportati per il precedente atto di intervento.
Hanno altresì spiegato intervento ad opponendum altri funzionari dell’Agenzia delle Entrate (Pani Franca ed altri), i quali hanno preliminarmente eccepito l’inammissibilità degli atti di intervento, poiché i medesimi avrebbero dovuto essere spiegati nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 260/2011; hanno comunque concluso richiedendo il rigetto dell’appello dell’Agenzia delle Entrate e del ricorsi ex artt. 108 e 109, co. 2 Cpa.
Nelle more del giudizio - entrato in vigore (nel suo testo definitivo) l’art. 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44 - la Dirpubblica ha proposto “motivi aggiunti” nell’ambito del presente giudizio, al fine di eccepire l’illegittimità costituzionale di detta norma, per violazione degli artt. 3, 24, 97, 101, 111, 113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU (v. pagg. 22 – 43).
Questo Collegio, con ordinanza 29 novembre 2011 n. 5199, ha accolto la domanda di misure cautelari proposta dall’Agenzia delle Entrate, disponendo la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, ritenendo:
“che sussiste il danno grave ed irreparabile derivante dalla esecuzione della sentenza appellata (ferma ogni migliore valutazione del fumus in sede di esame nel merito della controversia), e ciò in relazione alla funzionalità degli uffici e, quindi, alla correntezza dell’attività amministrativa nel delicato settore dell’amministrazione finanziaria, in tal modo giudicando, nella doverosa comparazione degli interessi coinvolti, prevalente l’interesse pubblico su quello fondante l’azione dell’appellata organizzazione sindacale”.
All’udienza di trattazione, dopo deposito di memorie, la causa è stata riservata in decisione.
3. Con un terzo appello n. 2203/2012, l’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza 30 settembre 2011 n. 7636, con la quale il TAR per il Lazio, sez. II, ha annullato il provvedimento 29 ottobre 2010, con il quale il direttore dell’Agenzia delle Entrate ha bandito una selezione–concorso per il reclutamento di 175 dirigenti di seconda fascia, riservando il 50% dei posti al personale interno.
La sentenza – rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva della Dirpubblica, sulla base delle argomentazioni di cui alla propria sentenza n. 260/2009 – ha ulteriormente richiamato, a sostegno della pronuncia di annullamento, quanto già espresso nella precedente sentenza n. 6884/2011.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a3) difetto di legittimazione passiva della Federazione Dirpubblica (da intendersi come difetto di legittimazione passiva in grado di appello e, dunque, di legittimazione attiva in I grado di giudizio);
b3) carenza di iter logico–giuridico; violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., poiché i motivi di ricorso accolti “non censuravano la violazione degli artt. 19 e 52 d. lgs. n. 165/2001, come asserito dal TAR nella motivazione della sentenza”;
c3) violazione art. 3, co. 1 e 2 Cpa; violazione del dovere di motivazione chiara e sintetica, poiché la motivazione della sentenza “non consente di ripercorrere l’iter logico–giuridico seguito dal Collegio per giungere alla decisione di accoglimento”. La sentenza, infatti, “si incentra nel richiamo pressoché integrale delle statuizioni della precedente pronuncia . . . senza lasciare intendere quali – e in che misura – siano state le previsioni del bando di concorso impugnato giudicate illegittime”.
L’Agenzia delle Entrate ribadisce inoltre (pagg. 13 – 20) le difese articolate nel precedente grado di giudizio, avverso gli ulteriori motivi di ricorso proposti ed assorbiti dalla pronuncia.
Anche nel presente giudizio - entrato in vigore nelle more (nel suo testo definitivo) l’art. 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44 - la Dirpubblica ha proposto “motivi aggiunti”, al fine di eccepire l’illegittimità costituzionale di detta norma, per violazione degli artt. 3, 24, 97, 101, 111, 113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU (v. pagg. 22 – 43).
All’udienza di trattazione, dopo deposito di memorie, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO
4. Il Collegio ritiene innanzi tutto necessario disporre la riunione dei tre ricorsi, ex art. 70 Cpa, stante la evidente connessione, perché gli stessi possano essere decisi con un’unica sentenza.
5. Preliminarmente, il Collegio deve procedere all’esame di una pluralità di questioni (similmente presenti nei tre giudizi riuniti, ovvero in taluno di essi), relative alla sussistenza (o persistenza) delle condizioni dell’azione, in parte riproposte con specifici motivi di appello da parte dell’Agenzia delle Entrate, in parte introdotte con ricorso ex artt. 108 e 109, co. 2, Cpa, da parte dei funzionari indicati nella esposizione in fatto, in parte proposte da interventori ad opponendum.
Tali questioni preliminari, afferenti, come si è detto, alla legittimazione (attiva e passiva) ed all’interesse ad agire, possono essere così indicate:
- in primo luogo, si eccepisce la carenza originaria di legittimazione attiva del sindacato Dirpubblica. Tale questione preliminare costituisce, nella sostanza, l’unico motivo di appello (sub a) da parte dell’Agenzia delle Entrate, nonché il primo motivo di ricorso (sub b) dei funzionari Imparato ed altri rispetto alla sentenza n. 260/2011; costituisce altresì motivo di ricorso dei funzionari (Imparato ed altri; Nicolò ed altri: sub d2), avverso la sentenza n. 6884/2011). Essa costituisce, infine, oggetto del primo motivo di appello (sub a3) della Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 7636/2011;
- in secondo luogo, si eccepisce il difetto originario di interesse ad agire della Dirpubblica per avere impugnato l’atto regolamentare, indipendentemente dagli atti di questo applicativi. Tale questione costituisce l’oggetto del primo motivo di appello (sub a2) dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 6884/2011, nonché il terzo motivo di ricorso dei funzionari Sebastiano ed altri, Nicolò ed altri (sub f2);
- in terzo luogo, si eccepisce l’inammissibilità del ricorso originario per omessa notifica ad almeno un controinteressato, da identificarsi in uno dei funzionari cui è conferito l’incarico dirigenziale, pur in assenza della relativa qualifica. Tale questione costituisce il secondo motivo di ricorso dei predetti funzionari (sub c) avverso la sentenza n. 260/2011, nonché il secondo motivo di ricorso (sub e2), dei medesimi avverso la sentenza n. 6884/2011;
- in quarto luogo, si eccepisce l’improcedibilità dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse, essendo stato medio tempore indetto un concorso per posti dirigenziali. Tale questione costituisce oggetto del secondo motivo di appello (sub b2) dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 6884/2011, nonché oggetto del quarto motivo di ricorso (sub g2) dei funzionari più volte citati, avverso la medesima sentenza;
- in quinto luogo, si eccepisce, da parte di ulteriori funzionari Pani ed altri nel proprio intervento ad opponendum, l’inammissibilità dei ricorsi dei funzionari Imparato ed altri; Nicolò ed altri, perché gli stessi avrebbero dovuto essere proposti nell’ambito del primo giudizio di appello avverso la sentenza n. 260/2011.
6. Al fine di definire le effettive parti del giudizio di appello, così come risultante dalla disposta riunione dei ricorsi, ed anche al fine di poter conseguentemente vagliare le questioni preliminari da ciascuno proposte, il Collegio ritiene necessario esaminare innanzi tutto l’eccezione relativa alla ammissiblità dei ricorsi proposti dai funzionari Imparato ed altri e Nicolò ed altri, nell’ambito del giudizio di impugnazione della sentenza n. 6684/2011.
Il Collegio ritiene che il ricorso proposto dai funzionari citati sia ammissibile in generale (così come quello proposto per impugnare la sentenza n. 260/2011), e, in particolare, che lo stesso sia ammissibile nell’ambito del secondo giudizio di appello (in tal modo rigettando la relativa eccezione), posto che sussiste un interesse dei medesimi in ordine alla presente pronuncia.
Occorre ricordare che i ricorsi sono stati proposti ai sensi degli artt. 108 e 109, co. 2, Cpa:
- il primo disciplina, in generale, il rimedio dell’opposizione di terzo, affermando (comma 1): “Un terzo può fare opposizione contro una sentenza del Tribunale amministrativo regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi”;
- il secondo (co. 2, primo periodo), prevede che “se è proposto appello contro la sentenza di primo grado, il terzo deve introdurre la domanda di cui all’art. 108 intervenendo nel giudizio di appello”.
Orbene, il Codice del processo amministrativo recepisce, quindi - pur con i dovuti adattamenti necessitati dal diverso contesto sostanziale (la presenza nel giudizio amministrativo anche della posizione di interesse legittimo) e processuale - le due classiche figure di opposizione di terzo, disciplinate dall’art. 404 cod. proc. civ., e cioè l’opposizione di terzo ordinaria (primo comma) e l’opposizione di terzo revocatoria (secondo comma).
Sul punto, la relazione illustrativa del Codice precisa che si è intesa superare “la giurisprudenza del giudice amministrativo che, in carenza di una disciplina dell’opposizione di terzo, ammetteva l’appello anche di chi non fosse stato parte del giudizio di primo grado”.
Come è noto, l’estensione al giudizio amministrativo dell’opposizione di terzo discende dalla sentenza 17 maggio 1995 n. 177 della Corte Costituzionale, con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 28 e 36 della legge n. 1034/1971, nella parte in cui gli stessi non prevedevano l’opposizione di terzo ordinaria tra i mezzi di impugnazione esperibili avverso le sentenze del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.
Secondo la Corte costituzionale, “l'esigenza del rimedio è . . . desunta dalla constatazione della possibilità che - nonostante la regola generale, dettata dall'art. 2909 del codice civile, dell'inefficacia della sentenza nei confronti di soggetti diversi dalle parti del processo a conclusione del quale essa sia stata pronunciata - si presentino casi in cui, per effetto della cosa giudicata, venga a determinarsi una obbiettiva incompatibilità fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa. Il mezzo di impugnazione di cui si tratta trae perciò ispirazione da tale evenienza e consente a coloro che non sono stati coinvolti nel processo di far valere le loro ragioni, infrangendo lo schermo del giudicato per rimuovere il pregiudizio che da esso possa loro derivare. Ciò sia nel caso che la situazione vantata dall'opponente ed incompatibile con quella affermata dal giudicato venga considerata dal diritto sostanziale prevalente rispetto a quest'ultima, sia nel caso che la sentenza cui ci si oppone risulti . . . pronunciata senza il rispetto di regole processuali.”.
La Corte evidenzia due distinte situazioni:
- il caso “in cui un controinteressato, parte necessaria, sia stato pretermesso e non abbia potuto far valere le sue ragioni”;
- il caso di soggetti diversi dai destinatari in senso formale della sentenza, posto che vi sono casi in cui “l'azione amministrativa, direttamente o di riflesso, coinvolge per sua natura una pluralità di soggetti che non sempre sono ritenuti parte necessaria nelle controversie oggetto del giudizio”; e poiché il processo amministrativo, “come attualmente configurato, si svolge normalmente tra i soggetti interessati dall'atto impugnato, è possibile che la sentenza che lo conclude possa poi dar luogo, per la sua attuazione, ad altri procedimenti interferenti su rapporti facenti capo a soggetti che non dovevano o, in alcuni casi, addirittura non potevano partecipare al processo e dunque diversi dai destinatari in senso formale della sentenza medesima.”.
La giurisprudenza amministrativa ha successivamente approfondito le indicazioni della Corte costituzionale, precisando (Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007 n. 2), che “la legittimazione a proporre la opposizione di terzo, nei confronti della decisione amministrativa resa tra altri soggetti, va riconosciuta: a) ai controinteressati pretermessi; b) ai controinteressati sopravvenuti (beneficiari di un atto consequenziale, quando una sentenza abbia annullato un provvedimento presupposto all'esito di un giudizio cui siano rimasti estranei); c) ai controinteressati non facilmente identificabili; d) in generale ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma ed incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione.”, specificandosi altresì che “non sono legittimati i titolari di una situazione giuridica derivata ovvero i soggetti interessati solo di riflesso (ad es. soggetti legati da rapporti contrattuali con i legittimati all'impugnazione) (in senso conf. Cons Stato, sez. VI, 29 gennaio 2008 n. 230).
In particolare, la posizione del ricorrente in opposizione è tutelata dall’ordinamento giuridico (in quanto fondata su norma di legge e/o regolamento, ovvero su diverso provvedimento amministrativo assistito da presunzione di legittimità) e si caratterizza per un contenuto (il bene che forma oggetto della posizione giuridica, argomentando dall’art. 810 cod. civ.) assolutamente in contrasto con la sentenza pronunciata e che risulta da questa pregiudicato, senza che il titolare abbia avuto la possibilità di agire in giudizio avverso le parti costituite.
Ne consegue che solo attraverso l’opposizione di terzo può sanarsi la contraddizione tra “cosa giudicata” in senso sostanziale (ex art. 2909 cod. civ.), che tuttavia, come è noto, definisce e limita l’efficacia dell’accertamento contenuto in sentenza alle “parti” del giudizio, e posizione di colui che tale qualifica di parte non ha potuto incolpevolmente acquisire, risolvendosi così quella “incompatibilità fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa”, già rilevata dalla Corte costituzionale.
Questa situazione, unitamente a quella del soggetto titolare di posizione giuridica fondata su provvedimento amministrativo consequenziale a quello impugnato (situazione, quest’ultima, che può essere ricostruita anche come una specie della precedente), è proprio ciò che più caratterizza il processo amministrativo (nella sua specifica veste di giudizio impugnatorio), rispetto al processo civile, potendosi cioè avere – proprio per la tipicità del giudizio, ma soprattutto per la presunzione di legittimità che assiste i provvedimenti amministrativi, ancorché oggetto di impugnazione e che consente l’ulteriore attività amministrativa - l’insorgenza di posizioni giuridiche successivamente al giudizio instaurato, e quindi possibili legittimazioni ad opposizione di terzo derivanti, non già dal mancato rispetto del principio del contraddittorio, bensì dalla sopravvenienza di nuovi atti fondativi di posizioni giuridiche.
Alla luce di quanto esposto:
- per un verso, appare del tutto normale la possibilità che, a fronte della sussistenza di legittimazione ed interesse ad agire in opposizione, i soggetti per i quali tali condizioni sussistono, ben possono non avere posizione di controinteressati nel giudizio conclusosi con la sentenza avverso la quale ora essi esperiscono il rimedio impugnatorio straordinario;
- per altro verso, appare del tutto evidente la sussistenza di legittimazione ed interesse ad agire dei soggetti che hanno proposto opposizione di terzo nella presente sede, per il tramite di intervento nel giudizio di appello già instaurato. Si tratta di funzionari già destinatari di conferimento di incarico dirigenziale, ancorché privi della relativa qualifica, che vedrebbero frustrata ogni ulteriore possibilità di conferimento per intervenuto annullamento della deliberazione di modifica della norma regolamentare.
D’altra parte (e ad abundantiam), anche prima del riconoscimento dell’opposizione di terzo nel giudizio amministrativo, si è affermato che la legittimazione ad appellare le sentenze del giudice amministrativo di primo grado spetta anche a soggetti che, pur non essendo controinteressati in senso proprio, in quanto non direttamente contemplati dall'atto, o comunque da esso non facilmente identificabili, sono tuttavia portatori di una situazione di vantaggio in ordine ad un bene della vita, dipendente dal potere amministrativo esercitato, ma dotato di autonomia (Cons. Stato, Sez. V, 11 aprile 1990 n. 372).
Da quanto esposto consegue che non può trovare accoglimento l’eccezione proposta dagli interventori ad opponendum, ed occorre affermare la sussistenza della legittimazione ed interesse ad agire, in entrambi i giudizi di appello in cui – ex art. 109, co. 2 Cpa - ciò è avvenuto, in capo ai ricorrenti Imparato ed altri e Niccolò ed altri.
7. Il Collegio ritiene infondati i motivi di appello con i quali, evidenziando l’error in iudicando della sentenza n. 260/2011 e, dunque, della successiva sentenza n. 6884/2011, si ribadisce l’inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado per difetto di legittimazione attiva del sindacato Dirpubblica.
Tali motivi si fondano, in sostanza, sulle seguenti ragioni:
- in primo luogo, si sostiene che la sentenza ha disatteso il tradizionale insegnamento giurisprudenziale “secondo cui deve escludersi la legittimazione a ricorrere delle associazioni di categoria quando le stesse facciano valere in giudizio gli interessi peculiari di una sola parte dei propri associati e non della totalità dei propri componenti, trascurando quelli eventualmente di segno contrario, come avvenuto nel caso di specie”. Peraltro, ciò comporterebbe – poiché nel caso di specie, Dirpubblica “non ha chiarito . . . a tutela di quale interesse, secondo le finalità stabilite nel proprio statuto, il sindacato agisce in giudizio”, una sostanziale impossibilità di verifica dell’interesse ad agire (v. app. Agenzia, pagg. 12 – 24);
- in secondo luogo, si sostiene l’erroneità della sentenza, poiché la legittimazione dell’associazione non può essere definita come “originaria ed esclusiva”, posto che ciò comporterebbe che “ogni qualvolta venisse in rilievo la lesione di un interesse che in astratto riguarda una categoria di soggetti, i privati non sarebbero singolarmente legittimati ad agire per la sua tutela bensì dovrebbero necessariamente aderire ad una associazione di categoria, la quale poi dovrebbe agire per loro conto”; al contrario “la legittimazione dell’associazione sussiste in quanto si rinviene un interesse del privato che risulta comune a tutta una categoria di cittadini e che, oltre ad essere tutelabile uti singuli, può essere oggetto di tutela per mezzo dell’ente esponenziale”; il che esclude (ancora una volta) la possibilità di tutela, da parte dell’associazione, di interessi “disomogenei” (e segnatamente da parte di Dirpubblica che, per Statuto, raccoglie tra i suoi iscritti sia dirigenti sia funzionari);
- in definitiva, “gli interessi individuali che confluiscono all’interno di Dirpubblica, trovando astratta esplicitazione nello Statuto, e per la cui tutela essa si adopera, si sublimano in quelli del genus “pubblico dipendente che ricopre posizioni apicali e di elevata qualificazione”, e non in quelli specifici delle varie categorie di pubblici dipendenti che vi aderiscono” (v. ricorso in opposiz., Imparato e altri, pag. 24).
Il Collegio ritiene tali argomentazioni non condivisibili e, dunque, ritiene di dover confermare – pur con le precisazioni in ordine alla motivazione, di seguito esposte – le sentenze di I grado, stante l’infondatezza dei motivi proposti e precisamente:
sub a) da parte dell’Agenzia delle Entrate; primo motivo di ricorso (sub b) dei funzionari Imparato ed altri rispetto alla sentenza n. 260/2011; motivo sub d2) dei funzionari Imparato ed altri, Nicolò ed altri avverso la sentenza n. 6884/2011; motivo sub a3) della Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 7636/2011.
8. Occorre innanzi tutto osservare che ad un soggetto dell’ordinamento è attribuita la qualifica di ente esponenziale di collettività (cd. ente collettivo), in ragione di una possibilità di individuazione di tale collettività, attraverso l’appartenenza – giuridicamente definita e persistente nel tempo - di coloro che le compongono a un medesimo territorio, ovvero ad una medesima categoria produttiva.
Tali enti possono essere sia riconosciuti come tali dall’ordinamento giuridico (gli enti territoriali trovano il proprio riconoscimento negli articoli 5 e 114 Cost.; le organizzazioni sindacali nell’art. 39 Cost.), sia manifestarsi per effetto della libertà di associazione, espressamente riconosciuta dall’ordinamento (art. 18 Cost.).
In quest’ultimo caso, tuttavia, perché la loro costituzione possa renderli titolari di interessi collettivi, occorre che i singoli associati si caratterizzino non già per essere una aggregazione meramente seriale ed occasionale, ma per essere identificabili in relazione ad un vincolo che, in quanto afferente ad una realtà territoriale o ad una medesima manifestazione non occasionale della vita di relazione, si presenti come concreto (quanto al suo oggetto) e temporalmente persistente (quanto alla sua durata).
Gli enti collettivi – oltre ad avere caratteristiche diverse quanto alla personalità giuridica – possono quindi essere titolari sia (al pari dei soggetti singoli) di posizioni giuridiche proprie (diritti soggettivi ed interessi legittimi), sia di posizioni giuridiche “collettive” (appunto, interessi collettivi).
In questa seconda ipotesi, si è affermato (Cons. Stato, comm. spec., parere 26 giugno 2013 n. 3014, medio tempore pubblicato), che:
“in capo all’ente esponenziale l’interesse diffuso, se omogeneo, in quanto comune (ai) rappresentati, si soggettivizza, divenendo interesse legittimo, nella forma del c.d. “interesse collettivo”, fermo restando che “l’interesse diffuso (che attraverso l’ente esponenziale diviene interesse collettivo e quindi interesse legittimo) è, per sua natura, indifferenziato, omogeneo, seriale, comune a tutti gli appartenenti alla categoria”.
In tale contesto, si è affermato che “l’ente esponenziale è lo “strumento” elaborato dalla giurisprudenza per consentire la giustiziabilità dei c.d. “interessi diffusi”, cioè degli interessi omogenei e indifferenziati degli appartenenti alla categoria. È attraverso la costituzione dell’ente esponenziale che l’interesse diffuso, sino a quel momento adespota e indifferenziato, si soggettivizza e si differenzia, assurgendo al rango di interesse legittimo meritevole di tutela giurisdizionale”.
Sulla base di tale premessa, “l’ente collettivo non può agire a tutela degli interessi di alcuni appartenenti al gruppo contro gli altri. Al contrario, verrebbero meno la sua funzione e la sua stessa ragion d’essere e, quindi, l’interesse collettivo del quale l’ente è titolare”; di modo che “è proprio questo profilo che consente di introdurre un “filtro” o un criterio di selezione al riconoscimento della legittimazione al ricorso degli enti esponenziali: condizione imprescindibile è che l’ente faccia valere un interesse omogeneo della categoria, ovvero che l’atto impugnato leda l’interesse di tutti e non solo di alcuni dei suoi aderenti”.
In coerenza con tali premesse, la legittimazione ad agire degli enti in esame si fonda, secondo la giurisprudenza, sulla titolarità di interessi collettivi, individuati come interessi propri della intera categoria da essi rappresentata e sempreché gli interessi individuali degli iscritti o degli appartenenti alla categoria siano univocamente conformi a quello a tutela del quale l’associazione agisce (in tal senso, Cons. Stato, sez.VI, 14 gennaio 2003, n.93; sez. IV 2 aprile 2004 n. 1826; sez. V, 20 febbraio 2009, n.1032; sez, IV, 27 maggio 2002, n.292).
Di modo che è stato anche ritenuto che la legittimazione ad agire non è configurabile per la salvaguardia di interessi propri di una parte sola degli iscritti, ove, appunto, non sia ravvisabile una omogeneità di posizioni soggettive (Cons. Stato, Sez.VI, n.7792 del 2004).
Il Collegio, pur condividendo in linea generale le considerazioni sopra riportate, ritiene tuttavia che le stesse debbano costituire il presupposto per ulteriori riflessioni, volte a meglio precisare la posizione giuridica definita quale “interesse collettivo”, anche al fine di evitare possibili disomogeneità in tema di conseguente determinazione della legittimazione ad agire.
Ed infatti, se per interesse collettivo si intende – come sopra riportato - l’interesse diffuso comune a tutti i soggetti facenti parte della collettività (e dall’ente rappresentati) – interesse diffuso che, proprio perché comune, si “soggettivizza” – ne consegue:
- per un verso, che tale interesse non costituisce (né può mai costituire) posizione soggettiva dei singoli, ma esso sorge quale posizione sostanziale direttamente e solo in capo all’ente esponenziale;
- per altro verso, che esso, soggettivizzandosi in capo all’ente esponenziale, costituisce posizione propria (e solo) di questo. Esso è una “derivazione” dell’interesse diffuso per sua natura adespota, non già una “superfetazione” o una “posizione parallela” di un interesse legittimo comunque ascrivibile anche in capo ai singoli componenti della collettività.
In questo contesto, dunque, sul piano della tutela giurisdizionale, non sussiste la ontologica possibilità di ipotizzare che “l’ente collettivo non può agire a tutela degli interessi di alcuni appartenenti al gruppo contro gli altri”.
E ciò in quanto, in questa ipotesi, si dà (contraddicendo la tesi) per assunto che sussistano interessi legittimi differenti tra gli appartenenti alla collettività, laddove l’interesse collettivo non costituisce posizione sostanziale di alcun componente della collettività medesima, ma solo della collettività in quanto tale.
Ne consegue che, se – al fine di riconoscere la legittimazione ad agire - è condivisibile l’affermazione che “condizione imprescindibile è che l’ente faccia valere un interesse omogeneo della categoria”, perché questa è un caratteristica dell’interesse collettivo, non necessariamente, invece, tale interesse si relaziona ad un atto amministrativo che “leda l’interesse di tutti e non solo di alcuni dei suoi aderenti”.
Questo “interesse di tutti” è diverso dall’ “interesse collettivo”, come interesse della collettività indistinta (e quindi entità diversa dalla pluralità dei suoi componenti).
Meglio analizzando, si avverte che, con l’espressione (atecnica) “interesse di tutti” può definirsi, infatti, sia un interesse coincidente di ciascun componente della categoria (un interesse legittimo identico e replicato per ciascun componente della categoria medesima), sia un interesse collettivo in senso proprio, in titolarità esclusiva dell’ente esponenziale.
Si intende affermare che l’ente esponenziale – oltre ad essere titolare di posizioni giuridiche proprie quale persona giuridica, non diversamente dai singoli soggetti dell’ordinamento, persone fisiche e giuridiche – risulta altresì titolare:
- sia di posizioni giuridiche che appartengono anche a ciascun componente della collettività da esso rappresentata, tutelabili dunque sia dall’ente sia da ciascun singolo componente (ed in questo senso l’interesse collettivo assume connotazioni proprie di interesse “superindividuale”;
- sia posizioni giuridiche di cui è titolare in via esclusiva, cioè interessi collettivi propriamente detti, la cui titolarità è solo dell’ente, proprio perché risultanti da un processo di soggettivizzazione dell’interesse altrimenti diffuso ed adespota.
Da ciò consegue che, mentre nel primo caso, la tutela giurisdizionale può essere attivata sia dall’ente esponenziale, sia dal singolo componente della categoria, nel secondo caso la tutela giurisdizionale è azionabile solo dall’ente esponenziale, quale unico titolare della posizione giuridica lesa.
Mentre nel primo caso, per ragioni che appaiono evidenti, in tanto è possibile riconosce all’ente legittimazione ad agire in quanto l’atto impugnato “leda l’interesse di tutti e non solo di alcuni dei suoi aderenti” (in quanto la posizione giuridica di cui l’ente esponenziale è titolare è in questo caso “sovrapponibile” alla posizione giuridica di cui è titolare ogni singolo componente); nel secondo caso, l’ente, godendo di una titolarità sua propria di posizione giuridica soggettiva, gode ex se di legittimazione ad agire e può anche rappresentarsi il caso che la sua azione, volta alla tutela dell’interesse collettivo della categoria, possa porsi in contraddizione/contrasto con l’interesse del singolo componente della collettività.
In definitiva, come è noto che il risultato finale di una somma costituisce entità distinta dai singoli, identici addendi che la compongono (assumendo esso conformazioni ontologiche sue proprie, pur condividendo aspetti dei suoi singoli addendi), allo stesso modo l’ente esponenziale ha sia legittimazione ad agire per la tutela di posizioni giuridiche per le quali ha titolarità tanto quanto i singoli componenti (che in questo caso sono titolari – ciascuno di essi - di identiche posizioni giuridiche), sia legittimazione ad agire per la tutela di posizioni giuridiche (interessi collettivi) di cui ha titolarità esclusiva.
Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, il Collegio non intende discostarsi da quanto sin qui affermato (come sopra succintamente riportato) dalla giurisprudenza amministrativa, ma ritiene che tali affermazioni non esauriscano gli aspetti del problema (se si vuole, del rapporto tra ente esponenziale e singoli associati, con le rispettive posizioni giuridiche), cogliendo solo un tratto (probabilmente, il più ricorrente) di tale complesso rapporto.
Di modo che, mentre con rispetto ad una delle (possibili) posizioni giuridiche di cui l’ente esponenziale è titolare, può affermarsi il difetto di legittimazione ad agire allorché l’interesse tutelato non coincida con l’interesse di ciascun associato/componente dell’ente, al tempo stesso può ben affermarsi, in altri casi (quelli dove è più tecnicamente utilizzabile l’espressione “interesse collettivo”), la sussistenza della legittimazione ad agire ancorché l’interesse collettivo “contrasti” con l’interesse di un singolo appartenente.
E’ questo il caso che si verifica allorché venga adottato da una pubblica amministrazione un atto amministrativo che si pone in contrasto con l’interesse collettivo del quale l’ente esponenziale della categoria è titolare (interesse collettivo per come conformato dalla legge), sebbene esso risulti produttivo di effetti favorevoli per una parte (o anche uno solo) degli appartenenti alla categoria medesima.
Ritenere che la legittimazione ad agire sussiste solo qualora l’atto leda l’interesse di tutti e non solo di alcuni appartenenti alla categoria (a prescindere dal problema dell’esatta configurazione dell’interesse collettivo, di cui si è detto), comporta che l’ente esponenziale non è legittimato ad impugnare un atto, ritenuto illegittimo, e lesivo degli interessi collettivi, sol perché esso porta vantaggi (magari verosimilmente illegittimi) ad una parte dei suoi componenti.
Orbene, se non è corretto sostenere che l’ente esponenziale sia l’unico legittimato ad impugnare un atto che lede interessi legittimi di tutti i suoi aderenti, dovendosi ragionevolmente affiancare la legittimazione ad agire di questi ultimi a quella dell’ente, non è altrettanto corretto ritenere che l’interesse collettivo (come interesse dell’intera collettività e/o categoria) possa ricevere tutela solo allorquando coincida con l’interesse (benché meramente materiale e fondato sugli effetti di attività amministrativa illegittima) di tutti i componenti della collettività.
Tale apparente “contraddizione” sul piano sostanziale (che tuttavia si presenta produttiva di conseguenze in tema di definizione della legittimazione ad agire) si risolve laddove, come si è avuto modo di considerare, si evidenzia la duplicità di situazioni giuridiche indistintamente riunite sotto la definizione di “interesse collettivo”.
9. La presenza di una “duplicità” di situazioni giuridiche esistenti sotto l’unitaria definizione di “interesse collettivo”, è percepibile anche nella motivazione della prima delle sentenze appellate (n. 260/2011), tuttavia determinandosi – per il fatto che tale duplicità non è pienamente e consapevolmente evidenziata - talune contraddizioni.
Ed infatti, si afferma che “la legittimazione al ricorso di associazioni rappresentative di categorie di lavoratori si fonda . . . sul presupposto della rappresentatività di un interesse collettivo riferibile in maniera generica ed indistinta a tutti gli appartenenti al gruppo o alla categoria rappresentata”; affermazione condivisibile, purché si convenga, alla luce delle considerazioni sopra espresse, sul fatto che la “riferibilità generica ed indistinta a tutti gli appartenenti del gruppo” è una situazione giuridica diversa dalla “riferibilità alla categoria rappresentata”.
Proprio (e solo) cogliendo tale distinzione, può condividersi quanto affermato in sentenza, secondo la quale l’interesse collettivo “per tale sua caratterizzazione ontologica è destinato ad essere tutelato soltanto da parte di soggetti superindividuali, esponenziali e rappresentativi del gruppo, che ne assumano l’obiettivo di salvaguardia a livello statutario; e la legittimazione ad agire dell’associazione rappresentativa o dell’ente esponenziale si atteggia come originaria ed esclusiva, ovvero non soltanto indipendente ed autonoma rispetto a quella dei singoli, ma anche riservata esclusivamente all’associazione o all’ente in relazione ai suoi scopi statutari”.
Una legittimazione ad agire “originaria ed esclusiva” può conseguire solo ad una titolarità originaria ed esclusiva di posizione soggettiva.
Ma tale ipotesi – che si è affermata esistente – è solo una delle due situazioni giuridiche che (a volte confusamente) vengono assemblate sotto la comune denominazione di “interesse collettivo”.
Non evidenziare che essa è solo una delle ipotesi possibili (anzi, quella che propriamente fonda la definizione di “interesse collettivo”), espone al rilievo (in concreto effettuato, nel presente giudizio, dai ricorrenti in opposizione), in base al quale “ogni qualvolta venisse in rilievo la lesione di un interesse che in astratto riguarda una categoria di soggetti, i privati non sarebbero singolarmente legittimati ad agire per la sua tutela bensì dovrebbero necessariamente aderire ad una associazione di categoria, la quale poi dovrebbe agire per loro conto”.
Così come, per le medesime ragioni, non può specularmente condividersi quanto sostenuto dai ricorrenti in opposizione, laddove affermano che “la legittimazione dell’associazione sussiste in quanto si rinviene un interesse del privato che risulta comune a tutta una categoria di cittadini e che, oltre ad essere tutelabile uti singuli, può essere oggetto di tutela per mezzo dell’ente esponenziale”; e ciò in quanto tale situazione è, come più volte affermato, solo una delle due ipotizzzabili.
Occorre, anzi, aggiungere che tale ultima prospettazione finisce con il far riconoscere, sul piano concreto, la legittimazione attiva solo ad organizzazione caratterizzate da forte omogeneità dei propri componenti, in tal modo finendo per delimitare fortemente, sul piano generale, la libertà di associazione e, sul piano concreto della tutela sindacale, le possibili aggregazioni di lavoratori.
In tale ultimo caso, infatti, seguendo la suddetta prospettazione, ci si limiterebbe a riconoscere legittimazione ad agire solo ad associazioni di ristrette categorie di lavoratori dello stesso settore, se non ad associazioni di lavoratori della stessa area o qualifica (così determinando, ab esterno, una forte compressione della tutela dei lavoratori per il tramite delle loro associazioni, che si risolve in una indiretta compressione della libertà sindacale, assicurata dall’art. 39 Cost.).
In conclusione, è alla luce delle considerazioni sin qui rappresentate che può convenirsi con la conclusione della sentenza n. 260/2011, laddove essa afferma che “la possibile disomogeneità degli interessi dei singoli componenti il gruppo o la categoria rappresentata non può incidere sulla legittimazione ad agire dell’associazione rappresentativa o dell’ente esponenziale a tutela dell’interesse collettivo oggettivato e tipizzato”.
Per tutte le ragioni sin qui esposte, nel confermare sul punto, e con le integrazioni motivazionali espresse nella presente sede, la sentenza appellata, n. 260/2011, devono essere rigettati i motivi di appello, come sopra puntualmente indicati, con i quali si afferma il difetto di legittimazione attiva dell’organizzazione sindacale ricorrente.
10. L’impugnazione di un atto generale a contenuto normativo, di un regolamento, costituisce un esempio evidente della esistenza di un interesse collettivo, distinto dagli interessi dei singoli componenti della collettività (ente territoriale, organizzazione di categoria, associazione), e tutelabile indipendentemente dalla sua coincidenza con l’interesse “di tutti”.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 12 febbraio 2012 n. 812) ha già avuto modo di precisare, in tema di esercizio di potestà regolamentare ed impugnabilità dei regolamenti:
“La natura amministrativa dell’atto regolamento – non riconducibile alla categoria degli atti politici per i quali (ora ai sensi dell’art. 7, co. 1, Cpa) non è ammesso sindacato giurisdizionale amministrativo – consente la impugnazione dello stesso e, quindi, la sua sindacabilità da parte del giudice amministrativo, in ciò adempiendo a quanto prescritto dall’art. 113, secondo comma Cost..
Ma poiché la tutela nei confronti degli atti amministrativi è dall’art. 113 sempre ammessa – in concreta attuazione del generale diritto alla tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. – per i diritti soggettivi e gli interessi legittimi, ciò comporta che non può in concreto richiedersi tutela (al giudice ordinario o al giudice amministrativo, secondo la disposizione costituzionale), se non per tutela di quelle posizioni soggettive avverso una lesione e/o pregiudizio che dall’atto amministrativo esse subiscono.
Da ciò consegue che la concreta ammissibilità dell’impugnazione del regolamento (e, quindi, anche la necessità di impugnarlo entro il termine decadenziale previsto) non può che presupporre la sussistenza dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), che sorge in presenza di una lesione e/o pregiudizio attuale.
Anzi, nel caso del regolamento, stante la sua natura di fonte normativa – e quindi la insussistenza, al momento dell’esercizio del potere regolamentare, di destinatari definibili e concretamente individuabili – ciò che sorge, in un momento successivo all’esercizio del potere regolamentare e per il tramite dell’atto applicativo, non è il solo interesse ad agire, ma anche la posizione stessa di interesse legittimo. . .
Con riferimento ai regolamenti, ciò comporta che, al momento dell’esercizio della potestà regolamentare, non solo non si producono immediatamente (attualmente) lesioni di posizioni soggettive, ma generalmente non sono configurabili posizioni sostanziali di interesse legittimo, le quali – come posizioni circoscritte dall’essere “personali” e “dirette” – insorgono normalmente in un momento successivo all’esercizio del potere (se il regolamento presuppone l’instaurazione di un procedimento ad istanza di parte, al momento di proposizione della domanda di autorizzazione o concessione).
Al contrario, laddove ricorra l’ipotesi di un “regolamento–provvedimento”, l’identificabilità concreta del destinatario rende sussistente, al momento stesso dell’esercizio del potere regolamentare (ma si tratta, nella sostanza, di un potere affatto diverso), sia l’interesse legittimo sia l’interesse ad agire.
In definitiva, al momento dell’adozione del regolamento, ciò che manca non è la lesione di una posizione soggettiva di interesse legittimo (e quindi l’interesse ad agire a sua tutela), bensì lo stesso interesse legittimo, che non può che sorgere in un momento successivo, in dipendenza di fatti o atti che pongono l’interessato a contatto con l’esercizio di un potere amministrativo diverso da quello regolamentare, e che proprio nella norma regolamentare trova il suo fondamento. . .
Solo l’atto di concreta specificazione dell’esercizio dell’ulteriore potere amministrativo, non già regolamentare ma conferito all’amministrazione dal regolamento, fa sorgere, ove non favorevole all’interessato, l’interesse ad agire all’impugnazione del provvedimento applicativo e, per suo tramite (se necessario) della norma regolamentare sulla quale tale atto si fonda.
Che poi dalla pronuncia del giudice, che investe la norma regolamentare quale presupposto dell’atto applicativo impugnato, derivi l’annullamento (totale o parziale) dell’atto regolamento, e quindi un’efficacia della pronuncia che trascende il rapporto processuale inter partes, ciò deriva dalla natura dell’atto, dal suo contenuto normativo, dall’efficacia esterna ed erga omnes delle sue disposizioni (Cass. civ., sez. I, 13 marzo 1998 n. 2734).”
Orbene, con riferimento ai regolamenti, mentre la posizione di interesse legittimo generalmente sorge in capo al singolo per effetto dell’esercizio in concreto del potere amministrativo fondato (anche) sulla norma regolamentare, ben può sorgere immediatamente una posizione di interesse collettivo della quale è titolare l’ente esponenziale.
Come questo Consiglio di Stato (parere n. 3014/2013 cit.) ha avuto modo di affermare, con considerazioni che si intendono condivise e riproposte nella presente sede:
“La legittimazione al ricorso deve, infatti, essere valutata in relazione alla situazione giuridica soggettiva fatta valere e si atteggia, quindi, diversamente a seconda che venga dedotto in giudizio un interesse individuale oppure un interesse collettivo. . .
Non vi è dubbio che la norma regolamentare, pur non potendo, per il suo carattere di generalità e astrattezza, provocare un pregiudizio immediato in capo al singolo (che sarà inciso solo dal provvedimento applicativo), può, tuttavia, essere fonte di prescrizioni che colpiscono indistintamente e in maniera indifferenziata, l’interesse omogeneo di tutti gli appartenenti alla categoria. È questo interesse omogeneo che è oggetto della situazione giuridica soggettiva della quale è titolare l’ente esponenziale. . . La lesione di tale interesse omogeneo, proprio perché indifferenziato e seriale, non può essere fatta valere dal singolo (essendo questi privo, appunto, di legittimazione al ricorso), ma può certamente essere fatta valere dall’ente in capo al quale quell’interesse si soggettivizza. In questo caso, infatti, la legittimazione al ricorso nasce proprio dalla lesione dell’interesse collettivo (da intendersi come interesse omogeneo degli appartenenti alla categoria rappresentata). Tale lesione non è potenziale e futura, ma attuale e immediata, verificandosi come immediata e diretta conseguenza dell’introduzione nell’ordinamento di una prescrizione che, in maniera generale e astratta, arreca un vulnus agli interessi indifferenziati, e quindi omogenei, della categoria.
In questo caso, non è necessario attendere il provvedimento applicativo affinché la lesione si attualizzi. Il provvedimento applicativo adottato nei confronti di una determinata impresa avrà, infatti, l’effetto di differenziare la posizione del soggetto che ne è destinatario, consentendogli di adire autonomamente gli organi di giustizia per tutelare la propria posizione individuale. Al contrario, trattandosi di tutelare gli interessi del gruppo, quest’ultimo è leso per il solo fatto dell’introduzione nell’ordinamento di una norma il cui contenuto arreca una menomazione a tutti gli appartenenti alla categoria rappresentata”.
In sostanza, ciò che determina la differenziazione tra ente esponenziale e singolo componente nei confronti del regolamento, con immediata proiezione sulla tutela giurisdizionale nei confronti del medesimo, è costituito – con riferimento al caso sopra riportato (analogo a quello in esame) – l’insorgenza immediata dell’interesse collettivo per effetto del mero esercizio della potestà regolamentare, a fronte della insorgenza successiva dell’interesse legittimo, in capo al singolo componente, per effetto del concreto esercizio del potere amministrativo provvedimentale.
Quanto ora evidenziato rende evidente come, a fronte del medesimo atto, possono esservi posizioni soggettive diversificate, e precisamente l’interesse collettivo dell’ente esponenziale e, solo successivamente e mediatamente, l’interesse legittimo del singolo componente della collettività. Rende altresì evidente l’autonomia dell’interesse collettivo come “interesse della collettività”, che ben può porsi in contrasto con situazioni soggettive di singoli associati che – per effetto di successiva applicazione del regolamento – potranno singolarmente giovarsi della previsione regolamentare illegittima.
Infine, è proprio l’insorgenza, temporalmente diversificata, di due distinte posizioni a rendere possibile l’immediata lesione dell’interesse collettivo, e dunque l’immediata impugnazione del regolamento, e a diversificare la lesione, quanto alla sua attualità, tra sfera dell’ente esponenziale e sfera del singolo componente.
11. Le considerazioni espresse al precedente par. 10 sostengono anche la reiezione dei motivi di appello con i quali, nel censurare la sentenza impugnata n. 6884/2011, si evidenzia l’inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado per difetto di interesse ad agire, avendo la Dirpubblica impugnato l’atto regolamentare indipendentemente dagli atti di questo applicativi (motivo di appello sub a2) dell’Agenzia delle Entrate; motivo di ricorso dei funzionari Sebastiano ed altri, Nicolò ed altri sub f2).
Si è detto che con la delibera impugnata con il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, il Comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate, modificando l’art. 24 del regolamento di amministrazione, ha consentito il conferimento, fino al 31 dicembre 2010, di incarichi dirigenziali in favore di funzionari non in possesso della relativa qualifica.
Appare, dunque, evidente come la deliberazione assunta costituisce, nella prospettazione della organizzazione sindacale ricorrente, un atto immediatamente lesivo dell’interesse collettivo (del quale essa è titolare) alla corretta attribuzione, nell’ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, degli incarichi dirigenziali. E in quanto tale, l’atto determina, sul piano delle condizioni dell’azione (impregiudicata ogni valutazione nel merito), la sussistenza della legittimazione ad agire.
Né, per le ragioni esposte, rileva che tale disposizione potrebbe eventualmente favorire, in sede di propria concreta applicazione, (anche) funzionari iscritti alla stessa organizzazione sindacale ricorrente, posto che ciò che rileva è:
sul piano sostanziale, la sussistenza ed identificabilità di un interesse collettivo;
sul piano processuale:
.- la sussistenza di legittimazione ad agire, che consegue alla sussistenza del titolo (e non è revocata in dubbio dalla eventuale – presente o futura – insorgenza di posizioni di interesse legittimo difforrmi dall’interesse collettivo in capo ai singoli;
.-l’attualità della lesione che evidenzia l’interesse ad agire.
12. Le ragioni che hanno innanzi consentito di ritenere sussistenti le condizioni dell’azione in capo ai ricorrenti in opposizione di terzo sono le medesime che fondano il rigetto dei motivi da questi stessi proposti, e relativi alla ritenuta inammissibilità del ricorso della Dirpubblica instaurativo del giudizio in I grado (cui fanno seguito le sentenze appellate nn. 260 e 6884 del 2011), per omessa notifica ad almeno un controinteressato [secondo motivo di ricorso dei predetti funzionari (sub c) avverso la sentenza n. 260/2011, e secondo motivo di ricorso (sub e2), dei medesimi avverso la sentenza n. 6884/2011].
Si è innanzi rilevato come sussiste la legittimazione ad agire dei ricorrenti in opposizione di terzo, ancorché gli stessi - secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale. (sent. n. 177/1995) e dell’Adunanza plenaria (sent. n. 2/2007) costituiscano “controinteressati sopravvenuti”, cioè soggetti (in questo caso potenzialmente beneficiari di un atto consequenziale), quando una sentenza abbia annullato un provvedimento presupposto all'esito di un giudizio cui siano rimasti estranei, e comunque non facilmente identificabili come tali.
Le ragioni che consentono di affermare la legittimazione ad agire dei ricorrenti in opposizione di terzo impediscono di ritenere inammissibile il ricorso instaurativo del giudizio per omessa notifica ad almeno un controinteressato, posto che, in sede di impugnazione della delibera di modifica regolamentare non sussistevano controinteressati.
Tale conclusione risulta viepiù avvalorata alla luce di quanto si è affermato in ordine alla insussistenza di posizioni di interesse legittimo di singoli a fronte dell’esercizio della potestà regolamentare (par. 8/10 precedenti).
Infine, devono essere rigettati anche il motivo di appello (sub b2) dell’Agenzia delle Entrate, nonché il motivo di ricorso sub g2), dei funzionari più volte citati, avverso la sentenza n. 6884/2011, motivi con i quali si sostiene l’improcedibilità dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse, essendo stato medio tempore indetto un concorso per posti dirigenziali.
Appare evidente, alla luce di tutto quanto sin qui esposto, l’irrilevanza dell’intervenuta indizione di un concorso per qualifiche dirigenziali sulla persistenza dell’interesse ad agire per ottenere l’annullamento della delibera di modifica regolamentare impugnata.
13. Esaurito l’esame dei motivi di appello e di ricorso afferenti ai profili di inammissibilità e di improcedibilità, ai fini dell’esame degli ulteriori motivi, relativi al merito, e dunque alla prospettata illegittimità degli atti impugnati, il Collegio deve rilevare che, nelle more del giudizio, è entrato in vigore l’art. 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento.
Tale disposizione prevede:
“Fermi i limiti assunzionali a legislazione vigente, in relazione all'esigenza urgente e inderogabile di assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture, volta a garantire una efficace attuazione delle misure di contrasto all'evasione di cui alle disposizioni del presente articolo, l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio sono autorizzate ad espletare procedure concorsuali da completare entro il 31 dicembre 2013 per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti, secondo le modalità di cui all'articolo 1, comma 530, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e all'articolo 2, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248. Nelle more dell'espletamento di dette procedure l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso. Gli incarichi sono attribuiti con apposita procedura selettiva applicando l'articolo 19, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Ai funzionari cui è conferito l'incarico compete lo stesso trattamento economico dei dirigenti. A seguito dell'assunzione dei vincitori delle procedure concorsuali di cui al presente comma, l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio non potranno attribuire nuovi incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 19, comma 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Agli oneri derivanti dall'attuazione del presente comma si provvede con le risorse disponibili sul bilancio dell'Agenzia delle entrate, dell'Agenzia delle dogane e dell'Agenzia del territorio. Alla compensazione degli effetti in termini di fabbisogno e di indebitamento netto, pari a 10,3 milioni di euro a decorrere dall'anno 2013, per l'Agenzia delle dogane e per l'Agenzia del territorio si provvede mediante corrispondente utilizzo del Fondo di cui all'articolo 6, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.”
Giova osservare che la disposizione in esame, nell’autorizzare l’espletamento di procedure concorsuale da parte delle Agenzie fiscali, ed in particolare da parte dell’Agenzia delle Entrate, prevede che “nelle more dell'espletamento di dette procedure l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso”.
Per un verso, dunque, la norma autorizza l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari delle stesse Agenzie nelle more dello svolgimento dei concorsi; per altro verso, fa salvi gli incarichi “già affidati”, vale a dire gli incarichi dirigenziali già affidati a funzionari privi di qualifica dirigenziale.
Appare evidente come la norma ora richiamata, legittimando ex post l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, si pone quale factum principis sopravvenuto, tale da determinare la declaratoria di improcedibilità degli appelli per sopravvenuto difetto di interesse alla decisione.
Non a caso, a seguito dell’entrata in vigore della norma in esame, la Dirpubblica, parte appellata, ha proposto “motivi aggiunti” nell’ambito del presente giudizio, al fine di eccepire l’illegittimità costituzionale di detta norma, per violazione degli artt. 3, 24, 97, 101, 111, 113 e 117 Cost., nonché dell’art. 6, par. 1 CEDU.
Il Collegio ritiene che occorre rimettere alla Corte Costituzionale, stante la sua rilevanza ai fini della decisione e la sua non manifesta infondatezza, la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’ articolo 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44, per le ragioni meglio esplicitate con separata ordinanza.
Ogni decisione in merito alle spese, diritti ed onorari di giudizio è riservata alla sentenza definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sugli appelli proposti dall’Agenzia delle Entrate (nn.2979/2011, 8834/2011, 2203/2012 r.g.):
a) riunisce gli appelli;
b) rigetta l’appello ed i ricorsi in opposizione di terzo proposti avverso la sentenza n. 260/2011 del TAR per il Lazio;
c) rigetta i motivi di appello e i motivi dei ricorsi in opposizione di terzo, come specificamente indicati in motivazione, rivolti avverso le sentenze nn. 6884/2011 e 7636/2011 del TAR per il Lazio;
c) rimette con separata ordinanza alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’ articolo 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44;
d) riserva alla sentenza definitiva ogni pronuncia in merito alle spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 luglio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 18/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)