TRIBUTARIO:
il giudice tributario
ha l'obbligo di precisare il "quantum" dello scostamento contestato dal fisco
in materia IRFPEF
(Cass. Civ., Sez. Trib.,
sentenza 23 ottobre 2013 n. 23994).
Massima
1. Nella controversia vertente sui maggiori ricavi accertati dall'Ufficio fiscale per i quali il contribuente, già previamente invitato al contraddittorio nella fase endoprocedimentale, abbia addotto di non averli realmente incassati nell'anno di imposta oggetto dell'accertamento, il giudice tributario deve precisare quale sia l'ammontare del reddito accertato dall'Ufficio e quale l'entità dello scostamento rilevato rispetto alla dichiarazione del contribuente, al fine di ben chiarire perché le giustificazioni offerte dal contribuente, in ordine alla mancata percezione di compensi nell'anno in questione, siano congrue e costituiscano idonea prova contraria.
2. Infatti, a fronte di una pretesa fiscale fondata su di una prova per presunzione (nella specie, in primis, un credito del contribuente da compenso per prestazione professionale), il contribuente, per resistere, deve contrastare tale prova e quindi, a questo fine, ha l'onere di dimostrare un fatto, positivo, vale a dire la percezione del reddito in un periodo diverso da quello ritenuto, sulla base di un preciso riferimento probatorio, dalla Amministrazione, ovvero la esistenza di impedimenti alla percezione o comunque di fattori idonei ad impedire l'incasso tempestivo dei compensi.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONELA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA[...]
FATTO
Con sentenza n. 479 del 5/7/2007, depositata in data
27/8/2007, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio Sez. 40 respingeva,
con compensazione delle spese di lite, l'appello proposto, in data 13/1/2006,
da Agenzia delle Entrate Ufficio di Cassino, avverso la decisione n. 132/4/2005
della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone che aveva accolto il
ricorso avanzato da N. M. avverso l'avviso di accertamento n. (OMISSIS),
notificato il 17/5/2003, relativo ad IRPEF, IVA, IRAP anno 1998, con il quale,
applicando i parametri di cui alla L. n. 549 del
1995, art. 3, comma 181, veniva accertato il maggior reddito di
lavoro autonomo del contribuente.
La Commissione Tributaria Regionale respingeva il
gravame dell'Ente impositore, in quanto rilevava che, da un lato, erano fondati
i rilievi mossi dalla C.T.P. alla motivazione dell'avviso di accertamento,
carente in punto di "iter logico adottato per la determinazione dei
compensi omessi e delle consequenziali rettifiche dei volumi di affari e del
reddito di lavoro autonomo dichiarato" e, dall'altro lato, il contribuente
aveva offerto adeguata prova contraria all'accertamento induttivo dell'Agenzia
delle Entrate, in particolare dimostrando, con la produzione di un atto di
diffida e messa in mora in data 21/9/2001 diretto alla AUSL di Frosinone, di
non avere percepito da detto Ente compensi, quanto all'anno 1998, per L.
226.288.356. Avverso tale sentenza ha promosso ricorso per cassazione l'Agenzia
delle Entrate, deducendo tre motivi di ricorso per cassazione, per violazione
di legge, ex art. 360
c.p.c., n. 4 (Motivo 1, in relazione all'art. 132
c.p.c., e D.Lgs. n. 546
del 1992, art. 36, non essendo stata nella sentenza ricostruita la fattispecie
concreta ed i tratti essenziali della lite) e n. 3, (Motivo 2, in relazione al D.P.R. n. 600
del 1973, art. 42, L. n. 549 del
1995, art. 3, comma 181, in combinato disposto con l'art. 2728
c.c., eart. 2697
c.c., non avendo il giudice tributario riconosciuto il valore di presunzione legale ai
parametri presuntivi di reddito applicati nell'accertamento, a seguito di
contraddittorio correttamente instaurato con il contribuente), e per vizio
motivazionale, ex art. 360
c.p.c., n. 5 (Motivo 3, non avendo il giudice tributario dato adeguatamente
conto delle ragioni in fatto che lo hanno condotto a ritenere non
sufficientemente motivato l'avviso di accertamento ed infondata la pretesa
tributaria). Non ha resistito il resistente con controricorso.
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso, inerente un error in
procedendo per violazione dell'art. 132
c.p.c., e D.Lgs. n. 546
del 1992, art. 36, stante la carenza, nella sentenza impugnata,
della ricostruzione della fattispecie concreta e dei tratti essenziali della
lite, è infondato, essendo sufficiente, ai fini delle norme procedurali
richiamate dalla ricorrente, l'esposizione del fatto controverso effettuata
attraverso la sintesi dei contenuti ricorso e della sentenza della C.T.P.,
comunque riportati nella decisione della C.T.R. qui impugnata.
Con il secondo motivo di ricorso, l'Agenzia delle
Entrate denuncia, sotto il vizio di violazione di legge della sentenza
impugnata, la non corretta applicazione della L. n. 549 del
1995, art. 3, comma 181 e ss.,D.P.R. n. 600
del 1973, art. 39, artt. 2697 e 2727 c.c.,
affermando essenzialmente che il valore presuntivo dei parametri determini un
inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale dovrà
provare le ragione del suo mancato adeguamento ai limiti previsti dallo
strumento accertativo.
Il ricorso non è fondato.
Questa Corte ha chiarito che la procedura di
accertamento tributario standardizzato
mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un
sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è
"ex lege" determinata dallo scostamento del reddito dichiarato
rispetto agli "standards" in sè considerati - meri strumenti di
ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce
solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità
dell'accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest'ultimo ha l'onere
di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di
condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti
cui possono essere applicati gli "standards" o la specifica realtà
dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione
dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma
deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello
"standard" prescelto e con le ragioni per le quali sono state
disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
L'esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona
l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare
tanto l'applicabilità degli "standards" al caso concreto, da
dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal
contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella
fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso
il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al
contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però,
egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l'Ufficio può
motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli "standards", dando conto
dell'impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente,
nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro
probatorio, la mancata risposta all'invito (cfr. Cass. S.U.
26635/2009, Cass. 12558/2010, Cass.12428/2012,
Cass.23070/2012). In termini di onere della prova, nella citata sentenza delle
Sezioni unite, si è affermato, schematicamente, che "l'onere della prova
(...) è così ripartitola) all'ente impositore fa carico la dimostrazione
dell'applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto
dell'accertamento ; b) al contribuente (...) fa carico la prova della
sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area
dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà
dell'attività economica nel periodo di tempo cui l'accertamento si
riferisce".
Come successivamente precisato ulteriormente da questa
Corte, in una recente pronuncia (Cass.3312/2011), il fine e l'effetto del
principio di diritto affermato delle Sezioni Unite è stato quello di porre in
luce l'importanza del contraddittorio, non solo nel processo ma anche nella
realtà, quale strumento principale di verificazione o falsificazione della
corrispondenza tra realtà e sua rappresentazione, in quanto proprio "in
sede di contraddittorio - il quale può avvenire già in fase amministrativa, ma
anche e soprattutto nel giudizio - il contribuente potrà in primo luogo dedurre
e dimostrare che i parametri utilizzati sono in sè erronei perchè sono basati
su elementi fattuali non corrispondenti alla realtà o su criteri di
elaborazione e di inferenza illogici" e potrà quindi chiedere
l'annullamento del provvedimento che li ha approvati ovvero dedurre e
dimostrare che l'Ufficio impositore è incorso in errore operativo
nell'applicare i parametri alla sua realtà ovvero ancora dedurre o l'estraneità
della propria attività rispetto alla tipologia alla quale quei parametri
intendono riferirsi o la sussistenza, nella propria attività di caratteri per
così dire anormali, cioè di elementi che la diversificano rispetto a quelle in
riferimento alle quali è stata individuata la normalità reddituale.
Ove il contribuente, pur essendo stato messo in
condizione di dedurre, nulla dice, legittimamente "l'Ufficio impositore
prima e il giudice poi non avranno elementi per escludere che l'attività in
questione sia un'attività "normale" ed abbia quindi una redditività
normale"; ove il contribuente prospetti invece la sussistenza di
circostanze di fatto, tali da allontanare la sua attività dal modello normale
al quale i parametri fanno riferimento, "spetterà all'ufficio prima e al
giudice poi valutare in primo luogo se tali circostanze sono vere e poi se esse
possono essere effettivamente idonee a "giustificare" un reddito
inferiore a quello che sarebbe normale e quindi presuntivamente vero in assenza
di esse".
In sostanza, i parametri previsti dalla L. 28
dicembre 1995, n. 549, art. 3, commi da 181 a 187,
rappresentando la risultante dell'estrapolazione statistica di una pluralità di
dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative
dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il
presupposto per il legittimo esercizio da parte dell'Ufficio dell'accertamento
analitico-induttivo D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, ex art. 39, comma 1, lett. d, e, soltanto
ove siano stati contestati, in sede di contraddittorio con il contribuente,
sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare da soli
l'accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla
realtà economica dell'impresa.
Nella fattispecie, pur vertendosi in ipotesi nella
quale, come si evince dal ricorso, il contribuente aveva risposto all'invito
dell'Ufficio impositivo al contraddittorio, il ricorso dell'Agenzia delle
Entrate sostiene, al contrario, la sufficienza del solo "scostamento"
dei redditi dichiarati rispetto a quelli risultanti dall'applicazione dei
parametri ai fini della legittima rideterminazione del reddito del
contribuente, attribuendo esclusivamente a quest'ultimo ogni onere probatorio.
Il che non è corretto alla luce dei principi di diritto espressi da questa
Corte a Sezioni Unite.
Il terzo motivo, involgente vizio di motivazione, è
invece fondato.
Invero, poichè la controversia verteva sui maggiori
ricavi accertati dall'Ufficio per i quali il contribuente, già previamente
invitato al contraddittorio nella fase endoprocedimentale, aveva addotto di non
averli realmente incassati nell'anno di imposta oggetto dell'accertamento
(1998), il giudice tributario doveva
meglio precisare quale era l'ammontare del reddito accertato dall'Ufficio e
quale l'entità dello scostamento rilevato rispetto alla dichiarazione del
contribuente, al fine di ben chiarire perchè le giustificazioni offerte dal
contribuente, in ordine alla mancata percezione di compensi nell'anno 1998,
fossero congrue e costituissero idonea prova contraria. Infatti, a fronte di
una pretesa fiscale fondata su di una prova per presunzione (nella specie, in
primis, un credito del contribuente da compenso per prestazione professionale),
il contribuente, per resistere, deve contrastare tale prova e quindi, a questo
fine, ha l'onere di dimostrare un fatto, positivo, vale a dire la percezione
del reddito in un periodo diverso da quello ritenuto, sulla base di un preciso
riferimento probatorio, dalla Amministrazione, ovvero la esistenza di
impedimenti alla percezione o comunque di fattori idonei ad impedire l'incasso
tempestivo dei compensi (Cass. Trib. 1508/1990). Invece, nella sentenza
impugnata, si legge soltanto che, da un lato, andava confermata la censura
mossa dalla CTP alle carenze di motivazione dell'atto impugnato e, dall'altro,
il contribuente aveva allegato al ricorso "copia di un atto di diffida e
messa in mora in data 21/9/2001 con il quale egli aveva richiesto alla AUSL di Frosinone
il pagamento di compensi per un importo complessivo di L. 1.266.361.306 di cui
L. 226.188.356 relative all'anno 1998".
Giova ribadire che il vizio di omessa motivazione
sussiste quando nella motivazione non sia chiaramente illustrato il percorso
logico seguito per giungere alla decisione e non risulti comunque desumibile la
ragione per la quale ogni contraria prospettazione sia stata disattesa.
Il ricorso deve essere pertanto accolto, quanto al
terzo motivo, vizio motivazionale ex art. 360
c.p.c., n. 5, rigettati gli altri, e la sentenza impugnata deve
essere cassata con rinvio ad altra sezione della CTR del Lazio, che procederà a
nuovo esame, sulla base dei principi di diritto sopra esposti, e provvederà
anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo del
ricorso, accoglie il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio,
anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della
Commissione Tributaria del Lazio.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della
Sezione Quinta Civile, il 9 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria
il 23 ottobre 2013
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