AUTHORITIES:
il T.A.R. Roma avalla (con quale distinguo)
l'AGCM nelle sue pretese sanzionatorie
contro il CNF,
"reo" d'aver pubblicato sul sito istituzionale
circolari sui minimi tariffari
(T.A.R. Lazio, Sez. I,
sentenza 1 luglio 2015, n. 8778)
Credo che il giudice capitolino ben sarebbe stato ben contento d'avallare la ricostruzione del CNF volta a disconoscere la qualifica di "imprese" agli ordini forensi, con conseguente applicabilità della disciplina antitrust (art. 101 TFUE in particolare e, nel caso di specie, l'art. 21 bis della l. n. 287 /1990).
Ma l'obbligo di conformarsi alla Corte di Giustizia (v. CGUE 28 febbraio 2013, C-1/12) è ineludibile ormai ...
La materia peraltro è oggetto di sedimentata ricostruzione a Lussemburgo.
Ora senza entrare nel dibattito eterno tra "mercatisti" e "tradizionalisti" in materia di tariffe minime (rimaniamo quindi nel metodo senza andare nel merito), una cosa è certa: il vincolo conformativo comunitario va sicuramente salutato come un fattore di certezza giuridica, tanto più necessario in un sistema legale come il nostro dove, ai fisiologici problemi della pluralità delle fonti, s'aggiungono l'ipertrofia legislativa e la mancanza del precedente giurisprudenziale vincolante.
Massima
1. La nozione di “impresa”, alla quale occorre fare riferimento per l'applicazione della l. n. 287 /1990, è quella risultante dal diritto comunitario e si riferisce a tutti i soggetti che svolgono un'attività economica e, quindi, sono “attivi” in uno specifico mercato. Per questo sono ormai considerate “imprese”, ai fini specifici della tutela della libera concorrenza, anche gli esercenti le professioni intellettuali che offrono sul mercato, dietro corrispettivo, prestazioni suscettibili di valutazione economica.
2. Corollario obbligato di tale premessa è la qualificabilità, in termini di “associazioni di imprese”, degli Ordini professionali.
3. Ai fini dell’applicabilità dell’art. 101 TFUE all’Ordine professionale, quale “associazione di imprese”, non rileva neanche lo svolgimento, da parte dello stesso, di funzioni pubblicistiche e l’avere uno statuto di diritto pubblico, applicandosi tale norma “ad accordi tra imprese e a decisioni di associazioni di imprese”.
L’ambito giuridico, entro il quale ha luogo la conclusione di tali accordi e sono adottate dette decisioni nonché la definizione giuridica di questo ambito, dato dai vari ordinamenti giuridici nazionali, sono irrilevanti ai fini dell’applicazione delle regole di concorrenza dell’Unione e, in particolare, dell’art.101 TFUE
4. Con riferimento agli atti degli Ordini, poi, la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, ha più volte rilevato come occorra, nell’individuazione delle “deliberazioni”, avere riguardo ad una valutazione sostanziale, cosicché non è tanto necessaria una particolare struttura collegiale del decisum, quanto l’idoneità dello stesso a produrre effetti nei confronti degli appartenenti all’Ordine professionale.
5. Infine, quanto agli effetti dell’intesa, la giurisprudenza ha evidenziato che sono vietate non solo le intese tramite le quali le imprese fissano i prezzi a livelli puntualmente determinati o stabiliscono esattamente prezzi minimi al di sotto dei quali esse si impegnano a non vendere, ma tutte le intese che mirino o abbiano per effetto di condizionare la libera determinazione individuale del prezzo e la sua naturale flessibilità, alterando la struttura del mercato e, quindi, la concorrenza.
6. Né potrebbe appellarsi ad una presunta distinzione tra concorrenza commerciale e concorrenza professionale, che trova una netta smentita nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha recentemente riaffermato - conformemente peraltro, ad una giurisprudenza consolidata - il principio secondo cui la nozione eurounitaria di impresa include anche l’esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE.
7. Dalla riconducibilità degli Ordini professionali alle “associazioni di imprese” consegue che le deliberazioni dagli stessi adottate sono, di massima, ascrivibili a quelle descritte dall’art. 2, co. 1, l. n. 287/1990.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione
Prima)
ha
pronunciato la presente
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale n. 762/15, proposto dal Consiglio Nazionale
Forense, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e
difeso dagli avv.ti Carlo Allorio, Sandro Amorosino, Paolo Berruti, Giuseppe
Colavitti, Guido Greco, Roberto Mastroianni, Giuseppe Morbidelli, Bruno
Nascimbene e Mario Sanino, e con questi elettivamente domiciliato in Roma,
viale Parioli, n. 180, presso lo studio dell’avv. Sanino,
contro
l’Autorità
garante della concorrenza e del mercato (Agcm), in persona del legale
rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale
dello Stato presso i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è per legge
domiciliata, nonché
nei
confronti di
Nethuns
s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in
giudizio, e con
e
con l'intervento di
ad
adiuvandum:
Cassa Nazionale di previdenza ed assistenza forense, in persona del legale
rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Marcello Bella e
con questi elettivamente domiciliata presso i propri uffici legali in Roma, via
Ennio Quirino Visconti, n. 8,
del
provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità garante della concorrenza e
del mercato (Agcm) il 22 ottobre 2014..
Visti
il ricorso ed i relativi allegati;
Visto
l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della concorrenza e
del mercato (Agcm);
Visto
l’atto di intervento ad adiuvandum della Cassa Nazionale di previdenza ed
assistenza forense, depositato il 28 febbraio 2015;
Viste
le memorie prodotte dalle parti in causa costituite a sostegno delle rispettive
difese;
Visti
gli atti tutti della causa;
Relatore
alla pubblica udienza del 17 giugno 2015 il Consigliere Giulia Ferrari; uditi
altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;
Ritenuto
e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:
FATTO
1.
Con ricorso notificato in data 10 gennaio 2015 e depositato il successivo 16
gennaio il Consiglio Nazionale Forense (Cnf) ha impugnato il provvedimento
sanzionatorio adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato
(Agcm) il 22 ottobre 2014.
Espone,
in fatto, che in data 19 novembre 2012 l’Agcm gli ha inviato una richiesta di
informazioni concernenti “il nuovo tariffario forense” e la circolare n. 22 –
C/2006, pubblicati sul sito web del Cnf e nella banca dati gestita dall’Ipsoa,
raggiungibile dalla homepage del sito web Cnf attraverso un link denominato
“Tariffe”. Con nota del 27 dicembre 2012 il Cnf ha comunicato l’avvenuta
rimozione del link e la loro collocazione nella sezione relativa alla “Storia
dell’avvocatura”, precisando che la circolare era stata già rimossa dal sito in
occasione della pubblicazione della circolare n. 23/2007 di rettifica della
precedente. In effetti la circolare del 2006 era già stata oggetto di specifica
considerazione negli atti dell’indagine conoscitiva IC-34 riguardante il
settore degli ordini professionali. In detta indagine l’Agcm aveva dato atto
della revoca della circolare e della sua rimozione dal sito web. Il Cnf non è
invece responsabile per la presenza di detta circolare nella banca dati
dell’Ipsoa, gestita dalla società Wolters Kluwer Italia s.r.l..
Con
comunicazione del 28 maggio 2013 la società Nethuns s.r.l., titolare del
circuito “Amica Card”, ha segnalato all’Agcm l’adozione, da parte del Cnf, in
data 11 luglio 2012, del parere n. 48/2012, con il quale, su richiesta del
Consiglio dell’Ordine di Verbania, ha fornito l’interpretazione dell’art. 19
del Codice deontologico forense, relativo all’accaparramento della clientela,
in relazione all’offerta, da parte di un avvocato, di prestazioni professionali
mediante la piattaforma “Amica Card”.
Con
delibera del 16 luglio 2013 l’Autorità ha aperto nei confronti del ricorrente
un procedimento istruttorio (I-748), ai sensi dell’art. 14, l. 10 ottobre 1990,
n. 287. In data 21 maggio 2014, dopo l’audizione dei rappresentanti del Cnf
tenutasi il precedente 10 ottobre 2013, l’Autorità ha trasmesso al ricorrente
le risultanze istruttorie, affermando che la circolare del 2006 e la sua
pubblicazione sul sito istituzionale del Cnf insieme al tariffario forense di
cui al d.m. n. 127 del 2004 costituirebbero la decisione di un’associazione di
imprese restrittiva della concorrenza in quanto reintrodurrebbero nei fatti
l’obbligatorietà delle tariffe minime per le prestazioni professionali degli
avvocati, abolita dal legislatore. Nell’audizione finale del 9 luglio 2014 il
Cnf ha confermato le precisazioni già effettuate.
Con
l’impugnato provvedimento del 22 ottobre 2014 l’Agcm ha inflitto al Cnf la
sanzione di € 912.536,40 per asserita violazione dell’art. 101 Tfue, consistente
in un’intesa restrittiva della concorrenza dovuta all’adozione di due decisioni
volte a limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione
del proprio comportamento economico sul mercato, invitando il Cnf anche a porre
termine all’infrazione dandone adeguata comunicazione agli iscritti, ad
astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto
dell’infrazione accertata e a comunicare, entro il 28 febbraio 2015, l’adozione
delle misure richieste.
2.
Avverso i predetti provvedimenti il ricorrente è insorto deducendo:
A)
Sul potere dell’Agcm di valutare gli atti del Consiglio Nazionale Forense.
a)
Violazione art. 6 Cedu e art. 47 della Carta europea dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, in relazione agli artt. 1, 2, 6, 7, 8, 10, 14 ss., d.P.R.
n. 217 del 1998 (recante, regolamento in materia di procedure istruttorie di
competenza dell’Agcm), per violazione del principio di imparzialità e della par
condicio procedimentale – Violazione del giusto procedimento amministrativo
sanzionatorio.
La
sanzione inflitta al Cnf, vista sotto la lente della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, ha natura sostanzialmente penale, con la conseguente
necessità che ci sia separazione tra organo inquirente ed organo giudicante.
Nella specie tale separazione manca. E’ quindi illegittimo, in parte qua, il
regolamento procedure dell’Agcm, per contrasto con gli artt. 6 Cedu e 47 della
Carta europea dei diritti fondamentali.
b)
Violazione art. 21 bis, l. n. 287 del 1990 – Violazione del principio di leale
collaborazione tra pubbliche amministrazioni – Sviamento della procedura –
Violazione art. 97 Cost. – Motivazione assertoria e insufficiente.
Ove
pure si potesse intravedere nell’attività posta in essere dal Cnf con la
circolare del 2006 ed il parere n. 48 del 2012 una o più intese restrittive
della concorrenza, lo strumento previsto nel nostro ordinamento per tali
vicende è diverso ed è disciplinato dall’art. 21 bis, l. n. 287 del 1990, che
detta una speciale procedura che culmina, ove l’Amministrazione non si sia
conformata entro sessanta giorni dalla comunicazione del parere dell’Autorità,
in un ricorso proposto da quest’ultima tramite l’Avvocatura generale dello
Stato. Il Cnf è un ente pubblico non economico e dunque rientra nell’ambito di
applicazione del citato art. 21 bis. Dalla natura di ente pubblico del
Consiglio Nazionale Forense deriva che la circolare del 2006 e il parere da
esso reso nel 2012 sono ascrivibili alla categoria degli “atti amministrativi”.
c)
Violazione art. 97 Cost. e art. 3, l. n. 241 del 1990 – Eccesso di potere per
contraddittorietà estrinseca – Violazione art. 24 Direttiva 2006/123 –
Violazione art. 8, comma 2, l. n. 287 del 1990 – Violazione art. 101 Tfue –
Eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà, illogicità, carenza di
motivazione.
Illegittimamente
la disciplina antitrust è stata applicata ad una attività che è manifestazione
di poteri assegnati dalla legge al Cnf, nel perseguimento di interessi
generali. Sia la circolare del 2006 che il parere del 2012 sono stati emessi
nel quadro delle competenze in materia deontologica e disciplinare, nonché dei
compiti di indirizzo, coordinamento e collaborazione con i Consigli dell’ordine
circondariale per la “tutela dell’indipendenza e del decoro”.
B) Violazione
e falsa applicazione art. 101 Tfue.
d)
Violazione e falsa applicazione art. 101 Tfue, dell’art. 47 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea e della giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea – Violazione artt. 3, 10 e 35, l. n. 247 del 2012
– Carenza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
Il
provvedimento impugnato è illegittimo per errata applicazione del divieto di
intese restrittive di cui all’art. 101 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea. E ciò per: 1) inesatta interpretazione della portata e del
contenuto della circolare 22-C/2006 e del parere n 48/2012; 2) errata
qualificazione dei comportamenti ascritti al Cnf come restrizioni della
concorrenza “per oggetto”; 3) carenza di motivazione in ordine agli effetti
restrittivi della concorrenza prodotti dalle condotte cointestate; 4) carenza
di motivazione in ordine all’idoneità dei comportamenti del Cnf a perseguire
obiettivi d’interesse pubblico.
C)
Sulla circolare 4 settembre 2006, n. 22-C/2006.
e)
Violazione e falsa applicazione l. n. 248 del 2006 – Violazione art. 14, l. n.
689 del 1981 (termine quinquennale per la contestazione dell’infrazione) –
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare
contraddittorietà, difetto di presupposto e motivazione – Omessa considerazione
e travisamento dei fatti – Illogicità manifesta.
La
circolare del 2006 è stata nel tempo superata da atti successivi del Cnf,
correlati all’evoluzione normativa. Essa, inoltre, è stata adottata otto anni
prima del provvedimento sanzionatorio impugnato e sei anni prima dell’avvio
dell’istruttoria preliminare; ben oltre, quindi, il periodo quinquennale di
prescrizione dettato, in via generale, per tutti i procedimenti sanzionatori
dall’art. 28, l. n. 689 del 1981. Né può essere condiviso l’assunto dell’Agcm
secondo cui la circolare concretizza un illecito permanente perché ancora
presente sul sito. Aggiungasi che essendo chiaro, nella circolare incriminata,
il carattere eventuale e straordinario del prospettato potere di intervento dei
Consigli dell’Ordine in materia di compensi professionali irrisori, l’Autorità
avrebbe dovuto accertare se tali interventi si siano verificati e l’eventuale
effetto anticoncorrenziale da essi prodotto.
D)
Sul parere n. 48/2012 reso al Consiglio dell’Ordine di Verbania.
f)
Violazione e falsa applicazione l. n. 248 del 2006 – Violazione art. 24
Direttiva 2006/123 e dell’art. 10, l. n. 247 del 2012 – Eccesso di potere in
tutte le due figure sintomatiche ed in particolare contraddittorietà,
travisamento, difetto di istruttoria, difetto di presupposto e motivazione.
Illegittimamente
l’Agcm ha ritenuto che il parere n. 48 del 2012 ha un oggetto
anticoncorrenziale ai sensi dell’art. 101 del Tfue e che il divieto
ingiustificato all’impiego di uno strumento di diffusione delle informazioni
pubblicitarie, di per sè rilevante ai fini antitrust, nel caso di specie
risulti finalizzato a limitare l’intensificarsi della concorrenza di prezzo tra
professionisti.
g)
Violazione artt. 6 e 7 della Cedu – Violazione dei diritto di difesa –
Prescrizione del potere sanzionatorio – Violazione del principio di legalità,
sub specie violazione dei principi della prevedibilità e della pubblicità della
sanzione – Violazione art. 23, par. 2, primo cpv, del Regolamento n. 1 del 2003
e dell’art. 15, l. n. 287 del 1990.
Anche
l’ammontare della sanzione inflitta al Cnf è illegittimo. L’Agcm ha infatti
erroneamente qualificato il comportamento del Cnf come espressione di una
strategia unica, e ciò ha consentito di rinvenire una “infrazione unica e
continuata” e, quindi, di prendere in considerazione, ai fini della
quantificazione della sanzione, l’intero arco temporale che va dal 18 febbraio
2008 (momento in cui, a parere dell’Agcm, l’intesa ha avuto inizio con la
ripubblicazione della circolare del 2006) ad oggi in quanto, seppure la
circolare è stata eliminata anche come storico dal sito del Cnf, il parere n.
48/2012 non è stato formalmente revocato.
h)
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche: in particolare
illogicità, travisamento dei fatti, carenza di motivazione, non proporzionalità
della sanzione.
L’Agcm
non ha tenuto conto, ai fini della gravità, della mancanza di effetti da parte
della asserita condotta anticompetitiva. Aggiungasi che l’Autorità ha ravvisato
la gravità facendo leva sul periodo di vigenza della circolare, che invece ha
avuto effetti per soli 6 mesi.
3.
Si è costituita in giudizio l’Autorità garante della concorrenza e del mercato
(Agcm), che ha sostenuto l’infondatezza, nel merito, del ricorso.
4.
La Nethuns s.r.l. non si è costituita in giudizio.
5.
Si è costituita in giudizio, con atto di intervento ad adiuvandum, notificato
il 16 febbraio 2015 e depositato il successivo 28 febbraio, la Cassa nazionale
di previdenza ed assistenza forense, che ha sostenuto l’illegittimità del
provvedimento sanzionatorio impugnato dal Consiglio Nazionale Forense con
riferimento alla parte relativa alla configurazione di un’intesa nella
ripubblicazione della circolare n. 22 del 2006.
6.
Alla Camera di consiglio del 25 febbraio 2015, sull’accordo delle parti,
l’esame dell’istanza di sospensione cautelare è stato abbinato al merito.
7.
All’udienza del 17 giugno 2015 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.
Oggetto del contendere è il provvedimento del 22 ottobre 2014 con il quale
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) ha inflitto al
Consiglio Nazionale Forense (Cnf) la sanzione di € 912.536,40 per asserita
violazione dell’art. 101 Tfue, per un unico comportamento anticoncorrenziale
esplicato mediante due decisioni volte a limitare, direttamente e
indirettamente, l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del
proprio comportamento economico sul mercato. Con detto provvedimento l’Agcm ha
anche invitato il Cnf a porre termine all’infrazione, dandone adeguata
comunicazione agli iscritti, e ad astenersi in futuro dal porre in essere
comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata nonchè a
comunicare, entro il 28 febbraio 2015, l’adozione delle misure richieste.
Il
riferimento è innanzi tutto alla circolare 22-C/200 pubblicata - a guisa di
premessa unitamente alle tariffe ministeriali approvate con d.m. 8 aprile 2004,
n. 127 (Regolamento recante determinazione degli onorari, dei diritti e delle
indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali, in materia
civile, amministrativa, tributaria, penale e stragiudiziali) ed al successivo
d.m. 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei
parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei
compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della
giustizia, ai sensi dell'articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1,
convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27) - nella banca
dati gestita dall’Ipsoa, raggiungibile dalla homepage del sito istituzionale
internet del Cnf (dal febbraio 2008 all’ottobre 2013), e nello stesso sito del
Cnf (dal luglio 2009 al novembre 2012), che reintrodurrebbe di fatto le tariffe
minime, non più obbligatorie a seguito della riforma Bersani (art. 2, d.l. 4
luglio 2006, n.223) e definitivamente eliminate con l’abrogazione generalizzata
delle tariffe professionali disposta dall’art. 9, commi 1 e 4, d.l. 24 gennaio
2012, n. 1. La circolare afferma, infatti, che gli avvocati, che dovessero
richiedere compensi inferiori ai minimi tariffari, commetterebbero violazioni
delle norme deontologiche, esponendosi in tal modo a sanzioni disciplinari da
parte degli organi competenti.
L’Agcm
ha rilevato poi altra esplicazione del comportamento anticoncorrenziale nel
parere n. 48 dell’11 luglio 2012, reso dal Cnf in risposta ad una richiesta del
Consiglio dell’Ordine di Verbania sulla compatibilità con l’art. 19 del Codice
deontologico dell’offerta, da parte di un avvocato, di prestazioni
professionali scontate mediante siti web. A suo avviso il suddetto parere
introdurrebbe una restrizione della concorrenza tra i professionisti sottoposti
alla vigilanza del Consiglio Nazionale Forense, impedendo loro di utilizzare
determinate piattaforme digitali per pubblicizzare i propri servizi
professionali, anche con riguardo alla componente economica degli stessi.
Il
Cnf ha nella specie ritenuto che il gestore del sito web “Amica Card” si
porrebbe, a titolo oneroso, come soggetto interposto tra l’avvocato e il
cliente per garantire al primo il procacciamento di clienti, attratti da
promesse di sconto senza aver prima preso concreta cognizione della
professionalità dell’avvocato.
Con
il lungo ed articolato ricorso sono dedotti cinque profili di doglianza:
il
primo (dal primo al terzo motivo), volto a contestare il potere dell’Agcm di
valutare gli atti del Consiglio Nazionale Forense, sia in relazione all’iter
procedimentale seguito che alla natura e al contenuto delle decisioni
incriminate;
il
secondo (quarto motivo), con il quale si censura la violazione e falsa
applicazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea;
il
terzo e quarto (quinto e sesto motivo) tesi a dimostrare che entrambe le
decisioni contestate (id est, la circolare ed il parere) non si sostanziano in
una restrizione della concorrenza;
il
quinto (settimo e ottavo motivo) volto a contestare il quantum della sanzione
comminata.
2.
Ritiene il Collegio di dover esaminare prioritariamente, per ragioni di ordine
logico-giuridico, il secondo motivo, con il quale il Cnf afferma che, ove pure
le decisioni contestate concretizzassero intese restrittive della concorrenza,
la procedura eventualmente applicabile era quella dettata dall’art. 21 bis, l.
10 ottobre 1990, n. 287, stante la natura di “pubblica amministrazione”
rivestita dal Cnf e non, come assume l’Agcm nel provvedimento impugnato, di
“associazioni di imprese”.
Il
motivo non è suscettibile di positiva valutazione, assumendo come fondamento
del suo argomentare un presupposto che trova smentita nella ormai consolidata
giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia 18 luglio 2013, C-136/12) e del
giudice amministrativo nazionale (Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238;
Tar Lazio, sez. I, 1 aprile 2015, n. 4943; id.16 febbraio 2015, n. 2688).
Giova
premettere che l’art. 2, l. 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della
concorrenza e del mercato) ha disposto che “Sono considerate intese gli accordi
e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se
adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi,
associazioni di imprese ed altri organismi similari. Sono vietate le intese tra
imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o
falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del
mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività
consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o
di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; b) impedire o limitare la
produzione, gli sbocchi, o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo
sviluppo tecnico o il progresso tecnologico; c) ripartire i mercati o le fonti
di approvvigionamento; d) applicare, nei rapporti commerciali con altri
contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così
da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; e)
subordinare la conclusione di contratti all'accettazione, da parte degli altri
contraenti, di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi
commerciali, non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi”.
Richiamando
principi espressi da ultimo dalla Sezione (16 febbraio 2015, n. 2688), in
dichiarata adesione ad arresti più o meno recenti del giudice amministrativo,
va premesso che la nozione di “impresa”, alla quale occorre fare riferimento
per l'applicazione della l. n. 287 del 1990, è quella risultante dal diritto
comunitario e si riferisce a tutti i soggetti che svolgono un'attività
economica e, quindi, sono “attivi” in uno specifico mercato. Per questo sono
ormai considerate “imprese”, ai fini specifici della tutela della libera
concorrenza, anche gli esercenti le professioni intellettuali che offrono sul
mercato, dietro corrispettivo, prestazioni suscettibili di valutazione
economica (Tar Lazio, sez. I, 11 giugno 2014, n. 8349; id. 25 febbraio 2011, n.
1757; id. 17 maggio 2006, n. 3543 e 3 settembre 2004, n. 8368).
Corollario
obbligato di tale premessa è la qualificabilità, in termini di “associazioni di
imprese”, degli Ordini professionali (Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n.
238; Tar Lazio, sez. I, 11 giugno 2014, n. 8349; Cons. St., sez. VI, 9 marzo
2007, n. 1099, Tar Lazio, sez. I, 11 marzo 2005, n. 1809),
Ai
fini dell’applicabilità dell’art. 101 Tfue all’Ordine professionale, quale
“associazione di imprese”, non rileva neanche lo svolgimento, da parte dello
stesso, di funzioni pubblicistiche e l’avere uno statuto di diritto pubblico,
applicandosi tale norma “ad accordi tra imprese e a decisioni di associazioni
di imprese”. L’ambito giuridico, entro il quale ha luogo la conclusione di tali
accordi e sono adottate dette decisioni nonché la definizione giuridica di
questo ambito, dato dai vari ordinamenti giuridici nazionali, sono irrilevanti
ai fini dell’applicazione delle regole di concorrenza dell’Unione e, in
particolare, dell’art.101 Tfue (Corte giust. comm. ue. 28 febbraio 2013,
C-1/12).
Con
riferimento agli atti degli Ordini, poi, la giurisprudenza, comunitaria e
nazionale, ha più volte rilevato come occorra, nell’individuazione delle
“deliberazioni”, avere riguardo ad una valutazione sostanziale, cosicché non è
tanto necessaria una particolare struttura collegiale del decisum, quanto
l’idoneità dello stesso a produrre effetti nei confronti degli appartenenti
all’Ordine professionale (Tar Lazio, sez. I, 9 febbraio 2011, n. 1757 e Cons.
St., sez. VI, 29 settembre 2009, n. 5864).
Infine,
quanto agli effetti dell’intesa, la giurisprudenza ha evidenziato che sono
vietate non solo le intese tramite le quali le imprese fissano i prezzi a
livelli puntualmente determinati o stabiliscono esattamente prezzi minimi al di
sotto dei quali esse si impegnano a non vendere, ma tutte le intese che mirino
o abbiano per effetto di condizionare la libera determinazione individuale del
prezzo e la sua naturale flessibilità, alterando la struttura del mercato e,
quindi, la concorrenza (Cons. St., sez. VI, 23 maggio 2012, n. 3026).
Né
potrebbe appellarsi ad una presunta distinzione tra concorrenza commerciale e
concorrenza professionale, che trova una netta smentita nella giurisprudenza
della Corte di giustizia (18 luglio 2013, C-136/12), che ha recentemente
riaffermato - conformemente peraltro, ad una giurisprudenza consolidata - il
principio secondo cui la nozione eurounitaria di impresa include anche
l’esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il
relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di
un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 Tfue (Tar Lazio, sez. I, 1
aprile 2015, n. 4943).
Dalla
riconducibilità degli Ordini professionali alle “associazioni di imprese”
consegue che le deliberazioni dagli stessi adottate sono, di massima,
ascrivibili a quelle descritte dall’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 287 del 1990
(Tar Lazio, sez. I, 1 aprile 2015, n. 4943).
Tale
conclusione si estende alla circolare 22-C/2006 ed al parere n. 48 del 2012,
entrambi adottati dal Cnf per disciplinare aspetti economici (e concorrenziali)
dell’attività professionale svolta dagli avvocati e non, invece, nell’esercizio
di una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà né di prerogative
tipiche dei pubblici poteri (Corte giust. comm. ue 18 luglio 2013, C-136/12).
Contrariamente
a quanto assume parte ricorrente nella memoria depositata il 13 maggio 2015,
tale conclusione “non confonde il merito della questione con l'iter procedurale
diretto alla sua delibazione”. Il contenuto della circolare e del parere è un
aspetto fattuale indubbio; altro è, invece, il connotato che tale contenuto
assume, anticoncorrenziale o meno, e questo sì, giustamente, è questione di
merito.
3.
Le argomentazioni sopra esposte, alle quali si rinvia ai sensi dell’art. 3
c.p.a., conducono alla reiezione anche del terzo motivo di ricorso, stante il
contenuto proprio delle due decisioni incriminate, che attiene all’aspetto
economico della professione svolta dagli avvocati, sub specie di applicabilità
dei minimi tariffari e di possibilità di pubblicizzare, avvalendosi di
piattaforme digitali, gli sconti che singoli professionisti effettuano sul
compenso che dovrebbero richiedere per la prestazione da rendere.
Nel
rinviare a quanto sarà di seguito chiarito dal Collegio, nell’esaminare gli
specifici motivi dedotti in relazione all’effettiva portata anticoncorrenziale
delle due predette decisioni, deve in questa sede solo essere richiamato il
principio secondo cui il fine di tutelare il consumatore, assicurandogli una
prestazione di qualità che potrebbe essere compromessa dalla richiesta di
corrispettivi eccessivamente esigui, viene adeguatamente perseguito dall’ordinamento
nazionale tramite strumenti, che trovano il loro principale ambito di
applicazione nella disciplina del singolo rapporto tra professionista e
cliente, e si traducono nella previsione di rimedi civilistici, la cui piena
operatività non richiede l’attribuzione di alcun potere di vigilanza all’Ordine
professionale (Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238).
4.
Con il primo motivo si deduce l’illegittimità del Regolamento dell’Agcm,
approvato con d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217, per contrasto con gli artt. 6 Cedu
e 47 della Carta europea dei diritti fondamentali, nella parte in cui concentra
sullo stesso Organo, il Collegio, la fase inquirente e quella decidente, con
conseguente mancanza del requisito dell’imparzialità sia soggettiva che
oggettiva, presupposto questo imprescindibile per i procedimenti che si
concludono con una sanzione di natura penale, quale è quella inflitta
dall’Agcm.
Priva
di pregio è l’eccezione di inammissibilità di tale motivo, sollevata dall’Agcm
con la memoria depositata il 30 maggio 2015 sul rilievo che non sarebbe stato
dimostrato l’interesse immediato e diretto, leso dall’impugnato regolamento.
Rileva infatti il Collegio che nella prospettazione di parte ricorrente la
lesione deriva dall’applicazione di una disciplina procedimentale priva del
connotato dell’imparzialità, con la conseguenza che l’atto terminale del
procedimento - id est l’affermazione della configurabilità di una condotta
anticoncorrenziale da parte del Cnf e la sanzione allo stesso comminata –
questo si indubbiamente lesivo della sfera giuridica del ricorrente, sarebbe
illegittimo perché adottato a conclusione di procedimento ex se viziato.
Peraltro
il motivo, seppure ammissibile, non è suscettibile di positiva valutazione.
Inconferenti
risultano i richiami operati dall’Agcm, nella memoria depositata il 30 maggio
2015, ad una lontana sentenza del giudice amministrativo (Cons. St., sez. VI,
n. 7265 del 2003), che ha affermato come “la disciplina dettata dal d.P.R. n.
217 del 1998 sia rispettosa del principio del contraddittorio”, atteso che nel
gravame in esame il vizio denunciato da parte ricorrente si riflette nella
mancanza dei connotati di imparzialità ed obiettività in capo all’organo
decidente, coincidendo questo con quello inquirente, e non in una carenza, nel
procedimento sanzionatorio, della fase partecipativa e della tutela del diritto
di difesa.
Al
fine del decidere occorre invece anche questa volta richiamare quanto già
chiarito, in un recente arresto, dalla Sezione.
Ha
ricordato il Tar (1 aprile 2015, n. 4943) che la consolidata giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo, pur accogliendo una nozione molto
ampia di illecito penale, afferma comunque che la conformità con l’art. 6 Cedu
non viene meno qualora, in un procedimento di natura amministrativa, una pena
sia inflitta da un’autorità amministrativa, purché la decisione di questa “che
non soddisfi le condizioni di cui all’art. 6, § 1, debba subire un controllo a
posteriori da un organo giudiziario avente giurisdizione piena”: invero “la natura
di un procedimento amministrativo può differire, sotto diversi aspetti, dalla
natura di un procedimento penale nel senso stretto della parola”, e se tali
differenze non possono esonerare gli Stati contraenti dal loro obbligo di
rispettare tutte le garanzie offerte dall’art. 6, possono tuttavia influenzare
le modalità della loro applicazione.
Nel
caso di specie il Consiglio Nazionale Forense ha avuto la possibilità di
impugnare la sanzione amministrativa in questione dinanzi al Tar, che emetterà
una decisione appellabile innanzi al Consiglio di Stato e “tali organi
soddisfano i requisiti di indipendenza e di imparzialità del ‘giudice’ di cui
all’art. 6 della Convenzione” ed esercitano in materia una piena giurisdizione.
In
conclusione, insomma, secondo la vincolante interpretazione della Corte di
Strasburgo, non si può ipotizzare un contrasto tra l’art. 6 della Convenzione e
l’ordinamento nazionale ove quest’ultimo comunque stabilisca una tutela
giurisdizionale rispettosa dei principi fissati dal ripetuto art. 6, come si
verifica, appunto, per le sanzioni in materia di concorrenza. Tutela che la
stessa Corte Edu (27 settembre 2011, C. Menarini c. Italia) ha ritenuto
estensibile (e, nella specie sottoposta al suo esame, estesa) al merito,
sostanziandosi in un “controllo a posteriori da parte di un giudice avente
giurisdizione estesa al merito; pertanto nessuna violazione dell'art. 6 § 1
della Convenzione può essere rilevata”.
Tali
argomentazioni rendono evidente come non risulti violato, dalla disciplina impugnata,
neanche l’art. 47 della Carta diritti fondamentali ue.
Giova
aggiungere che la disciplina dettata dal Regolamento per lo svolgimento del
procedimento, che concentra la pressocchè totalità dello stesso in capo al
Collegio, non è in ogni caso ex se sintomo di carenza di obiettività. E la
fattispecie all’esame del Collegio ne è la prova. Dal provvedimento impugnato
(parr. 104 e 105) risulta che inizialmente erano state contestate al Consiglio
Nazionale Forense due distinte intese ma che il Collegio ha poi ritenuto che,
“alla luce del contesto fattuale e normativo nel quale si iscrivono, le
decisioni poste in essere dal Cnf manifestino un comune obiettivo
anticoncorrenziale, consistente nel limitare l’autonomia dei professionisti
rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato,
segnatamente con riferimento alle condizioni economiche dell’offerta dei
servizi professionali”. “Pertanto, in parziale difformità dalla valutazione
oggettiva dagli Uffici nella Comunicazione delle Risultanze Istruttorie, le
decisioni di cui alla circolare n. 22-C/2006 e al parere n. 48 del 2012
costituiscono un’intesa unica e continuata dell’art. 101 Tfue” (par. 107).
5.
Passando all’esame dei motivi che coinvolgono il merito del provvedimento,
ritiene il Collegio, in ossequio al principio di sinteticità cui sono tenute
non solo le parti ma anche i giudicanti, di dover vagliare congiuntamente
dapprima tutti i profili di doglianza volti a contestare la conclusione, cui è
pervenuta l’Antitrust, di ritenere anticoncorrenziale la circolare n.
22-C/2006, e poi quelli rivolti avverso analoga decisione riferita al parere n.
48/2012.
Con
riferimento alla circolare n. 22-C/2006 – pubblicata sul sito del Cnf dal
luglio 2009 al novembre 2012 e nella banca dati dal febbraio 2008 all’ottobre
2013 – il ricorrente afferma preliminarmente (prima censura dedotta con il
quarto motivo) che la sua pubblicazione nella banca dati è da addebitare alla
società (Ipsoa) che si occupa della gestione documentale dei pareri e dei documenti
del Cnf, nonché della relativa banca dati della stessa società, alla quale si
accede dal sito internet del Consiglio Nazionale Forense. Si tratterebbe di un
mero disguido non imputabile, dunque, al Cnf, come dimostrato anche dalla
circostanza che lo stesso Consiglio, in occasione dell’indagine conoscitiva sul
settore degli ordini professionali IC 34 avviata nel gennaio 2007 dalla stessa
Agcm – indagine che aveva evidenziato problemi antitrust derivanti dalla
circolare in questione – aveva superato tali rilievi con l’adozione della
circolare n. 23-C/2007, che aveva dichiaratamente superato la precedente del
2006, e rimuovendo quest’ultima dalla Sezione “Circolari” del sito web del Cnf.
Aggiunge
che, in ogni caso, non è vero che la circolare reintroduce l’obbligatorietà
delle tariffe minime abolite dal legislatore, essendo stata da un lato
espressamente superata dalla successiva circolare 23-C/2007 e dall’altra
intendendo garantire la qualità dei servizi professionali individuando in capo
al Cnf un potere di intervento straordinario circoscritto ai compensi
professionali palesemente e abnormemente irrisori, che impediscono al
professionista di esercitare il proprio incarico con la dovuta diligenza. La
circolare va dunque valutata nel contesto – temporale e normativo – nel quale
si colloca (quinto motivo).
Il
Collegio ritiene fondato, ed assorbente, il rilievo formulato con il quinto
motivo.
Giova
premettere che la contestazione mossa dall’Autorità è legata alla sua
ripubblicazione, unitamente ai dd.mm. n. 127 del 2004 e 140 del 2012, nel sito
internet del Cnf e nella banca dati gestita dall’Ipsoa e accessibile dallo
stesso sito, intravedendo l’Antitrust in tale circostanza la reintroduzione
dell’obbligatorietà dei minimi tariffari, in palese violazione del decreto
Bersani e in contrasto con la successiva evoluzione normativa, conclusasi con
l’art. 9, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, che ha abrogato del tutto le tariffe
professionali.
La
ripubblicazione in questione, però, non è frutto di un intento anticoncorrenziale
da parte del Cnf.
Si
tratta di conclusione che non vuole affatto superare la costante
giurisprudenza, alla quale la Sezione ha sempre aderito, secondo cui è
sufficiente che un’intesa abbia un oggetto anticoncorrenziale ai fini della sua
qualificazione in termini di illiceità, a prescindere dal fatto che sia
dimostrato che la stessa abbia materialmente prodotto effetti sul mercato.
L’applicazione, nella specie, di tale principio presupporrebbe, infatti, che la
pubblicazione della circolare fosse stata voluta e/o commissionata (per la
banca dati) all’Ipsoa allo scopo precipuo di reintrodurre, di fatto, i minimi
tariffari. Ma così non è. La ripubblicazione nel 2008 di tale documento – sia
stata frutto di un errore imputabile alla società che gestisce la banca dati
(Ipsoa) o allo stesso Cnf – non può avere avuto di certo lo scopo che l’Agcm
gli attribuisce atteso che in alcun caso esso avrebbe potuto essere raggiunto
proprio per il comportamento tenuto, nel 2007, dal Cnf. La circolare in
questione è stata infatti espressamente superata dalla nuova circolare n.
23/2007, adottata dallo stesso Consiglio Nazionale Forense, che oltre ad essere
stata sempre visibile sul sito del Cnf, mentre quella del 2006 era stata per un
certo periodo di tempo rimossa, è stata trasmessa a tutti i Consigli
dell’Ordine, che ne sono i destinatari, ai quali, quindi, è stato ufficialmente
comunicato, con un atto della stessa natura e portata della circolare del 2006,
che quanto affermato nel 2006 non poteva più considerarsi operante. Né la
circolare del 2007, nella parte in cui ha preso posizione sull’abrogazione
della circolare del 2006, avrebbe potuto essere, a sua volta, considerata
superata per il fatto materiale che la circolare 22-C/2006 era stata nuovamente
pubblicata unitamente ai dd.mm. n. 127 del 2004 e 140 del 2012. Sarebbe stato,
infatti, necessario un nuovo intervento scritto del Cnf, che invece non c’è
stato.
In
altri termini, e per concludere, il Collegio non ritiene condivisibile
l’assunto dell’Agcm secondo cui aver ripubblicato la circolare n. 22-C/2006 sul
sito internet e nella banca dati rappresenta la volontà, anticoncorrenziale,
del Cnf di reintrodurre – attraverso la sua reviviscenza – l’obbligatorietà dei
minimi tariffari, pena la sottoposizione a procedimenti disciplinari e la
comminazione di sanzioni per i professionisti che dovessero discostarsi dai
minimi individuati nelle (abrogate) tariffe ministeriali (par. 119).
Del
resto, la riprova che il Cnf non avesse voluto, con l’incriminata
ripubblicazione, ammonire i professionisti dal non chiedere un compenso
proporzionato all’impegno è nella circostanza che il procedimento non consta
essere stato attivato a seguito di denunce provenenti da avvocati né risultano
procedimenti disciplinari avviati nei loro confronti e ciò a fronte della
certezza, proveniente dal buon senso, che dal 2008 alcuni avvocati avranno
chiesto compensi effettivamente irrisori.
L’accoglimento,
in parte qua, del ricorso esime il Collegio dall’esaminare tutti gli altri
motivi dedotti dal Cnf con riferimento alla contestazione rivolta dall’Agcm
avverso la circolare del 2006, nonché le argomentazioni addotte dalla Cassa
nazionale di presidenza ed assistenza forense, che è intervenuta nel presente
giudizio ad adiuvandum.
L’annullamento,
infatti, del provvedimento sanzionatorio dell’Agcm nella parte in cui qualifica
come intesa la circolare n. 22 del 2006 soddisfa l’interesse azionato dal Cnf e
fa recedere quello, dichiarato, dell’interventrice ad adiuvandum di far
accertare fino a che punto sia per il professionista possibile chiedere anche
compensi irrisori e sproporzionalmente inadeguati alla prestazione
professionale resa, che potrebbero risultare lesivi del decoro e della dignità
del professionista, impedendogli di esercitare il proprio incarico con la
dovuta dignità.
6.
Può ora passarsi all’esame dei motivi rivolti avverso il giudizio di
anticoncorrenzialità reso dall’Agcm in relazione al parere n. 48/2012.
Alcune
brevi precisazioni sono necessarie al fine del decidere.
Il
parere incriminato è stato reso dal Consiglio Nazionale Forense in risposta al
quesito, rivolto dal Consiglio dell’Ordine di Verbania con nota dell’8 giugno
2012 n. 197, “se la conclusione di un contratto pluriennale (anni cinque) con
operatore privato titolare/gestore di banca dati in internet (Amica
Card/Groupon) in forza del quale contratto l’avvocato si impegni a pubblicare
un annuncio sul sito accessibile ai soli utenti registrati titolari di Amica
Card o Groupon nel quale offra prestazioni professionali scontate a sua discrezione,
corrispondendo per la ridetta pubblicazione all’operatore un compenso da
prestarsi su base mensile (ca. € 10,00) per tutta la durata del contratto,
possa costituire violazione dell’art. 19 Cdf. Si rappresenta che l’accesso al
sito non è libero, ma limitato ai soli utenti che si sono registrati presso il
gestore/operatore e sono titolari di Amica Card/Groupon da mostrare
all’avvocato allorchè ne chiedono le prestazioni per ottenere il permesso
‘sconto’ e che la pubblicazione sul sito avviene contro pagamento di
corrispettivo”.
Al
quesito il Cnf ha risposto rilevando come la funzione dei siti web, quali Amica
Card, va ben oltre la pura pubblicità, proponendosi di generare un contatto tra
l’offerente ed il consumatore destinatario della proposta; in tal modo il
messaggio non si esaurisce nel fine promozionale ma protende all’acquisizione
del cliente. Ha aggiunto che “il gestore del sito web si pone, a titolo
oneroso, come soggetto interposto tra l’avvocato e il cliente …, per
consentirgli l’assunzione di incarichi; sotto tale profilo la vicenda integra
la violazione del canone I del codice deontologico forense. Inoltre le modalità
di diffusione del messaggio rendono palese la concorrente violazione del canone
III dello stesso art. 19 il quale – integrato in ragione della novità della
questione, ai sensi dell’art. 60 del Codice deontologico forense – va
interpretato estendendosi al divieto di raggiungere in via specificamente
generalizzata il consumatore (cliente solo potenziale) tramite i suoi strumenti
di accesso alla rete internet”.
In
sede prima amministrativa e poi giudiziale il Cnf ha fornito una
“interpretazione autentica” di detto parere chiarendo che, nella parte in cui
esso si riferisce al “divieto di raggiungere in via aspecifica e generalizzata
il consumatore (cliente solo potenziale) tramite i suoi strumenti di accesso
alla rete internet”, deve essere inteso non nel senso di precludere
all’avvocato l’utilizzo di strumenti informatici e telematici per esercitare il
diritto alla pubblicità informativa, ma piuttosto il ricorso a intermediari
remunerati per il procacciamento di clientela, anche se tale intermediazione
avviene tramite piattaforme telematiche”. La violazione del Codice deontologico
è dunque ravvisata non nella pubblicità dell’attività svolta attraverso una
vetrina on line, ma nell’asserito utilizzo, da parte del professionista e
dietro compenso, di un procacciatore di clienti.
II
parere è stato giudicato espressione di intesa anticoncorrenziale ai sensi
dell’art. 101 Tfue perchè inibisce, richiamando la violazione dell’art. 19 del
Codice deontologico, il ricorso da parte degli avvocati ad un importante
strumento per pubblicizzare e diffondere informazioni, anche di carattere
economico, circa la propria attività professionale, limitando lo sviluppo di
un’effettiva concorrenza nel mercato, con evidenti ricadute negative sui
consumatori. Il tutto partendo dall’erroneo presupposto che la Amica Card altro
non sarebbe che un procacciatore di clienti.
Tali
conclusioni sono censurate, sotto diverse angolazioni, dal Cnf.
Le
argomentazioni di parte ricorrente non sono condivisibili.
Innanzitutto
non rileva la natura non vincolante del parere, affermata dal Cnf (pag. 62
dell’atto introduttivo del giudizio), essendo di elementare evidenza che la
rilevazione da parte del Consiglio Nazionale Forense di un comportamento
violativo del Codice deontologico, fosse anche espresso in forma non
vincolante, di fatto scoraggia il professionista dal proseguire in un
comportamento che potrebbe essere suscettibile di procedimento disciplinare. Né
è sul punto conferente il richiamo, operato dal ricorrente nell’atto
introduttivo del giudizio, alla sentenza di questa Sezione n. 8347 del 30
luglio 2014, che aveva annullato una sanzione inflitta dall’Antistrust sul
rilievo che la circolare, in quel caso incriminata, si era limitata a
“manifestare una mera opinione”, anche in considerazione - aveva chiarito
nell’occasione il Tribunale - che essa circolare si “poneva come una iniziativa
autonoma del Presidente”. Situazione, dunque, ben diversa da quella all’esame
del Collegio nel quale il parere 48/2012 è stato adottato dall’Organo
competente a rispondere, in modo ufficiale, ai quesiti dei Consigli degli
Ordini degli avvocati.
Agli
effetti del giudizio che l’Agcm ha reso sul parere in questione non rileva
neanche la diffusione che questi ha avuto, limitata a dire del Cnf,
considerevole, invece, secondo la società Nethuns e l’Agcm, Affinché un'intesa
restrittiva sia giudicata illecita non è, infatti, necessario che produca anche
l'effetto concreto di impedire, restringere o falsare la concorrenza (Consiglio
di Stato, Sez. VI, 16 settembre 2011, n. 5171), essendo sufficiente la mera
idoneità della condotta a produrre i citati effetti distorsivi (Tar Lazio, sez.
I, 16 febbraio 2015, n. 2688).
Afferma
ancora il ricorrente che il provvedimento impugnato è, in parte qua, viziato
per travisamento dei fatti atteso che, diversamente da quanto assume
l’Autorità, il “fatto” che è stato stigmatizzato, nel parere in questione, dal
Cnf non è “l’impiego di un nuovo canale di diffusione delle informazioni
relative all’attività professionale” quanto, piuttosto, una pubblicità priva di
seria informazione professionale e con una tale indeterminatezza da rischiare
di trarre in inganno i possibili clienti finali.
Si
tratterebbe dunque, ad avviso del Consiglio Nazionale Forense, di una
pubblicità violativa dell’art. 10, commi 1 e 2, l. 31 dicembre 2012, n. 247
perché ha ad oggetto una mera percentuale di sconto senza alcuna indicazione
del prezzo su cui calcolare tale sconto e senza alcuna sia pur generica
descrizione del tipo di attività professionale offerta.
Anche
questo motivo non è suscettibile di positiva valutazione atteso che
l’imputazione fatta al Cnf in relazione al parere redatto nel 2012 deve essere
individuata da una lettura complessiva di tutti i paragrafi allo stesso
dedicati e non estrapolando singole frasi. Leggendo in tale modo il
provvedimento risulta evidente che, contrariamente a quanto assume il Cnr, il
riferimento che l’Agcm fa, nell’indicare il rilievo mosso dal parere stesso,
non è al mero strumento utilizzato dagli avvocati per farsi pubblicità quanto
piuttosto l’offerta, in tale piattaforma on line, di sconti su prestazioni
professionali del tutto generiche, tali da far convergere la scelta sul
professionista che offre lo sconto più alto senza che alcun rilievo assuma la
qualità del servizio reso (par. 141).
Il
Collegio condivide poi la natura anticoncorrenziale del parere.
Non
può infatti individuarsi, contrariamente a quanto afferma il ricorrente, in
Amica Card un intermediatore che procura un incontro tra il soggetto che cerca
una prestazione professionale e il professionista che offre tale servizio.
Amica Card mette infatti solo a disposizione dell’avvocato, in cambio di un
corrispettivo in denaro, uno spazio on line nel quale questi può presentare
l’attività professionale svolta e proporre uno sconto all’utente che decida di
utilizzare i suoi servigi. Come correttamente ha chiarito l’Autorità nel
provvedimento impugnato (par. 135) il ruolo svolto da Amica Card non è molto
diverso da quello di chi affitta uno spazio di un giornale, consentendo al
professionista di pubblicizzare l’attività svolta.
L’analitica
illustrazione delle modalità di funzionamento del servizio Amica Card (parr. 71
ss.), compiuta da Nethuns s.r.l., titolare del circuito Amica Card, porta alla
reiezione anche degli ulteriori profili di doglianza dedotti. Una volta che il
soggetto, che necessita della prestazione di un avvocato, ha individuato il
professionista al quale rivolgersi, eventualmente anche in relazione allo
sconto che questo offre, chiede autonomamente a questi un appuntamento e solo
dopo aver parlato de visu con l’avvocato prescelto deciderà se rilasciargli il
mandato.
La
piattaforma Amica Card, dunque, altro non è che un lecito strumento con il
quale gli avvocati possono farsi pubblicità cercando di creare un primo
contatto con il potenziale cliente, fermo restando che per l’eventuale
conferimento del mandato (non essendo il primo approccio per nulla vincolante)
si seguiranno le vie ordinarie: non si stipulerà quindi un contratto a distanza
ma ci si procurerà un incontro con il professionista per verificare se
sussistono le condizioni per conferirgli il mandato.
7.
Afferma ancora il ricorrente che illegittimamente l’Agcm ha ritenuto che il
parere n. 48/2012 (così come la circolare 22-C/2006) concretizzasse una
restrizione della concorrenza c.d. “per oggetto”, invece di valutarne gli
effetti anticoncorrenziali o pro concorrenziali secondo le indicazioni
desumibili dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Il
motivo non è suscettibile di positiva valutazione, atteso che l’oggetto
anticoncorrenziale del parere è ex se sufficiente, con la conseguenza che non è
necessario procedere all’analisi dei potenziali effetti anticoncorrenziali
della stessa. “Oggetto” ed “effetti” sono, infatti, alla luce di una costante
giurisprudenza del giudice comunitario (Corte giust. comm. ue C501/06P),
alternativi tra loro, con la conseguenza che la sussistenza del primo rende
inutile accertare se sussistono anche i secondi,
8.
Gli ultimi due motivi di ricorso sono volti a censurare, per profili diversi,
il quantum della sanzione (€ 912.536,40).
Due
premesse sono necessarie prima di passare al loro esame.
La
prima attiene ai poteri di questo giudice al quale, come è noto, l’art. 134,
comma 1, lett. c, c.p.a., attribuisce una giurisdizione con cognizione estesa
al merito nelle controversie aventi a oggetto provvedimenti dell’Agcm di
applicazione di sanzioni pecuniarie, il che consente al Tar Lazio e al Consiglio
di Stato non solo di annullare gli atti impugnati in tutto o in parte, ma anche
di modificare, sulla base di una propria valutazione, la misura delle sanzioni
pecuniarie con essi comminate (Cons. St., sez. V, 5 marzo 2015, n. 1104).
La
seconda considerazione attiene al criterio con il quale sono state valutate le
due decisioni giudicate anticoncorrenziali, che l’Agcom ha ritenuto (par. 105
del provvedimento impugnato) manifestare un unico obiettivo anticoncorrenziale,
consistente nel limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla
determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, segnatamente
con riferimento alle condizioni economiche dell’offerta dei servizi
professionali.
Tale
conclusione ha indubbiamente influito sull’esercizio del potere sanzionatorio
dell’Autorità, che ha comminato un’unica sanzione, il cui importo ha tenuto
conto: a) della natura dell’infrazione, considerata “grave” (par. 15-156 del
provvedimento impugnato); b) della durata dell’infrazione stessa, con la valutazione
dell’intero arco temporale nel quale detti comportamenti sono stati posti in
essere.
Sotto
tale ultimo profilo l’Agcm ha ritenuto che l’intesa avesse avuto inizio quanto
meno a partire dal 18 febbraio 2008, con la ripubblicazione sul sito internet e
in banca dati della circolare 22-C/2006 e che fosse ancora in corso all’atto di
adozione del provvedimento, non risultando avere il Cnf comunicato agli
iscritti alcun provvedimento di revoca del parere n. 48/2012. L’Autorità poi,
per quantificare il quantum debeatur, ha considerato il fatturato realizzato
dal Cnf nell’ultimo anno intero in cui ha partecipato all’infrazione, prendendo
a riferimento il valore relativo ai contributi versati dagli avvocati iscritti
negli albi e negli elenchi, e ha moltiplicato tale importo per il coefficiente
di gravità assegnato alla violazione e per il numero di anni della stessa.
Risultando, da tale calcolo, l’importo della sanzione (€ 3.155.613,30)
superiore al limite edittale previsto dall’art. 15, comma 1, l. n. 287 del 1990
(“dieci per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente
nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida”),
la sanzione è stata ridotta ad € 912.536,40, tenendo presente la capacità
complessiva dell’associazione e, dunque, il totale delle entrare della stessa
(par. 168).
9.
Si può ora passare all’esame delle censure rivolte, con il settimo motivo,
avverso la sanzione, prescindendo da quelle che attengono alla parte relativa
al comportamento anticoncorrenziale che sarebbe stato tenuto con la
ripubblicazione della circolare 22-C/2006, che il Collegio ha invece giudicato
non sostanziare un’intesa restrittiva della concorrenza.
Il
ricorrente denuncia innanzitutto la mancata partecipazione procedimentale con
riferimento alla decisione di considerare l’infrazione “unica e continuata”,
mentre in sede di istruttoria erano state considerate due distinte infrazioni.
Il Cnf riconnette il proprio interesse a muovere tale doglianza al rilievo che
la configurazione in un’infrazione unica e continuata “può ben aver inciso
sulla qualifica della stessa come grave” e, quindi, contribuito alla
determinazione dell’elevata sanzione.
La
censura è inammissibile per difetto di interesse atteso che nella
qualificazione dell’infrazione come “grave” ha inciso il contenuto delle
decisioni incriminate, il contesto normativo nel quale l’infrazione si colloca
e il soggetto che le ha adottate, id est “l’organo esponenziale dell’avvocatura
italiana, peraltro titolare, oltre che del potere di regolazione della condotta
deontologica degli iscritti, anche del potere di sindacare nel merito, in
ultima istanza, le violazioni deontologiche commesse dai medesimi”. Nessun
riferimento quindi all’unicità dell’infrazione.
Contrariamente
a quanto affermato dal ricorrente, il Collegio rileva che può considerarsi
legittimo, ai fini dell’irrogazione della sanzione, il riferimento al totale
delle entrate contributive associative quale “fatturato” ex art. 15, l. n. 287
del 1990, atteso che la nozione di cui a tale norma di legge non può che essere
intesa in senso lato, in riferimento ai soggetti sanzionati e alla loro
conformazione associativa. Nel caso di specie la contribuzione associativa ben
poteva essere presa a parametro, come già evidenziato da questa Sezione (1
aprile 2015, n. 4943; 16 febbraio 2015, n. 2688), secondo la quale – in
relazione a sanzione “anticoncorrenziale” avverso un Ordine professionale –
tale modalità era legittima “…avuto riguardo agli orientamenti contenuti nella
Comunicazione della Commissione Europea 2006/C 210/02 recante orientamenti per
il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'art. 23, paragrafo 2,
lett. a), del regolamento CE n. 1/2003. Inoltre, ancora una volta richiamando
principi già espressi dalla Sezione (sentenze 30 luglio 2014, n. 8349, 25
febbraio 2011, n. 1757 e 11 marzo 2005, n. 1809), deve ritenersi corretta la
determinazione della sanzione da irrogarsi, ai sensi dell'art. 15, l. n. 287
del 1990, a carico di un ente di tipo associativo assumendo quale base di computo
le entrate contributive ad esso proprie, per quanto queste non ineriscano ad un
fatturato in senso stretto”.
10.
L’ultimo motivo di ricorso, con il quale è dedotto il vizio di eccesso di
potere in tutte le sue figure sintomatiche, deve essere respinto, nella parte
rivolta avverso la configurabilità di un’intesa nel parere n. 48/2012, per le
ragioni argomentate sub 6.
11.
Per le argomentazioni che precedono il quantum della sanzione deve essere
rivisto solo nella parte in cui si considera come intesa anticoncorrenziale
anche la circolare 22-C/2006.
Il
Collegio rimette all’Agcm la rideterminazione del nuovo ammontare della
sanzione, ma tenendo conto che sull’attuale ammontare (€ 912.536,40) ha inciso,
oltre alla gravità, anche la durata dell’infrazione, che è stata fatta
decorrere dal 18 febbraio 2008, cioè dalla data di ripubblicazione della
circolare, mentre il parere – rispetto al quale però non c’è stato ravvedimento
– è stato adottato l’11 luglio 2012.
12.
Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere accolto nei sensi di cui in
motivazione.
Nella
parziale reciproca soccombenza il Collegio ravvisa, in base al combinato
disposto di cui agli articoli 26, comma 1, c.p.a. e 92, comma 2, c.p.c.,
eccezionali ragioni per l’integrale compensazione delle spese di entrambi i
gradi del giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)
definitivamente
pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di
cui in motivazione e per l’effetto annulla in parte il provvedimento
sanzionatorio adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato
(Agcm) il 22 ottobre 2014 e rimette all’Agcm la rideterminazione della sanzione
secondo i criteri dettati nella parte motiva.
Compensa
integralmente tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così
deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2015 con
l'intervento dei magistrati:
Luigi
Tosti, Presidente
Giulia
Ferrari, Consigliere, Estensore
Ivo
Correale, Consigliere
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA
IN SEGRETERIA
Il
01/07/2015
IL
SEGRETARIO
(Art.
89, co. 3, cod. proc. amm.)