TRIBUTARIO & CORTE COSTITUZIONALE:
"Robin Tax",
principio di retroattività
delle pronunce d'illegittimità costituzionale
e "favor erarii"
(Corte Costituzionale,
sentenza 11 febbraio 2015, n. 10)
La c.d. "Robin Tax" è (o meglio era) un'addizionale IRES, pari al 5,5 %, gravante, dal 2008 ad oggi, sui petrolieri e su tutte le imprese della filiera energetica.
La Consulta cinque giorni fa l'ha dichiarata incostituzionale - con alcuni limiti d'efficacia della pronuncia però... -.
Massima
1. L'efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità
costituzionale è
pacificamente un principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte
(v. artt. 136 Cost. e 30 della l. n. 87 del 1953); esso, tuttavia, non è
privo di limiti.
2. Anzitutto, l’efficacia delle sentenze di accoglimento non
retroagisce fino al punto di travolgere le situazioni giuridiche comunque
divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti. Diversamente ne
risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici . Pertanto, il
principio della retroattività vale soltanto per i rapporti tuttora pendenti,
con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla
legge dichiarata invalida. In questi casi, l’individuazione in concreto del limite
alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore –
relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità
degli atti amministrativi – che precluda ogni ulteriore azione o rimedio
giurisdizionale, rientra nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa di
competenza del giudice comune.
3. Inoltre, come il limite dei «rapporti esauriti» ha origine
nell’esigenza di tutelare il principio della certezza del diritto, così
ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità
costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o
diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero irreparabilmente
sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è ascrivibile all’attività
di bilanciamento tra valori di rango costituzionale ed è, quindi, la Corte
costituzionale – e solo essa – ad avere la competenza in proposito.
4. Nel caso di
specie, un ulteriore limite deve individuarsi nell’impatto macroeconomico delle
restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112
del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del
bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra
finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui
l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e
117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e
pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata
considerata a regime.
Sentenza per esteso
SENTENZA N. 10
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente:
Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo
GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario
Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge
25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, promosso dalla Commissione tributaria
provinciale di Reggio Emilia nel procedimento vertente tra la Scat Punti
Vendita Spa e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Reggio Emilia,
con ordinanza del 26 marzo 2011, iscritta al n. 215 del registro ordinanze 2011
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie
speciale, dell’anno 2011.
Visti l’atto di
costituzione della Scat Punti Vendita Spa, nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 13 gennaio 2015 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi l’avvocato Livia
Salvini per la Scat Punti Vendita Spa e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Commissione
tributaria provinciale di Reggio Emilia, con ordinanza emessa il 26 marzo 2011
e depositata in pari data, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6
agosto 2008, n. 133, per violazione degli artt. 3, 23, 41, 53, 77 e 117 della
Costituzione.
Il citato art. 81, commi
16, 17 e 18, nel testo oggetto di impugnazione, prevede che: «16. In dipendenza
dell’andamento dell’economia e dell’impatto sociale dell’aumento dei prezzi e
delle tariffe del settore energetico, l’aliquota dell’imposta sul reddito delle
società di cui all’articolo 75 del testo unico delle imposte sui redditi,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,
e successive modificazioni, è applicata con una addizionale di 5,5 punti
percentuali per i soggetti che abbiano conseguito nel periodo di imposta
precedente un volume di ricavi superiore a 25 milioni di euro e che operano nei
settori di seguito indicati: a) ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e
gassosi; b) raffinazione petrolio, produzione o commercializzazione di benzine,
petroli, gasoli per usi vari, oli lubrificanti e residuati, gas di petrolio
liquefatto e gas naturale; c) produzione o commercializzazione di energia
elettrica. Nel caso di soggetti operanti anche in settori diversi da quelli di
cui alle lettere a), b) e c), la disposizione del primo periodo si applica
qualora i ricavi relativi ad attività riconducibili ai predetti settori siano
prevalenti rispetto all’ammontare complessivo dei ricavi conseguiti. La
medesima disposizione non si applica ai soggetti che producono energia
elettrica mediante l’impiego prevalente di biomasse e di fonte
solare-fotovoltaica o eolica. […] 17. In deroga all’articolo 3 della legge 27
luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere
dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007. 18. È
fatto divieto agli operatori economici dei settori richiamati al comma 16 di
traslare l’onere della maggiorazione d’imposta sui prezzi al consumo.
L’Autorità per l’energia elettrica e il gas vigila sulla puntuale osservanza
della disposizione di cui al precedente periodo. […] L’Autorità per l’energia
elettrica e il gas presenta, entro il 31 dicembre 2008, una relazione al
Parlamento relativa agli effetti delle disposizioni di cui al comma 16.».
Il giudice rimettente ha
premesso che la Scat Punti Vendita Spa, quale gestore di una rete di
distributori di carburante, ha presentato ricorso avverso il silenzio-rifiuto
opposto dall’Agenzia delle entrate all’istanza di rimborso dei tributi,
maggiorati degli interessi legali, pagati a titolo di «addizionale» all’imposta
sui redditi delle società (IRES) ai sensi del citato art. 81, commi 16, 17 e
18.
La Commissione
tributaria assume che la questione sia rilevante nel giudizio a quo, in quanto
la norma impugnata osta all’accoglimento del richiesto rimborso.
Inoltre, il giudice
rimettente considera la questione non manifestamente infondata, ritenendo di
concordare con le considerazioni – riportate testualmente nella stessa ordinanza
di rimessione – che sono state sviluppate dalla ricorrente in ordine alla
illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.
1.1.– A questo riguardo
viene esposto che l’«addizionale», istituita per un tempo illimitato, ha
carattere di tributo autonomo e ordinario, tale da incidere strutturalmente
nell’ordinamento tributario, così da escludere che si tratti di una misura
straordinaria e temporanea adottata in risposta ad una improvvisa ed
eccezionale situazione di fatto determinatasi nel mercato degli idrocarburi
liquidi e gassosi.
Il crollo delle
quotazioni del greggio, determinatosi subito dopo l’adozione del decreto,
smentirebbe, poi, la sussistenza della necessità di colpire profitti
straordinari in ragione dell’andamento del mercato nel settore dei prodotti
petroliferi.
La norma impugnata
sarebbe stata, quindi, introdotta nel nostro ordinamento con lo strumento del
decreto-legge senza che ne sussistessero i presupposti di necessità ed urgenza
stabiliti dall’art. 77 Cost. e con l’ulteriore conseguenza che il contribuente
sarebbe stato gravato da una prestazione non in forza della legge come previsto
dall’art. 23 Cost.
1.2.– Viene poi
rammentato che, ai sensi dell’art. 53 Cost., la capacità contributiva è il
presupposto e il limite del potere impositivo dello Stato e del dovere del
contribuente di concorrere alle spese pubbliche, dovendosi interpretare detto
principio come specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza
di cui all’art. 3 Cost. (sentenze n. 258 del 2002, n. 341 del 2000 e n. 155 del
1963).
Perché un’imposta sia
legittima occorre, dunque, che colpisca fatti indici di capacità contributiva e
che la sua struttura risponda a parametri di ragionevolezza, congruità,
coerenza e proporzionalità.
Nella specie mancherebbe
il fatto indice di capacità contributiva, in quanto non sussisterebbe
l’asserito rialzo straordinario dei profitti della filiera dei prodotti
petroliferi.
Inoltre, il presupposto
dell’«addizionale» e il prelievo non sarebbero espressi secondo gli stessi
criteri attributivi di valore, in quanto si colpirebbe l’intero reddito e non
solo gli extra-profitti, con conseguente irragionevolezza, incongruità e
sproporzione della struttura dell’imposta.
Verrebbe poi stabilito
un ingiustificato aggravio impositivo a carico delle sole imprese operanti nel
settore degli idrocarburi, assimilando in modo altrettanto ingiustificato i
produttori di greggio ai distributori che da loro acquistano, mentre solo i
primi, e non i secondi, aumentano i ricavi in caso di aumento del prezzo del
petrolio.
Ulteriore
discriminazione sarebbe rappresentata dal fatto che la norma impugnata
assoggetta all’«addizionale» solo gli operatori con volume d’affari annuo
superiore ai venticinque milioni di euro.
Infine il divieto di
traslazione dell’onere economico conseguente all’«addizionale», quale previsto
dall’art. 81, comma 18, del citato decreto-legge, determinerebbe un’altra
irrazionale discriminazione, in prima istanza tra le imprese assoggettate
all’«addizionale» rispetto alle altre e poi, all’interno di quelle
assoggettate, tra i produttori e i distributori, poiché solo i secondi
incorrono nel suddetto divieto di traslazione e sono costretti ad onerose
pratiche contabili per dimostrare all’Autorità per l’energia elettrica, il gas
e il sistema idrico la mancata traslazione.
1.3.– Viene
rappresentato, inoltre, che la norma renderebbe più onerosa l’iniziativa
economica, tutelata dall’art. 41 Cost., per le imprese impegnate nel mercato
degli idrocarburi e, tra queste, per le imprese distributrici rispetto a quelle
produttrici, in quanto solo i produttori sono in grado di influire sul
meccanismo di formazione dei prezzi, con conseguente ulteriore ingiustificata
disparità di trattamento, censurabile ex art. 3 Cost.
1.4.– Infine, viene
evidenziato che il divieto di traslazione degli oneri relativi
all’«addizionale» realizza una parziale fissazione autoritativa del prezzo,
alterando il funzionamento della libera concorrenza tutelata dall’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost. come ulteriore estrinsecazione della
salvaguardia dell’iniziativa economica privata ex art. 41 Cost.
1.5.– La Commissione
tributaria, pertanto, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale posta nei termini di cui sopra e,
sospeso il giudizio a quo, ha ordinato l’immediata trasmissione degli atti a
questa Corte, unitamente alla loro notifica alle parti, al Presidente del
Consiglio dei ministri e al Presidente della Camera dei deputati.
2.– Con atto depositato
in data 7 novembre 2011 è intervenuta nel giudizio la Scat Punti Vendita Spa,
dando ulteriore evidenza alle ragioni di rilevanza e fondatezza delle questioni
di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente.
2.1.– In particolare è
stata rimarcata l’impossibilità di identificare la ratio fondativa
dell’«addizionale» nel conseguimento di presunti “sovra-profitti” da parte dei
soggetti colpiti. Se si considera il novero dei soggetti incisi, la base
imponibile (costituita dall’intero reddito) e la durata permanente della nuova
misura impositiva risulta impossibile ritenere l’«addizionale» idonea a colpire
un’entità economica tanto aleatoria, transitoria e marginale quale sarebbe il
preteso “sovra-reddito”.
Inoltre, osserva
l’interveniente, l’indice di manifestazione della capacità contributiva è il
reddito e non la redditività dell’attività espletata, cioè il rapporto tra il
guadagno netto e i costi sostenuti, in quanto il sistema dell’imposizione
diretta è basata sul criterio quantitativo del reddito “numerario”, senza che
sia possibile operare discriminazioni qualitative delle attività, che
violerebbero i principi di uguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva.
Proprio il carattere
permanente dell’«addizionale» e l’assenza di meccanismi atti ad isolare il
“sovra-reddito” dimostrerebbero come la forma di imposizione in esame sia del
tutto incompatibile con gli schemi di tassazione dei profitti noti
all’esperienza giuridica nazionale e sovranazionale, quali la Crude Oil
Windfall Profit Tax, applicata negli Stati Uniti dal 1980 al 1988.
2.2.– Un ulteriore
profilo di ingiustificata disparità di trattamento viene individuato dalla
interveniente nel fatto che le società colpite dall’«addizionale» vengono
escluse, ex art. 81, commi 16-bis e 16-ter, del d.l. n. 112 del 2008,
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 133 del
2008, dai benefici altrimenti riconosciuti ai «gruppi caratterizzati da
un’integrazione economico-giuridica tale da giustificare un riconoscimento
fiscale della sostanziale unitarietà della base imponibile».
2.3.– Viene poi
sottolineato come la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 21 del 2005)
richieda la necessaria transitorietà delle misure straordinarie, ai fini della
loro legittimità, tanto che il legislatore pare essersene tardivamente avveduto
con l’art. 7 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti
per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, che
ha apportato significative modifiche all’«addizionale» in questione,
ampliandone l’ambito soggettivo di applicazione e aumentandone l’aliquota per i
soli tre periodi di imposta successivi.
2.4.– La memoria
sottolinea ulteriori profili di ingiustificata discriminazione vengono in
riferimento ad alcune tipologie di imprese operanti nel settore energetico,
dato che dal campo di applicazione dell’addizionale risultano escluse le
imprese ad alto reddito, ma non eccedenti il limite minimo di ricavi richiesto dal
legislatore, così favorendo le imprese che utilizzano contratti di
intermediazione rispetto a quelle che, procedendo all’acquisto e alla rivendita
di prodotti petroliferi, evidenziano maggiori ricavi a parità di reddito.
2.5.– È stato poi
rimarcato che anche i soci delle società operanti nel settore energetico
vengono sottoposti ad un carico fiscale complessivo sugli utili societari
superiore rispetto a quello riscontrabile per i soci di altre società.
2.6.– In riferimento
all’art. 77 Cost., la difesa della Scat spa concorda con le osservazioni del
giudice remittente, circa il fatto che l’«addizionale» sia stata introdotta con
decreto-legge in assenza dei necessari presupposti di necessità ed urgenza e in
violazione dell’art. 4 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in
materia di statuto dei diritti del contribuente).
2.7.– È stata ribadita,
infine, l’irragionevolezza del divieto di traslazione della maggiore imposta
come configurato dal legislatore solo con riferimento ai prezzi al consumo.
3.– Con atto depositato
in data 8 novembre 2011, si è costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri.
3.1.– La difesa erariale
ha rilevato, anzitutto, come, a seguito delle modifiche apportate alla
disciplina in esame dall’art. 7 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 148 del 2011, sia
necessario restituire gli atti al giudice rimettente, affinché valuti la
persistente rilevanza della questione alla luce delle radicali modifiche
operate, nel senso dell’ampliamento dei soggetti, dell’aliquota, dei
presupposti e della base imponibile del tributo.
3.2.– È stata poi
eccepita l’inammissibilità delle questioni di legittimità sollevate per mancata
autonoma esplicitazione delle ragioni fondanti il dubbio di legittimità
costituzionale, posto che il rimettente si è limitato ad affermare di
condividere le censure sviluppate dal ricorrente, riproducendole testualmente.
3.3.– Ulteriore
eccezione di inammissibilità è stata sollevata in ordine all’insufficiente motivazione
dell’ordinanza in punto di rilevanza, non avendo il giudice fornito alcun
elemento di fatto che consentisse di stabilire che la società ricorrente
rientri plausibilmente nell’ambito di applicazione dell’«addizionale» e che la
controversia non sia stata artificiosamente creata dalla ricorrente.
3.4.– Nel merito si è
chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
In riferimento all’art.
77 Cost., il Presidente del Consiglio osserva che, data la contingenza
economica verificatasi all’epoca dell’adozione del decreto-legge e richiamata
anche nelle disposizioni impugnate, non si può ritenere che si versi in un caso
di evidente mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza per l’adozione dei
decreti-legge. È stato quindi evidenziato come l’«addizionale» in esame si sia
inserita armonicamente in un più ampio quadro di misure di riorganizzazione
fiscale e amministrativa del settore energetico, al fine di sostenere le fasce
sociali più esposte alle tendenze di questo mercato.
3.5.– Nessuna violazione
dell’art. 23 Cost. sarebbe poi ravvisabile, in quanto la riserva di legge in
materia di prestazioni patrimoniali imposte risulta soddisfatta anche dal
ricorso ad atti con forza di legge.
3.6.– Parimenti non
sussisterebbe alcuna violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in quanto le imprese
energetiche operano in un settore in cui l’aumento dei costi alla fonte si
ripercuote in un aumento dei prezzi sino al consumatore finale, senza che ciò
possa essere contrastato da una corrispondente contrazione della domanda, che
in quel campo è del tutto anelastica, con la conseguenza che la possibilità di
“extraprofitti” sarebbe strutturale in quel settore economico, così da
differenziarlo dagli altri e giustificare un trattamento fiscale differenziato.
Il fatto poi che l’«addizionale»
colpisca imprese per le quali l’incremento dei prezzi non può essere
contrastato da contrazioni della domanda, rappresenta un dato economicamente
significativo, come tale espressivo di capacità contributiva.
Neppure potrebbe
ritenersi ingiustificato il trattamento dei vari operatori della filiera
energetica, in quanto l’incremento dei prezzi alla produzione viene in tale
settore applicato anche sulle quantità acquistate prima degli aumenti, senza
che vi sia alcuna garanzia circa il fatto che il prezzo finale sia
effettivamente calcolato sulla base del costo di acquisto effettivamente
sopportato dal raffinatore o dal distributore. In altre parole, anche i
distributori del carburante si avvantaggerebbero della struttura del mercato di
settore, attraverso la rivalutazione delle scorte, tenendo conto anche del
fatto che il mercato energetico è in larga misura dominato da operatori
verticalmente integrati che occupano l’intera filiera.
3.7.– Non sarebbe, poi,
ravvisabile alcuna violazione della libera concorrenza e della iniziativa
economica privata tutelate dagli artt. 117 e 41 Cost., in quanto la loro tutela
non può essere assicurata in contrasto con l’utilità sociale e l’«addizionale»
in questione, compreso il divieto di traslazione del relativo onere sui prezzi
all’acquisto, rappresenta appunto un modo per ragionevolmente armonizzare con
l’utilità sociale la peculiare struttura del mercato energetico, ritenuto
tutt’altro che libero e concorrenziale.
4.– Con memoria
depositata in data 6 marzo 2013, la Scat Punti Vendita Spa ha chiesto che siano
respinte le eccezioni sollevate dalla difesa statale e ha insistito per la
dichiarazione di illegittimità costituzionale.
4.1.– Più precisamente,
in relazione alla restituzione degli atti al giudice rimettente per ius
superveniens, la società ha osservato che l’anno di imposta, oggetto del
giudizio a quo, è il 2008, di tal che la legge applicabile risulta quella
anteriore alle modifiche intervenute le quali, quindi, non rilevano ai fini
della decisione della questione. In ogni caso le sopraggiunte modifiche non
avrebbero rimediato ai denunciati vizi di illegittimità costituzionale, ma
semmai li avrebbero aggravati.
4.2.– Quanto
all’inammissibilità delle questioni per mancata autonoma esplicitazione,
nell’ordinanza di rimessione, delle ragioni fondanti il dubbio di legittimità
costituzionale, si è rimarcato che il giudice rimettente ha esposto in modo
chiaro e puntuale le ragioni dell’illegittimità costituzionale, producendo così
un’ordinanza autosufficiente nella motivazione, indiscutibilmente espressiva
del suo autonomo convincimento.
4.3.– In ordine
all’inammissibilità per difetto di rilevanza, la difesa della parte privata ha
rilevato che il pagamento dell’«addizionale» è stato determinato dall’esigenza
di evitare le conseguenze sanzionatorie, nell’evidente ricorrenza dei
presupposti applicativi stabiliti dalla legge. Del resto, la stessa società
ricorrente non ha eccepito nel giudizio a quo l’esistenza di esenzioni, con la
conseguenza che, vigendo nel processo tributario il principio dispositivo, non
potrebbero rilevare nel predetto giudizio tributario le suddette esclusioni.
4.4.– È stato poi
rimarcato che persistono le già dedotte ragioni di illegittimità costituzionale
ai sensi degli artt. 3 e 53 Cost., costituite da: l’assenza di documentati ed
evidenti motivi che possano fondare l’applicazione dell’addizionale alle
imprese operanti nel settore petrolifero e dell’energia; l’inidoneità tecnica
dell’imposta a colpire selettivamente i pretesi “sovra-profitti” determinati
dal rincaro del greggio; l’operata discriminazione qualitativa, a parità di
reddito, sul margine di redditività dell’attività svolta; l’ingiustificata
discriminazione dei soggetti colpiti dall’«addizionale», selezionati sulla base
dei ricavi effettuati.
4.5.– In ordine alla
violazione degli artt. 77 e 23 Cost., si è evidenziato come, anche a voler
ammettere che l’adozione del decreto-legge possa giustificarsi in base ad
esigenze eccezionali relative al mercato, le stesse avrebbero potuto
determinare solo interventi puntuali, occasionali e transitori, non riforme di
struttura, come quella oggetto di impugnazione.
4.6.– Quanto alle
dinamiche dei prezzi del greggio, che avrebbero determinato gli extraprofitti
di tutti i soggetti economici facenti parte del settore petrolifero, la difesa
della parte privata ha osservato come non sia possibile formulare conclusioni
scientificamente fondate sulle dinamiche predette e sulla loro distribuzione
all’interno della filiera.
In ogni caso, anche se
si immaginasse il verificarsi di “extra-profitti”, ciò non giustificherebbe
alcuna forma di tassazione integrale e aggiuntiva del reddito di quelle
imprese, ma determinerebbe solo l’esigenza di attuare un congegno impositivo
capace di isolare i “sovra-redditi”, se e quando esistenti, in modo da tassare
solo quelli.
Apodittiche e infondate
sarebbero poi le ulteriori affermazioni della difesa dello Stato, in
particolare quelle relative alla pretesa integrazione verticale della filiera.
4.7.– Da ultimo, la
società interveniente ha sottolineato come ulteriori conferme delle ragioni di
illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate possano trarsi dalla
sentenza n. 223 del 2012, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale di
alcune disposizioni relative ai redditi da lavoro dipendente, proprio per
ragioni di discriminazione qualitativa dei redditi.
La memoria sottolinea
che l’«addizionale» impugnata potrebbe giustificarsi, alla luce della
giurisprudenza costituzionale, solo in ragione della sua temporaneità, che in
questo caso non sussiste. In proposito vengono richiamati i precedenti della
Corte in materia di sovraimposta comunale sui fabbricati (sentenza n. 159 del
1985), di prelievo del sei per mille sulle giacenze bancarie (sentenza n. 143
del 1995), di imposta straordinaria sugli immobili (sentenza n. 21 del 1996) e
di contributo straordinario per l’Europa (ordinanza n. 341 del 2000). In
mancanza di detta temporaneità l’attuale «addizionale» avrebbe perciò palesato
la sua totale illegittimità.
Si è rammentata, poi, la
sentenza n. 34 del 1961 su un’addizionale regionale siciliana, rispetto alla
quale è stata ravvisata una ingiustificata discriminazione tra i soggetti
passivi di una medesima imposta erariale, a conferma della possibilità di
ravvisare una discriminazione qualitativa di imposta anche su base soggettiva
all’interno di una stessa imposta.
4.8.– In chiave storica
e comparativa, la difesa della società intervenuta ha nuovamente richiamato le
imposte straordinarie sui redditi di guerra e la Crude Oil Windfall Profit Tax
statunitense, per rimarcarne le differenze di struttura rispetto
all’«addizionale» impugnata.
5.– Con ulteriore
memoria depositata in data 23 dicembre 2014, la Scat Punti Vendita Spa, nel
rimarcare come le proprie deduzioni siano rimaste senza pertinenti repliche
dell’Avvocatura dello Stato, ha illustrato come la successiva giurisprudenza
della Corte costituzionale fornisca ulteriori argomenti a sostegno della
dedotta illegittimità costituzionale della disposizione impugnata.
5.1.– In particolare, è
stata richiamata la sentenza n. 116 del 2013 relativa al contributo di
perequazione imposto ai titolari di trattamenti pensionistici superiori ai
novantamila euro annui. Ritenuta la natura tributaria del contributo, la Corte
ha considerato irragionevole la deroga al principio di universalità
contributiva in tal modo operato, sottolineando che la eccezionalità della
situazione economica non consente di obliterare il canone di uguaglianza
fondante l’ordinamento costituzionale. Simili principi, ad avviso della società
ricorrente, dovrebbero valere a maggior ragione nel caso della maggiorazione
dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle società dalla medesima censurato.
5.2.– È stata poi
ricordata la sentenza n. 142 del 2014 con cui è stata dichiarata la
illegittimità costituzionale della norma che deroga, per i compensi corrisposti
in ritardo ai giudici tributari, al principio generale della più favorevole
tassazione separata di detti emolumenti. Anche questa decisione, secondo la
società ricorrente, si porrebbe in continuità con i principi reiteratamente
affermati dalla Corte costituzionale che, a maggior ragione, dovrebbero valere
nella specie.
5.3.– Viene poi
menzionata la sentenza n. 201 del 2014, relativa all’«addizionale» del 10% sui
compensi corrisposti sotto forma di bonus e stock options ai dirigenti che
operano nel settore finanziario e ai titolari di rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa nel medesimo settore. A questo proposito la difesa
della parte privata ha evidenziato come, in quest’ultima decisione, la Corte
costituzionale abbia ritenuto che solo la presenza di un documentato e
specifico contesto di politica economica e legislativa internazionale, volto a
delimitare la remunerazione del management finanziario per scoraggiare la
ricerca di redditività ad alto rischio, può fornire legittimi motivi al
legislatore nazionale per rimodulare la tassazione tramite addizionali volte a
contenere le dinamiche reddituali di quel settore. Tuttavia, simili motivi non
sussistono in relazione al settore dell’energia. Del resto, la parte privata
rimarca come la stessa Agenzia delle entrate dimostri di distinguere la
struttura di imposizione nei due casi, posto che per il settore dell’energia si
tratta di una maggiorazione dell’aliquota dell’imposta sui redditi delle
società, mentre l’aliquota addizionale sui bonus e le stock options rappresenta
un prelievo d’imposta aggiuntivo, ma autonomo e distinto rispetto all’imposta
sui redditi delle persone fisiche.
5.4.– In ultimo, la
società ricorda che, come si desume dalla relazione al Parlamento presentata
nel 2013 dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, non
siano noti, o quanto meno condivisi, i criteri di formazione dei margini di
redditività in funzione delle variazioni di prezzo delle materie prime nel
settore dell’energia, a conferma dell’inesistenza o dell’indimostrabilità del
presupposto della maggiorazione d’aliquota, vale dire gli “extra-profitti” che
si realizzerebbero in quel settore, in realtà soggetto a dinamiche alquanto
imprevedibili e variamente interpretabili, come comprovato dalla recente
significativa riduzione del prezzo del greggio determinato dall’imprevisto
aumento dell’offerta da parte del principale produttore, l’Arabia Saudita.
5.5.– Anche sulla base
di tali sopravvenute emergenze giurisprudenziali e fattuali, la parte privata
ha insistito perciò per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle
disposizioni censurate.
Considerato in diritto
1.– La Commissione
tributaria provinciale di Reggio Emilia, con ordinanza emessa il 26 marzo 2011
e depositata in pari data, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6
agosto 2008, n. 133, in riferimento agli artt. 3, 23, 41, 53, 77 e 117 della
Costituzione.
Con le disposizioni
impugnate è stato previsto – a decorrere dal periodo d’imposta successivo a
quello in corso al 31 dicembre 2007 – un prelievo aggiuntivo, qualificato
«addizionale» all’imposta sul reddito delle società di cui all’art. 75 del
decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione
del testo unico delle imposte sui redditi) e successive modificazioni, pari al
5,5 per cento, da applicarsi alle imprese operanti in determinati settori, tra
cui la commercializzazione di benzine, petroli, gas e oli lubrificanti, che
abbiano conseguito ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo di imposta
precedente, ponendo a carico dei soggetti passivi il divieto di traslazione sui
prezzi al consumo e affidando all’Autorità per l’energia elettrica e il gas
(poi divenuta Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico) il
compito di vigilare e di presentare al Parlamento, entro il 31 dicembre di ogni
anno, una relazione sugli effetti del tributo.
La questione è stata
sollevata nel corso di un giudizio di impugnazione del silenzio-rifiuto
formatosi sulla richiesta di rimborso presentata dalla Scat Punti Vendita Spa
di quanto corrisposto all’ente impositore a titolo di «addizionale»
dell’imposta sui redditi delle società (IRES), dovuta in applicazione delle
disposizioni in esame.
In particolare, la
Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia – facendo proprie e
riproducendo testualmente le censure eccepite dalla difesa della contribuente –
lamenta anzitutto la violazione dell’art. 77 Cost., perché non sussisterebbero
i presupposti di necessità e urgenza richiesti per l’adozione del
decreto-legge.
Sussisterebbe altresì,
secondo la rimettente, la violazione della riserva di legge prevista dall’art.
23 Cost., perché si tratterebbe di prestazione imposta in forza non di una
legge, ma di un decreto-legge.
Parimenti violati
sarebbero gli artt. 3 e 53 Cost., perché l’«addizionale» non risulterebbe
ancorata ad un indice di capacità contributiva e determinerebbe una
ingiustificata disparità di trattamento tra le imprese operanti nei settori
soggetti all’«addizionale» e le altre, nonché, nell’ambito delle prime, tra
quelle aventi un volume di ricavi superiore o inferiore a 25 milioni di euro.
La disparità di trattamento contributivo sussisterebbe anche tra produttori e
distributori di greggio, in quanto solo i primi potrebbero legittimamente
traslare su altri soggetti l’onere economico dell’«addizionale», mentre ai soli
distributori si applicherebbe il divieto di traslazione degli oneri sul prezzo
al consumo, previsto dall’impugnato art. 81, comma 18.
L’imposizione
violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 41 Cost., perché renderebbe più onerosa
l’iniziativa economica delle imprese operanti nel settore degli idrocarburi e,
tra queste, di quelle distributrici, che, diversamente dalle imprese
produttrici, non sarebbero in grado di effettuare la predetta traslazione
dell’onere dell’imposta.
Le disposizioni
censurate contravverrebbero, infine, agli artt. 41 e 117, secondo comma,
lettera e), Cost., perché il suddetto divieto di traslazione, risolvendosi in
una fissazione autoritativa del prezzo, altererebbe la libera concorrenza e,
quindi, limiterebbe illegittimamente l’iniziativa economica privata.
2.– Nel giudizio dinanzi
a questa Corte è intervenuta la Scat Punti Vendita Spa, che ha presentato
memorie a supporto delle censure formulate dal giudice remittente.
L’intervento è pienamente
ammissibile, in quanto si tratta del ricorrente nel procedimento a quo e,
quindi, parte anche del giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis,
sentenze n. 304 del 2011, n. 138 del 2010 e n. 263 del 2009).
3.– Occorre esaminare,
in via preliminare, gli ostacoli all’ammissibilità eccepiti dall’Avvocatura
generale dello Stato.
Il Presidente del
Consiglio dei ministri ha chiesto, anzitutto, che gli atti siano restituiti al
giudice rimettente in considerazione dello ius superveniens.
La richiesta non può
essere accolta.
È pur vero, infatti,
che, successivamente all’ordinanza di rimessione, il legislatore ha modificato
l’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del 2008, convertito con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 133 del 2008.
Segnatamente ciò è
avvenuto: con la legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e
l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia); con il
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148; con il decreto-legge 21 giugno
2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98; con
il decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il
perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche
amministrazioni), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 30 ottobre 2013, n. 125. Si tratta di modifiche con le quali, ferma
restando la struttura dell’imposta, è stata elevata la misura
dell’«addizionale» a 6,5 punti percentuali; è stata ampliata la platea dei
soggetti rientranti nel campo di applicazione dell’imposta, dal momento che il
legislatore ha diminuito il volume minimo di ricavi oltre il quale le società
operanti nel settore rientrano fra i soggetti passivi, portandolo dagli
originari 25 milioni a 10 milioni e poi a 3 milioni di euro; è stata introdotta
l’ulteriore soglia del conseguimento di un reddito superiore a 1 milione di
euro, poi abbassata a 300 mila euro; sono stati limitati i poteri di controllo
dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico alle sole
imprese che integrino i presupposti per l’applicazione dell’«addizionale».
Orbene, tali modifiche
legislative non comportano la necessità di restituire gli atti al giudice a
quo, anzitutto perché l’anno di imposta a cui si riferisce il silenzio-rifiuto
formatosi sulla richiesta di rimborso, oggetto del giudizio a quo, è il 2008,
di tal che la legge applicabile risulta quella anteriore alle modifiche
intervenute. A ciò si aggiunga che le modifiche introdotte non rimediano
affatto ai profili di illegittimità dedotti dal rimettente, ma semmai li
accentuano, con particolare riguardo a quelli prospettati in riferimento agli
artt. 3 e 53 Cost., dal momento che innalzano la percentuale
dell’«addizionale», ampliano l’area dei soggetti tenuti a versarla e stabilizzano
l’imposta senza limiti di tempo, tanto che si deve ritenere che – come si dirà
più avanti – alcune delle censure prospettate dall’ordinanza di rimessione
interessino anche le novelle successive. Non v’è dunque ragione alcuna di
disporre la restituzione degli atti al giudice a quo.
4.– L’Avvocatura
generale dello Stato ha poi eccepito l’inammissibilità delle questioni
sollevate per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulle ragioni fondanti
le censure, dal momento che il giudice rimettente si sarebbe limitato a
condividere quanto affermato dal ricorrente.
In proposito, deve
osservarsi che il giudice a quo, nell’ordinanza di rimessione, ha descritto
accuratamente la fattispecie sottoposta al suo giudizio e, dopo aver riportato
testualmente e per esteso le ragioni della ricorrente, ha esplicitato che «la
Commissione concorda con le suddette considerazioni e ritiene rilevante, posto
che la presenza della “norma” nell’ordinamento giuridico osta al richiesto
rimborso, e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale della “norma” secondo i profili dedotti dalla Ricorrente».
Il giudice rimettente
non ha motivato l’ordinanza nella forma del mero rimando alle argomentazioni
contenute negli atti di parte, ma ha riportato le censure eccepite della parte
del giudizio a quo, facendole proprie. Così strutturata, l’ordinanza non
risulta affetta da carenza di motivazione, né vulnera il principio di
autosufficienza, che deve considerarsi rispettato quando, come nella specie,
«le argomentazioni a sostegno delle censure risultano chiaramente dalla stessa
ordinanza di rimessione, senza rinvio ad atti ad essa esterni» (ex plurimis,
sentenza n. 143 del 2010). Non si tratta, dunque, di un caso di motivazione per
relationem, essendo pienamente ottemperato l’obbligo che questa Corte ritiene
incombere sul rimettente di «rendere espliciti, facendoli propri, i motivi
della non manifesta infondatezza» (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2014, n. 234
del 2011 e n. 143 del 2010; ordinanze n. 175 del 2013, n. 239 e n. 65 del
2012).
Con riguardo, poi, alla
motivazione sulla rilevanza, è pur vero che il rimettente si è limitato ad
osservare che la disposizione impugnata osta al rimborso, senza specificare se
la ricorrente integri gli ulteriori presupposti d’imposta, all’epoca costituiti
solo dal volume dei ricavi conseguiti. Tuttavia – anche a prescindere da ogni
considerazione circa il fatto che il principio dispositivo, operante anche nel
giudizio tributario a quo, priverebbe di rilievo la circostanza (in quanto non eccepita
dall’interessato) – risulta totalmente implausibile ritenere che la società
abbia pagato un’imposta di significativo ammontare senza che ne ricorrano i
presupposti, determinati dal volume dei ricavi. Conseguentemente,
l’affermazione del rimettente secondo cui solo la disposizione censurata
ostacolerebbe il richiesto rimborso deve ragionevolmente considerarsi integrare
una sufficiente motivazione anche su questo punto.
5.– Nel merito, le
questioni sollevate in relazione agli artt. 77, secondo comma, e 23 Cost.,
incentrate sull’illegittimo utilizzo del decreto-legge, non sono fondate.
È pur vero, infatti, che
«la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e
l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale,
quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità dell’adozione di
tale atto, la cui mancanza configura un vizio di legittimità costituzionale del
medesimo, che non è sanato dalla legge di conversione» (sentenza n. 93 del
2011).
Tuttavia, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, il sindacato sulla legittimità dell’adozione,
da parte del Governo, di un decreto-legge, va comunque limitato ai casi di
«evidente mancanza» dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza
richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost. o di «manifesta irragionevolezza o
arbitrarietà della relativa valutazione» (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2012,
n. 93 del 2011, n. 355 e n. 83 del 2010; n. 128 del 2008; n. 171 del 2007).
Invero, la notoria
situazione di emergenza economica posta a base del censurato d.l. n. 112 del
2008, che ha ad oggetto «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria», consente di escludere che esso sia stato adottato
in una situazione di evidente mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza;
né dall’ordinanza di remissione si possono ricavare argomentazioni valevoli ad
attestare la manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della valutazione
governativa sulla sussistenza dei presupposti della decretazione d’urgenza. D’altro
canto, le impugnate disposizioni – in quanto hanno introdotto un’«addizionale»
per reperire nuove entrate al fine di fronteggiare la predetta emergenza e
ridistribuire la pressione fiscale – risultano coerenti con le finalità del
provvedimento e con i presupposti costituzionali su cui esso si fonda.
Quanto alla riserva di
legge di cui all’art. 23 Cost., essa deve ritenersi pacificamente soddisfatta
anche da atti aventi forza di legge, come accade in riferimento a tutte le
riserve contenute in altre norme costituzionali, comprese quelle relative ai
diritti fondamentali (ex plurimis, ordinanza n. 134 del 2003, sentenze n. 282
del 1990, n. 113 del 1972 e n. 26 del 1966) e salvo quelle che richiedono atti
di autorizzazione o di approvazione del Parlamento. Ciò sia perché i
decreti-legge e i decreti legislativi sono fonti del diritto con efficacia
equiparata a quella della legge parlamentare, sia perché nel relativo
procedimento di formazione è assicurata la partecipazione dell’organo
rappresentativo, rispettivamente in sede di conversione e in sede di delega
(oltre che con eventuali pareri, in fase di attuazione della delega stessa). Ne
consegue che il parametro costituzionale evocato, cui questa Corte deve fare
esclusivo riferimento, risulta adeguatamente rispettato anche quando la
disciplina impositiva sia introdotta con un decreto-legge, purché ciò avvenga,
come nella specie, nel pieno rispetto dei presupposti costituzionalmente
previsti.
6.– Fondata, nei limiti
di seguito precisati, è la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53
Cost.
6.1.– L’ordinanza muove
dalla considerazione che l’«addizionale» impugnata determina una
discriminazione qualitativa dei redditi, per il fatto che essa si applica solo
ad alcuni soggetti economici operanti nel settore energetico e degli
idrocarburi. Detta discriminazione, poi, non sarebbe supportata da adeguata
giustificazione e risulterebbe pertanto arbitraria. In particolare, sebbene una
pluralità di indizi contenuti nel testo normativo impugnato e nei relativi lavori
preparatori suggeriscano che l’intento del legislatore fosse quello di colpire
i “sovra-profitti” conseguiti da detti soggetti in una data congiuntura
economica, in realtà la struttura della nuova imposta non sarebbe poi coerente
con tale ratio giustificatrice.
Profili di irrazionalità
rispetto allo scopo sarebbero ravvisabili nella individuazione della base
imponibile, che è costituita dall’intero reddito anziché dai soli
“sovra-profitti”, e nella durata permanente, anziché contingente,
dell’«addizionale», che non appare in alcun modo circoscritta a uno o più
periodi di imposta, né risulta ancorata al permanere della situazione
congiunturale, che tuttavia è addotta come sua ragione.
Il tenore di tali
motivazioni e, in particolare, l’insistenza sul carattere strutturale e
permanente della «addizionale» [rectius: della maggiorazione della aliquota
IRES] inducono la Corte a ritenere che le censure interessino il citato art.
81, commi 16, 17 e 18, anche nel testo risultante dalle successive modifiche
legislative. Infatti, in virtù di tali novelle, l’imposta oggetto del presente
giudizio, che già in origine era stata istituita senza limiti di tempo, è stata
poi stabilizzata accentuando gli aspetti della normativa su cui si fondano le
doglianze prospettate dalla ricorrente.
6.2.– La maggiorazione
dell’aliquota IRES gravante su determinati operatori dei settori energetico,
petrolifero e del gas, così come è stata configurata dall’art. 81, commi 16, 17
e 18, del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, non è conforme agli
artt. 3 e 53 Cost., come costantemente interpretati dalla giurisprudenza di
questa Corte.
Ai sensi dell’art. 53
Cost., infatti, la capacità contributiva è il presupposto e il limite del
potere impositivo dello Stato e, al tempo stesso, del dovere del contribuente
di concorrere alle spese pubbliche, dovendosi interpretare detto principio come
specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza di cui
all’art. 3 Cost. (sentenze n. 258 del 2002, n. 341 del 2000 e n. 155 del 1963).
Vero è che questa Corte
ha ripetutamente rimarcato che «la Costituzione non impone affatto una
tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali
per tutte le tipologie di imposizione tributaria»; piuttosto essa esige «un indefettibile
raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a
criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo
tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione
degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza
dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e
sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del 2000, ripresa
sul punto dalla sentenza n. 223 del 2012).
Pertanto, secondo gli
orientamenti costantemente seguiti da questa Corte, non ogni modulazione del
sistema impositivo per settori produttivi costituisce violazione del principio
di capacità contributiva e del principio di eguaglianza. Tuttavia, ogni diversificazione
del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti,
deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la
differenziazione degenera in arbitraria discriminazione.
In ordine ai principi di
cui agli artt. 3 e 53 Cost., la Corte è, dunque, chiamata a verificare che le
distinzioni operate dal legislatore tributario, anche per settori economici,
non siano irragionevoli o arbitrarie o ingiustificate (sentenza n. 201 del
2014): cosicché in questo ambito il giudizio di legittimità costituzionale deve
vertere «sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto
dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la
coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico,
come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sentenza n. 111
del 1997; ex plurimis, sentenze n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012).
6.3.– Non mancano
nell’ordinamento esempi di legislazione che impongono una più esigente
contribuzione tributaria a carico di alcuni soggetti.
Numerosi sono i casi di
temporaneo inasprimento dell’imposizione – applicabili a determinati settori
produttivi o a determinate tipologie di redditi e cespiti – ritenuti non
illegittimi da questa Corte proprio in forza della loro limitata durata: basti
menzionare la sovraimposta comunale sui fabbricati (sentenza n. 159 del 1985),
l’imposta straordinaria immobiliare sul valore dei fabbricati (sentenza n. 21
del 1996), il tributo del sei per mille sui depositi bancari e postali
(sentenza n. 143 del 1995), il contributo straordinario per l’Europa (ordinanza
n. 341 del 2000).
Neppure mancano casi in
cui la differenziazione tributaria per settori economici o per tipologie di
reddito ha assunto carattere strutturale, superando, ciò nondimeno, il vaglio
di questa Corte. Si può, a titolo esemplificativo, ricordare l’addizionale
sulle remunerazioni in forma di bonus e stock options, ritenuta tutt’altro che
irragionevole, arbitraria o ingiustificata da questa Corte con la sentenza n.
201 del 2014; ovvero la normativa esaminata con la sentenza n. 21 del 2005, in
cui la Corte ha giudicato che la previsione di aliquote dell’imposta regionale
sulle attività produttive (IRAP) differenziate per settori produttivi e per
tipologie di soggetti passivi fosse sorretta da non irragionevoli motivi di
politica economica e redistributiva, individuati principalmente nell’esigenza
di neutralizzare tanto il maggiore impatto del nuovo tributo sui settori
agricolo e della piccola pesca, quanto il minore impatto del medesimo sui
settori bancario, finanziario e assicurativo, i quali, non ingiustificatamente,
sono stati assoggettati ad una maggiore aliquota.
6.4.– Alla luce dei
principi affermati nella giurisprudenza costituzionale – che, come si è visto,
non impongono un’uniformità di tassazione e, tuttavia, vietano le
differenziazioni ingiustificate, arbitrarie, irragionevoli o sproporzionate – è
appena il caso di aggiungere che non si può escludere che le peculiarità del
settore petrolifero si prestino, in linea teorica, a legittimare uno speciale
regime tributario. Come si evince dalle istruttorie e dalle indagini
conoscitive dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, svariati
indizi economici segnalano che si tratta di un ambito caratterizzato da una
scarsa competizione fra le imprese. D’altra parte, lo stampo oligopolistico del
settore, popolato da pochi soggetti che spesso operano in tutte le fasi della
filiera – dalla ricerca, alla coltivazione, fino alla raffinazione del petrolio
e alla distribuzione dei carburanti – unitamente agli elevati costi e alle
difficoltà di realizzazione delle infrastrutture, rende particolarmente arduo
l’ingresso di nuovi concorrenti che intendano operare su vasta scala. Inoltre,
nel settore petrolifero ed energetico, le ordinarie dinamiche di mercato
faticano ad esplicarsi, anche perché l’aumento dei prezzi difficilmente può
essere contrastato da una corrispondente contrazione della domanda che, in
questi ambiti, risulta anelastica. In sintesi, non è del tutto implausibile
ritenere che questo settore di mercato possa essere caratterizzato da una
redditività, dovuta a rendite di posizione, sensibilmente maggiore rispetto ad
altri settori, così da poter astrattamente giustificare, specie in presenza di
esigenze finanziarie eccezionali dello Stato, un trattamento fiscale ad hoc.
6.5.– Tutto ciò
premesso, occorre rimarcare che la possibilità di imposizioni differenziate
deve pur sempre ancorarsi a una adeguata giustificazione obiettiva, la quale deve
essere coerentemente, proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella
struttura dell’imposta (sentenze n. 142 del 2014 e n. 21 del 2005).
Nella specie l’art. 81,
comma 16, ha previsto, «[i]n dipendenza dell’andamento dell’economia e
dell’impatto sociale dell’aumento dei prezzi e delle tariffe del settore
energetico», una «addizionale» del 5,5 per cento (poi innalzata al 6,5 per
cento) dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle società per chi operi nel
predetto settore e abbia conseguito un ricavo superiore a un determinato
ammontare, la cui entità è andata progressivamente diminuendo, così da
allargare in modo significativo il novero degli operatori assoggettati alla
maggiorazione di imposta, secondo una linea di tendenza solo marginalmente
compensata dalla introduzione di altra soglia, questa volta riferita al reddito
imponibile.
I presupposti di fatto,
addotti dal legislatore nell’art. 81, comma 16, per inasprire il carico fiscale
delle società del settore, consistono, da un lato, nella grave crisi economica
deflagrata proprio in quel periodo e nella correlata insostenibilità, specie
per le fasce più deboli, dei prezzi dei prodotti di consumo primario; d’altro
lato, nel contemporaneo eccezionale rialzo del prezzo del greggio al barile,
verificatosi proprio nel medesimo volger di tempo, che, nella prospettiva del
legislatore, è parso idoneo ad incrementare sensibilmente i margini di profitto
da parte degli operatori dei settori interessati e a incentivare condotte di
mercato opportunistiche o speculative.
La complessa congiuntura
economica così ricostruita dal legislatore che vi ha ravvisato spinte
contraddittorie, costituite dall’insostenibilità dei prezzi per gli utenti e
dalla eccezionale redditività dell’attività economica per gli operatori del petrolio,
ben potrebbe essere considerata in astratto, alla luce della richiamata
giurisprudenza di questa Corte, un elemento idoneo a giustificare un prelievo
differenziato che colpisca gli eventuali “sovra-profitti” congiunturali, anche
di origine speculativa, del settore energetico e petrolifero.
Così interpretato, lo
scopo perseguito dal legislatore appare senz’altro legittimo.
Occorre allora
verificare se i mezzi approntati siano idonei e necessari a conseguirlo.
Infatti, affinché il sacrificio recato ai principi di eguaglianza e di capacità
contributiva non sia sproporzionato e la differenziazione dell’imposta non
degradi in arbitraria discriminazione, la sua struttura deve coerentemente
raccordarsi con la relativa ratio giustificatrice. Se, come nel caso in esame,
il presupposto economico che il legislatore intende colpire è la eccezionale
redditività dell’attività svolta in un settore che presenta caratteristiche
privilegiate in un dato momento congiunturale, tale circostanza dovrebbe
necessariamente riflettersi sulla struttura dell’imposizione.
6.5.1.– Ciò non è
avvenuto nella specie, posto che il legislatore, con l’art. 81, commi 16, 17 e
18, del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, ha previsto una
maggiorazione d’aliquota di una imposizione, qual è l’IRES, che colpisce
l’intero reddito dell’impresa, mancando del tutto la predisposizione di un
meccanismo che consenta di tassare separatamente e più severamente solo
l’eventuale parte di reddito suppletivo connessa alla posizione privilegiata dell’attività
esercitata dal contribuente al permanere di una data congiuntura.
Infatti, al di là della
denominazione di «addizionale», la predetta imposizione costituisce una
“maggiorazione d’aliquota” dell’IRES, applicabile ai medesimi presupposto e
imponibile di quest’ultima e non, come è avvenuto in altri ordinamenti, come
un’imposta sulla redditività.
6.5.2.– A questa prima
incongruenza dell’imposizione censurata, se ne aggiunge un’altra ancor più
grave relativa alla proiezione temporale dell’«addizionale». Infatti, la
richiamata giurisprudenza di questa Corte è costante nel giustificare
temporanei interventi impositivi differenziati, vòlti a richiedere un
particolare contributo solidaristico a soggetti privilegiati, in circostanze
eccezionali.
Orbene, a differenza
delle ipotesi appena ricordate, le disposizioni censurate nascono e permangono
nell’ordinamento senza essere contenute in un arco temporale predeterminato, né
il legislatore ha provveduto a corredarle di strumenti atti a verificare il
perdurare della congiuntura posta a giustificazione della più severa
imposizione. Con l’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del 2008, e
successive modificazioni, per fronteggiare una congiuntura economica
eccezionale si è invece stabilita una imposizione strutturale, da applicarsi a
partire dal periodo di imposta 2008, senza limiti di tempo.
Si riscontra, pertanto,
un conflitto logico interno alle disposizioni impugnate, le quali, da un lato,
intendono ancorare la maggiorazione di aliquota al permanere di una determinata
situazione di fatto e, dall’altro, configurano un prelievo strutturale destinato
ad operare ben oltre l’orizzonte temporale della peculiare congiuntura.
6.5.3.– Un ulteriore
profilo di inadeguatezza e irragionevolezza è connesso alla inidoneità della
manovra tributaria in giudizio a conseguire le finalità solidaristiche che intende
esplicitamente perseguire.
Uno degli obiettivi
dichiarati delle disposizioni impugnate, infatti, è quello di attenuare
«l’impatto sociale dell’aumento dei prezzi e delle tariffe del settore
energetico» (art. 81, comma 16). Coerentemente con tale finalità, il comma 18
prevede un divieto di traslazione degli oneri dovuti all’aumento d’aliquota sui
prezzi al consumo. In tal modo, il legislatore ha inteso evitare che
l’inasprimento fiscale diretto verso operatori economici ritenuti avvantaggiati
finisca, con un effetto paradossale, per ricadere sui consumatori, cioè proprio
su quei soggetti che avrebbero dovuto beneficiare della manovra tributaria in
esame, improntata a uno spirito di solidarietà, in chiave redistributiva. Ora
il divieto di traslazione degli oneri sui prezzi al consumo, così come
delineato nel comma 18, non è in grado di evitare che l’«addizionale» sia
scaricata a valle, dall’uno all’altro dei contribuenti che compongono la
filiera petrolifera per poi essere, in definitiva, sopportata dai consumatori
sotto forma di maggiorazione dei prezzi. Senza entrare qui nel merito dei
profili di ingiustificata discriminazione intra-settoriale tra diversi soggetti
della “filiera” petrolifera sollevati nell’ordinanza di rimessione, la
disposizione appare irrazionale per inidoneità a conseguire il suo scopo.
Il divieto di
traslazione degli oneri sui prezzi al consumo risulta difficilmente
assoggettabile a controlli efficaci, atti a garantire che non sia eluso.
Vero è che la
disposizione ha affidato alla Autorità per l’energia elettrica, il gas e il
sistema idrico un potere di vigilanza «sulla puntuale osservanza» del divieto
di traslazione. Tuttavia, come è congegnato nella normativa in questione, tale
meccanismo pare difficilmente attuabile e in ogni caso facilmente vulnerabile,
se è vero, come si legge nelle relazioni della medesima Autorità preposta al
controllo, che le analisi svolte hanno «mostrato che una parte dei soggetti
vigilati ha continuato ad attuare politiche di prezzo tali da costituire una possibile
violazione del divieto di traslazione, comportando comunque uno svantaggio
economico per i consumatori finali» (Relazione al Parlamento n. 18/2013/I/Rht
sull’attività di vigilanza svolta nell’anno 2012 dall’Autorità per l’energia
elettrica, il gas e il sistema idrico). Elementi indiziari tratti dalle
politiche dei prezzi adottati dai soggetti vigilati, «che generano un
incremento dei margini non sufficientemente motivato» (Relazione al Parlamento
sopra citata) alimentano il dubbio che il divieto di traslazione sui prezzi non
sia stato in fatto osservato, né possa essere puntualmente sanzionato a causa
della obiettiva difficoltà di isolare, in un’economia di libero mercato, la
parte di prezzo praticato dovuta a traslazioni dell’imposta. Da qui il contenzioso
amministrativo che ha di fatto paralizzato le iniziative assunte in tal senso
dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico.
6.5.4.– In definitiva,
il vizio di irragionevolezza è evidenziato dalla configurazione del tributo in
esame come maggiorazione di aliquota che si applica all’intero reddito di
impresa, anziché ai soli “sovra-profitti”; dall’assenza di una delimitazione
del suo ambito di applicazione in prospettiva temporale o di meccanismi atti a
verificare il perdurare della congiuntura economica che ne giustifica
l’applicazione; dall’impossibilità di prevedere meccanismi di accertamento
idonei a garantire che gli oneri derivanti dall’incremento di imposta non si
traducano in aumenti del prezzo al consumo.
Per tutti questi motivi,
la maggiorazione dell’IRES applicabile al settore petrolifero e dell’energia,
così come configurata dall’art. 81, commi, 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del
2008, e successive modificazioni, viola gli artt. 3 e 53 Cost., sotto il
profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, per incongruità dei mezzi
approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo,
perseguito.
7.– Nel pronunciare
l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, questa Corte non
può non tenere in debita considerazione l’impatto che una tale pronuncia
determina su altri principi costituzionali, al fine di valutare l’eventuale
necessità di una graduazione degli effetti temporali della propria decisione
sui rapporti pendenti.
Il ruolo affidato a questa
Corte come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare
che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di
legge determini, paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili con la
Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare
la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte
modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da
scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il
sacrificio di un altro.
Questa Corte ha già
chiarito (sentenze n. 49 del 1970, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966) che
l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è (e non
può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte;
esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Anzitutto è pacifico che
l’efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di
travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i
«rapporti esauriti». Diversamente ne risulterebbe compromessa la certezza dei
rapporti giuridici (sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e
n. 127 del 1966). Pertanto, il principio della retroattività «vale […] soltanto
per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti,
i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139
del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi casi,
l’individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla
specifica disciplina di settore – relativa, ad esempio, ai termini di
decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi – che
precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell’ambito
dell’ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune
(principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n. 49
del 1970).
Inoltre, come il limite
dei «rapporti esauriti» ha origine nell’esigenza di tutelare il principio della
certezza del diritto, così ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni
di illegittimità costituzionale possono derivare dalla necessità di
salvaguardare principi o diritti di rango costituzionale che altrimenti
risulterebbero irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro
individuazione è ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango
costituzionale ed è, quindi, la Corte costituzionale – e solo essa – ad avere
la competenza in proposito.
Una simile graduazione
degli effetti temporali delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale
deve ritenersi coerente con i principi della Carta costituzionale: in tal senso
questa Corte ha operato anche in passato, in alcune circostanze sia pure non
del tutto sovrapponibili a quella in esame (sentenze n. 423 e n. 13 del 2004,
n. 370 del 2003, n. 416 del 1992, n. 124 del 1991, n. 50 del 1989, n. 501 e n.
266 del 1988).
Il compito istituzionale
affidato a questa Corte richiede che la Costituzione sia garantita come un tutto
unitario, in modo da assicurare «una tutela sistemica e non frazionata»
(sentenza n. 264 del 2012) di tutti i diritti e i principi coinvolti nella
decisione. «Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno
dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni
giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette»: per questo la Corte
opera normalmente un ragionevole bilanciamento dei valori coinvolti nella
normativa sottoposta al suo esame, dal momento che «[l]a Costituzione italiana,
come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un
continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza
pretese di assolutezza per nessuno di essi» (sentenza n. 85 del 2013).
Sono proprio le esigenze
dettate dal ragionevole bilanciamento tra i diritti e i principi coinvolti a
determinare la scelta della tecnica decisoria usata dalla Corte: così come la
decisione di illegittimità costituzionale può essere circoscritta solo ad alcuni
aspetti della disposizione sottoposta a giudizio – come avviene ad esempio
nelle pronunce manipolative – similmente la modulazione dell’intervento della
Corte può riguardare la dimensione temporale della normativa impugnata,
limitando gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale sul
piano del tempo.
Del resto, la
comparazione con altre Corti costituzionali europee – quali ad esempio quelle
austriaca, tedesca, spagnola e portoghese – mostra che il contenimento degli
effetti retroattivi delle decisioni di illegittimità costituzionale rappresenta
una prassi diffusa, anche nei giudizi in via incidentale, indipendentemente dal
fatto che la Costituzione o il legislatore abbiano esplicitamente conferito
tali poteri al giudice delle leggi.
Una simile regolazione
degli effetti temporali deve ritenersi consentita anche nel sistema italiano di
giustizia costituzionale.
Essa non risulta
inconciliabile con il rispetto del requisito della rilevanza, proprio del
giudizio incidentale (sentenza n. 50 del 1989). Va ricordato in proposito che
tale requisito opera soltanto nei confronti del giudice a quo ai fini della
prospettabilità della questione, ma non anche nei confronti della Corte ad quem
al fine della decisione sulla medesima. In questa chiave, si spiega come mai,
di norma, la Corte costituzionale svolga un controllo di mera plausibilità
sulla motivazione contenuta, in punto di rilevanza, nell’ordinanza di
rimessione, comunque effettuato con esclusivo riferimento al momento e al modo
in cui la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata. In questa
prospettiva si spiega, ad esempio, quell’orientamento giurisprudenziale che ha
riconosciuto la sindacabilità costituzionale delle norme penali di favore anche
nelle ipotesi in cui la pronuncia di accoglimento si rifletta soltanto «sullo
schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio
decidendi […], pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148
del 1983, ripresa sul punto dalla sentenza n. 28 del 2010).
Né si può dimenticare
che, in virtù della declaratoria di illegittimità costituzionale, gli interessi
della parte ricorrente trovano comunque una parziale soddisfazione nella
rimozione, sia pure solo pro futuro, della disposizione costituzionalmente illegittima.
Naturalmente,
considerato il principio generale della retroattività risultante dagli artt.
136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953, gli interventi di questa Corte che
regolano gli effetti temporali della decisione devono essere vagliati alla luce
del principio di stretta proporzionalità. Essi debbono, pertanto, essere
rigorosamente subordinati alla sussistenza di due chiari presupposti:
l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali i quali,
altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di
mero accoglimento e la circostanza che la compressione degli effetti
retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il
contemperamento dei valori in gioco.
8.– Ciò chiarito in
ordine al potere della Corte di regolare gli effetti delle proprie decisioni e
ai relativi limiti, deve osservarsi che, nella specie, l’applicazione
retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale
determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai
sensi dell’art. 81 Cost.
Come questa Corte ha
affermato già con la sentenza n. 260 del 1990, tale principio esige una
gradualità nell’attuazione dei valori costituzionali che imponga rilevanti
oneri a carico del bilancio statale. Ciò vale a fortiori dopo l’entrata in
vigore della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del
principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), che ha
riaffermato il necessario rispetto dei principi di equilibrio del bilancio e di
sostenibilità del debito pubblico (sentenza n. 88 del 2014).
L’impatto macroeconomico
delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112
del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio
del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una
manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei
parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e
internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle
previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale
entrata è stata considerata a regime.
Pertanto, le conseguenze
complessive della rimozione con effetto retroattivo della normativa impugnata
finirebbero per richiedere, in un periodo di perdurante crisi economica e
finanziaria che pesa sulle fasce più deboli, una irragionevole redistribuzione
della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere
invece beneficiato di una congiuntura favorevole. Si determinerebbe così un
irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave
violazione degli artt. 2 e 3 Cost.
Inoltre, l’indebito
vantaggio che alcuni operatori economici del settore potrebbero conseguire – in
ragione dell’applicazione retroattiva della decisione della Corte in una
situazione caratterizzata dalla impossibilità di distinguere ed esonerare dalla
restituzione coloro che hanno traslato gli oneri – determinerebbe una ulteriore
irragionevole disparità di trattamento, questa volta tra i diversi soggetti che
operano nell’ambito dello stesso settore petrolifero, con conseguente
pregiudizio anche degli artt. 3 e 53 Cost.
La cessazione degli
effetti delle norme dichiarate illegittime dal solo giorno della pubblicazione
della presente decisione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica risulta,
quindi, costituzionalmente necessaria allo scopo di contemperare tutti i
principi e i diritti in gioco, in modo da impedire «alterazioni della
disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di
altri […] garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà,
che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel
bilanciamento con gli altri valori costituzionali» (sentenza n. 264 del 2012).
Essa consente, inoltre, al legislatore di provvedere tempestivamente al fine di
rispettare il vincolo costituzionale dell’equilibrio di bilancio, anche in
senso dinamico (sentenze n. 40 del 2014, n. 266 del 2013, n. 250 del 2013, n.
213 del 2008, n. 384 del 1991 e n. 1 del 1966), e gli obblighi comunitari e
internazionali connessi, ciò anche eventualmente rimediando ai rilevati vizi
della disciplina tributaria in esame.
In conclusione, gli
effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui sopra
devono, nella specie e per le ragioni di stretta necessità sopra esposte,
decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della presente decisione
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
9.– Devono considerarsi
assorbite le ulteriori questioni di legittimità costituzionale.
Per Questi Motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, a decorrere
dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 febbraio
2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI