PROCESSO:
limiti alla retroattività
del mutamento di giurisprudenza
ossia il c.d. "overruling"
(Cons. St., Sez. IV,
sentenza 6 dicembre 2013 n. 5822).
Massima
(Premessa: la controversia riguarda una D.I.A. edilizia presentata nel 2001, quando la stessa era qualificata, almeno dalla giurissprudenza maggioritaria, come atto privato cui faceva fronte un silenzio-inadempimento non significativo; con la Plenaria n. 15/11 si ritiene, al contrario, che il silenzio della P.A. sia significativo e vada impugnato dal controinteressato entro 60 giorni dal suo formarsi; il dies a quo è considerato quello di piena avvertenza della lesività dell'intervento edilizio).
1. E' pienamente condivisibile la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione che limita la portata retroattiva dell’overruling: si è detto, in particolare, che “affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di "prospective overruling", devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto "overruling" comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.” (Cass. civ. Sez. lavoro, 11-03-2013, n. 5962, ma si veda anche Sezioni Unite della Cassazione Civile, Ordinanza n. 8127 del 11-04-2011 ).
2. Ritiene il Collegio che:
a) da un canto, detto principio, rispettoso dell’ampia portata del principio del diritto di difesa consacrato ex art. 24 della Costituzione, si armonizzi a perfezione con tale prescrizione, ché, altrimenti, la parte ricorrente rischierebbe di essere assoggettata a conseguenze pregiudizievoli per il solo fatto di essersi conformata ad un orientamento maggioritario (se non come nel caso di specie uniforme), ancorché successivamente superato;
b) sotto altro profilo, che esso possa essere agevolmente traslato al giudizio innanzi al Consiglio di Stato (giudice di ultimo grado le cui pronunce possono essere sindacate unitamente per motivi attinenti alla giurisdizione e, quindi, equiparabile, sotto il profilo della tutela del diritto di difesa, al “giudice di legittimità”);
c) che, in punto di fatto, la vicenda “tipica” descritta dalla Corte di Cassazione è identica a quella che ebbe a verificarsi nell’odierna causa: gli originari ricorrenti si attennero ad un indirizzo giurisprudenziale sino a quel momento consolidato (si ricorderà che, illo tempore, si dubitava financo della possibilità teorica di proporre azioni di accertamento in sede di giurisdizione amministrativa, se non laddove la posizione azionata avesse consistenza di diritto soggettivo).
d) In ultimo, anche a non volere opinare nei termini esposti, comunque la parte appellata sarebbe stata meritevole del beneficio dell’errore scusabile, proprio perché ebbe a conformarsi all’orientamento prevalente in giurisprudenza dell’epoca: la doglianza va pertanto disattesa ed il ricorso di primo grado deve essere considerato ammissibile.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4660 del 2009,
proposto da:
Immobiliare Brianza 2002 Srl, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Alfredo Passaro, Antonella Giglio, con domicilio eletto presso Antonella Giglio in Roma, via Antonio Gramsci, 14;
Immobiliare Brianza 2002 Srl, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Alfredo Passaro, Antonella Giglio, con domicilio eletto presso Antonella Giglio in Roma, via Antonio Gramsci, 14;
contro
Condominio di via Soperga 33, in persona del legale
rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avv. Enzo Giacometti,
Stefano Pieri, con domicilio eletto presso Claudio De Portu in Roma, via G.
Mercalli, 13; Di Venosa Pietro, Merighi Marcello, Baggi Stefania, Riccioli
Sebastiano, Costa Marco, Marcolin Raffaella, Romani Denise, Torazzi Ivo;
nei confronti di
Comune di Milano, in persona del legale rappresentante
in carica, rappresentato e difeso dagli avv. Raffaele Izzo, Anna Maria
Moramarco, Maria Rita Surano, con domicilio eletto presso Raffaele Izzo in
Roma, lungotevere Marzio, 3;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. della LOMBARDIA – Sede di
MILANO - SEZIONE II n. 01322/2009, resa tra le parti, concernente VERIFICA
INTERVENTO DI OPERE EDILIZIE DI CUI ALLA DIA del 15 novembre 2002.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre
2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Francesco
Vagnucci (su delega di Enzo Giacometti), Raffaele Izzo e Gabriele Pafundi (su
delega di Antonella Giglio);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO
Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale
amministrativo regionale della Lombardia – sede di Milano - ha esaminato ed
accolto il ricorso di primo grado (corredato da motivi aggiunti) proposto dalla
odierna parte appellata, volto ad ottenere l’annullamento dell’atto comunale
prot. 43665176/2002 del 17.2.2004, con cui era stata respinta la richiesta di
adozione di idonei provvedimenti inibitori e/o sanzionatori delle opere
edilizie di cui alla DIA del 15.11.2002 per intervento di costruzione di nuovo
edificio residenziale pluripiano (previa totale demolizione dell’esistente
capannone industriale) in Milano, Viale Brianza, nonché per l’accertamento
dell’illegittimità del comportamento omissivo del Comune e per la
improduttività degli effetti della DIA intestata alla controinteressata odierna
appellante, con conseguente declaratoria giustiziale dell’obbligo della PA di
ordinare il ripristino dello stato dei luoghi ovvero la demolizione di quanto
costruito ex novo.
Con il mezzo di primo grado era stata parimenti
richiesta la condanna del Comune al risarcimento del danno ingiusto
asseritamente arrecato mercé le avversate condotte.
In punto di fatto era accaduto che l’amministratore
del Condominio appellato, unitamente a taluni condomini aveva chiesto, con
istanza del 17.9.2003, la verifica circa un intervento realizzato su un immobile
confinante, assentito con DIA presentata in data 15.11.2002 dalla Soc. La
Medina (poi: Immobiliare Brianza odierna appellante).
L’originaria parte ricorrente, sulla base di un
perizia di parte, aveva sostenuto che i lavori realizzati non corrispondevano a
quelli oggetto della DIA (in cui l’intervento era stato qualificato come
“ricostruzione edilizia” con demolizione di un preesistente edificio
artigianale ad uso autorimessa/officina con ufficio e nella costruzione di un
edificio formato da tre piani ad uso box di cui due interrati, da quattro piani
fuori terra ad uso residenziale e da una mansarda, di cui sarebbe stato chiesto
successivamente il recupero).
Ad avviso della originaria parte ricorrente
l’intervento avrebbe dovuto essere qualificato come nuova costruzione, in
quanto era stata variata la consistenza volumetrica, la sagoma e la
destinazione d’uso dell’edificio esistente.
Ne discendeva che - trattandosi di nuova costruzione -
si era verificata la violazione della distanza di 10 mt dalle pareti
finestrate.
Il Comune, con la nota del 17.2.2004 conosciuta dai
condomini solo il 13.5.2004 aveva confermato la legittimità dell’intervento, in
quanto conforme all’art 66.3.3 del R.E,. stante il rispetto della consistenza
volumetrica.
La nota in ultimo citata era stata gravata, e,
muovendo dalla premessa per cui si versava nella impossibilità di ricondurre
l’intervento al concetto di ristrutturazione edilizia di cui all’art 3 lett. d)
del TU n. 380/2001 (che richiedeva il mantenimento della stessa volumetria e
sagoma) e contestandosi la qualificazione resa dal Comune ai sensi del
Regolamento edilizio comunale, la parte odierna appellata aveva ipotizzato che,
a cagione della doverosa qualificazione dell’intervento come nuova costruzione,
essa versava in una situazione di irregolarità, a cagione della violazione
della superficie coperta massima ammissibile, del rapporto tra superficie
occupata e superficie filtrante e della distanza minima tra i confini e tra
fabbricati, sostenendosi peraltro che l’intervento comportava un pregiudizio in
termini di impatto ambientale (minor amenità e deprezzamento di valore per
sottrazione di luce e di visibilità).
Il primo giudice ha partitamente esaminato tutte le
censure proposte, previa disamina della eccezione di tardività proposta
dall’amministrazione comunale originaria resistente.
La detta eccezione è stata disattesa dal Tar, in
quanto parte appellata, configurando la DIA come atto privato e quindi
escludendone la sua non diretta impugnabilità, aveva chiesto al Comune di
intervenire con poteri inibitori.
L’amministrazione comunale aveva adottato il
successivo atto negando l’esistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri inibitori
o sanzionatori ( in quanto l’intervento risultava, a suo dire, conforme alle
norme vigenti): pertanto, ad avviso del Tar, non trattandosi della impugnazione
di un titolo edilizio (per il quale doveva essere considerato il termine
decadenziale di legge dalla piena conoscenza), ma dell’impugnazione di un atto
del Comune, il termine doveva decorrere dalla data di ricevimento del
provvedimento.
Nel merito, il primo giudice ha preso in esame la
doglianza centrale, riposante nella lamentata non riconducibilità
dell’intervento eseguito al concetto di ristrutturazione.
Detta critica è stata accolta, previa individuazione
della disciplina normativa vigente all’epoca, (art 31 lett. d), l. 5 agosto
1978 n. 457, art. 66 del Regolamento edilizio comunale).
Rammentato che, ad avviso dell’amministrazione
comunale, l’intervento doveva qualificarsi come ristrutturazione edilizia, ai
sensi dell’art 66.3.3 del Regolamento edilizio, in quanto – sebbene realizzato
mediante demolizione e ricostruzione – era stata rispettata la consistenza
volumetrica preesistente, il Tribunale amministrativo ha contestato tale punto
di vista.
Era ben vero, infatti, che, secondo la lettera
dell’art. 66 del Regolamento edilizio comunale, la ristrutturazione poteva
comprendere anche demolizione e ricostruzione, con modifica di sagoma, purché
venisse mantenuta la medesima volumetria.
Doveva, però, parimenti essere considerato che, da un
canto, ed in punto di fatto, non era contestabile che l’intervento assentito si
era strutturato in una evidente variazione della sagoma e dell’altezza rispetto
alla consistenza del preesistente compendio immobiliare.
Per altro verso, secondo la prevalente interpretazione
dell'art. 31 lett. d), l. 5 agosto 1978 n. 457, il concetto di ristrutturazione
edilizia comprendeva anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione
del manufatto, purché tale ricostruzione assicurasse la piena conformità di
sagoma, volume e superficie fra il vecchio e il nuovo manufatto e venisse
comunque effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della
demolizione.
Il successivo T.U. dell’Edilizia, che aveva
espressamente disciplinato la ristrutturazione con demolizione e ricostruzione
all’art 3 comma 1 lett d), a seguito della modifica introdotta dal D. Lvo
201/2002, imponeva che il risultato finale coincidesse, nella volumetria e
nella sagoma, con il preesistente edificio demolito (mentre per l’intervento
ricostruttivo che si ricollegava ad un intervento demolitorio non si richiedeva
più il riferimento alla fedele ricostruzione).
Alla incontestata diversità della sagoma, ed alla
incontestata maggiore altezza dell’edificio ricostruito rispetto a quello
preesistente, doveva conseguire l’effetto per cui il Regolamento (laddove esso
qualificava come ristrutturazione interventi che comportavano una diversa
sagoma) in quanto contrastante con la norma primaria, doveva essere
disapplicato.
Da ciò, ad avviso del Tar, discendeva l’accoglimento
del mezzo e la declaratoria di illegittimità del provvedimento gravato, in
quanto il Comune di Milano, a fronte della non conformità della DIA alle
disposizioni di legge, aveva erroneamente ritenuto che non sussistessero i
presupposti per l’adozione di provvedimenti inibitori o sanzionatori a carico
dell’Immobiliare Brianza.
La odierna appellante, non costituitasi e rimasta
soccombente nel giudizio di prime cure, ha proposto una articolata critica alla
sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.
Ha ripercorso il risalente e prolungato contenzioso
intercorso ed ha sostenuto, in primo luogo (prima censura), che il Tar aveva
gravemente errato a non dichiarare la irricevibilità del mezzo di primo grado,
in quanto tardivamente proposto (la Dia era stata presentata il 15 novembre
2002).
La richiesta di verifica tecnica, rivolta al Comune di
Milano, risaliva al 17/9/2003; ben prima gli originarii ricorrenti erano venuti
a conoscenza degli asseriti vizi, che, a loro dire, connotavano l’intervento,
tanto che la richiesta di verifica era supportata da una perizia di parte da
loro stessi commissionata e redatta il 15/9/2013, mentre la documentazione
relativa alla presentazione della DIA e degli allegati progetti tecnici era
stata fornita agli odierni appellati rispettivamente in data 17 marzo 2003 e 9
luglio 2003.
L’immobile era in stato di avanzata realizzazione già
nel settembre 2003; il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado venne
notificato soltanto il 27 maggio 2004 e venne “tarato” sul richiesto
annullamento di un atto, pacificamente privo di valenza e connotato provvedimentale,
riposante nell’atto comunale prot. 43665176/2002 del 17.2.2004: ne era evidente
la tardività, anche alla luce della giurisprudenza amministrativa in materia,
in quanto parte appellata avrebbe dovuto proporre domanda di accertamento
negativo, volta a far constare la insussistenza dei presupposti di legittimità
della Dia nell’ordinario termine decadenziale (C.d.S. n. 3742/2008, 5811/2008,
4828/2007 e,in ultimo, n. 717/2009).
Nel merito, ha evidenziato che il Tar era incorso in
un errore, allorché aveva qualificato il provvedimento gravato come omissivo
dell’ adozione di provvedimenti inibitori o sanzionatori a carico della
“Immobiliare Brianza", ordinando, quindi, allo stesso Comune di disporli:
l’errore del Tar nasceva dal fraintendimento della natura della Dia e non
teneva presente che il potere repressivo subsequens era una forma particolare
di “autotutela”, non implicando un'attività di secondo grado insistente su un
precedente provvedimento amministrativo.
Peraltro, si era al cospetto di delicati provvedimenti
di affidamento in capo ai terzi: il Tar aveva pronunciato oltre i propri poteri
e si sarebbe dovuto limitare ad ordinare all’Amministrazione di vagliare la
richiesta di verifica, ma non certo di predeterminare l’esito di tale verifica,
in quanto rimesso alla discrezionale potestà dell’amministrazione comunale.
Con la terza censura – più stringentemente dedicata
all’esame del merito della controversia - ha contestato l’approdo del Tar, che
aveva disapplicato la norma regolamentare meneghina, sostenendo che la legge n.
457/1978 era lacunosa in punto di ammissibilità – o meno - di una
ristrutturazione mercé demolizione con mutamento della sagoma.
La particolarità della controversia consisteva nella
circostanza che il Tar aveva interpretato, ex post, ed alla luce delle
prescrizioni contenute sub art. 3 del TU edilizia, la norma previgente.
Non v’era contrasto, insomma, tra la norma
regolamentare ed il testo dell’art. 31 della legge n. 457/1978, di guisa che la
prima non avrebbe potuto essere oggetto di disapplicazione (pur non obliandosi
che la giurisprudenza amministrativa aveva interpretato il precetto di cui al
citato art. 31 della legge n. 457/1978 in termini restrittivi).
Peraltro la legge regionale lombarda n. 12 del 2005,
all’art. 27 aveva introdotto una prescrizione analoga a quella contenuta nel
regolamento comunale erroneamente disapplicato dal primo giudice.
L’appellante ha poi dedicato l’ultima parte
dell’appello a confutare le argomentazioni contenute nei motivi di ricorso
assorbiti dal Tar, in punto di asserita violazione della superficie coperta
massima ammissibile, del rapporto tra superficie occupata e superficie
filtrante e della distanza minima tra i confini e tra fabbricati,
La controinteressata amministrazione comunale, già
resistente rimasta soccombente ha chiesto l’accoglimento dell’appello
principale ed ha riproposto l’eccezione di tardività del mezzo di primo grado,
disattesa dal Tar, difendendo la legittimità nel merito, del proprio operato.
Parte appellata, già ricorrente vittoriosa in primo
grado, ha chiesto la reiezione dell’appello ed ha riproposto la domanda
risarcitoria non esaminata dal Tar.
Ha chiesto, in primis, la declaratoria di
inammissibilità dell’appello, in quanto era stato notificato in copia unica
presso il difensore (e non già in un numero di copie corrispondente al numero
dei proponenti il ricorso collettivo)..
Ha poi diffusamente argomentato sulla tempestività del
mezzo di primo grado, facendo presente che l’avversato atto comunale prot.
43665176/2002 del 17.2.2004 era stato conosciuto dall’amministratore del
condominio in epoca successiva, e dai singoli condomini ricorrenti solo in
epoca ancor più successiva, coincidente con l'assemblea condominiale del
13/05/04, nella quale si era deliberato di ricorrere avanti al TAR.
In ogni caso, la conoscenza del progetto edilizio di
cui alla DIA, quale emergente dall’esposto del settembre 2003 (e dall 'allegata
perizia tecnica) non era riferibile ai singoli condomini ricorrenti, atteso che
l'esposto al Comune era stato presentato solo dall’amministratore condominiale,
il quale, salvo uno specifico mandato, agiva a tutela delle sole parti comuni.
Nel merito, ha riproposto la tesi della radicale
illegittimità del titolo avversato.
Con ulteriore memoria ha confutato l’eccezione di
tardività del mezzo di primo grado, chiedendo, in subordine, la concessione del
beneficio dell’errore scusabile, ed ha ribadito l’ammissibilità e fondatezza
della domanda risarcitoria (proposta nella memoria di costituzione datata 12
giugno 2009).
All’adunanza camerale del 23 giugno 2009 la Sezione
con la ordinanza n. 3200/2009 ha accolto l’istanza di sospensione della
esecutività della impugnata decisione alla stregua della considerazione per cui
“l’appello appare assistito da sufficienti elementi di fondatezza e che,
inoltre, i profili di danno dedotti da parte appellante appaiono significativi
per indurre il Collegio alla sospensione della efficacia della sentenza
appellata;”.
L’efficacia della sentenza impugnata, è stata pertanto
sospesa.
Alla pubblica udienza del 19 novembre 2013 la causa è
stata posta in decisione dal Collegio.
DIRITTO
1. Ritiene il Collegio necessario, in via preliminare
rispetto all’esame del merito della controversia, affrontare e risolvere talune
problematiche che assumono portata pregiudiziale.
1.1. In particolare, al fine di perimetrare il
materiale cognitivo esaminabile dal Collegio, va rilevato che l’appello
principale è palesemente ammissibile (e va pertanto respinta la relativa
eccezione prospettata da parte appellata di inammissibilità dell'appello per
nullità della notifica, in quanto effettuata mediante consegna di una sola
copia dell'atto di appello, nonostante la pluralità di parti domiciliate presso
unico difensore): premesso, invero, che l'eccepita nullità della notifica non è
comunque in grado di determinare la dedotta inammissibilità (costituendo
principio ormai fermo quello secondo il quale, sotto il profilo
dell'ammissibilità dell'impugnazione, l'onere della notificazione dell'appello
deve ritenersi correttamente adempiuto quando la notificazione si sia
tempestivamente perfezionata nei confronti di una sola delle parti principali
del giudizio di primo grado, non avendo la notificazione del gravame la
funzione di instaurare un nuovo contraddittorio, bensì quella di riprendere la
controversia già instaurata nella fase precedente: Cons. St., Ad. plen. n.
50/1980; IV Sez., n. 824/1998 e n. 2833/2003; V Sez., n. 1897/2001; v., oggi,
l'art. 95, commi 2 e 3, c.p.a.), va in ogni caso ricordato che la notificazione
dell'atto di impugnazione a più parti presso un unico procuratore, eseguita
mediante consegna di una sola copia o di un numero di copie inferiori rispetto
alle parti cui l'atto è destinato, comporta un vizio della notificazione, che
può essere sanato, con efficacia ex tunc, o con la costituzione in giudizio di
tutte le parti cui l'impugnazione è diretta, ovvero con la rinnovazione della
notificazione da eseguire in un termine perentorio assegnato dal Giudice a
norma dell'art. 291 c.p.c., con la consegna di un numero di copie pari a quello
dei destinatari, tenuto conto di quella o di quelle già consegnate.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa e quella
civile di legittimità hanno da tempo raggiunto una stabile concordanza di opinioni
(cfr. Cons. Stato Sez. III, 03-10-2011, n. 5419; Cass. civ. Sez. V, 24-01-2007,
n. 1574; Cass., 17/04/2004, n. 7347 e 4 aprile 2006, n. 7818) e non ritiene il
Collegio di mutare opinione rispetto a quanto ivi autorevolmente affermato.
Posto che, peraltro, nel caso di specie tutte le parti
appellate si sono costituite nell’odierno giudizio, non v’è alcuna necessità di
rinnovare la notifica; e l’eccezione, pertanto, va integralmente disattesa.
1.2. Rileva il Collegio, peraltro (ex officio, in
questo caso), che le censure incidentalmente riproposte da parte appellata sono
tempestive e pertanto esaminabili nell’odierno grado di giudizio.
Il Tar, in particolare, non ebbe a pronunciarsi sul
petitum risarcitorio articolato da parte appellata già in primo grado ed ebbe
ad assorbire taluni altri profili di critica alla supposta legittimità
dell’intervento edificatorio eseguito.
Premesso che l’intera vicenda processuale risulta
governata, ratione temporis dalle disposizione antevigenti rispetto all’entrata
in vigore del cpa, si deve fare applicazione del consolidato principio secondo
il quale (Cons. Stato Sez. IV, 10-08-2011, n. 4766), “in applicazione estensiva
dell'art. 346 c.p.c…., nel processo amministrativo, si afferma il principio
della riproponibilità dei motivi assorbiti o non esaminati mediante memoria,
così semplificando gli oneri dell'appellante incidentale (proprio), esentandolo
dalla necessità di notificazione dell'atto. Peraltro, se pure si consente la
riproposizione dei motivi per il tramite di memoria e non di appello
incidentale (accordando prevalenza all'art. 346 c.p.c. sull'art. 37 R.D. n.
1054/1924), non si può escludere che detta memoria debba essere comunque
depositata entro il termine previsto dal citato art. 37. E ciò a maggior
ragione vista l'assenza di diversa previsione nell'art. 346 c.p.c.”.
Nel caso di specie il termine di cui all'art. 37 R.D.
n. 1054/1924 è stato pienamente rispettato, in quanto: la sentenza gravata
venne depositata il 19 febbraio 2009 e notificata l’8 aprile 2009; l’appello
principale venne depositato il 3 giugno 2009 e la memoria di costituzione
contenente le censure incidentalmente riproposte venne depositata in data 18
giugno 2009.
E’ evidente, in conseguenza, che non si ponga alcuna
problematica di ammissibilità ed esaminabilità di dette doglianze.
2. Ciò premesso, e con l’avvertenza che la causa
presenta la rilevante particolarità di essere stata sottoposta allo scrutinio
di primo grado allorquando numerose incertezze sussistevano in ordine alla
applicazione di svariati istituti di diritto processuale e sostanziale che
vengono in rilievo per la risoluzione della controversia, può passarsi
all’esame delle doglianze contenute nell’appello principale proposto dalla
beneficiaria dell’avversata Dia.
2.1. A tal proposito, la prima doglianza da scrutinare
propone l’eccezione di tardività del mezzo di primo grado che - già prospettata
dal Comune di Milano (che del pari l’ha sollevata nuovamente nel corso del
giudizio di appello) - è stata disattesa dal Tar.
Nella parte “in fatto” della presente decisione si è
dato conto delle diverse posizioni prospettate e della motivazione reiettiva
del Tar.
2.2. Appare evidente al Collegio che la questione sia
causalmente ricollegabile proprio alle incertezze giurisprudenziali e
dottrinarie che (sia al tempo del perfezionamento del titolo, che al momento
della proposizione del mezzo di primo grado, e sino alla pronuncia
dell’avversata sentenza) erano riscontrabili relativamente alla natura della
Dia ed alle conseguenti modalità attraverso le quali il terzo, che da essa si
assumeva leso, poteva contestarne la operatività.
2.2.1. Appare impossibile non concordare con la tesi
di parte appellante, secondo cui – al più tardi al momento di redazione della
perizia di parte datata 15/9/2003 - l’originaria parte ricorrente conosceva o
avrebbe comunque dovuto percepire (trattasi di ricorso collettivo) le asserite
illegittimità che connotavano la Dia del 2002; peraltro è rimasto incontestato
che alla data del settembre 2003 i lavori erano progrediti.
E parimenti appare indubitabile che il Tar abbia
respinto la eccezione, facendo riferimento ad un orientamento ermeneutico
successivamente smentito da qualificata giurisprudenza (e, prima ancora, che la
stessa parte originaria ricorrente abbia modulato la propria iniziativa
contestativa facendo riferimento al detto assetto interpretativo).
La giurisprudenza amministrativa, infatti – alla quale
questo Collegio aderisce senz’altro –, ha successivamente ricostruito
l’istituto della Dia in termini di atto del privato, e, quel che più rileva, ha
affermato il diritto/dovere del privato asseritamente leso, di agire innanzi al
Tar chiedendo l’accertamento circa la insussistenza dei presupposti per la
eseguibilità dell’intervento oggetto di denuncia.
Ciò nel termine decadenziale decorrente dalla
conoscenza dell’avvenuta presentazione della Dia (si veda, in particolare,
Cons. Stato, Sez. VI, n. 717/2009 e Cons. Stato, Ad. Plen., 29-07-2011, n. 15,
laddove al capo 6.3. è dato riscontrare le seguenti significative affermazioni:
“ la configurazione del silenzio in esame alla stregua
di silenzio significativo produce, infatti, precise conseguenze in merito alle
tecniche di tutela praticabili del terzo controinteressato all'esercizio
dell'attività denunciata.
Venendo in rilievo un provvedimento per silentium, la
tutela del terzo sarà affidata primariamente all'esperimento di un'azione
impugnatoria, ex art. 29 del codice del processo amministrativo, da proporre
nell'ordinario termine decadenziale.
Quanto al dies
a quo del ricorso per annullamento, ai sensi di legge il termine
decadenziale di sessanta giorni per proporre l'azione prende a decorrere solo
dal momento della piena conoscenza dell'adozione dell'atto lesivo (cfr. art.
41, comma 2, del codice).
A tale proposito, ai fini dell'accertamento della
conoscenza dell'atto lesivo, trovano applicazione i principi interpretativi
consolidati, elaborati in materia di impugnazione di provvedimenti in materia
edilizia e urbanistica.
Alla stregua del condivisibile orientamento
interpretativo di questo Consiglio (Sez. VI, n. 717/2009 cit.), la decorrenza
del termine decadenziale, in materia edilizia, non può essere di norma fatta
coincidere con la data in cui i lavori hanno avuto inizio, in quanto, come la
giurisprudenza ha già specificato per l'impugnazione dei titoli abilitativi
edilizi, il termine inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela
in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale
non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica. Ne deriva
che, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine per
l'impugnazione decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro
completamento (così Cons. Stato, Sez. IV, 5 gennaio 2011, n. 18, secondo cui il
termine per ricorrere in sede giurisdizionale da parte dei terzi avverso atti
abilitativi dell'edificazione decorre da quando sia percepibile la concreta
entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica; Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8705, ad avviso della
quale il completamento dei lavori è considerato indizio idoneo a far presumere
la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la
prova di una conoscenza anticipata).
Va soggiunto che, nel caso in cui la piena conoscenza
della presentazione della d.i.a. avvenga in uno stadio anteriore al decorso del
termine per l'esercizio del potere inibitorio, il dies a quo coinciderà con il
decorso del termine per l'adozione delle doverose misure interdittive.”).
Sin qui la decisione dell’Adunanza Plenaria.
2.2. Alla stregua del detto orientamento
giurisprudenziale (lo si ripete, formatosi ben successivamente al momento in
cui ebbe a verificarsi il “fatto storico” sotteso all’odierno processo ed ebbe
ad essere proposto il mezzo di primo grado), il mezzo introduttivo del giudizio
di primo grado avrebbe potuto (e, sostiene il Comune, dovuto) essere dichiarato
inammissibile.
Comunque, ed in ogni caso, l’inammissibilità
originaria, ad avviso dell’appellante Comune, dovrebbe essere dichiarata
nell’odierno grado di giudizio.
Rileva tuttavia il Collegio che ben due considerazioni
si oppongono all’accoglimento dell’eccezione (in disparte ogni considerazione
sulle difese “in fatto” formulate da parte appellata circa la non conoscenza
“in concreto” da parte di tutti i condomini degli accadimenti).
Da un canto, appare pienamente condivisibile la
giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione che limita la portata
retroattiva dell’overruling: si è detto, in particolare, che “affinché un
orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece,
dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati
giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di "prospective
overruling", devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che
si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del
processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere
lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da
indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto
"overruling" comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o
di difesa della parte.” (Cass. civ. Sez. lavoro, 11-03-2013, n. 5962, ma si
veda anche Sezioni Unite della Cassazione Civile, Ordinanza n. 8127 del
11-04-2011 ).
Ritiene il Collegio che:
.- da un canto, detto principio, rispettoso dell’ampia
portata del principio del diritto di difesa consacrato ex art. 24 della
Costituzione, si armonizzi a perfezione con tale prescrizione, ché, altrimenti,
la parte ricorrente rischierebbe di essere assoggettata a conseguenze
pregiudizievoli per il solo fatto di essersi conformata ad un orientamento
maggioritario (se non come nel caso di specie uniforme), ancorché
successivamente superato;
.- sotto altro profilo, che esso possa essere
agevolmente traslato al giudizio innanzi al Consiglio di Stato (giudice di
ultimo grado le cui pronunce possono essere sindacate unitamente per motivi
attinenti alla giurisdizione e, quindi, equiparabile, sotto il profilo della
tutela del diritto di difesa, al “giudice di legittimità”);
.- che, in punto di fatto, la vicenda “tipica”
descritta dalla Corte di Cassazione è identica a quella che ebbe a verificarsi
nell’odierna causa: gli originari ricorrenti si attennero ad un indirizzo
giurisprudenziale sino a quel momento consolidato (si ricorderà che, illo
tempore, si dubitava financo della possibilità teorica di proporre azioni
di accertamento in sede di giurisdizione amministrativa, se non laddove la
posizione azionata avesse consistenza di diritto soggettivo).
In ultimo, anche a non volere opinare nei termini
esposti, comunque la parte appellata sarebbe stata meritevole del beneficio
dell’errore scusabile, proprio perché ebbe a conformarsi all’orientamento
prevalente in giurisprudenza dell’epoca: la doglianza va pertanto disattesa ed
il ricorso di primo grado deve essere considerato ammissibile.
3. Nel merito, (anche a cagione della progressione dell’esperienza
giurisprudenziale) si può affermare senza tema di smentite l’esattezza
dell’approdo interpretativo cui è giunto il primo giudice.
3.1. In primo luogo – il che, va rilevato per
incidens, consente di entrare immediatamente all’interno della problematica
centrale dell’odierno giudizio - è doveroso riscontrare che nessun possibile
ausilio alla tesi di parte appellante può provenire dalla (superveniens
rispetto ai fatti di causa) disposizione di cui all'art. 27, comma 1, lettera
d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come
interpretato dall'art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010,
che definisce come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e
ricostruzione senza il vincolo della sagoma.
Rileva, infatti ed innanzitutto, la circostanza,che
costituisce principio generale costantemente predicato dalla pacifica
giurisprudenza amministrativa quello per cui “la legittimità di un
provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di
fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il
principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di
provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post
precedenti atti amministrativi”(Cons. Stato Sez. IV, 21-08-2012, n. 4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria
volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile
applicazione (ex multis: Cass. civ. Sez. VI, 22-02-2012, n. 2672).
La materia urbanistica e quella edilizia non fanno
certo eccezione a detta regola generale: (ex multis: “per il principio tempus
regit actum, la legittimità del rigetto del permesso di costruire deve essere
rapportata alla situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa
emanazione”.-Cons. Stato Sez. IV, 09-02-2012, n. 693).
Ratione temporis, quindi, va esclusa in radice
l’applicabilità di dette disposizioni al processo in corso, ovvero la loro
valutabilità ex post ed incidenza sull’attività edificatoria antecedentemente
realizzatasi e sui titoli abilitativi anteriormente formatisi (ex multis, si
veda, di recente Cons Stato Sez. V 1632/2012).
Ma v’è di più.
Detta prescrizione, infatti, identica a quella del
regolamento comunale di Milano disapplicato dal Tar, è stata espunta dal
sistema dalla decisione della Corte Costituzionale (decisione n. 309/2011).
E in detta ultima decisione, in armonia con principi
consolidati resi dalla giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. Stato Sez.
IV, 26-01-2009, n. 440: “poiché la nozione di ristrutturazione edilizia
comprende anche la demolizione con ricostruzione solo se il nuovo manufatto ha
la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, non può essere
classificato quale ristrutturazione l'intervento che abbia comportato la realizzazione
di un nuovo immobile, distinto per volumetria altezza e sagoma rispetto al
precedente.”).
La Corte Costituzionale, i cui principi devono essere
integralmente richiamati in questa sede, ha richiamato la propria precedente
decisione (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2 del considerato in diritto),
con la quale essa aveva ricondotto nell'ambito della normativa di principio in
materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i
titoli abilitativi per gli interventi edilizi, ed ha affermato che “a
fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime
che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al
procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali. L'intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla
definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra
le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di
ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di
ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro
e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione
ordinaria), dall'altro. La definizione delle diverse categorie di interventi
edilizi spetta, dunque, allo Stato.”
Da tale affermazione la Consulta ha fatto conseguire
il principio per cui “tali categorie sono individuate dall'art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001, collocato nel titolo I della parte I del testo unico,
intitolato «Disposizioni generali». In particolare, la lettera d) del comma 1
di detto articolo include, nella definizione di «ristrutturazione edilizia»,
gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di
sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica
come interventi di «nuova costruzione» quelli di «trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere
precedenti». In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento
di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio
preesistente - intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale -
configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione
edilizia.
A conferma di ciò non sta solo il dato letterale
dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 - che fa
riferimento alla «stessa volumetria e sagoma» dell'edificio preesistente e
ammette «le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica» - ma vi è anche la successiva legislazione statale in materia
edilizia. L'art. 5, commi 9 e ss., del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70
(Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia), convertito, con
modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, infatti, nel regolare
interventi di demolizione e ricostruzione con ampliamenti di volumetria e
adeguamenti di sagoma, non ha qualificato tali interventi come ristrutturazione
edilizia, né ha modificato la disciplina dettata al riguardo dall'art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova
costruzione e quelle degli altri interventi edilizi, d'altronde, non può non
essere dettata in modo uniforme sull'intero territorio nazionale, la cui «morfologia»
identifica il paesaggio, considerato questo come «la rappresentazione materiale
e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue
montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli
aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti
a noi attraverso la lenta successione dei secoli».
Da tali presupposti (esplicitati dalla Corte
Costituzionale nel breve stralcio motivazionale che si è pedissequamente
riportato sopra) è stata fatta discendere la statuizione per cui, l'art. 27,
comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12
del 2005, come interpretato dall'art. 22 della legge della Regione Lombardia n.
7 del 2010, nel definire come ristrutturazione edilizia interventi di
demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, è in contrasto con
il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lettera d), del
d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell'art. 117, terzo comma,
Cost., in materia di governo del territorio. Parimenti lesivo dell'art. 117,
terzo comma, Cost., è l'art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del
2005, nella parte in cui, qualificando come «disciplina di dettaglio» numerose
disposizioni legislative statali, prevede la disapplicazione della legislazione
di principio in materia di governo del territorio dettata dall'art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alla definizione delle categorie di
interventi edilizi.”.
3.2. Riepilogando, quindi: il TU edilizia è sempre
stato interpretato nel senso che la ristrutturazione fosse consentita nel
rispetto di sagoma ed altezza preesistenti(Cons. Stato Sez. IV, 26-01-2009, n.
440 prima citata, ma anche T.A.R. Campania Napoli Sez. II, 14-09-2009, n. 4964
etc); la Consulta ha espunto dal sistema disposizioni legislative regionali che
dettavano un concetto di ristrutturazione difforme rispetto a quello contenuto
nel TU edilizia: nessun argomento difensivo fondato su tali profili merita
accoglimento.
3.3. Ma neppure appare meritevole di positiva
delibazione l’ultimo argomento difensivo, secondo il quale le disposizioni in
materia di Dia applicabili ratione temporis fossero poco perspicue, e da esse
potesse trarsi il convincimento per cui poteva rientrare nel concetto di
ristrutturazione una attività edilizia demolitoria e ricostruttiva senza
vincolo di rispetto di altezza, sagoma, ed area di sedime, rispetto al
preesistente.
Ciò in quanto, per consolidata ed uniforme
giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. Stato Sez. V, 09-10-2002, n.
5410, ma anche Cons. Stato Sez. V, 03-04-2000, n. 1906) “nel concetto di
ristrutturazione edilizia, ai sensi dell'art. 31, primo comma, lett. d) della
L. 5 agosto 1978 n. 457, rientra anche la demolizione e la successiva fedele
ricostruzione del manufatto purché tale ricostruzione venga comunque eseguita
in un tempo ragionevolmente vicino a quella della demolizione e realizzi un
nuovo manufatto del tutto conforme al vecchio come sagoma, volume e
superficie”.
L’indirizzo giurisprudenziale poi “sposato” dal
Giudice delle leggi, quindi, era ben consolidato in precedenza, per cui
l’argomento difensivo merita decisa reiezione.
3.4 Ne consegue che il regolamento comunale si poneva
in diretto conflitto con dette disposizioni di rango e valenza superiore ed
esattamente è stato disapplicato dal Tar; non soltanto il frontale contrasto
(negato dalla difesa di parte appellante) sussisteva: esso era eliminabile
unicamente attraverso la disapplicazione della fonte inferior (ex multis, di recente,
Cons Stato Sez. V n. 4914/2012, laddove, in una vicenda speculare a quella per
cui è causa, è stato affermato che “il potere di disapplicazione dei
regolamenti, anche se non ritualmente impugnati, è ammesso, in caso di
contrasto tra norme di rango diverso - conflitto di norme-fonti non omogenee
nella loro forza precettiva, ma simultaneamente abilitate e intervenire
direttamente sulla stessa fattispecie concreta -,per garantire il rispetto
della gerarchia delle fonti e accordare, quindi, prevalenza a quella di rango
superiore, e cioè alla legge o comunque agli atti di rango primario.”).
4. A questo punto della esposizione – probabilmente
invertendo i termini canonici di una ordinata trattazione - e prima di
interrogarsi sulle conseguenze della conferma del capo demolitorio, il Collegio
ritiene immediatamente di esternare il proprio convincimento in ordine alla
circostanza che la domanda risarcitoria proposta da parte appellata (unica
delle incidentalmente riproposte censure procedibile, in quanto le altre sono
assorbite dalla conferma in parte qua della statuizione demolitoria resa dal
Tar) in nessun caso avrebbe pratiche probabilità di accoglimento.
Sul punto il Tar non si è pronunciato, probabilmente
perché (comunque errando) ritenne la questione assorbita dalla pronuncia
disapplicativa, ovvero perché più fondatamente (cfr. quello che si dirà al capo
successivo) non era stata accertata la definitiva spettanza del bene della vita
in capo a parte appellata, a cagione del fatto che il Comune avrebbe pur sempre
dovuto rideterminarsi sulla domanda di autotutela a seguito dell’annullamento
del diniego.
Ad ogni buon conto, la Sezione condivide
l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa che ha ancora di recente
affermato che “l' azione di risarcimento conseguente all' annullamento in sede
giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione
dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il
provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione,
secondo l' ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo
amministrativo, nonché delle condizioni concrete in cui ha operato
l'Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della
pronuncia del giudice della legittimità.”(Consiglio Stato , sez. IV, 01 ottobre
2007, n. 5052).
E condivide altresì quello, per cui l’errore scusabile
è configurabile, “ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali
sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco
entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza
determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da
una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.”
(Consiglio Stato, sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981).
Nel caso di specie, appaiono incontestabili, da un
canto, la non diretta perspicuità del quadro normativo e la plausibilità
(seppur nei termini prima rappresentati) di opposte opzioni ermeneutiche.
Ma ancor di più, in questo quadro, va rammentato che
il Comune ebbe a conformare la propria condotta a quanto previsto da una norma
regolamentare (mai impugnata in precedenza, a quel che è dato conoscere) ed a
propria volta conforme ad una norma regionale (sia pur successivamente
intervenuta) che, di seguito, venne attinta da declaratoria di
incostituzionalità.
Una simile progressione dimostra che la possibilità di
ampliare il concetto di ristrutturazione, fino a ricomprendervi le modifiche a
sagoma e sedime, costituì comune aspirazione di una pluralità di
Amministrazioni; che detta possibilità venne repressa dall’intervento della
Consulta; che il Comune si conformò ad una propria norma regolamentare
plausibilmente applicata in passato numerose volte senza che avesse dato adito
a perplessità: alla stregua di tali considerazioni non sussiste alcun elemento
soggettivo, anche solo colposo; e pertanto il petitum risarcitorio andrebbe
comunque disatteso.
5. Così esaurita la disamina della posizione di parte
appellata, occorre adesso interrogarsi in ordine alle ulteriori critiche
rivolte dall’appellante alla decisione gravata, nella parte in cui il Tar ha
affermato che “il provvedimento qui gravato è illegittimo, in quanto il Comune
di Milano, a fronte della non conformità della DIA alle disposizioni di legge,
ha erroneamente ritenuto che non sussistessero i presupposti per l’adozione di
provvedimenti inibitori o sanzionatori a carico dell’Immobiliare Brianza.”
5.1. Neppure sotto tale profilo coglie nel segno la
parte appellante: il Tar ha esternato un convincimento di natura strettamente
normativa e finalizzato a chiarire che l’opus realizzato non poteva essere
assentito quale ristrutturazione; ha chiarito il profilo di non condivisibilità
della motivazione dell’atto reiettivo della richiesta di autotutela; è logico
peraltro che si sia interrogato soltanto sul devolutum, mentre non avrebbe
potuto fornire risposta su quesiti non rimessigli (cfr. art. 34 c II cpa).
Ne consegue che la motivazione ed il dispositivo della
sentenza non precludono l’eventuale esercizio da parte del Comune della propria
discrezionalità nella individuazione dei presupposti dell’autotutela, fermo
restando, ovviamente, che a cagione dell’effetto conformativo della sentenza
del Tar, in parte qua pienamente confermata dal Collegio, una eventuale
reiezione della richiesta di autotutela non potrebbe validamente formarsi –
senza eludere il presente giudicato - nel convincimento della legittimità della
ristrutturazione con modifica di sagoma ed altezza.
E dovrà altresì valutare il Comune (compito non
pertinente a questo Collegio in ossequio al principio di cui all’art. 34 c II
del cpa) l’incidenza, sulla delibazione che esso è chiamato a svolgere della
recentissima modifica dell’art. 3 e dell’art. 10 del dPR n. 380/2001 ad opera
dell’ art. 41, comma 4, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98.
5.1.1. E’ ben noto al Collegio che in subiecta materia
la giurisprudenza è ancora lungi dall’avere raggiunto una stabile concordanza
di opinioni.
Se non si nega da parte di alcuno, infatti, il
principio generale secondo il quale lo jus poenitendi costituisca connotato
indefettibile del potere amministrativo e del rapporto di supremazia speciale
che lega l’amministrazione agli amministrati, riposando la potestà di
autotutela nella possibilità per l’Amministrazione di ritirare, revocare,
autoannullare le proprie precedenti manifestazioni provvedimentali, ad
eccezione di quelle, di natura giustiziale, rese in sede di ricorso gerarchico
(T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 02-02-2012, n. 64: “in tema di adozione di atti
amministrativi, il potere di annullamento è immanente al potere di autotutela e
ne condivide i limiti, con particolare riguardo all'obbligo di motivazione,
alla presenza di concrete ragioni di pubblico interesse non riducibili alla
mera esigenza di ripristino della legalità, alla valutazione dell'affidamento
delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, al
rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale, ivi compreso l'avviso
di avvio del procedimento di ritiro, all'adeguata istruttoria.”), ne è, però,
discusso il concreto atteggiarsi con riferimento alle manifestazioni
provvedimentali “per consensum”.
E’ noto che la Dia non è tale e che trattasi di
attività giuridica privata (arg. ex Ad Plen. 15/2011 richiamata): è altresì
incontestabile che gli approdi relativi alle caratteristiche dell’autotutela,
nella ipotesi di “provvedimento silenzioso”, possano almeno in parte traslarsi
sulla Dia.
Orbene, può in proposito rammentarsi che, secondo
parte della giurisprudenza amministrativa, l’autotutela incidente su un
silenzio-assenso non sarebbe soggetta ai limiti applicativi (sussistenza di
ragioni di interesse pubblico, termine ragionevole ponderazione degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati) di cui all’art. 21 novies della legge
7 agosto 1990 n. 241.
Tali limiti all’adozione di un atto di autotutela
ricorrerebbero soltanto in ipotesi di rimozione di un provvedimento espresso.
Nell’ipotesi di silenzio-assenso, viceversa, si è
ritenuto che “l'inerente potere di autotutela assorba in sé anche profili
valutativi che normalmente ineriscono all'esercizio della funzione
amministrativa di primo grado, ma che l'Amministrazione non è stata a suo tempo
in grado di esercitare. La funzione sollecitatoria a cui si ispira l'istituto
del silenzio-assenso non può, infatti, a pena di insanabile contrasto della
relativa disciplina legislativa con la sovraordinata fonte costituzionale (art.
97 cost.), pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato esercizio
dell'attività di valutazione e comparazione dei diversi interessi pubblici e
privati coinvolti dall'esercizio della funzione amministrativa. Pertanto, in
sede di annullamento d'ufficio di un silenzio assenso, deve essere restituito
integro il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni
che a suo tempo l'Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento
dell'esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante.
Correlativamente, è stato reputato legittimo il provvedimento di annullamento
d'ufficio del silenzio assenso, ove l'Amministrazione, pur senza enucleare
specifici profili di illegittimità dell'atto da annullare e specifiche,
distinte, ragioni di interesse pubblico giustificanti l'annullamento medesimo,
abbia svolto una completa ed approfondita disamina dell'assetto di interessi
scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello inerente alla
funzione tipica cui è preordinata l'attività amministrativa di primo grado,
pervenendo, ove ne abbia riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell'assetto
ritenuto "contra legem" ed al ripristino di quello risultante
conforme all'interesse pubblico da perseguire - l'interesse pubblico sotteso al
legittimo esercizio del potere di autotutela può rinvenirsi anche nella
necessità di ripristinare l'equilibrio delle posizioni private coinvolte, che
non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti intersoggettivi di natura
privata, ma costituisce l'essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte
di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere
adeguata tutela nell'ordinamento, rimanendo escluse indebite appropriazioni o
prevaricazioni-“ (Tar Campania, Napoli, 10 settembre 2010 n. 17398).
La dottrina perplessa sulla ratio di tale
convincimento, per cui non si richiederebbe una puntuale motivazione circa
l'interesse pubblico alla adozione dell’atto di autotutela, né una comparazione
di tale interesse con quello privato sacrificato, non essendosi nella specie
ingenerato, in capo ai soggetti destinatari, alcun affidamento nella
legittimità e nella stabilità dell'atto (tacito) annullato evidenzia che in
contrario senso rispetto a questa pretesa “differenziazione” della latitudine
dell’esercizio del potere di autotutela, deve evidenziarsi che è la stessa
previsione legislativa ad ingenerare nel privato un “affidamento”; e che salvi
i casi di falsa dichiarazione sottesa all’istanza, l’equiparazione del
provvedimento per silentium all’atto amministrativo espresso dovrebbe indurre
ad affermare che anche in detta fattispecie l’atto di autotutela soggiaccia ai
limiti ed ai parametri di cui al citato art. 21 novies della legge 7 agosto
1990 n. 241.
Analoghe dispute hanno “accompagnato” la valutazione
della latitudine dell’autotutela esercitata nei confronti di una dia.
Secondo l’orientamento forse maggioritario in
giurisprudenza, infatti, detto potere di autotutela, non si distinguerebbe,
quanto ai presupposti applicativi, dall’autotutela in via generale prevista
dalla legge generale sul procedimento amministrativo.
Si è detto in proposito, quindi, che maggiore è il
lasso di tempo trascorso tra l'avvio dell'attività stessa e l'esercizio, da
parte della p.a., del potere inibitorio e/o di autotutela, e maggiore deve
essere il grado di motivazione sulle ragioni di pubblico interesse, diverse da
quelle al mero ripristino della legalità, che deve connotare il relativo
provvedimento amministrativo, anche alla luce di quanto previsto espressamente
dall'art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990. (T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 24 agosto
2010, n. 4882).
Di converso è stata esaltata – quale eccezione a detta
regola generale - la ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza che accerta
l'inesistenza dei presupposti della d.i.a..
Una simile decisione giurisdizionale, infatti, secondo
parte della giurisprudenza produrrebbe effetti conformativi nei confronti
dell'amministrazione, in quanto le imporrebbe “di porre rimedio alla situazione
nel frattempo venutasi a creare sulla base della d.i.a., segnatamente di
ordinare l'interruzione dell'attività e l'eventuale riduzione in pristino di
quanto nel frattempo realizzato. Detto potere, in quanto volto a dare
esecuzione al comando implicitamente contenuto nella sentenza di accertamento,
deve essere esercitato a prescindere sia dalla scadenza del termine perentorio
previsto dall'art. 19 l. n. 241 del 1990, per l'adozione dei provvedimenti
inibitori-repressivi, sia dalla sussistenza dei presupposti dell'autotutela
decisoria richiamati sempre dall'art. 19, cit.. Non si tratta, invero, né di un
potere di autotutela propriamente inteso (e, quindi, non richiede alcuna
valutazione sull'esistenza di un interesse pubblico attuale e concreto
prevalente sull'interesse del privato), né del potere inibitorio tipizzato
dall'art. 19, l. n. 241 del 1990 (per il quale è previsto il termine
perentorio). Si tratta, al contrario, di un potere che ha diversa natura e che
trova il suo fondamento nell'effetto conformativo del giudicato amministrativo,
da cui discende, appunto, il dovere per l'amministrazione di determinarsi
tenendo conto delle prescrizioni impartite dal giudice nella motivazione della
sentenza.”( T.A.R. Calabria Reggio Calabria, sez. I, 23 agosto 2010 , n. 915).
Quale che sia, però, l’angolo prospettico prescelto,
giova precisare che il Tar non ha preso affatto posizione su tale disputa: esso
si è limitato a dichiarare illegittimo il diniego, in relazione all’unico
parametro devolutogli; ha restituito il potere all’Amministrazione; non ha
travalicato, né sotto il profilo formale, né sotto quello sostanziale, il
potere/dovere dell’Amministrazione di determinarsi sulla richiesta di
autotutela, seppur con il vincolo conformativo discendente dalla sentenza del
tar confermata in questa sede.
5.2 Con le dette precisazioni, può dichiararsi
infondata anche tale ultima censura di “straripamento” ed extrapetizione ex
art. 112 cpc; e la motivazione del Tar, ricondotta nell’alveo dell’accertamento
demandatogli, non appare aver “anticipato” alcun futuro opinamento
dell’Amministrazione sulla istanza di autotutela: quest’ultima va pertanto
respinta, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati
sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e
comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
6. L’appello principale va pertanto respinto, nei
termini di cui alla motivazione che precede, e parimenti va respinta la
incidentalmente riproposta domanda risarcitoria formulata da parte appellata
mentre sono improcedibili le restanti doglianze incidentalmente riproposte.
7. Le considerazioni svolte in motivazione relative ai
mutamenti giurisprudenziali sul tema, la natura e lo svolgimento della
controversia legittimano la integrale compensazione tra le parti delle spese
del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto,
respinge l’appello principale nei termini di cui alla motivazione che precede,
respinge la incidentalmente riproposta domanda risarcitoria formulata da parte
appellata e dichiara improcedibili le restanti censure incidentalmente
prospettate.
Spese processuali compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno
19 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Diego Sabatino, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 06/12/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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