mercoledì 11 dicembre 2013

PROCESSO: limiti alla retroattività del mutamento di giurisprudenza ossia il c.d. "overruling" (Cons. St., Sez. IV, sentenza 6 dicembre 2013 n. 5822).


PROCESSO:
 limiti alla retroattività 
del mutamento di giurisprudenza 
ossia il c.d. "overruling
(Cons. St., Sez. IV, 
sentenza 6 dicembre 2013 n. 5822).


Massima

(Premessa: la controversia riguarda una D.I.A. edilizia presentata nel 2001, quando la stessa era qualificata, almeno dalla giurissprudenza maggioritaria, come atto privato cui faceva fronte un silenzio-inadempimento non significativo; con la Plenaria n. 15/11 si ritiene, al contrario, che il silenzio della P.A. sia significativo e vada impugnato dal controinteressato entro 60 giorni dal suo formarsi; il dies a quo è considerato quello di piena avvertenza della lesività dell'intervento edilizio).

1.  E'  pienamente condivisibile la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione che limita la portata retroattiva dell’overruling: si è detto, in particolare, che “affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di "prospective overruling", devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto "overruling" comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.” (Cass. civ. Sez. lavoro, 11-03-2013, n. 5962, ma si veda anche Sezioni Unite della Cassazione Civile, Ordinanza n. 8127 del 11-04-2011 ).
2.  Ritiene il Collegio che:
a)  da un canto, detto principio, rispettoso dell’ampia portata del principio del diritto di difesa consacrato ex art. 24 della Costituzione, si armonizzi a perfezione con tale prescrizione, ché, altrimenti, la parte ricorrente rischierebbe di essere assoggettata a conseguenze pregiudizievoli per il solo fatto di essersi conformata ad un orientamento maggioritario (se non come nel caso di specie uniforme), ancorché successivamente superato;
b)  sotto altro profilo, che esso possa essere agevolmente traslato al giudizio innanzi al Consiglio di Stato (giudice di ultimo grado le cui pronunce possono essere sindacate unitamente per motivi attinenti alla giurisdizione e, quindi, equiparabile, sotto il profilo della tutela del diritto di difesa, al “giudice di legittimità”);
c)  che, in punto di fatto, la vicenda “tipica” descritta dalla Corte di Cassazione è identica a quella che ebbe a verificarsi nell’odierna causa: gli originari ricorrenti si attennero ad un indirizzo giurisprudenziale sino a quel momento consolidato (si ricorderà che, illo tempore, si dubitava financo della possibilità teorica di proporre azioni di accertamento in sede di giurisdizione amministrativa, se non laddove la posizione azionata avesse consistenza di diritto soggettivo).
d) In ultimo, anche a non volere opinare nei termini esposti, comunque la parte appellata sarebbe stata meritevole del beneficio dell’errore scusabile, proprio perché ebbe a conformarsi all’orientamento prevalente in giurisprudenza dell’epoca: la doglianza va pertanto disattesa ed il ricorso di primo grado deve essere considerato ammissibile.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4660 del 2009, proposto da:
Immobiliare Brianza 2002 Srl, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Alfredo Passaro, Antonella Giglio, con domicilio eletto presso Antonella Giglio in Roma, via Antonio Gramsci, 14; 
contro
Condominio di via Soperga 33, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avv. Enzo Giacometti, Stefano Pieri, con domicilio eletto presso Claudio De Portu in Roma, via G. Mercalli, 13; Di Venosa Pietro, Merighi Marcello, Baggi Stefania, Riccioli Sebastiano, Costa Marco, Marcolin Raffaella, Romani Denise, Torazzi Ivo; 
nei confronti di
Comune di Milano, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avv. Raffaele Izzo, Anna Maria Moramarco, Maria Rita Surano, con domicilio eletto presso Raffaele Izzo in Roma, lungotevere Marzio, 3; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. della LOMBARDIA – Sede di MILANO - SEZIONE II n. 01322/2009, resa tra le parti, concernente VERIFICA INTERVENTO DI OPERE EDILIZIE DI CUI ALLA DIA del 15 novembre 2002.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Francesco Vagnucci (su delega di Enzo Giacometti), Raffaele Izzo e Gabriele Pafundi (su delega di Antonella Giglio);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia – sede di Milano - ha esaminato ed accolto il ricorso di primo grado (corredato da motivi aggiunti) proposto dalla odierna parte appellata, volto ad ottenere l’annullamento dell’atto comunale prot. 43665176/2002 del 17.2.2004, con cui era stata respinta la richiesta di adozione di idonei provvedimenti inibitori e/o sanzionatori delle opere edilizie di cui alla DIA del 15.11.2002 per intervento di costruzione di nuovo edificio residenziale pluripiano (previa totale demolizione dell’esistente capannone industriale) in Milano, Viale Brianza, nonché per l’accertamento dell’illegittimità del comportamento omissivo del Comune e per la improduttività degli effetti della DIA intestata alla controinteressata odierna appellante, con conseguente declaratoria giustiziale dell’obbligo della PA di ordinare il ripristino dello stato dei luoghi ovvero la demolizione di quanto costruito ex novo.
Con il mezzo di primo grado era stata parimenti richiesta la condanna del Comune al risarcimento del danno ingiusto asseritamente arrecato mercé le avversate condotte.
In punto di fatto era accaduto che l’amministratore del Condominio appellato, unitamente a taluni condomini aveva chiesto, con istanza del 17.9.2003, la verifica circa un intervento realizzato su un immobile confinante, assentito con DIA presentata in data 15.11.2002 dalla Soc. La Medina (poi: Immobiliare Brianza odierna appellante).
L’originaria parte ricorrente, sulla base di un perizia di parte, aveva sostenuto che i lavori realizzati non corrispondevano a quelli oggetto della DIA (in cui l’intervento era stato qualificato come “ricostruzione edilizia” con demolizione di un preesistente edificio artigianale ad uso autorimessa/officina con ufficio e nella costruzione di un edificio formato da tre piani ad uso box di cui due interrati, da quattro piani fuori terra ad uso residenziale e da una mansarda, di cui sarebbe stato chiesto successivamente il recupero).
Ad avviso della originaria parte ricorrente l’intervento avrebbe dovuto essere qualificato come nuova costruzione, in quanto era stata variata la consistenza volumetrica, la sagoma e la destinazione d’uso dell’edificio esistente.
Ne discendeva che - trattandosi di nuova costruzione - si era verificata la violazione della distanza di 10 mt dalle pareti finestrate.
Il Comune, con la nota del 17.2.2004 conosciuta dai condomini solo il 13.5.2004 aveva confermato la legittimità dell’intervento, in quanto conforme all’art 66.3.3 del R.E,. stante il rispetto della consistenza volumetrica.
La nota in ultimo citata era stata gravata, e, muovendo dalla premessa per cui si versava nella impossibilità di ricondurre l’intervento al concetto di ristrutturazione edilizia di cui all’art 3 lett. d) del TU n. 380/2001 (che richiedeva il mantenimento della stessa volumetria e sagoma) e contestandosi la qualificazione resa dal Comune ai sensi del Regolamento edilizio comunale, la parte odierna appellata aveva ipotizzato che, a cagione della doverosa qualificazione dell’intervento come nuova costruzione, essa versava in una situazione di irregolarità, a cagione della violazione della superficie coperta massima ammissibile, del rapporto tra superficie occupata e superficie filtrante e della distanza minima tra i confini e tra fabbricati, sostenendosi peraltro che l’intervento comportava un pregiudizio in termini di impatto ambientale (minor amenità e deprezzamento di valore per sottrazione di luce e di visibilità).
Il primo giudice ha partitamente esaminato tutte le censure proposte, previa disamina della eccezione di tardività proposta dall’amministrazione comunale originaria resistente.
La detta eccezione è stata disattesa dal Tar, in quanto parte appellata, configurando la DIA come atto privato e quindi escludendone la sua non diretta impugnabilità, aveva chiesto al Comune di intervenire con poteri inibitori.
L’amministrazione comunale aveva adottato il successivo atto negando l’esistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri inibitori o sanzionatori ( in quanto l’intervento risultava, a suo dire, conforme alle norme vigenti): pertanto, ad avviso del Tar, non trattandosi della impugnazione di un titolo edilizio (per il quale doveva essere considerato il termine decadenziale di legge dalla piena conoscenza), ma dell’impugnazione di un atto del Comune, il termine doveva decorrere dalla data di ricevimento del provvedimento.
Nel merito, il primo giudice ha preso in esame la doglianza centrale, riposante nella lamentata non riconducibilità dell’intervento eseguito al concetto di ristrutturazione.
Detta critica è stata accolta, previa individuazione della disciplina normativa vigente all’epoca, (art 31 lett. d), l. 5 agosto 1978 n. 457, art. 66 del Regolamento edilizio comunale).
Rammentato che, ad avviso dell’amministrazione comunale, l’intervento doveva qualificarsi come ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art 66.3.3 del Regolamento edilizio, in quanto – sebbene realizzato mediante demolizione e ricostruzione – era stata rispettata la consistenza volumetrica preesistente, il Tribunale amministrativo ha contestato tale punto di vista.
Era ben vero, infatti, che, secondo la lettera dell’art. 66 del Regolamento edilizio comunale, la ristrutturazione poteva comprendere anche demolizione e ricostruzione, con modifica di sagoma, purché venisse mantenuta la medesima volumetria.
Doveva, però, parimenti essere considerato che, da un canto, ed in punto di fatto, non era contestabile che l’intervento assentito si era strutturato in una evidente variazione della sagoma e dell’altezza rispetto alla consistenza del preesistente compendio immobiliare.
Per altro verso, secondo la prevalente interpretazione dell'art. 31 lett. d), l. 5 agosto 1978 n. 457, il concetto di ristrutturazione edilizia comprendeva anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione assicurasse la piena conformità di sagoma, volume e superficie fra il vecchio e il nuovo manufatto e venisse comunque effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione.
Il successivo T.U. dell’Edilizia, che aveva espressamente disciplinato la ristrutturazione con demolizione e ricostruzione all’art 3 comma 1 lett d), a seguito della modifica introdotta dal D. Lvo 201/2002, imponeva che il risultato finale coincidesse, nella volumetria e nella sagoma, con il preesistente edificio demolito (mentre per l’intervento ricostruttivo che si ricollegava ad un intervento demolitorio non si richiedeva più il riferimento alla fedele ricostruzione).
Alla incontestata diversità della sagoma, ed alla incontestata maggiore altezza dell’edificio ricostruito rispetto a quello preesistente, doveva conseguire l’effetto per cui il Regolamento (laddove esso qualificava come ristrutturazione interventi che comportavano una diversa sagoma) in quanto contrastante con la norma primaria, doveva essere disapplicato.
Da ciò, ad avviso del Tar, discendeva l’accoglimento del mezzo e la declaratoria di illegittimità del provvedimento gravato, in quanto il Comune di Milano, a fronte della non conformità della DIA alle disposizioni di legge, aveva erroneamente ritenuto che non sussistessero i presupposti per l’adozione di provvedimenti inibitori o sanzionatori a carico dell’Immobiliare Brianza.
La odierna appellante, non costituitasi e rimasta soccombente nel giudizio di prime cure, ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.
Ha ripercorso il risalente e prolungato contenzioso intercorso ed ha sostenuto, in primo luogo (prima censura), che il Tar aveva gravemente errato a non dichiarare la irricevibilità del mezzo di primo grado, in quanto tardivamente proposto (la Dia era stata presentata il 15 novembre 2002).
La richiesta di verifica tecnica, rivolta al Comune di Milano, risaliva al 17/9/2003; ben prima gli originarii ricorrenti erano venuti a conoscenza degli asseriti vizi, che, a loro dire, connotavano l’intervento, tanto che la richiesta di verifica era supportata da una perizia di parte da loro stessi commissionata e redatta il 15/9/2013, mentre la documentazione relativa alla presentazione della DIA e degli allegati progetti tecnici era stata fornita agli odierni appellati rispettivamente in data 17 marzo 2003 e 9 luglio 2003.
L’immobile era in stato di avanzata realizzazione già nel settembre 2003; il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado venne notificato soltanto il 27 maggio 2004 e venne “tarato” sul richiesto annullamento di un atto, pacificamente privo di valenza e connotato provvedimentale, riposante nell’atto comunale prot. 43665176/2002 del 17.2.2004: ne era evidente la tardività, anche alla luce della giurisprudenza amministrativa in materia, in quanto parte appellata avrebbe dovuto proporre domanda di accertamento negativo, volta a far constare la insussistenza dei presupposti di legittimità della Dia nell’ordinario termine decadenziale (C.d.S. n. 3742/2008, 5811/2008, 4828/2007 e,in ultimo, n. 717/2009).
Nel merito, ha evidenziato che il Tar era incorso in un errore, allorché aveva qualificato il provvedimento gravato come omissivo dell’ adozione di provvedimenti inibitori o sanzionatori a carico della “Immobiliare Brianza", ordinando, quindi, allo stesso Comune di disporli: l’errore del Tar nasceva dal fraintendimento della natura della Dia e non teneva presente che il potere repressivo subsequens era una forma particolare di “autotutela”, non implicando un'attività di secondo grado insistente su un precedente provvedimento amministrativo.
Peraltro, si era al cospetto di delicati provvedimenti di affidamento in capo ai terzi: il Tar aveva pronunciato oltre i propri poteri e si sarebbe dovuto limitare ad ordinare all’Amministrazione di vagliare la richiesta di verifica, ma non certo di predeterminare l’esito di tale verifica, in quanto rimesso alla discrezionale potestà dell’amministrazione comunale.
Con la terza censura – più stringentemente dedicata all’esame del merito della controversia - ha contestato l’approdo del Tar, che aveva disapplicato la norma regolamentare meneghina, sostenendo che la legge n. 457/1978 era lacunosa in punto di ammissibilità – o meno - di una ristrutturazione mercé demolizione con mutamento della sagoma.
La particolarità della controversia consisteva nella circostanza che il Tar aveva interpretato, ex post, ed alla luce delle prescrizioni contenute sub art. 3 del TU edilizia, la norma previgente.
Non v’era contrasto, insomma, tra la norma regolamentare ed il testo dell’art. 31 della legge n. 457/1978, di guisa che la prima non avrebbe potuto essere oggetto di disapplicazione (pur non obliandosi che la giurisprudenza amministrativa aveva interpretato il precetto di cui al citato art. 31 della legge n. 457/1978 in termini restrittivi).
Peraltro la legge regionale lombarda n. 12 del 2005, all’art. 27 aveva introdotto una prescrizione analoga a quella contenuta nel regolamento comunale erroneamente disapplicato dal primo giudice.
L’appellante ha poi dedicato l’ultima parte dell’appello a confutare le argomentazioni contenute nei motivi di ricorso assorbiti dal Tar, in punto di asserita violazione della superficie coperta massima ammissibile, del rapporto tra superficie occupata e superficie filtrante e della distanza minima tra i confini e tra fabbricati,
La controinteressata amministrazione comunale, già resistente rimasta soccombente ha chiesto l’accoglimento dell’appello principale ed ha riproposto l’eccezione di tardività del mezzo di primo grado, disattesa dal Tar, difendendo la legittimità nel merito, del proprio operato.
Parte appellata, già ricorrente vittoriosa in primo grado, ha chiesto la reiezione dell’appello ed ha riproposto la domanda risarcitoria non esaminata dal Tar.
Ha chiesto, in primis, la declaratoria di inammissibilità dell’appello, in quanto era stato notificato in copia unica presso il difensore (e non già in un numero di copie corrispondente al numero dei proponenti il ricorso collettivo)..
Ha poi diffusamente argomentato sulla tempestività del mezzo di primo grado, facendo presente che l’avversato atto comunale prot. 43665176/2002 del 17.2.2004 era stato conosciuto dall’amministratore del condominio in epoca successiva, e dai singoli condomini ricorrenti solo in epoca ancor più successiva, coincidente con l'assemblea condominiale del 13/05/04, nella quale si era deliberato di ricorrere avanti al TAR.
In ogni caso, la conoscenza del progetto edilizio di cui alla DIA, quale emergente dall’esposto del settembre 2003 (e dall 'allegata perizia tecnica) non era riferibile ai singoli condomini ricorrenti, atteso che l'esposto al Comune era stato presentato solo dall’amministratore condominiale, il quale, salvo uno specifico mandato, agiva a tutela delle sole parti comuni.
Nel merito, ha riproposto la tesi della radicale illegittimità del titolo avversato.
Con ulteriore memoria ha confutato l’eccezione di tardività del mezzo di primo grado, chiedendo, in subordine, la concessione del beneficio dell’errore scusabile, ed ha ribadito l’ammissibilità e fondatezza della domanda risarcitoria (proposta nella memoria di costituzione datata 12 giugno 2009).
All’adunanza camerale del 23 giugno 2009 la Sezione con la ordinanza n. 3200/2009 ha accolto l’istanza di sospensione della esecutività della impugnata decisione alla stregua della considerazione per cui “l’appello appare assistito da sufficienti elementi di fondatezza e che, inoltre, i profili di danno dedotti da parte appellante appaiono significativi per indurre il Collegio alla sospensione della efficacia della sentenza appellata;”.
L’efficacia della sentenza impugnata, è stata pertanto sospesa.
Alla pubblica udienza del 19 novembre 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO
1. Ritiene il Collegio necessario, in via preliminare rispetto all’esame del merito della controversia, affrontare e risolvere talune problematiche che assumono portata pregiudiziale.
1.1. In particolare, al fine di perimetrare il materiale cognitivo esaminabile dal Collegio, va rilevato che l’appello principale è palesemente ammissibile (e va pertanto respinta la relativa eccezione prospettata da parte appellata di inammissibilità dell'appello per nullità della notifica, in quanto effettuata mediante consegna di una sola copia dell'atto di appello, nonostante la pluralità di parti domiciliate presso unico difensore): premesso, invero, che l'eccepita nullità della notifica non è comunque in grado di determinare la dedotta inammissibilità (costituendo principio ormai fermo quello secondo il quale, sotto il profilo dell'ammissibilità dell'impugnazione, l'onere della notificazione dell'appello deve ritenersi correttamente adempiuto quando la notificazione si sia tempestivamente perfezionata nei confronti di una sola delle parti principali del giudizio di primo grado, non avendo la notificazione del gravame la funzione di instaurare un nuovo contraddittorio, bensì quella di riprendere la controversia già instaurata nella fase precedente: Cons. St., Ad. plen. n. 50/1980; IV Sez., n. 824/1998 e n. 2833/2003; V Sez., n. 1897/2001; v., oggi, l'art. 95, commi 2 e 3, c.p.a.), va in ogni caso ricordato che la notificazione dell'atto di impugnazione a più parti presso un unico procuratore, eseguita mediante consegna di una sola copia o di un numero di copie inferiori rispetto alle parti cui l'atto è destinato, comporta un vizio della notificazione, che può essere sanato, con efficacia ex tunc, o con la costituzione in giudizio di tutte le parti cui l'impugnazione è diretta, ovvero con la rinnovazione della notificazione da eseguire in un termine perentorio assegnato dal Giudice a norma dell'art. 291 c.p.c., con la consegna di un numero di copie pari a quello dei destinatari, tenuto conto di quella o di quelle già consegnate.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa e quella civile di legittimità hanno da tempo raggiunto una stabile concordanza di opinioni (cfr. Cons. Stato Sez. III, 03-10-2011, n. 5419; Cass. civ. Sez. V, 24-01-2007, n. 1574; Cass., 17/04/2004, n. 7347 e 4 aprile 2006, n. 7818) e non ritiene il Collegio di mutare opinione rispetto a quanto ivi autorevolmente affermato.
Posto che, peraltro, nel caso di specie tutte le parti appellate si sono costituite nell’odierno giudizio, non v’è alcuna necessità di rinnovare la notifica; e l’eccezione, pertanto, va integralmente disattesa.
1.2. Rileva il Collegio, peraltro (ex officio, in questo caso), che le censure incidentalmente riproposte da parte appellata sono tempestive e pertanto esaminabili nell’odierno grado di giudizio.
Il Tar, in particolare, non ebbe a pronunciarsi sul petitum risarcitorio articolato da parte appellata già in primo grado ed ebbe ad assorbire taluni altri profili di critica alla supposta legittimità dell’intervento edificatorio eseguito.
Premesso che l’intera vicenda processuale risulta governata, ratione temporis dalle disposizione antevigenti rispetto all’entrata in vigore del cpa, si deve fare applicazione del consolidato principio secondo il quale (Cons. Stato Sez. IV, 10-08-2011, n. 4766), “in applicazione estensiva dell'art. 346 c.p.c…., nel processo amministrativo, si afferma il principio della riproponibilità dei motivi assorbiti o non esaminati mediante memoria, così semplificando gli oneri dell'appellante incidentale (proprio), esentandolo dalla necessità di notificazione dell'atto. Peraltro, se pure si consente la riproposizione dei motivi per il tramite di memoria e non di appello incidentale (accordando prevalenza all'art. 346 c.p.c. sull'art. 37 R.D. n. 1054/1924), non si può escludere che detta memoria debba essere comunque depositata entro il termine previsto dal citato art. 37. E ciò a maggior ragione vista l'assenza di diversa previsione nell'art. 346 c.p.c.”.
Nel caso di specie il termine di cui all'art. 37 R.D. n. 1054/1924 è stato pienamente rispettato, in quanto: la sentenza gravata venne depositata il 19 febbraio 2009 e notificata l’8 aprile 2009; l’appello principale venne depositato il 3 giugno 2009 e la memoria di costituzione contenente le censure incidentalmente riproposte venne depositata in data 18 giugno 2009.
E’ evidente, in conseguenza, che non si ponga alcuna problematica di ammissibilità ed esaminabilità di dette doglianze.
2. Ciò premesso, e con l’avvertenza che la causa presenta la rilevante particolarità di essere stata sottoposta allo scrutinio di primo grado allorquando numerose incertezze sussistevano in ordine alla applicazione di svariati istituti di diritto processuale e sostanziale che vengono in rilievo per la risoluzione della controversia, può passarsi all’esame delle doglianze contenute nell’appello principale proposto dalla beneficiaria dell’avversata Dia.
2.1. A tal proposito, la prima doglianza da scrutinare propone l’eccezione di tardività del mezzo di primo grado che - già prospettata dal Comune di Milano (che del pari l’ha sollevata nuovamente nel corso del giudizio di appello) - è stata disattesa dal Tar.
Nella parte “in fatto” della presente decisione si è dato conto delle diverse posizioni prospettate e della motivazione reiettiva del Tar.
2.2. Appare evidente al Collegio che la questione sia causalmente ricollegabile proprio alle incertezze giurisprudenziali e dottrinarie che (sia al tempo del perfezionamento del titolo, che al momento della proposizione del mezzo di primo grado, e sino alla pronuncia dell’avversata sentenza) erano riscontrabili relativamente alla natura della Dia ed alle conseguenti modalità attraverso le quali il terzo, che da essa si assumeva leso, poteva contestarne la operatività.
2.2.1. Appare impossibile non concordare con la tesi di parte appellante, secondo cui – al più tardi al momento di redazione della perizia di parte datata 15/9/2003 - l’originaria parte ricorrente conosceva o avrebbe comunque dovuto percepire (trattasi di ricorso collettivo) le asserite illegittimità che connotavano la Dia del 2002; peraltro è rimasto incontestato che alla data del settembre 2003 i lavori erano progrediti.
E parimenti appare indubitabile che il Tar abbia respinto la eccezione, facendo riferimento ad un orientamento ermeneutico successivamente smentito da qualificata giurisprudenza (e, prima ancora, che la stessa parte originaria ricorrente abbia modulato la propria iniziativa contestativa facendo riferimento al detto assetto interpretativo).
La giurisprudenza amministrativa, infatti – alla quale questo Collegio aderisce senz’altro –, ha successivamente ricostruito l’istituto della Dia in termini di atto del privato, e, quel che più rileva, ha affermato il diritto/dovere del privato asseritamente leso, di agire innanzi al Tar chiedendo l’accertamento circa la insussistenza dei presupposti per la eseguibilità dell’intervento oggetto di denuncia.
Ciò nel termine decadenziale decorrente dalla conoscenza dell’avvenuta presentazione della Dia (si veda, in particolare, Cons. Stato, Sez. VI, n. 717/2009 e Cons. Stato, Ad. Plen., 29-07-2011, n. 15, laddove al capo 6.3. è dato riscontrare le seguenti significative affermazioni:
“ la configurazione del silenzio in esame alla stregua di silenzio significativo produce, infatti, precise conseguenze in merito alle tecniche di tutela praticabili del terzo controinteressato all'esercizio dell'attività denunciata.
Venendo in rilievo un provvedimento per silentium, la tutela del terzo sarà affidata primariamente all'esperimento di un'azione impugnatoria, ex art. 29 del codice del processo amministrativo, da proporre nell'ordinario termine decadenziale.
Quanto al dies a quo del ricorso per annullamento, ai sensi di legge il termine decadenziale di sessanta giorni per proporre l'azione prende a decorrere solo dal momento della piena conoscenza dell'adozione dell'atto lesivo (cfr. art. 41, comma 2, del codice).
A tale proposito, ai fini dell'accertamento della conoscenza dell'atto lesivo, trovano applicazione i principi interpretativi consolidati, elaborati in materia di impugnazione di provvedimenti in materia edilizia e urbanistica.
Alla stregua del condivisibile orientamento interpretativo di questo Consiglio (Sez. VI, n. 717/2009 cit.), la decorrenza del termine decadenziale, in materia edilizia, non può essere di norma fatta coincidere con la data in cui i lavori hanno avuto inizio, in quanto, come la giurisprudenza ha già specificato per l'impugnazione dei titoli abilitativi edilizi, il termine inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica. Ne deriva che, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine per l'impugnazione decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento (così Cons. Stato, Sez. IV, 5 gennaio 2011, n. 18, secondo cui il termine per ricorrere in sede giurisdizionale da parte dei terzi avverso atti abilitativi dell'edificazione decorre da quando sia percepibile la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica; Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8705, ad avviso della quale il completamento dei lavori è considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata).
Va soggiunto che, nel caso in cui la piena conoscenza della presentazione della d.i.a. avvenga in uno stadio anteriore al decorso del termine per l'esercizio del potere inibitorio, il dies a quo coinciderà con il decorso del termine per l'adozione delle doverose misure interdittive.”).
Sin qui la decisione dell’Adunanza Plenaria.
2.2. Alla stregua del detto orientamento giurisprudenziale (lo si ripete, formatosi ben successivamente al momento in cui ebbe a verificarsi il “fatto storico” sotteso all’odierno processo ed ebbe ad essere proposto il mezzo di primo grado), il mezzo introduttivo del giudizio di primo grado avrebbe potuto (e, sostiene il Comune, dovuto) essere dichiarato inammissibile.
Comunque, ed in ogni caso, l’inammissibilità originaria, ad avviso dell’appellante Comune, dovrebbe essere dichiarata nell’odierno grado di giudizio.
Rileva tuttavia il Collegio che ben due considerazioni si oppongono all’accoglimento dell’eccezione (in disparte ogni considerazione sulle difese “in fatto” formulate da parte appellata circa la non conoscenza “in concreto” da parte di tutti i condomini degli accadimenti).
Da un canto, appare pienamente condivisibile la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione che limita la portata retroattiva dell’overruling: si è detto, in particolare, che “affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di "prospective overruling", devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto "overruling" comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.” (Cass. civ. Sez. lavoro, 11-03-2013, n. 5962, ma si veda anche Sezioni Unite della Cassazione Civile, Ordinanza n. 8127 del 11-04-2011 ).
Ritiene il Collegio che:
.- da un canto, detto principio, rispettoso dell’ampia portata del principio del diritto di difesa consacrato ex art. 24 della Costituzione, si armonizzi a perfezione con tale prescrizione, ché, altrimenti, la parte ricorrente rischierebbe di essere assoggettata a conseguenze pregiudizievoli per il solo fatto di essersi conformata ad un orientamento maggioritario (se non come nel caso di specie uniforme), ancorché successivamente superato;
.- sotto altro profilo, che esso possa essere agevolmente traslato al giudizio innanzi al Consiglio di Stato (giudice di ultimo grado le cui pronunce possono essere sindacate unitamente per motivi attinenti alla giurisdizione e, quindi, equiparabile, sotto il profilo della tutela del diritto di difesa, al “giudice di legittimità”);
.- che, in punto di fatto, la vicenda “tipica” descritta dalla Corte di Cassazione è identica a quella che ebbe a verificarsi nell’odierna causa: gli originari ricorrenti si attennero ad un indirizzo giurisprudenziale sino a quel momento consolidato (si ricorderà che, illo tempore, si dubitava financo della possibilità teorica di proporre azioni di accertamento in sede di giurisdizione amministrativa, se non laddove la posizione azionata avesse consistenza di diritto soggettivo).
In ultimo, anche a non volere opinare nei termini esposti, comunque la parte appellata sarebbe stata meritevole del beneficio dell’errore scusabile, proprio perché ebbe a conformarsi all’orientamento prevalente in giurisprudenza dell’epoca: la doglianza va pertanto disattesa ed il ricorso di primo grado deve essere considerato ammissibile.
3. Nel merito, (anche a cagione della progressione dell’esperienza giurisprudenziale) si può affermare senza tema di smentite l’esattezza dell’approdo interpretativo cui è giunto il primo giudice.
3.1. In primo luogo – il che, va rilevato per incidens, consente di entrare immediatamente all’interno della problematica centrale dell’odierno giudizio - è doveroso riscontrare che nessun possibile ausilio alla tesi di parte appellante può provenire dalla (superveniens rispetto ai fatti di causa) disposizione di cui all'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall'art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, che definisce come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma.
Rileva, infatti ed innanzitutto, la circostanza,che costituisce principio generale costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui “la legittimità di un provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi”(Cons. Stato Sez. IV, 21-08-2012, n. 4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile applicazione (ex multis: Cass. civ. Sez. VI, 22-02-2012, n. 2672).
La materia urbanistica e quella edilizia non fanno certo eccezione a detta regola generale: (ex multis: “per il principio tempus regit actum, la legittimità del rigetto del permesso di costruire deve essere rapportata alla situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa emanazione”.-Cons. Stato Sez. IV, 09-02-2012, n. 693).
Ratione temporis, quindi, va esclusa in radice l’applicabilità di dette disposizioni al processo in corso, ovvero la loro valutabilità ex post ed incidenza sull’attività edificatoria antecedentemente realizzatasi e sui titoli abilitativi anteriormente formatisi (ex multis, si veda, di recente Cons Stato Sez. V 1632/2012).
Ma v’è di più.
Detta prescrizione, infatti, identica a quella del regolamento comunale di Milano disapplicato dal Tar, è stata espunta dal sistema dalla decisione della Corte Costituzionale (decisione n. 309/2011).
E in detta ultima decisione, in armonia con principi consolidati resi dalla giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 26-01-2009, n. 440: “poiché la nozione di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione con ricostruzione solo se il nuovo manufatto ha la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, non può essere classificato quale ristrutturazione l'intervento che abbia comportato la realizzazione di un nuovo immobile, distinto per volumetria altezza e sagoma rispetto al precedente.”).
La Corte Costituzionale, i cui principi devono essere integralmente richiamati in questa sede, ha richiamato la propria precedente decisione (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2 del considerato in diritto), con la quale essa aveva ricondotto nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi, ed ha affermato che “a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali. L'intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall'altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.”
Da tale affermazione la Consulta ha fatto conseguire il principio per cui “tali categorie sono individuate dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, collocato nel titolo I della parte I del testo unico, intitolato «Disposizioni generali». In particolare, la lettera d) del comma 1 di detto articolo include, nella definizione di «ristrutturazione edilizia», gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di «nuova costruzione» quelli di «trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti». In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente - intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale - configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
A conferma di ciò non sta solo il dato letterale dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 - che fa riferimento alla «stessa volumetria e sagoma» dell'edificio preesistente e ammette «le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica» - ma vi è anche la successiva legislazione statale in materia edilizia. L'art. 5, commi 9 e ss., del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, infatti, nel regolare interventi di demolizione e ricostruzione con ampliamenti di volumetria e adeguamenti di sagoma, non ha qualificato tali interventi come ristrutturazione edilizia, né ha modificato la disciplina dettata al riguardo dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi, d'altronde, non può non essere dettata in modo uniforme sull'intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio, considerato questo come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli».
Da tali presupposti (esplicitati dalla Corte Costituzionale nel breve stralcio motivazionale che si è pedissequamente riportato sopra) è stata fatta discendere la statuizione per cui, l'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall'art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, nel definire come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, è in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., in materia di governo del territorio. Parimenti lesivo dell'art. 117, terzo comma, Cost., è l'art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, qualificando come «disciplina di dettaglio» numerose disposizioni legislative statali, prevede la disapplicazione della legislazione di principio in materia di governo del territorio dettata dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alla definizione delle categorie di interventi edilizi.”.
3.2. Riepilogando, quindi: il TU edilizia è sempre stato interpretato nel senso che la ristrutturazione fosse consentita nel rispetto di sagoma ed altezza preesistenti(Cons. Stato Sez. IV, 26-01-2009, n. 440 prima citata, ma anche T.A.R. Campania Napoli Sez. II, 14-09-2009, n. 4964 etc); la Consulta ha espunto dal sistema disposizioni legislative regionali che dettavano un concetto di ristrutturazione difforme rispetto a quello contenuto nel TU edilizia: nessun argomento difensivo fondato su tali profili merita accoglimento.
3.3. Ma neppure appare meritevole di positiva delibazione l’ultimo argomento difensivo, secondo il quale le disposizioni in materia di Dia applicabili ratione temporis fossero poco perspicue, e da esse potesse trarsi il convincimento per cui poteva rientrare nel concetto di ristrutturazione una attività edilizia demolitoria e ricostruttiva senza vincolo di rispetto di altezza, sagoma, ed area di sedime, rispetto al preesistente.
Ciò in quanto, per consolidata ed uniforme giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. Stato Sez. V, 09-10-2002, n. 5410, ma anche Cons. Stato Sez. V, 03-04-2000, n. 1906) “nel concetto di ristrutturazione edilizia, ai sensi dell'art. 31, primo comma, lett. d) della L. 5 agosto 1978 n. 457, rientra anche la demolizione e la successiva fedele ricostruzione del manufatto purché tale ricostruzione venga comunque eseguita in un tempo ragionevolmente vicino a quella della demolizione e realizzi un nuovo manufatto del tutto conforme al vecchio come sagoma, volume e superficie”.
L’indirizzo giurisprudenziale poi “sposato” dal Giudice delle leggi, quindi, era ben consolidato in precedenza, per cui l’argomento difensivo merita decisa reiezione.
3.4 Ne consegue che il regolamento comunale si poneva in diretto conflitto con dette disposizioni di rango e valenza superiore ed esattamente è stato disapplicato dal Tar; non soltanto il frontale contrasto (negato dalla difesa di parte appellante) sussisteva: esso era eliminabile unicamente attraverso la disapplicazione della fonte inferior (ex multis, di recente, Cons Stato Sez. V n. 4914/2012, laddove, in una vicenda speculare a quella per cui è causa, è stato affermato che “il potere di disapplicazione dei regolamenti, anche se non ritualmente impugnati, è ammesso, in caso di contrasto tra norme di rango diverso - conflitto di norme-fonti non omogenee nella loro forza precettiva, ma simultaneamente abilitate e intervenire direttamente sulla stessa fattispecie concreta -,per garantire il rispetto della gerarchia delle fonti e accordare, quindi, prevalenza a quella di rango superiore, e cioè alla legge o comunque agli atti di rango primario.”).
4. A questo punto della esposizione – probabilmente invertendo i termini canonici di una ordinata trattazione - e prima di interrogarsi sulle conseguenze della conferma del capo demolitorio, il Collegio ritiene immediatamente di esternare il proprio convincimento in ordine alla circostanza che la domanda risarcitoria proposta da parte appellata (unica delle incidentalmente riproposte censure procedibile, in quanto le altre sono assorbite dalla conferma in parte qua della statuizione demolitoria resa dal Tar) in nessun caso avrebbe pratiche probabilità di accoglimento.
Sul punto il Tar non si è pronunciato, probabilmente perché (comunque errando) ritenne la questione assorbita dalla pronuncia disapplicativa, ovvero perché più fondatamente (cfr. quello che si dirà al capo successivo) non era stata accertata la definitiva spettanza del bene della vita in capo a parte appellata, a cagione del fatto che il Comune avrebbe pur sempre dovuto rideterminarsi sulla domanda di autotutela a seguito dell’annullamento del diniego.
Ad ogni buon conto, la Sezione condivide l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa che ha ancora di recente affermato che “l' azione di risarcimento conseguente all' annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l' ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo amministrativo, nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l'Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.”(Consiglio Stato , sez. IV, 01 ottobre 2007, n. 5052).
E condivide altresì quello, per cui l’errore scusabile è configurabile, “ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.” (Consiglio Stato, sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981).
Nel caso di specie, appaiono incontestabili, da un canto, la non diretta perspicuità del quadro normativo e la plausibilità (seppur nei termini prima rappresentati) di opposte opzioni ermeneutiche.
Ma ancor di più, in questo quadro, va rammentato che il Comune ebbe a conformare la propria condotta a quanto previsto da una norma regolamentare (mai impugnata in precedenza, a quel che è dato conoscere) ed a propria volta conforme ad una norma regionale (sia pur successivamente intervenuta) che, di seguito, venne attinta da declaratoria di incostituzionalità.
Una simile progressione dimostra che la possibilità di ampliare il concetto di ristrutturazione, fino a ricomprendervi le modifiche a sagoma e sedime, costituì comune aspirazione di una pluralità di Amministrazioni; che detta possibilità venne repressa dall’intervento della Consulta; che il Comune si conformò ad una propria norma regolamentare plausibilmente applicata in passato numerose volte senza che avesse dato adito a perplessità: alla stregua di tali considerazioni non sussiste alcun elemento soggettivo, anche solo colposo; e pertanto il petitum risarcitorio andrebbe comunque disatteso.
5. Così esaurita la disamina della posizione di parte appellata, occorre adesso interrogarsi in ordine alle ulteriori critiche rivolte dall’appellante alla decisione gravata, nella parte in cui il Tar ha affermato che “il provvedimento qui gravato è illegittimo, in quanto il Comune di Milano, a fronte della non conformità della DIA alle disposizioni di legge, ha erroneamente ritenuto che non sussistessero i presupposti per l’adozione di provvedimenti inibitori o sanzionatori a carico dell’Immobiliare Brianza.”
5.1. Neppure sotto tale profilo coglie nel segno la parte appellante: il Tar ha esternato un convincimento di natura strettamente normativa e finalizzato a chiarire che l’opus realizzato non poteva essere assentito quale ristrutturazione; ha chiarito il profilo di non condivisibilità della motivazione dell’atto reiettivo della richiesta di autotutela; è logico peraltro che si sia interrogato soltanto sul devolutum, mentre non avrebbe potuto fornire risposta su quesiti non rimessigli (cfr. art. 34 c II cpa).
Ne consegue che la motivazione ed il dispositivo della sentenza non precludono l’eventuale esercizio da parte del Comune della propria discrezionalità nella individuazione dei presupposti dell’autotutela, fermo restando, ovviamente, che a cagione dell’effetto conformativo della sentenza del Tar, in parte qua pienamente confermata dal Collegio, una eventuale reiezione della richiesta di autotutela non potrebbe validamente formarsi – senza eludere il presente giudicato - nel convincimento della legittimità della ristrutturazione con modifica di sagoma ed altezza.
E dovrà altresì valutare il Comune (compito non pertinente a questo Collegio in ossequio al principio di cui all’art. 34 c II del cpa) l’incidenza, sulla delibazione che esso è chiamato a svolgere della recentissima modifica dell’art. 3 e dell’art. 10 del dPR n. 380/2001 ad opera dell’ art. 41, comma 4, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98.
5.1.1. E’ ben noto al Collegio che in subiecta materia la giurisprudenza è ancora lungi dall’avere raggiunto una stabile concordanza di opinioni.
Se non si nega da parte di alcuno, infatti, il principio generale secondo il quale lo jus poenitendi costituisca connotato indefettibile del potere amministrativo e del rapporto di supremazia speciale che lega l’amministrazione agli amministrati, riposando la potestà di autotutela nella possibilità per l’Amministrazione di ritirare, revocare, autoannullare le proprie precedenti manifestazioni provvedimentali, ad eccezione di quelle, di natura giustiziale, rese in sede di ricorso gerarchico (T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 02-02-2012, n. 64: “in tema di adozione di atti amministrativi, il potere di annullamento è immanente al potere di autotutela e ne condivide i limiti, con particolare riguardo all'obbligo di motivazione, alla presenza di concrete ragioni di pubblico interesse non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità, alla valutazione dell'affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, al rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale, ivi compreso l'avviso di avvio del procedimento di ritiro, all'adeguata istruttoria.”), ne è, però, discusso il concreto atteggiarsi con riferimento alle manifestazioni provvedimentali “per consensum”.
E’ noto che la Dia non è tale e che trattasi di attività giuridica privata (arg. ex Ad Plen. 15/2011 richiamata): è altresì incontestabile che gli approdi relativi alle caratteristiche dell’autotutela, nella ipotesi di “provvedimento silenzioso”, possano almeno in parte traslarsi sulla Dia.
Orbene, può in proposito rammentarsi che, secondo parte della giurisprudenza amministrativa, l’autotutela incidente su un silenzio-assenso non sarebbe soggetta ai limiti applicativi (sussistenza di ragioni di interesse pubblico, termine ragionevole ponderazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati) di cui all’art. 21 novies della legge 7 agosto 1990 n. 241.
Tali limiti all’adozione di un atto di autotutela ricorrerebbero soltanto in ipotesi di rimozione di un provvedimento espresso.
Nell’ipotesi di silenzio-assenso, viceversa, si è ritenuto che “l'inerente potere di autotutela assorba in sé anche profili valutativi che normalmente ineriscono all'esercizio della funzione amministrativa di primo grado, ma che l'Amministrazione non è stata a suo tempo in grado di esercitare. La funzione sollecitatoria a cui si ispira l'istituto del silenzio-assenso non può, infatti, a pena di insanabile contrasto della relativa disciplina legislativa con la sovraordinata fonte costituzionale (art. 97 cost.), pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato esercizio dell'attività di valutazione e comparazione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti dall'esercizio della funzione amministrativa. Pertanto, in sede di annullamento d'ufficio di un silenzio assenso, deve essere restituito integro il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che a suo tempo l'Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell'esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante. Correlativamente, è stato reputato legittimo il provvedimento di annullamento d'ufficio del silenzio assenso, ove l'Amministrazione, pur senza enucleare specifici profili di illegittimità dell'atto da annullare e specifiche, distinte, ragioni di interesse pubblico giustificanti l'annullamento medesimo, abbia svolto una completa ed approfondita disamina dell'assetto di interessi scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello inerente alla funzione tipica cui è preordinata l'attività amministrativa di primo grado, pervenendo, ove ne abbia riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell'assetto ritenuto "contra legem" ed al ripristino di quello risultante conforme all'interesse pubblico da perseguire - l'interesse pubblico sotteso al legittimo esercizio del potere di autotutela può rinvenirsi anche nella necessità di ripristinare l'equilibrio delle posizioni private coinvolte, che non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti intersoggettivi di natura privata, ma costituisce l'essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere adeguata tutela nell'ordinamento, rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni-“ (Tar Campania, Napoli, 10 settembre 2010 n. 17398).
La dottrina perplessa sulla ratio di tale convincimento, per cui non si richiederebbe una puntuale motivazione circa l'interesse pubblico alla adozione dell’atto di autotutela, né una comparazione di tale interesse con quello privato sacrificato, non essendosi nella specie ingenerato, in capo ai soggetti destinatari, alcun affidamento nella legittimità e nella stabilità dell'atto (tacito) annullato evidenzia che in contrario senso rispetto a questa pretesa “differenziazione” della latitudine dell’esercizio del potere di autotutela, deve evidenziarsi che è la stessa previsione legislativa ad ingenerare nel privato un “affidamento”; e che salvi i casi di falsa dichiarazione sottesa all’istanza, l’equiparazione del provvedimento per silentium all’atto amministrativo espresso dovrebbe indurre ad affermare che anche in detta fattispecie l’atto di autotutela soggiaccia ai limiti ed ai parametri di cui al citato art. 21 novies della legge 7 agosto 1990 n. 241.
Analoghe dispute hanno “accompagnato” la valutazione della latitudine dell’autotutela esercitata nei confronti di una dia.
Secondo l’orientamento forse maggioritario in giurisprudenza, infatti, detto potere di autotutela, non si distinguerebbe, quanto ai presupposti applicativi, dall’autotutela in via generale prevista dalla legge generale sul procedimento amministrativo.
Si è detto in proposito, quindi, che maggiore è il lasso di tempo trascorso tra l'avvio dell'attività stessa e l'esercizio, da parte della p.a., del potere inibitorio e/o di autotutela, e maggiore deve essere il grado di motivazione sulle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle al mero ripristino della legalità, che deve connotare il relativo provvedimento amministrativo, anche alla luce di quanto previsto espressamente dall'art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990. (T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 24 agosto 2010, n. 4882).
Di converso è stata esaltata – quale eccezione a detta regola generale - la ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza che accerta l'inesistenza dei presupposti della d.i.a..
Una simile decisione giurisdizionale, infatti, secondo parte della giurisprudenza produrrebbe effetti conformativi nei confronti dell'amministrazione, in quanto le imporrebbe “di porre rimedio alla situazione nel frattempo venutasi a creare sulla base della d.i.a., segnatamente di ordinare l'interruzione dell'attività e l'eventuale riduzione in pristino di quanto nel frattempo realizzato. Detto potere, in quanto volto a dare esecuzione al comando implicitamente contenuto nella sentenza di accertamento, deve essere esercitato a prescindere sia dalla scadenza del termine perentorio previsto dall'art. 19 l. n. 241 del 1990, per l'adozione dei provvedimenti inibitori-repressivi, sia dalla sussistenza dei presupposti dell'autotutela decisoria richiamati sempre dall'art. 19, cit.. Non si tratta, invero, né di un potere di autotutela propriamente inteso (e, quindi, non richiede alcuna valutazione sull'esistenza di un interesse pubblico attuale e concreto prevalente sull'interesse del privato), né del potere inibitorio tipizzato dall'art. 19, l. n. 241 del 1990 (per il quale è previsto il termine perentorio). Si tratta, al contrario, di un potere che ha diversa natura e che trova il suo fondamento nell'effetto conformativo del giudicato amministrativo, da cui discende, appunto, il dovere per l'amministrazione di determinarsi tenendo conto delle prescrizioni impartite dal giudice nella motivazione della sentenza.”( T.A.R. Calabria Reggio Calabria, sez. I, 23 agosto 2010 , n. 915).
Quale che sia, però, l’angolo prospettico prescelto, giova precisare che il Tar non ha preso affatto posizione su tale disputa: esso si è limitato a dichiarare illegittimo il diniego, in relazione all’unico parametro devolutogli; ha restituito il potere all’Amministrazione; non ha travalicato, né sotto il profilo formale, né sotto quello sostanziale, il potere/dovere dell’Amministrazione di determinarsi sulla richiesta di autotutela, seppur con il vincolo conformativo discendente dalla sentenza del tar confermata in questa sede.
5.2 Con le dette precisazioni, può dichiararsi infondata anche tale ultima censura di “straripamento” ed extrapetizione ex art. 112 cpc; e la motivazione del Tar, ricondotta nell’alveo dell’accertamento demandatogli, non appare aver “anticipato” alcun futuro opinamento dell’Amministrazione sulla istanza di autotutela: quest’ultima va pertanto respinta, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
6. L’appello principale va pertanto respinto, nei termini di cui alla motivazione che precede, e parimenti va respinta la incidentalmente riproposta domanda risarcitoria formulata da parte appellata mentre sono improcedibili le restanti doglianze incidentalmente riproposte.
7. Le considerazioni svolte in motivazione relative ai mutamenti giurisprudenziali sul tema, la natura e lo svolgimento della controversia legittimano la integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l’appello principale nei termini di cui alla motivazione che precede, respinge la incidentalmente riproposta domanda risarcitoria formulata da parte appellata e dichiara improcedibili le restanti censure incidentalmente prospettate.
Spese processuali compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Diego Sabatino, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 06/12/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


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