sabato 14 dicembre 2013

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO: i magistrati non possono svolgere con continuità corsi di formazione per l'esame d'accesso in magistratura (Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 3-10 dicembre 2013, n. 27493).


ORDINAMENTO GIUDIZIARIO: 
i magistrati non possono svolgere con continuità 
corsi di formazione 
per l'esame d'accesso in magistratura
 (Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, 
sentenza 3-10 dicembre 2013, n. 27493). 



La pronuncia in esame mi sembra perentoria.
Il richiamo all'art. 16 del regio decreto sull'Ordinamento giudiziario fuga poi ogni dubbio sull'applicabilità del divieto in esame (si badi bene: esteso anche ai corsi di preparazione all'Esame di Stato) anche ai magistrati amministrativi, che sono tra i principali "protagonisti" del panorama dei corsi di formazione (Caringella, Garofoli, Giovagnoli, Bellomo, su tutti).
Che il C.S.M. dei magistrati amministrativi sia il Consiglio Superiore di Giustizia Amministrativa(C.P.G.A.; idem per quello della Giustizia Tributaria od il Consiglio di Giustizia militare), non mi sembra argomento  molto convincente (anche se sicuramente verrà speso). Le Sezioni Unite hanno funzione nomofilattica e la L. n. 205/2000 ha sostanzialmente equiparato C.S.M. e C.S.G.A.; ci sono poi gli artt. 78-85 del d.P.R. n. 3/57 (applicabile a tutti i dipendenti pubblici), gli artt. 1-13 del D.Lgs. n. 109/06 (che equiparano i profili disciplinari a quelli dei magistrati ordinari), l'art. 32 della L. n. 186/82 (non più vigente per i magistrati ordinari) ed il richiamo del r.d. n. 511/46.


Massima

1. Nel ordinamento giudiziario vige il generale divieto per i magistrati di partecipare, a qualsiasi titolo, all'attività delle scuole private di preparazione a concorsi o esami per l'accesso alle magistrature e alle altre professioni legali. 
2. Il fondamento della responsabilità è l'art. 16, co. 1, r. d. n. 12/1941, che nella nozione  di libera professione, contemplata dal citato art. 16, primo comma, che fa espresso divieto ai magistrati di svolgere "qualsiasi libera professione"; in tale nozione rientra, appunto, l'organizzazione individuale, in forma continuativa, di un'attività di gestione di corsi a pagamento di preparazione a concorsi o esami per l'accesso a professioni del settore giuridico. 

3. Più in particolare: 
a) l'attività di lavoro autonomo, esercitata abitualmente anche se non in via esclusiva, costituisce esercizio di attività professionale; 
b) nella categoria generale delle professioni intellettuali, solo quelle determinate dalla legge (art. 2229, primo comma, cod. civ.) sono tipizzate ed assoggettate all'iscrizione in albi ed elenchi; all'infuori di queste, vi sono non solo professioni intellettuali caratterizzate per il loro specifico contenuto, ma anche prestazioni di contenuto professionale o intellettuale non specificamente caratterizzate, che ben possono essere oggetto di lavoro autonomo; 
c) l'attività di insegnamento costituisce esercizio di una libera professione nel momento in cui le cui singole prestazioni venivano fornite su richiesta dei soggetti che partecipavano ai corsi; 
d) la prestazione collettiva delle lezioni integra esercizio di una "scuola"; 
e) è corretto l'inquadramento dei fatti nella norma dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006. 

4. Nell'economia della sentenza della Sezione disciplinare, il richiamo alla normativa secondaria del Consiglio superiore, ossia capo 15 della circolare del Consiglio superiore sugli incarichi extragiudiziari n. 15207 del 16 dicembre 1987, nel testo risultante a partire dalla delibera del 24 luglio 2007, assume una valenza meramente ricognitiva della portata di un divieto che discende direttamente, ed in maniera compiuta ed autosufficiente, dalla norma di legge. 
5.  Come per tutti i pubblici dipendenti, così per i magistrati, i limiti di compatibilità dell'ufficio ricoperto con lo svolgimento di altre attività e con l'assunzione di altri incarichi sono un elemento del loro stato giuridico; ma, in particolare, per i magistrati, l'assunzione di compiti e lo svolgimento di attività estranei a quelli propri dell'ufficio ad essi affidato - anche quando non richiedano una sospensione o una riduzione delle funzioni ordinarie del magistrato - sono fattori suscettibili di avere effetti sul regolare e corretto svolgimento di una funzione essenziale che la Costituzione affida ai magistrati nel quadro dei principi dello Stato di diritto, e di incidere, in astratto, "sulla loro indipendenza ed imparzialità, connotato e condizione essenziale per lo svolgimento della funzione loro attribuita: sia in quanto può esservi una interferenza diretta fra compiti propri e ulteriori attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di attribuzione, dell'incarico, per la sua stessa natura e per i vantaggi che possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del magistrato" (Corte cost., sentenza n. 224 del 1999). 


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
EPIGRAFE
[....]


Ritenuto in fatto 

1. - Con sentenza n. 69/2013 in data 14 giugno-5 luglio 2013, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato il Dott. F..P. - consigliere della sezione lavoro della Corte d'appello di Napoli e poi, dal 23 settembre 2008, consigliere della sezione lavoro della Corte d'appello di Roma - responsabile dell'illecito disciplinare di cui all'art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), per avere, tra il 2007 ed il 2011, organizzato individualmente, in forma continuativa, in (omissis) attività di gestione di corsi di preparazione al concorso per l'accesso in magistratura, in favore di numerosi partecipanti (tra venti e sessanta), in corrispettivo di una remunerazione; e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura. 
La Sezione disciplinare ha premesso che il capo 15 della circolare del Consiglio superiore sugli incarichi extragiudiziari n. 15207 del 16 dicembre 1987, nel testo risultante a partire dalla delibera del 24 luglio 2007, pone il divieto di organizzare scuole private di preparazione a concorsi o esami per l'accesso alle magistrature e alle altre professioni legali. Ha quindi osservato che l'attività di insegnamento svolta dal Dott. P. costituisce esercizio di una libera professione, le cui singole prestazioni venivano fornite su richiesta di ciascuno dei soggetti che partecipavano ai corsi, e che la prestazione collettiva delle lezioni integra certamente esercizio di una "scuola", atteso che il carattere di relativa permanenza di una qualsiasi scuola può essere limitato alla durata necessaria per lo svolgimento di un singolo corso di istruzione, non essendo necessaria una indeterminata permanenza della organizzazione come istituto vero e proprio. 
2. - Per la cassazione della sentenza della Sezione disciplinare il Dott. P. ha proposto ricorso, con atto depositato nella segreteria della Sezione disciplinare il 24 luglio 2013, sulla base di ventuno motivi. 
Il Ministero della giustizia non ha svolto attività difensiva in questa sede. 
Il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell'udienza. 


Considerato in diritto 
1. - Con il primo motivo (falsa ed erronea applicazione dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006) il ricorrente premette che la circolare sugli incarichi extragiudiziari richiamata dalla sentenza impugnata, nel delimitare il proprio campo applicativo, dichiara di regolare la materia degli incarichi extragiudiziari di cui all'art. 16, secondo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), ossia una materia del tutto diversa da quella alla quale si riferisce l'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941, testualmente richiamato nell'illecito disciplinare delineato dall'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006. Di qui - si sostiene - l'errore della sentenza, la quale, pur affermando la responsabilità disciplinare del Dott. P. ai sensi del citato art. 3, comma 1, lettera d) (e quindi, per relationem, per l'asserita violazione dell'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941), ha inteso ravvisare il fatto disciplinarmente rilevante nella asserita violazione della circolare sugli incarichi extragiudiziari (e quindi dell'art. 16, secondo comma, del citato regio decreto). 
Il secondo motivo (falsa ed erronea applicazione della circolare 24 luglio 2007 sugli incarichi extragiudiziari) censura che la sentenza impugnata abbia posto una equivalenza tra "non autorizzabilità" delle attività previste dal capo 15 della ricordata circolare e "divieto". Il capo 15 della circolare, richiamato nel capo di incolpazione, si riferirebbe alle sole fattispecie in cui sussiste un incarico extragiudiziario, e sarebbe inapplicabile quando, invece, si verta in materia di pura libertà e non di incarico conferito da un soggetto committente o conferente. Ritenere diversamente significherebbe "esporre il capo 15 a gravi censure di illegittimità, sia in termini di illegalità costituzionale, sia in termini di eccesso di potere rispetto alla norma di legge attributiva". 
Con il terzo motivo (inosservanza del capo I della circolare sugli incarichi extragiudiziari) si sostiene che il caso rientrerebbe in una fattispecie di libertà pura, protetta dalla Costituzione sia come libertà di manifestazione del pensiero, sia, più specificatamente, come libertà di insegnamento di arti e scienze. Ad avviso del ricorrente, il regime di libero svolgimento non verrebbe meno per il fatto che l'attività abbia dato luogo a compensi. 
Il quarto motivo lamenta inosservanza dell'art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Il Dott. P. avrebbe impartito libere lezioni private di approfondimento monografico, costituenti "opera" originale scientifica e didattica secondo la nozione offerta dall'art. 2 della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio): avendo provveduto direttamente al relativo sfruttamento economico, non avrebbe posto in essere alcun "incarico" ai sensi della nozione giuridica posta dall'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001. Non rientrando il fatto oggetto di incolpazione nella fattispecie degli incarichi di cui agli artt. 16, secondo comma, del regio decreto n. 12 del 1941 e 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, non sarebbero ad esso applicabili neppure le circolari relative agli incarichi extragiudiziari, emanate dal CSM nell'esercizio del relativo potere regolamentare. 
Con il quinto motivo si denuncia vizio di motivazione per l'affermata esistenza di un "incarico" conferito dai soggetti che partecipavano ai seminari, in realtà inesistente, nonché violazione del principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e decisione disciplinare, essendo rimasto acclarato che il Dott. P. teneva lezioni di approfondimento monografico con taglio seminariale e accoglieva nella propria dimora i discenti che gli chiedevano di seguire le sue lezioni, con piena libertà sia del Dott. P. nello svolgimento di questa attività didattica, sia del discente di seguire uno o più mesi, senza altro obbligo per lui (se non quello di corrispondere un corrispettivo per il singolo mese, che rappresentava soltanto l'utilizzazione economica dell'opera dell'ingegno da parte dell'autore). 
Con il sesto motivo (erronea applicazione dell'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941 per errata interpretazione della nozione di "libera professione" vietata) il ricorrente - premessi la distinzione tra le "libere professioni" e le "professioni intellettuali" ed il rilievo che soltanto nelle prime vi sarebbe una disciplina che consente di identificare uno status professionale, invece del tutto assente nelle seconde - esclude che il lavoro autonomo svolto in modo più o meno continuativo dia luogo di per sé ad una "libera professione" quale causa di incompatibilità prevista dal primo comma del citato art. 16. 
Il settimo motivo, nel denunciare falsa ed erronea applicazione dell'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941 per errata sussunzione dell'attività di libero insegnamento privato nella nozione di libera professione, richiama la disciplina in materia di pubblico impiego (art. 508 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297) che esclude l'attività di libero insegnamento privato (a prescindere dalla sua continuità) dalla nozione di libera professione, solo quest'ultima interdetta al pubblico dipendente in termini di incompatibilità. E - si sostiene - se questa netta distinzione vale per il pubblico insegnante, che svolge istituzionalmente una funzione molto affine se non omogenea o addirittura identica a quella che privatamente pure può esercitare, a maggior ragione questa stessa distinzione deve valere per il magistrato, la cui attività istituzionale è invece lontana non da poco da quella del docente. Ad avviso del ricorrente, l'attività didattica autonomamente svolta dal magistrato sarebbe assimilabile all'attività di produzione libraria, artistica e scientifica, pienamente consentita al magistrato con l'unico limite dell'impresa (nella specie insussistente). 
L'ottavo mezzo lamenta che la sentenza impugnata abbia omesso di fare applicazione della giurisprudenza disciplinare specifica (CSM, Sezione disciplinare, sentenza 18 luglio 2008, n. 86) che, in un caso analogo, aveva assolto l'incolpato, ritenendo esistente l'attività, non di impresa, ma di studio, ed assumendo come prevalente l'aspetto dell'autorganizzazione su quello, pur ravvisato, dell'organizzazione. Come conseguenza di questa mancata applicazione del precedente specifico, la sentenza impugnata non avrebbe osservato i principi di tassatività delle cause di incompatibilità e dell'illecito disciplinare e avrebbe violato il principio di ragionevole affidamento del magistrato nell'interpretazione del giudice disciplinare. 
Con il nono motivo (inosservanza degli artt. 2, 21 e 33 Cost., nonché degli artt. 10, primo comma, 11 e 117 Cost.) si sostiene che nel caso in esame, al cospetto di norme costituzionali immediatamente precettive, fondanti precisi diritti di libertà di manifestazione del pensiero e di insegnamento, e di obblighi internazionali di rispetto dei diritti di libertà dei singoli, il giudice disciplinare avrebbe potuto e dovuto scegliere di interpretare il capo 15 della circolare sugli incarichi extragiudiziari in modo conforme a Costituzione, escludendo dal suo ambito applicativo il caso in esame, relativo all'esercizio di pura libertà intellettuale della persona; oppure, avrebbe dovuto disapplicare il capo 15 nella parte in cui fosse stato ritenuto interpretabile come riferibile anche alle forme di pura libertà intellettuale. 
Il decimo motivo (inosservanza dell'art. 108, primo comma, Cost.; omesso rilievo della carenza di potere in astratto o del difetto assoluto di attribuzione) muove dal rilievo che la tesi circa la portata omnicomprensiva del capo 15 della circolare sugli incarichi extragiudiziari del 2007 avrebbe dovuto indurre il giudice disciplinare a disapplicarla, in quanto affetta da carenza di potere in astratto. Il ricorrente osserva che manca una norma primaria che abbia abilitato il CSM a introdurre nuove cause di incompatibilità rispetto a quelle già previste dal legislatore ordinario, o che abbia predeterminato la materia e i relativi principi generali. Quindi erroneamente la Sezione disciplinare non avrebbe considerato che il capo 15 sarebbe "inesistente o nullo in parte qua", ossia nella parte in cui venga inteso come volto a vietare altresì al magistrato forme di esercizio individuale e autonomo di libertà di espressione del pensiero e di insegnamento che non integrino un'impresa. La circolare del CSM non avrebbe "applicato" una norma primaria, ma avrebbe allargato l'originario ambito applicativo della causa di incompatibilità, introducendo nell'ordinamento giuridico una nuova causa di incompatibilità prima inesistente. Prima della sentenza qui impugnata, infatti, l'attività didattica svolta dal magistrato non in forma di impresa sarebbe stata giudicata libera e, quindi, pienamente consentita e lecita. 
Con l'undicesimo motivo, prospettato in via subordinata, si deduce l'inosservanza dell'art. 16, secondo comma, del regio decreto n. 12 del 1941, determinata dall'omesso rilievo della illegittimità della circolare sugli incarichi extragiudiziari, viziata da eccesso di potere in parte qua, e quindi dall'omessa sua disapplicazione. Vi si sostiene che ritenere che la predetta circolare si riferisca anche ad attività di insegnamento che non si collochino nell'ambito di un incarico, ma siano svolte in modo libero, autonomo e individuale dal magistrato, significherebbe eccedere dalla causa tipica (controllo - mediante poteri regolativi e autorizzatori - sui rapporti giuridici instaurati dai magistrati con terzi, suscettibili di ledere o comunque condizionare l'esercizio della giurisdizione) per la quale quel potere è attribuito. 
In ulteriore subordine, con il dodicesimo mezzo si censura l'inosservanza del principio generale del necessario bilanciamento proporzionato tra valori costituzionali. Secondo il ricorrente, quando, come nella specie, viene in rilievo soltanto la pura libertà individuale di manifestazione del pensiero scientifico e di insegnamento, senza alcun previo incarico da parte di un terzo, e senza alcun travalicamento del limite dell'impresa, per definizione verrebbe meno in radice l'esigenza di tutelare autonomia e indipendenza del magistrato. 
Con il tredicesimo motivo il ricorrente lamenta l'inosservanza del principio di tassatività e del divieto di applicazione analogica di norme eccezionali (art. 14 disp. prel. cod. civ.), perché il divieto di attività di docenza del magistrato per la preparazione ai concorsi sarebbe stato esteso al caso in cui la detta attività si svolga liberamente in modo individuale ed autonomo, e quindi non nell'ambito di un incarico. 
Con il quattordicesimo motivo, rubricato "Erronea applicazione del capo 15 della circolare sugli incarichi extragiudiziari per erronea interpretazione della sua ratio", il Dott. P. contesta che la ratio dell'affermata necessità di applicare analogicamente il capo 15 della circolare sugli incarichi extragiudiziari sia stata individuata dalla procura generale, nel capo di incolpazione, nella esigenza di rispettare la riserva che, in materia di formazione dei laureati per la preparazione all'accesso in magistratura e alle professioni legali, il legislatore avrebbe disposto in favore delle Scuole per le professioni forensi disciplinate dal d.lgs. 17 novembre 1997, n. 398 (Modifica alla disciplina del concorso per uditore giudiziario e norme sulle scuole di specializzazione per le professioni legali, a norma dell'articolo 17, commi 113 e 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127), e dal decreto ministeriale 21 dicembre 1999, n. 537 (Regolamento recante norme per l'istituzione e l'organizzazione delle scuole di specializzazione per le professioni legali). 
Il quindicesimo motivo, prospettato in subordine, lamenta inosservanza dell'art. 12 delle preleggi dovuta all'errata affermazione della sussistenza in concreto dell'eadem ratio. Ciò sul rilievo che i giovani che seguivano i seminari monografici del Dott. P. erano tutti giovani già diplomati, i quali avevano palesato le loro insicurezze e l'esigenza di ulteriori approfondimenti, specie monografici, sicché l'attività svolta dal Dott. P. si è posta come un successivo completamento della formazione, in quanto integrativa e perfezionativa di quella già offerta dalle Scuole. 
Con il sedicesimo motivo si denuncia vizio di omessa motivazione per travisamento dei fatti e/o erroneo apprezzamento delle risultanze istruttorie relative agli elementi costituitivi della fattispecie prevista dal capo 15 della circolare sugli incarichi extragiudiziari. Nel caso di specie - si sostiene -non sussisterebbero gli elementi costitutivi della fattispecie dichiarata "non autorizzarle" dalla circolare: l'esistenza di una organizzazione, lo svolgimento di una attività che possa definirsi "scuola privata" e la specifica destinazione di questa scuola privata alla preparazione a concorsi o esami per l'accesso alle magistrature e alle altre professioni legali. 
Con il diciassettesimo motivo ci si duole della falsa ed erronea applicazione del capo 15 sulla circolare sugli incarichi extragiudiziari per erronea interpretazione della nozione di scuola privata. Nel caso di specie non sussisteva nessuno degli elementi costitutivi della scuola: nessuna organizzazione di persone (avendo il Dott. P. sempre svolto da solo l'attività in esame); nessuna organizzazione di cose (giacché il Dott. P. ha sempre ricevuto nella sua dimora i giovani interessati ai suoi seminari); il contenuto delle lezioni non era affatto quello proprio del "programma regolamentare" necessario per partecipare al concorso in magistratura, in quanto si trattava di meri approfondimenti seminariali di taglio prettamente monografico; nessuna destinazione specifica di questa attività alla preparazione dei candidati. 
Con il diciottesimo mezzo (inosservanza dell'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006) si deduce che, permanendo un consistente e più che ragionevole dubbio sulla responsabilità disciplinare del Dott. P. , la Sezione disciplinare avrebbe dovuto escludere la sussistenza dell'addebito. 
Il diciannovesimo motivo lamenta la mancata applicazione del criterio di giudizio offerto dall'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, secondo cui l'illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza. 
Con il ventesimo motivo (inosservanza del principio di necessaria colpevolezza per l'omesso rilievo della mancanza di elemento psicologico) si fa presente che nell'anno 2007 il Dott. P. , allora in servizio presso la Corte d'appello di Napoli, a seguito di un esposto anonimo indirizzato al presidente di quella Corte, rappresentò al capo dell'ufficio distrettuale in tutti i dettagli l'attività svolta presso la sua dimora, mediante apposita relazione scritta, e si sottolinea che, in quella vicenda, il presidente della Corte dispose l'archiviazione degli atti. Secondo il ricorrente, la vicenda dell'esposto anonimo del 2007, con tutti i connessi chiarimenti offerti e documentati dal Dott. P. e le rassicurazioni da lui ricevute, avrebbero radicato nell'incolpato uno stato di assoluta buona fede, ossia di convincimento più che ragionevole circa la liceità e l'ammissibilità dell'attività di insegnamento da lui svolta presso la sua dimora. 
Con l'ultimo motivo, posto in estremo subordine, si prospetta la violazione del principio di necessaria corrispondenza tra chiesto (accusa) e pronunziato (decisione disciplinare): e ciò sul rilievo che, mentre nel caso di specie tutto il procedimento si è sviluppato nel senso di accertare l'eventuale sussistenza di un'impresa quale fattispecie vietata dall'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941, il giudice disciplinare avrebbe pronunciato una decisione "a sorpresa", ravvisando la sussistenza della diversa fattispecie dell'esercizio di una "libera professione", mai in precedenza oggetto di contraddittorio e di difesa. 
2. - I motivi - i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono infondati. 
2.1. - È anzitutto erronea la premessa che, con la sentenza impugnata, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura abbia individuato il fondamento dell'illecito disciplinare, di cui il Dott. P. è stato riconosciuto responsabile, nella contravvenzione alla circolare sugli incarichi extragiudiziari 16 dicembre 1987, n. 15207, che, con le modifiche introdotte con la deliberazione del 24 luglio 2007, ha ribadito e precisato il divieto per i magistrati di partecipare, a qualsiasi titolo, all'attività delle scuole private di preparazione a concorsi o esami per l'accesso alle magistrature e alle altre professioni legali. 
In realtà, il fondamento della responsabilità è stato dalla sentenza ravvisato nello svolgimento, da parte dell'incolpato, di un'attività incompatibile con la funzione giudiziaria ai sensi dell'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941, così come richiede l'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 perché sia configurabile l'illecito disciplinare extrafunzionale contestato nella specie, avendo la Sezione disciplinare ritenuto che nella nozione di libera professione, contemplata dal citato art. 16, primo comma, rientri, appunto, l'organizzazione individuale, in forma continuativa, di un'attività di gestione di corsi a pagamento di preparazione a concorsi o esami per l'accesso a professioni del settore giuridico. 
La sentenza impugnata, infatti, dopo avere richiamato il divieto di esercitare “qualsiasi libera professionale”, imposto ai magistrati dall'art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario, si è sviluppata lungo le seguenti linee argomentative: 
- l'attività di lavoro autonomo, esercitata abitualmente anche se non in via esclusiva, costituisce esercizio di attività professionale; 
- nella categoria generale delle professioni intellettuali, solo quelle determinate dalla legge (art. 2229, primo comma, cod. civ.) sono tipizzate ed assoggettate all'iscrizione in albi ed elenchi; all'infuori di queste, vi sono non solo professioni intellettuali caratterizzate per il loro specifico contenuto, ma anche prestazioni di contenuto professionale o intellettuale non specificamente caratterizzate, che ben possono essere oggetto di lavoro autonomo; 
- l'attività di insegnamento svolta dal Dott. P. costituisce esercizio di una libera professione, le cui singole prestazioni venivano fornite su richiesta dei soggetti che partecipavano ai corsi; 
- la prestazione collettiva delle lezioni integra esercizio di una "scuola"; 
- è corretto l'inquadramento dei fatti nella norma dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006. 
Nell'economia della sentenza della Sezione disciplinare, il richiamo alla normativa secondaria del Consiglio superiore assume una valenza meramente ricognitiva della portata di un divieto che discende direttamente, ed in maniera compiuta ed autosufficiente, dalla norma di legge. 
E questa impostazione metodologica seguita dalla sentenza è corretta. 
Con riguardo, infatti, all'illecito disciplinare consistente nello svolgimento di un'attività incompatibile con la funzione giudiziaria ai sensi dell'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941, è la norma di Ordinamento giudiziario a stabilire, direttamente, cosa si debba intendere per attività non consone alla funzione e allo status del magistrato, prevedendo, sotto la rubrica "Incompatibilità di funzioni", che ai magistrati è vietato “assumere pubblici o privati impieghi od uffici”, nonché “esercitare industrie o commerci”, o “qualsiasi libera professione”. L'illecito disciplinare in questione ha una tipicità che si muove tutta nel perimetro della configurazione data dalla norma di legge: una tipicità che non è suscettibile di essere implementata dalla normativa secondaria del CSM. Sotto questo profilo, la circolare del Consiglio sugli incarichi extragiudiziari, come non potrebbe innovare o integrare la portata delle attività vietate, così neanche potrebbe imporre alla Sezione disciplinare un'interpretazione autentica di ciò che rientra (o che fuoriesce) dai confini del primo comma dell'art. 16. La circostanza che le attribuzioni disciplinari siano riservate, per legge, ad una apposizione Sezione del CSM, e differenziate per natura da tutte le altre funzioni consiliari, rappresenta un ostacolo alla precostituzione, ad opera dell'intero Consiglio nell'esercizio delle funzioni di alta amministrazione, di regole interpretative destinate a imporsi al giudice disciplinare. 
Nondimeno, la presa d'atto, da parte della circolare del Consiglio superiore, del contenuto del divieto dell'esercizio di certe attività, da la misura di quali incarichi extragiudiziari i magistrati siano abilitati, previa autorizzazione dello stesso Consiglio superiore, a svolgere. Nel contesto del sistema ordinamentale, infatti, il regime delle attività vietate, di cui al primo comma dell'art. 16, si collega alla disciplina dettata dal secondo comma del citato art. 16, il quale, nel testo risultante dalla novella introdotta con la legge 2 aprile 1979, n. 97, prescrive (con una norma la cui violazione configura illecito disciplinare ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera e, del d.lgs. n. 109 del 2006) che i magistrati “non possono... accettare incarichi di qualsiasi specie... senza l'autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura”: una disciplina, dunque, che, nel determinare la possibilità, ma anche i limiti, le condizioni e le modalità per l'attribuzione ai magistrati di incarichi estranei ai loro compiti di istituto, attribuisce un potere di intervento al Consiglio superiore. Ed è, appunto, in quest'ambito che la circolare del CSM svolge una funzione, essenziale, di autodisciplina dell'esercizio della discrezionalità amministrativa spettante all'organo di governo autonomo della magistratura sul tema degli incarichi extragiudiziari. 
D'altra parte, alla base della disciplina della incompatibilità di funzioni - si esprima essa attraverso la previsione di attività vietate o di incarichi extragiudiziari assumibili, ma con i limiti e le condizioni stabiliti dal Consiglio superiore - sta una comune ragione di fondo. Come per tutti i pubblici dipendenti, così per i magistrati, i limiti di compatibilità dell'ufficio ricoperto con lo svolgimento di altre attività e con l'assunzione di altri incarichi sono un elemento del loro stato giuridico; ma, in particolare, per i magistrati, l'assunzione di compiti e lo svolgimento di attività estranei a quelli propri dell'ufficio ad essi affidato - anche quando non richiedano una sospensione o una riduzione delle funzioni ordinarie del magistrato - sono fattori suscettibili di avere effetti sul regolare e corretto svolgimento di una funzione essenziale che la Costituzione affida ai magistrati nel quadro dei principi dello Stato di diritto, e di incidere, in astratto, "sulla loro indipendenza ed imparzialità, connotato e condizione essenziale per lo svolgimento della funzione loro attribuita: sia in quanto può esservi una interferenza diretta fra compiti propri e ulteriori attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di attribuzione, dell'incarico, per la sua stessa natura e per i vantaggi che possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del magistrato" (Corte cost., sentenza n. 224 del 1999). 
2.2. - Si tratta, a questo punto, di stabilire se sia corretto - a prescindere, dunque, dal supporto derivante dalla più volte citata circolare del Consiglio superiore - l'inquadramento dell'attività svolta dal Dott. P. tra quelle incompatibili con la funzione giudiziaria, perché vietate dall'art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario, richiamato dall'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006. 
Al quesito deve darsi risposta positiva, sottraendosi alle plurime censure articolate dal ricorrente la conclusione alla quale è giunta la Sezione disciplinare. 
Occorre premettere che il giudice a quo, nel condividere la prospettazione del titolare dell'azione disciplinare, ha accertato: (a) che il Dott. P. ha organizzato individualmente un'attività di gestione di corsi di preparazione al concorso per l'accesso in magistratura, con lezioni tenute dallo stesso magistrato di regola due giorni a settimana in favore di numerosi studenti (da venti a sessanta); (b) che in corrispettivo delle lezioni il magistrato ha ricevuto una remunerazione direttamente dai partecipanti alle lezioni; (c) che questa attività si è protratta dal 2007 al 2011. 
Questa attività, per le caratteristiche sopra sintetizzate e per la continuità nel tempo, è assurta - secondo l'apprezzamento, congruo e motivato, della Sezione disciplinare - ad una seconda professione (libera) del magistrato, e ricade pertanto sotto il divieto riguardante l'incompatibilità di funzioni stabilito dal primo comma del citato art. 16 dell'Ordinamento giudiziario. 
Il divieto di esercitare “qualsiasi libera professione”, di cui all'art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario, non può infatti essere inteso come limitato alle professioni intellettuali per l'esercizio delle quali - secondo la previsione del primo comma dell'art. 2229 cod. civ. – “è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi”. 
Per un verso queste Sezioni Unite - ritenendo indifferente che l'attività allora contestata (nella specie si trattava di attività di amministratore dietro mandato svolta da un magistrato in favore di privati cittadini, e "finalizzata all'incremento, alla conservazione ed alla tutela dei redditi e del patrimonio") non corrispondesse a prestazioni tipiche delle professioni di avvocato o di commercialista - hanno già stabilito (sentenza 27 giugno 2003, n. 10233) che la norma disciplinare, facendo divieto di esercitare “qualsiasi libera professione”, "mira ad impedire che l'esercizio professionale di qualsiasi attività, indipendentemente dalla natura delle prestazioni volta a volta rese, possa costituire per il magistrato, oltre che ragione di limitazione del suo impegno istituzionale, fattore di condizionamento ed inquinamento dello stesso". 
Per l'altro, è costante nella giurisprudenza di questa Corte l'insegnamento secondo cui nella categoria generale delle professioni intellettuali solo quelle determinate dalla legge sono tipizzate ed assoggettate all'iscrizione in albi ed elenchi, sicché, all'infuori di queste, vi sono non solo professioni intellettuali caratterizzate per il loro specifico contenuto, ma anche prestazioni di contenuto professionale o intellettuale non specificamente caratterizzate, che ben possono essere oggetto di lavoro autonomo (Sez. lav., 10 aprile 1980, n. 2305; Sez. II, 26 agosto 1993, n. 9019). La nozione di attività professionale intellettuale è, dunque, una nozione aperta, qualificata per la presenza di due requisiti (la professionalità, intesa sotto il profilo della continuità del suo esercizio, e l'intellettualità, intesa come espressione della erogazione a favore dei terzi di prestazioni a carattere tecnico-intellettuale), ed è identificabile anche là dove non sia imposta, a chi intenda esercitarla, l'iscrizione in appositi albi o elenchi. 
Ne deriva, pertanto, che l'attività didattica del magistrato, con la gestione sistematica e continuativa, da parte dello stesso, in forma di lavoro autonomo, attraverso la tenuta di lezioni a pagamento, di un servizio di formazione di più discenti finalizzato all'accesso a professioni del settore giuridico, costituisce esercizio di attività libero professionale, come tale rientrante nel divieto di cui all'art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario per l'incompatibilità con l'esercizio delle funzioni di magistrato. 
2.3. - La configurabilità dell'illecito di cui l'incolpato è stato ritenuto responsabile non è esclusa dalla circostanza che l'attività esercitata dal Dott. P. non sia stata svolta in forma di impresa. Non rileva, cioè, che nella specie l'attività didattica non abbia riprodotto per complessità una struttura imprenditoriale e che all'organizzazione dei corsi di preparazione al concorso non si sia accompagnata la predisposizione di strutture capaci di dare all'attività di gestione dei corsi carattere di autonomia rispetto alla persona del docente magistrato e all'insegnamento da lui impartito. 
Ai fini della configurabilità del divieto di cui all'art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario, basta che la preparazione ai concorsi o agli esami per l'accesso alle professioni forensi, attraverso l'offerta al mercato dei servizi di quella particolare utilità, economicamente valutabile, costituita dalla prestazione di insegnamento, avvenga con un'attività continuativa e professionale, anche quando l'aspetto organizzativo si risolva tutto nella autorganizzazione di chi ponga in vita la prestazione intellettuale. 
Del divieto in questione ricorrono infatti la lettera e la ratio. 
La lettera, perché il citato art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario, vietando non solo di esercitare “commerci”, ma, appunto, “qualsiasi libera professione”, preclude al magistrato non soltanto l'attività di impresa, ma anche l'esercizio professionale e non episodico di un'attività lavorativa di carattere intellettuale, fonte di reddito per l'interessato, posta in essere senza vincoli di subordinazione e con ampia discrezionalità tecnica, senza che sia a tal fine richiesta la compresenza dell'aspetto organizzativo di beni (come l'utilizzazione di locali diversi dall'abitazione del docente) e di persone (come l'assunzione di personale che adempia a funzioni di segreteria o la collaborazione di altri docenti che sostituiscano il docente personalmente impedito). 
La ratio, perché lo svolgimento da parte del magistrato, con continuità e con un tornaconto sul piano economico e patrimoniale, di una seconda attività professionale, anche quando non realizzata in forme imprenditoriali, compromette il primato della funzione di servizio del magistrato per i cittadini e per la Repubblica, finendo con l'incidere sull'interesse pubblico a che sia assicurato il regolare e corretto svolgimento della funzione giudiziaria, vale a dire di una funzione che gode in Costituzione di una speciale garanzia di indipendenza e di autonomia rispetto ad ogni altra funzione. 
Pertanto, non rileva che il Dott. P. , per lo svolgimento dell'attività contestata, non abbia utilizzato locali diversi dalla propria dimora in XXXXXXXX e abbia svolto da solo la prestazione di insegnamento. E neppure rileva che le lezioni tenute abbiano avuto carattere seminariale. 
Lo stesso termine "scuola" è stato impiegato nella sentenza impugnata per designare la prestazione collettiva delle lezioni da parte del magistrato istruttore in favore di un numero significativo di studenti (da venti a sessanta), l'erogazione a pagamento di detto servizio, diretto alla preparazione dei giovani a concorsi od esami per le professioni legali, e la sistematicità dell'attività; non certo per dare rilievo ad aspetti organizzativi implicanti la necessità di un'iscrizione per i partecipanti, lo svolgimento, da parte del docente, di un programma regolamentare o la presenza di una struttura specificamente destinata allo scopo e tale da porsi come vera e propria istituzione scolastica. La critica articolata al riguardo dalla difesa del ricorrente, anche là dove addebita alla sentenza impugnata il vizio di travisamento dei fatti o l'erroneo apprezzamento delle risultanze istruttorie, si risolve o in un tentativo di sollecitare questa Corte a sindacare sul piano del merito le valutazioni, sorrette da motivazione congrua ed esenti da vizi logici, del giudice disciplinare, o nella sottolineatura di profili assolutamente ininfluenti, essendo - va ribadito - irrilevante, ai fini della configurabilità dell'illecito in questione, stabilire se le lezioni vertessero, ciascuna, su argomenti monografici di volta in volta esaminati, o se le stesse, fossero collocabili nell'ambito di un corso o di un programma "regolamentare" o fossero rivolte, semplicemente, a consolidare nella preparazione, attraverso una offerta formativa integrativa e perfezionativa di quella già offerta dalle Scuole per le professioni legali istituite presso le Università, "giovani già diplomati, i quali avevano palesato le loro insicurezze e l'esigenza di ulteriori approfondimenti, specie monografici". 
2.4. - Né, d'altra parte, l'attività in concreto espletata dal Dott. P. può ritenersi priva di rilevanza disciplinare per effetto di quanto stabilito, per il personale docente delle scuole di ogni ordine e grado, dall'art. 508 del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, approvato con il d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297. 
A prescindere dal fatto che anche per il personale docente delle scuole l'attività di insegnamento privato è circondata da limiti e in qualche caso anche da divieti (posto che: al personale docente non è consentito impartire lezioni private ad alunni del proprio istituto; il personale docente, ove assuma lezioni private, è tenuto ad informare il direttore didattico o il preside, al quale deve altresì comunicare il nome degli alunni e la loro provenienza; ove le esigenze di funzionamento della scuola lo richiedano, il direttore didattico o il preside possono vietare l'assunzione di lezioni private o interdirne la continuazione, sentito il consiglio di circolo o di istituto; al personale ispettivo e direttivo è fatto divieto di impartire lezioni private); ed a prescindere, ancora, dal rilievo che nel caso del Dott. P. non ci si trova di fronte ad una occasionale attività di insegnamento privato, ma - secondo l'apprezzamento della Sezione disciplinare - ad una vera e propria gestione continuativa, sistematica e professionale, in corrispettivo di un compenso, di corsi collettivi integranti esercizio di una "scuola"; è assorbente considerare che il regime di incompatibilità di funzioni è diversamente disciplinato dal legislatore per il personale docente delle scuole e per i magistrati e ciò che è (sia pure con certi limiti) consentito ai primi, non per ciò solo è ammesso per i secondi. 
Invero, il comune aspetto di fondo, dipendente dal fatto che i docenti ed i magistrati sono legati, gli uni e gli altri, da un rapporto di servizio pubblico con lo Stato e svolgono, entrambi, attività in nome e per conto dello Stato medesimo, non ha impedito al legislatore di considerare, nell'ambito di un esercizio non irragionevole della sua discrezionalità politica, le peculiarità dello status dei magistrati rispetto a quello degli insegnanti delle scuole. Sotto il profilo della incompatibilità di funzioni, un trattamento differenziato, e più rigoroso, per i magistrati, rivolto sia ad evitare ogni possibile confusione tra il loro ruolo e quello di esercenti attività estranee alle funzioni giurisdizionali, sia a consentire l'esatto ed il tempestivo adempimento dei doveri d'ufficio, è, del resto, imposto dalla stessa Costituzione, la quale, agli articoli da 101 a 113, prevede apposite disposizioni dirette ad assicurare, a garanzia dell'autonomia e dell'imparzialità di una funzione di vitale importanza per l'esistenza e l'attuazione di uno Stato di diritto, la più ampia tutela dell'indipendenza dei magistrati, considerati sia come singoli soggetti sia come ordine giudiziario (cfr. Corte cost., sentenza n. 289 del 1992). 
2.5. - Sotto questo profilo, la rilevanza disciplinare della condotta neppure è esclusa dalla disciplina dettata per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche dall'art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il quale, nel prevedere che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza, e nello stabilire (con una norma che sanziona con la nullità gli atti e i provvedimenti di segno contrario adottati dalle amministrazioni di appartenenza) che gli incarichi retribuiti sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri d'ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso, esclude tuttavia - espressamente - i compensi derivanti da “attività... di docenza e di ricerca scientifica” (comma 6, lettera f bis, nel testo da ultimo modificato dall'art. 2, comma 13 quinquies, lettera b, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125). 
Nella vicenda in esame, infatti, si è in presenza, non di un incarico (per tale intendendosi l'attività destinata a svolgersi nel contesto di un rapporto di collaborazione appositamente instaurato con soggetti conferenti), ma di un'attività professionale continuativa di docenza posta in essere, in forma libera ed autonoma, dal Dott. P. . D'altra parte, anche ove ci si trovasse di fronte ad un incarico, varrebbe l'osservazione (già espressa da queste Sezioni Unite con la sentenza 28 novembre 2007, n. 24669) che il rapporto tra le due norme primarie di cui all'art. 16 dell'Ordinamento giudiziario e all'art. 53 del citato decreto legislativo non si pone in termini di abrogazione, ma di coordinamento ed integrazione, atteso che l'esistenza di una disposizione normativa che in via generale ed astratta postuli per i dipendenti pubblici la possibilità di svolgere incarichi non esclude la potestà autorizzatoria del CSM, spettando in ogni caso all'organo di autogoverno verificare che nel caso concreto non sussistano ragioni, connesse al prestigio della magistratura ovvero alla funzionalità del singolo ufficio giudiziario, che si oppongano a che quel particolare incarico sia svolto da quel determinato magistrato. 
2.6. - È del pari evidente l'insostenibilità del tentativo del ricorrente di ricondurre l'attività da lui compiuta nell'ambito dell'esercizio di pura libertà intellettuale della persona e di libera manifestazione del pensiero attraverso l'insegnamento, e quindi di una situazione soggettiva che gode della tutela costituzionale rafforzata della inviolabilità, preclusiva di qualsiasi rilevanza disciplinare. 
Al riguardo, occorre premettere che i magistrati debbono godere - e non sono possibili dubbi in proposito - degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino (Corte cost., sentenze n. 100 del 1981 e n. 224 del 2009). 
I magistrati non sono esseri inanimati o meri burocrati della legge e non vivono separati dal resto della società civile. Come cittadini e come persone, essi hanno certamente il diritto ed il dovere di contribuire alla vita intellettuale e culturale del Paese. 
Sono pertanto liberamente espletagli, e non richiedono alcuna autorizzazione, le attività che costituiscono espressione di diritti fondamentali, quali la libertà di manifestazione scritta e verbale del pensiero, di associazione, di esplicazione della personalità; la pubblicistica; la produzione artistica e scientifica; le attività di creazione di opere dell'ingegno; la partecipazione, come relatori, qualora non sia prevista alcuna attività di retribuzione, a seminari e convegni; l'adesione ad organismi che danno luogo ad un rapporto associativo trasparente; la partecipazione ad attività di volontariato. 
Anche in quest'ambito, deve tuttavia ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale. Poiché, infatti, lo status del magistrato è caratterizzato da diritti e doveri che, avuto riguardo alla specificità della funzione giudiziaria, senza dubbio investono il suo comportamento anche fuori dell'ufficio, pur quando ci si trovi al cospetto dell'esercizio di un diritto di libertà di rango costituzionale il magistrato deve responsabilmente valutare che l'attività in concreto espletata non comprometta la sua affidabilità e credibilità, in termini di indipendenza e di imparzialità, e deve curare che questa si svolga con modalità tali da non risultare pregiudizievole per il servizio giustizia. 
Ciò premesso, nella specie si è certamente al di fuori del nucleo dei diritti di libertà pura, perché - come accertato incensurabilmente dalla Sezione disciplinare - il Dott. P. ha fatto dell'insegnamento privato un'attività, non episodica e disinteressata, ma professionale e sorretta dal conseguimento di un vantaggio economico, costituente per il magistrato istruttore (secondo l'apprezzamento esaurientemente e logicamente motivato del giudice a quo) una seconda professione (libera): un'attività che non può essere ricondotta alla mera utilizzazione economica, da parte dell'autore o dell'inventore, di opere dell'ingegno. 
Né sposta la conclusione la circostanza che il Dott. P. fosse pienamente libero di svolgere questa libertà didattica, e che altrettanta libertà avessero i discenti di seguire uno o più mesi di lezioni (salvo l'obbligo, di questi ultimi, di versare il corrispettivo per il singolo mese di lezioni seguite). Non è, infatti, in discussione la non vincolatività (sia per il magistrato istruttore che per gli allievi) dell'offerta dei servizi di insegnamento, perché ciò che rileva, ed è sufficiente ad integrare l'illecito in termini di incompatibilità con la funzione giudiziaria, è il fatto che l'attività di insegnamento abbia assunto carattere professionale, sistematico e continuativo. 
2.7. - È inoltre da escludere che il Dott. P. avesse maturato un legittimo affidamento sulla liceità sul piano disciplinare della propria attività, per essere la Sezione disciplinare del Consiglio superiore giunta, in una precedente e analoga vicenda riguardante altro magistrato, ad una pronuncia di assoluzione. 
È esatto che, con la sentenza 18 luglio 2008, n. 86, il giudice disciplinare ritenne non integrato l'illecito contestato (si trattava, anche lì, di un caso di violazione degli artt. 16 dell'Ordinamento giudiziario e 3, comma 1, lettera d, del d.lgs. n. 109 del 2006 per la gestione autonoma, professionale e non episodica di corsi di preparazione al concorso per uditore giudiziario) per il fatto che l'incolpato, con lo svolgimento dell'attività didattica privata, non aveva dato vita ad una impresa, mancando qualunque forma di investimento e qualunque apporto di lavoro eccedente quello del magistrato istruttore. 
Ma va tuttavia precisato che la citata sentenza disciplinare ha cura di sottolineare che - in presenza di correnti di pensiero, sia giudiziarie che 
scientifiche, anche a lungo contrapposte - la soluzione più "benevola" (nel senso, appunto, della legittimità dell'attività didattica di preparazione ai concorsi nei limiti quantitativi e qualitativi che non ne implicassero la natura imprenditoriale) era stata assunta in quanto il fatto era cessato prima dell'entrata in vigore della nuova circolare del luglio 2007, la quale - si e-videnzia - "toglie ogni questione, giacché, al di là delle forme organizzative, vieta l'attività in sé". La sentenza, cioè, quando stabilisce la necessità della forma dell'organizzazione di tipo imprenditoriale per la configurabilità dell'illecito, guarda al passato; per le condotte collocabili dopo il luglio 2007, la soluzione adottata in quella fattispecie è - dichiaratamente - priva di efficacia precedenziale e di significato orientativo, valendo anzi l'opposta regola del divieto assoluto, a prescindere dalle dimensioni e dalla forma organizzativa. 
Ora, non interessa stabilire se sia o meno corretto il valore dirimente e costitutivo attribuito dalla sentenza alla circolare del Consiglio superiore che disciplina l'autorizzazione degli incarichi extragiudiziari, in attuazione della previsione di cui all'art. 16, secondo comma, del regio decreto n. 12 del 1941. Quel che è indiscutibile è che questa circolare - nello stabilire l'ambito e le caratteristiche delle attività vietate come premessa alla soluzione preventiva delle questioni prospettabili sul tema, ad essa proprio, degli incarichi - costituisce una formale deliberazione dell'organo di autogoverno della magistratura che, tra l'altro espressamente richiamata dalla sentenza della Sezione disciplinare, assume quantomeno la valenza di escludere che il magistrato possa riporre un legittimo affidamento sulla diversa opzione interpretativa, disattesa dalla circolare, che ammette la liceità della attività in questione quando esercitata in forme non imprenditoriali. 
2.8. - Allo stesso modo, non può essere accampato come scusa il provvedimento adottato in data 28 giugno 2007 dal presidente della Corte d'appello di Napoli, recante l'archiviazione di un esposto anonimo contro lo stesso Dott. P. , motivata sul rilievo che l'attività di insegnamento fa fino ad allora espletata ed oggetto di quell'esposto, avendo contenuto intrinsecamente intellettuale, era priva di significato disciplinarmente apprezzabile per l'assenza di strutture capaci di dare all'attività carattere di autonomia anche rispetto alla persona del docente magistrato e all'insegnamento da lui impartito. 
Detto provvedimento di archiviazione è del tutto insuscettibile di ingenerare una legittima rassicurazione o di rafforzare, nel Dott. P. , il convincimento in ordine alla liceità e dunque alla possibilità di continuare a svolgere, per il futuro, la medesima attività: sia perché la possibilità di assumere come scusa l'erroneo convincimento della liceità della propria condotta, se è ammissibile per il cittadino comune soltanto in presenza di situazioni eccezionali, è in linea di massima da escludere nel caso del magistrato, il quale ha il dovere di vagliare con il massimo scrupolo la compatibilità delle attività esercitate con il suo particolare status e possiede le conoscenze tecnico-giuridiche necessarie per sciogliere i dubbi che possono sorgere al riguardo; sia perché quel provvedimento di archiviazione venne adottato sulla base dell'espresso richiamo di una delibera del CSM (la "circolare n. 5114... in data 3 giugno 1981") superata dalla più recente, e più volte richiamata, formale risoluzione dello stesso Consiglio superiore, di cui è espressa menzione della citata sentenza n. 86 del 2008 della Sezione disciplinare. 
2.9. - Va poi escluso che, pervenendo ad una pronuncia di condanna motivata sul rilievo dell'esercizio, da parte del Dott. P. , di un'attività libero professionale, la Sezione disciplinare abbia emesso una decisione a sorpresa, ponendo a base della condanna un'ipotesi di illecito disciplinare diversa da quella contestata nell'atto introduttivo del giudizio. 
Contrariamente a quanto affermato dalla difesa del ricorrente, infatti, la scelta effettuata dal competente organo disciplinare nell'atto di iniziativa, e trasfusa nell'atto introduttivo del giudizio, contiene la definizione dell'ipotesi di illecito (l'avere, tra il 2007 ed il 2011, il Dott. P. "organizzato individualmente, in forma continuativa, attività di gestione di corsi di preparazione al concorso per l'accesso in magistratura, con lezioni tenute di regola due giorni la settimana, in favore di numerosi partecipanti, tra venti e sessanta, in corrispettivo di una remunerazione") prescindendo del tutto dal riferimento all'esercizio di un'impresa, tant'è vero che il capo di incolpazione precisa, espressamente, che il divieto di organizzazione di scuole private è configurabile "sotto qualsiasi forma e indipendentemente dalle caratteristiche dimensionali". A ciò aggiungasi che l'ipotesi contestata non si limita a descrivere la condotta nei suoi elementi fattuali, ma contiene anche - secondo il nuovo sistema di tipicità dell'illecito disciplinare - il giudizio di disvalore sulla condotta stessa formulato con il pertinente richiamo delle disposizioni di legge che vengono in considerazione nella specie: l'art. 3, comma, 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 e l'art. 16 dell'Ordinamento giudiziario. 
Non sussiste, pertanto, alcuna violazione del principio di necessaria corrispondenza tra accusa e decisione. 
2.10. - Né è riscontrabile la lamentata inosservanza dell'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 per non avere il giudice disciplinare fatto applicazione del criterio di giudizio, offerto da tale disposizione, che esclude la configurabilità dell'illecito disciplinare “quanto il fatto è di scarsa rilevanza”. 
Secondo la costante giurisprudenza di queste Sezioni Unite (v., tra le tante, la sentenza 5 luglio 2011, n. 14665), per l'applicazione di questa esimente è necessario che l'incolpato eccepisca e provi, o che comunque risulti, che il fatto del quale lo stesso è (stato giudicato) responsabile sia effettivamente di scarsa rilevanza. 
La norma dell'art. 3-bis tende ad attenuare la rigidità della tipizzazione degli illeciti disciplinari, sancendo - in riferimento a tutte le ipotesi di illecito previste negli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 109 del 2006 - che il fatto, pur a-strattamente rientrante in una delle fattispecie tipizzate, costituisce, in concreto, illecito disciplinare soltanto se supera, in base a valutazione che la Sezione può compiere anche d'ufficio sulla base dei fatti acquisiti al procedimento, la soglia della non scarsa rilevanza. 
Nel caso di specie, nessuno degli elementi che il ricorrente prospetta (il numero dei discenti, l'importo dei compensi, il luogo nel quale si tenevano le lezioni, la mancanza di qualunque promozione pubblicitaria) è potenzialmente idoneo a condurre ad una soluzione di segno positivo, a fronte di una attività pluriennale, sistematica e continuativa in contrasto con puntuali e tassative disposizioni di legge e con precisi canoni deontologici. 
2.11. - Inconferente è l'invocazione dell'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006. 
La disposizione che impone alla Sezione disciplinare di dichiarare esclusa la sussistenza dell'addebito “se non è raggiunta prova sufficiente” al riguardo, è una norma che attiene allo standard probatorio richiesto per pervenire ad una affermazione di responsabilità. Con questa regola di giudizio - modellata sulla disciplina del processo penale e improntata a ragioni di favor nei confronti dell'incolpato - si esclude che la sanzione disciplinare possa essere irrogata in presenza di una serie incompleta di elementi di responsabilità, ovvero di una contrapposizione fra elementi contrari ed elementi favorevoli all'incolpato. 
Ma si tratta di un'insufficienza che riguarda la prova, appunto, del fatto: nel suo accadimento, nella sua materialità o nella sua riferibilità all'incolpato. E poiché la predetta regola di giudizio non muta la natura del sindacato delle Sezioni Unite, che non può sconfinare nell'ambito del giudizio di merito, essa deve ritenersi osservata, a prescindere dalla persistenza dei dubbi della difesa sulla correttezza della ricostruzione prescelta dal giudice a quo, quando, come nella specie, la Sezione disciplinare abbia operato un'attenta e completa disamina delle risultanze probatorie, sorreggendola con una motivazione esaustiva rispettosa dei canoni della logica. 
D'altra parte, poiché l'incertezza che, secondo la delineata regola di giudizio, conduce alla esclusione della sussistenza dell'addebito verte sulla prova del fatto, l'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 non ha modo di trovare applicazione allorché la quaestio coinvolga, com'è nella presente vicenda, non l'an della condotta, ma la sua inquadrabilità nell'ambito della fattispecie disciplinare astratta delineata dal legislatore: il che pertiene alla logica del giudizio sussuntivo, scrutinabile in cassazione attraverso il prisma dell'errore di diritto, senza che la complessità dell'indagine ermeneutica al riguardo possa riflettersi, o risolversi, nel mancato raggiungimento della prova sufficiente della sussistenza dell'addebito. 
2.12. - Priva di qualsiasi collegamento con la ratio della sentenza impugnata è, infine, la censura con cui si sostiene che l'illecito non poteva essere fondato sulla, in realtà insussistente, riserva in favore delle Scuole di specializzazione per le professioni legali istituite presso le Università. 
3. - Il ricorso è rigettato. 
Nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del giudizio, in quanto il Ministero della giustizia non ha spiegato difese. 
Risultando dagli atti che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al comma 1 quater all'art. 13 del testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013). 

P.Q.M. 
La Corte rigetta il ricorso. 


Depositata in cancelleria il 10 dicembre 2013.

venerdì 13 dicembre 2013

URBANISTICA: la "diversità ontologica" tra i contributi per spese di urbanizzazione e i contributi dovuti per monetizzazione di aree standard. (T.A.R. Lombardia, Brescia, sentenza 29 novembre 2013 n. 1034).


URBANISTICA: 
la "diversità ontologica"
 tra i contributi per spese di urbanizzazione 
e i contributi dovuti per monetizzazione 
di aree standard
(T.A.R. Lombardia, Brescia, 
sentenza 29 novembre 2013 n. 1034).


Massima

1. Sussiste una "diversità ontologica" tra i contributi per spese di urbanizzazione e i contributi dovuti per monetizzazione di aree standard. 
a)  I contributi della prima specie sono dovuti per realizzare dette opere "senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l'area interessata all'imminente trasformazione edilizia", e quindi, per così dire, a titolo di contributo per i costi generali del Comune; 
b) i contributi della seconda specie, per contro, riguardano "aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all'interno della specifica zona di intervento", ovvero i costi specifici inerenti all'intervento stesso. 
2. Non vi è giustificazione alcuna, pertanto, a scomputare dai primi l'importo dei secondi, trattandosi di distinti e ugualmente necessari costi che la P.A. deve sopportare per la sostenibilità dell'intervento.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1010 del 2006, proposto da:
Lidl Italia Srl, rappresentato e difeso dagli avv. Augusto Mosconi, Cesare Righetti, con domicilio eletto presso Augusto Mosconi in Brescia, corso Martiri della Libertà,3; 
contro
Comune di Mantova, rappresentato e difeso dagli avv. Chiara Bergamaschi, Sara Magotti, con domicilio eletto presso T.A.R. Segreteria in Brescia, via Carlo Zima, 3; 
per l’annullamento
del provvedimento autorizzativo unico 27 gennaio 2005 n°196/04 e prot. n°2126/05, ricevuto il 1 febbraio 2006, con il quale il Dirigente dello sportello unico per le imprese e i cittadini del Comune di Mantova ha rilasciato permesso di costruire e contestuale autorizzazione commerciale alla Lidl Italia S.p.a. quanto alla demolizione e ricostruzione con destinazione commerciale di un edificio sito alla locale via Cremona civico 36 e al contestuale ampliamento della superficie di vendita sita nello stesso, limitatamente alla parte in cui determina come dovuta per il rilascio del permesso di costruire la somma di € 46.970,66 per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria;
dell’avviso in pari data di rilascio del predetto provvedimento;
di ogni atto presupposto, connesso, consequenziale o comunque lesivo, in particolare, ove necessario:
della deliberazione 23 novembre 2004 n°344, con la quale la Giunta comunale di Mantova ha determinato in via generale le tariffe per gli oneri di urbanizzazione;
nonché l’accertamento
della somma effettivamente dovuta per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria;
del diritto allo scomputo della quota di contributo dovuta per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in conseguenza del pagamento della somma di € 61.350 a titolo monetizzazione di uno standard di parcheggio pubblico;
e infine la condanna
del Comune intimato a restituire l’importo indebitamente percetto, maggiorato di interessi e rivalutazione;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Mantova;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 novembre 2013 il dott. Francesco Gambato Spisani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
La LIDL Italia S.r.l., controllata italiana di una nota impresa di livello europeo attiva nel settore del commercio al dettaglio tramite i cd. discount, ha ottenuto il permesso di costruire di cui meglio in epigrafe, con il quale è stata autorizzata alla demolizione e ricostruzione con ampliamento della superficie di vendita di un proprio esercizio sito i Mantova, alla via Cremona 36, e tutto ciò contro pagamento, a titolo di contributi urbanistici, di € 38.376,00 per contributo costo di costruzione, € 32.468,59 per contributo spese di urbanizzazione primaria, € 14.502,07 per contributo spese di urbanizzazione secondaria ed € 61.350,00 per monetizzazione aree standard (doc. 1 ricorrente, copia permesso di costruire).
Sul presupposto implicito che tale liquidazione sia oggetto di un provvedimento autoritativo, la LIDL la impugna in questa sede per contestare due degli importi sopraindicati, sulla base di due motivi:
- con il primo di essi, deduce violazione degli artt. 12 e 16 T.U. 6 giugno 2001 n°380 per contestare l’importo di € 61.350,00 preteso per monetizzazione aree standard. Sostiene infatti che tale importo è dovuto, come si è detto, per la monetizzazione di aree standard, ovvero quale equivalente in danaro della realizzazione delle opere corrispondenti. Ciò posto, e rilevato che ai sensi dell’art. 16 citato chi realizza in via diretta opere di urbanizzazione ha diritto a scomputare dagli oneri dovuti il relativo importo, sostiene che avrebbe avuto titolo per detrarre dalle somme dovute a titolo di contributo spese di urbanizzazione primaria e secondaria l’importo dovuto come equivalente delle opere stesse;
-con il secondo motivo, deduce ulteriore violazione degli artt. 12 e 16 T.U. 6 giugno 2001 n°380 per contestare gli importi dovuti quali oneri di urbanizzazione. Sostiene in proposito che l’intervento da essa eseguito avrebbe aumentato il carico urbanistico solo per la parte corrispondente all’incremento di superficie dell’immobile ristrutturato, e che quindi solo a tale aumento di superficie il contributo si sarebbe dovuto commisurare.
Con memoria 25 ottobre 2013, la ricorrente ha ribadito le asserite proprie ragioni.
Ha resistito il Comune di Mantova, con memoria formale 21 novembre 2006, memoria 23 ottobre e replica 5 novembre 2013, in cui chiede che il ricorso sia preliminarmente dichiarato inammissibile, meglio detto irricevibile, perché tardivo rispetto al provvedimento contestato; ne chiede poi la reiezione nel merito, sottolineando che lo scomputo è istituto diverso dalla monetizzazione e che la ristrutturazione radicale operata ha comunque modificato nel suo complesso il carico urbanistico.
Alla udienza del 27 novembre 2013, la Sezione ha da ultimo trattenuto in decisione il ricorso.

DIRITTO
1. Pacifici i fatti oggetto di causa, il ricorso risulta infondato in diritto e va quindi respinto.
2. Infondato è anzitutto il primo motivo di ricorso, col quale la società ricorrente sostiene, in buona sostanza, di aver titolo per scomputare da quanto dovuto a titolo di contributo spese di urbanizzazione quanto versato a titolo di monetizzazione di standard. In sintesi estrema, il ragionamento che sta alla base della relativa domanda di restituzione del corrispondente importo è il seguente: chi realizza opere di urbanizzazione a propria cura e spese non paga in danaro il contributo per spese di urbanizzazione, perché trasferendo le opere al Comune lo paga in natura per il valore corrispondente. La società ricorrente, in luogo di realizzare opere di urbanizzazione, le ha monetizzate, quindi si è impegnata a pagare il valore corrispondente; ha quindi titolo ad uno sconto di pari importo sul contributo spese di urbanizzazione.
3. Tale ordine di idee, apparentemente convincente, peraltro sta e cade con una premessa non esplicitata, ovvero la natura omogenea delle opere di urbanizzazione e delle aree standard. Solo se si trattasse di entità omogenee, infatti, si potrebbe sostenere la possibilità che il valore di entrambe, corrisposto che sia in natura o in danaro, vada a scomputo del contributo del relativo contributo spese di urbanizzazione.
4. Secondo la giurisprudenza, peraltro, la premessa descritta non è corretta. Fra i contributi per spese di urbanizzazione e i contributi dovuti per monetizzazione di aree standard vi è infatti una “diversità ontologica”, nei termini ribaditi da ultimo da C.d.S. sez. IV 8 gennaio 2013 n°32, da cui si cita e che ribadisce un orientamento formatosi, quanto alle sentenze edite, a partire da C.d.S. sez. IV 16 febbraio 2011 n°1013.
5. Infatti, i contributi della prima specie sono dovuti per realizzare dette opere “senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l'area interessata all'imminente trasformazione edilizia”, e quindi, per così dire, a titolo di contributo per i costi generali del Comune; i contributi della seconda specie per contro riguardano “aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all'interno della specifica zona di intervento”, ovvero i costi specifici inerenti all’intervento stesso. In tale ordine di idee, quindi, non vi è giustificazione alcuna a scomputare dai primi l’importo dei secondi, trattandosi di distinti e ugualmente necessari costi che l’amministrazione deve sopportare per la sostenibilità dell’intervento.
6. Né tale ordine di idee, che deriva dalla legge, cioè da fonte di rango superiore, sembra poter essere alterato dal contenuto del punto 10.8 delle NTA di Mantova (cfr. memoria ricorrente 6 novembre 2013 p. 5), che, quand’anche interpretabile nel senso voluto dalla ricorrente riveste al più rango di regolamento subordinato alle fonti primarie.
7. Infondato è anche il secondo motivo, per cui, a dire della ricorrente, i contributi versati al Comune si sarebbero dovuti commisurare non già, come fatto, alla superficie dell’intero edificio così come risultante dall’intervento, ma al solo ampliamento realizzato rispetto al fabbricato preesistente.
8. In proposito, vale il principio che si desume da C.d.S. sez. V 16 giugno 2009 n°3847, nel senso che la ricostruzione con ampliamento di un edificio, la quale come nella specie porti a realizzare un edificio più ampio e funzionale, va assoggettata a contributo come se si trattasse di opera nuova, dato che il carico urbanistico del nuovo manufatto va valutato tenendo conto della sua consistenza complessiva, e non è a priori riducibile alla somma del carico urbanistico dell’organismo preesistente e di quello corrispondente alla nuova superficie.
9. La decisione fondata su orientamenti giurisprudenziali non ancora manifestatisi al momento della proposizione della domanda è giusto motivo per compensare le spese.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 27 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Mario Mosconi, Presidente
Francesco Gambato Spisani, Consigliere, Estensore
Mara Bertagnolli, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)