i magistrati non possono svolgere con continuità
corsi di formazione
per l'esame d'accesso in magistratura
(Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili,
sentenza 3-10 dicembre 2013, n. 27493).
La pronuncia in esame mi sembra perentoria.
Il richiamo all'art. 16 del regio decreto sull'Ordinamento giudiziario fuga poi ogni dubbio sull'applicabilità del divieto in esame (si badi bene: esteso anche ai corsi di preparazione all'Esame di Stato) anche ai magistrati amministrativi, che sono tra i principali "protagonisti" del panorama dei corsi di formazione (Caringella, Garofoli, Giovagnoli, Bellomo, su tutti).
Che il C.S.M. dei magistrati amministrativi sia il Consiglio Superiore di Giustizia Amministrativa(C.P.G.A.; idem per quello della Giustizia Tributaria od il Consiglio di Giustizia militare), non mi sembra argomento molto convincente (anche se sicuramente verrà speso). Le Sezioni Unite hanno funzione nomofilattica e la L. n. 205/2000 ha sostanzialmente equiparato C.S.M. e C.S.G.A.; ci sono poi gli artt. 78-85 del d.P.R. n. 3/57 (applicabile a tutti i dipendenti pubblici), gli artt. 1-13 del D.Lgs. n. 109/06 (che equiparano i profili disciplinari a quelli dei magistrati ordinari), l'art. 32 della L. n. 186/82 (non più vigente per i magistrati ordinari) ed il richiamo del r.d. n. 511/46.
Massima
1. Nel ordinamento giudiziario vige il generale divieto per i magistrati di partecipare, a qualsiasi titolo, all'attività delle scuole private di preparazione a concorsi o esami per l'accesso alle magistrature e alle altre professioni legali.
2. Il fondamento della responsabilità è l'art. 16, co. 1, r. d. n. 12/1941, che nella nozione di libera professione, contemplata dal citato art. 16, primo comma, che fa espresso divieto ai magistrati di svolgere "qualsiasi libera professione"; in tale nozione rientra, appunto, l'organizzazione individuale, in forma continuativa, di un'attività di gestione di corsi a pagamento di preparazione a concorsi o esami per l'accesso a professioni del settore giuridico.
3. Più in particolare:
2. Il fondamento della responsabilità è l'art. 16, co. 1, r. d. n. 12/1941, che nella nozione di libera professione, contemplata dal citato art. 16, primo comma, che fa espresso divieto ai magistrati di svolgere "qualsiasi libera professione"; in tale nozione rientra, appunto, l'organizzazione individuale, in forma continuativa, di un'attività di gestione di corsi a pagamento di preparazione a concorsi o esami per l'accesso a professioni del settore giuridico.
3. Più in particolare:
a) l'attività di lavoro autonomo, esercitata abitualmente anche se non in via esclusiva, costituisce esercizio di attività professionale;
b) nella categoria generale delle professioni intellettuali, solo quelle determinate dalla legge (art. 2229, primo comma, cod. civ.) sono tipizzate ed assoggettate all'iscrizione in albi ed elenchi; all'infuori di queste, vi sono non solo professioni intellettuali caratterizzate per il loro specifico contenuto, ma anche prestazioni di contenuto professionale o intellettuale non specificamente caratterizzate, che ben possono essere oggetto di lavoro autonomo;
c) l'attività di insegnamento costituisce esercizio di una libera professione nel momento in cui le cui singole prestazioni venivano fornite su richiesta dei soggetti che partecipavano ai corsi;
d) la prestazione collettiva delle lezioni integra esercizio di una "scuola";
e) è corretto l'inquadramento dei fatti nella norma dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006.
4. Nell'economia della sentenza della Sezione disciplinare, il richiamo alla normativa secondaria del Consiglio superiore, ossia capo 15 della circolare del Consiglio superiore sugli incarichi extragiudiziari n. 15207 del 16 dicembre 1987, nel testo risultante a partire dalla delibera del 24 luglio 2007, assume una valenza meramente ricognitiva della portata di un divieto che discende direttamente, ed in maniera compiuta ed autosufficiente, dalla norma di legge.
b) nella categoria generale delle professioni intellettuali, solo quelle determinate dalla legge (art. 2229, primo comma, cod. civ.) sono tipizzate ed assoggettate all'iscrizione in albi ed elenchi; all'infuori di queste, vi sono non solo professioni intellettuali caratterizzate per il loro specifico contenuto, ma anche prestazioni di contenuto professionale o intellettuale non specificamente caratterizzate, che ben possono essere oggetto di lavoro autonomo;
c) l'attività di insegnamento costituisce esercizio di una libera professione nel momento in cui le cui singole prestazioni venivano fornite su richiesta dei soggetti che partecipavano ai corsi;
d) la prestazione collettiva delle lezioni integra esercizio di una "scuola";
e) è corretto l'inquadramento dei fatti nella norma dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006.
4. Nell'economia della sentenza della Sezione disciplinare, il richiamo alla normativa secondaria del Consiglio superiore, ossia capo 15 della circolare del Consiglio superiore sugli incarichi extragiudiziari n. 15207 del 16 dicembre 1987, nel testo risultante a partire dalla delibera del 24 luglio 2007, assume una valenza meramente ricognitiva della portata di un divieto che discende direttamente, ed in maniera compiuta ed autosufficiente, dalla norma di legge.
5. Come per tutti i pubblici dipendenti, così per i magistrati, i limiti di compatibilità dell'ufficio ricoperto con lo svolgimento di altre attività e con l'assunzione di altri incarichi sono un elemento del loro stato giuridico; ma, in particolare, per i magistrati, l'assunzione di compiti e lo svolgimento di attività estranei a quelli propri dell'ufficio ad essi affidato - anche quando non richiedano una sospensione o una riduzione delle funzioni ordinarie del magistrato - sono fattori suscettibili di avere effetti sul regolare e corretto svolgimento di una funzione essenziale che la Costituzione affida ai magistrati nel quadro dei principi dello Stato di diritto, e di incidere, in astratto, "sulla loro indipendenza ed imparzialità, connotato e condizione essenziale per lo svolgimento della funzione loro attribuita: sia in quanto può esservi una interferenza diretta fra compiti propri e ulteriori attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di attribuzione, dell'incarico, per la sua stessa natura e per i vantaggi che possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del magistrato" (Corte cost., sentenza n. 224 del 1999).
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
EPIGRAFE
[....]
Ritenuto in fatto
1. - Con sentenza n. 69/2013
in data 14 giugno-5 luglio 2013, la Sezione disciplinare del Consiglio
superiore della magistratura ha dichiarato il Dott. F..P. - consigliere della
sezione lavoro della Corte d'appello di Napoli e poi, dal 23 settembre 2008, consigliere
della sezione lavoro della Corte d'appello di Roma - responsabile dell'illecito
disciplinare di cui all'art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 23
febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati,
delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché
modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e
trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1,
lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), per avere, tra il 2007 ed il
2011, organizzato individualmente, in forma continuativa, in (omissis) attività
di gestione di corsi di preparazione al concorso per l'accesso in magistratura,
in favore di numerosi partecipanti (tra venti e sessanta), in corrispettivo di
una remunerazione; e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura.
La Sezione disciplinare ha
premesso che il capo 15 della circolare del Consiglio superiore sugli incarichi
extragiudiziari n. 15207 del 16 dicembre 1987, nel testo risultante a partire
dalla delibera del 24 luglio 2007, pone il divieto di organizzare scuole
private di preparazione a concorsi o esami per l'accesso alle magistrature e
alle altre professioni legali. Ha quindi osservato che l'attività di insegnamento
svolta dal Dott. P. costituisce esercizio di una libera professione, le cui
singole prestazioni venivano fornite su richiesta di ciascuno dei soggetti che
partecipavano ai corsi, e che la prestazione collettiva delle lezioni integra
certamente esercizio di una "scuola", atteso che il carattere di
relativa permanenza di una qualsiasi scuola può essere limitato alla durata
necessaria per lo svolgimento di un singolo corso di istruzione, non essendo
necessaria una indeterminata permanenza della organizzazione come istituto vero
e proprio.
2. - Per la cassazione della
sentenza della Sezione disciplinare il Dott. P. ha proposto ricorso, con atto
depositato nella segreteria della Sezione disciplinare il 24 luglio 2013, sulla
base di ventuno motivi.
Il Ministero della giustizia
non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Il ricorrente ha depositato
una memoria illustrativa in prossimità dell'udienza.
Considerato in diritto
1. - Con il primo motivo
(falsa ed erronea applicazione dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 109 del
2006) il ricorrente premette che la circolare sugli incarichi extragiudiziari
richiamata dalla sentenza impugnata, nel delimitare il proprio campo
applicativo, dichiara di regolare la materia degli incarichi extragiudiziari di
cui all'art. 16, secondo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12
(Ordinamento giudiziario), ossia una materia del tutto diversa da quella alla
quale si riferisce l'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941,
testualmente richiamato nell'illecito disciplinare delineato dall'art. 3, comma
1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006. Di qui - si sostiene - l'errore
della sentenza, la quale, pur affermando la responsabilità disciplinare del
Dott. P. ai sensi del citato art. 3, comma 1, lettera d) (e quindi, per
relationem, per l'asserita violazione dell'art. 16, primo comma, del regio
decreto n. 12 del 1941), ha inteso ravvisare il fatto disciplinarmente
rilevante nella asserita violazione della circolare sugli incarichi
extragiudiziari (e quindi dell'art. 16, secondo comma, del citato regio
decreto).
Il secondo motivo (falsa ed
erronea applicazione della circolare 24 luglio 2007 sugli incarichi
extragiudiziari) censura che la sentenza impugnata abbia posto una equivalenza
tra "non autorizzabilità" delle attività previste dal capo 15 della
ricordata circolare e "divieto". Il capo 15 della circolare,
richiamato nel capo di incolpazione, si riferirebbe alle sole fattispecie in
cui sussiste un incarico extragiudiziario, e sarebbe inapplicabile quando,
invece, si verta in materia di pura libertà e non di incarico conferito da un
soggetto committente o conferente. Ritenere diversamente significherebbe
"esporre il capo 15 a gravi censure di illegittimità, sia in termini di
illegalità costituzionale, sia in termini di eccesso di potere rispetto alla
norma di legge attributiva".
Con il terzo motivo
(inosservanza del capo I della circolare sugli incarichi extragiudiziari) si
sostiene che il caso rientrerebbe in una fattispecie di libertà pura, protetta
dalla Costituzione sia come libertà di manifestazione del pensiero, sia, più
specificatamente, come libertà di insegnamento di arti e scienze. Ad avviso del
ricorrente, il regime di libero svolgimento non verrebbe meno per il fatto che
l'attività abbia dato luogo a compensi.
Il quarto motivo lamenta
inosservanza dell'art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
Il Dott. P. avrebbe impartito libere lezioni private di approfondimento
monografico, costituenti "opera" originale scientifica e didattica
secondo la nozione offerta dall'art. 2 della legge 22 aprile 1941, n. 633
(Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio):
avendo provveduto direttamente al relativo sfruttamento economico, non avrebbe
posto in essere alcun "incarico" ai sensi della nozione giuridica
posta dall'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001. Non rientrando il fatto oggetto
di incolpazione nella fattispecie degli incarichi di cui agli artt. 16, secondo
comma, del regio decreto n. 12 del 1941 e 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, non
sarebbero ad esso applicabili neppure le circolari relative agli incarichi
extragiudiziari, emanate dal CSM nell'esercizio del relativo potere regolamentare.
Con il quinto motivo si
denuncia vizio di motivazione per l'affermata esistenza di un
"incarico" conferito dai soggetti che partecipavano ai seminari, in
realtà inesistente, nonché violazione del principio di necessaria
corrispondenza tra addebito contestato e decisione disciplinare, essendo
rimasto acclarato che il Dott. P. teneva lezioni di approfondimento monografico
con taglio seminariale e accoglieva nella propria dimora i discenti che gli
chiedevano di seguire le sue lezioni, con piena libertà sia del Dott. P. nello
svolgimento di questa attività didattica, sia del discente di seguire uno o più
mesi, senza altro obbligo per lui (se non quello di corrispondere un
corrispettivo per il singolo mese, che rappresentava soltanto l'utilizzazione
economica dell'opera dell'ingegno da parte dell'autore).
Con il sesto motivo (erronea
applicazione dell'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941 per
errata interpretazione della nozione di "libera professione" vietata)
il ricorrente - premessi la distinzione tra le "libere professioni" e
le "professioni intellettuali" ed il rilievo che soltanto nelle prime
vi sarebbe una disciplina che consente di identificare uno status
professionale, invece del tutto assente nelle seconde - esclude che il lavoro
autonomo svolto in modo più o meno continuativo dia luogo di per sé ad una
"libera professione" quale causa di incompatibilità prevista dal
primo comma del citato art. 16.
Il settimo motivo, nel
denunciare falsa ed erronea applicazione dell'art. 16, primo comma, del regio
decreto n. 12 del 1941 per errata sussunzione dell'attività di libero
insegnamento privato nella nozione di libera professione, richiama la
disciplina in materia di pubblico impiego (art. 508 del d.lgs. 16 aprile 1994,
n. 297) che esclude l'attività di libero insegnamento privato (a prescindere
dalla sua continuità) dalla nozione di libera professione, solo quest'ultima
interdetta al pubblico dipendente in termini di incompatibilità. E - si
sostiene - se questa netta distinzione vale per il pubblico insegnante, che
svolge istituzionalmente una funzione molto affine se non omogenea o
addirittura identica a quella che privatamente pure può esercitare, a maggior
ragione questa stessa distinzione deve valere per il magistrato, la cui
attività istituzionale è invece lontana non da poco da quella del docente. Ad
avviso del ricorrente, l'attività didattica autonomamente svolta dal magistrato
sarebbe assimilabile all'attività di produzione libraria, artistica e
scientifica, pienamente consentita al magistrato con l'unico limite
dell'impresa (nella specie insussistente).
L'ottavo mezzo lamenta che la
sentenza impugnata abbia omesso di fare applicazione della giurisprudenza
disciplinare specifica (CSM, Sezione disciplinare, sentenza 18 luglio 2008, n.
86) che, in un caso analogo, aveva assolto l'incolpato, ritenendo esistente
l'attività, non di impresa, ma di studio, ed assumendo come prevalente
l'aspetto dell'autorganizzazione su quello, pur ravvisato, dell'organizzazione.
Come conseguenza di questa mancata applicazione del precedente specifico, la
sentenza impugnata non avrebbe osservato i principi di tassatività delle cause
di incompatibilità e dell'illecito disciplinare e avrebbe violato il principio
di ragionevole affidamento del magistrato nell'interpretazione del giudice
disciplinare.
Con il nono motivo
(inosservanza degli artt. 2, 21 e 33 Cost., nonché degli artt. 10, primo comma,
11 e 117 Cost.) si sostiene che nel caso in esame, al cospetto di norme
costituzionali immediatamente precettive, fondanti precisi diritti di libertà
di manifestazione del pensiero e di insegnamento, e di obblighi internazionali
di rispetto dei diritti di libertà dei singoli, il giudice disciplinare avrebbe
potuto e dovuto scegliere di interpretare il capo 15 della circolare sugli
incarichi extragiudiziari in modo conforme a Costituzione, escludendo dal suo
ambito applicativo il caso in esame, relativo all'esercizio di pura libertà
intellettuale della persona; oppure, avrebbe dovuto disapplicare il capo 15
nella parte in cui fosse stato ritenuto interpretabile come riferibile anche
alle forme di pura libertà intellettuale.
Il decimo motivo (inosservanza
dell'art. 108, primo comma, Cost.; omesso rilievo della carenza di potere in
astratto o del difetto assoluto di attribuzione) muove dal rilievo che la tesi
circa la portata omnicomprensiva del capo 15 della circolare sugli incarichi
extragiudiziari del 2007 avrebbe dovuto indurre il giudice disciplinare a
disapplicarla, in quanto affetta da carenza di potere in astratto. Il ricorrente
osserva che manca una norma primaria che abbia abilitato il CSM a introdurre
nuove cause di incompatibilità rispetto a quelle già previste dal legislatore
ordinario, o che abbia predeterminato la materia e i relativi principi
generali. Quindi erroneamente la Sezione disciplinare non avrebbe considerato
che il capo 15 sarebbe "inesistente o nullo in parte qua", ossia
nella parte in cui venga inteso come volto a vietare altresì al magistrato
forme di esercizio individuale e autonomo di libertà di espressione del
pensiero e di insegnamento che non integrino un'impresa. La circolare del CSM
non avrebbe "applicato" una norma primaria, ma avrebbe allargato
l'originario ambito applicativo della causa di incompatibilità, introducendo
nell'ordinamento giuridico una nuova causa di incompatibilità prima
inesistente. Prima della sentenza qui impugnata, infatti, l'attività didattica
svolta dal magistrato non in forma di impresa sarebbe stata giudicata libera e,
quindi, pienamente consentita e lecita.
Con l'undicesimo motivo,
prospettato in via subordinata, si deduce l'inosservanza dell'art. 16, secondo
comma, del regio decreto n. 12 del 1941, determinata dall'omesso rilievo della
illegittimità della circolare sugli incarichi extragiudiziari, viziata da
eccesso di potere in parte qua, e quindi dall'omessa sua disapplicazione. Vi si
sostiene che ritenere che la predetta circolare si riferisca anche ad attività
di insegnamento che non si collochino nell'ambito di un incarico, ma siano
svolte in modo libero, autonomo e individuale dal magistrato, significherebbe
eccedere dalla causa tipica (controllo - mediante poteri regolativi e
autorizzatori - sui rapporti giuridici instaurati dai magistrati con terzi,
suscettibili di ledere o comunque condizionare l'esercizio della giurisdizione)
per la quale quel potere è attribuito.
In ulteriore subordine, con il
dodicesimo mezzo si censura l'inosservanza del principio generale del
necessario bilanciamento proporzionato tra valori costituzionali. Secondo il
ricorrente, quando, come nella specie, viene in rilievo soltanto la pura
libertà individuale di manifestazione del pensiero scientifico e di
insegnamento, senza alcun previo incarico da parte di un terzo, e senza alcun
travalicamento del limite dell'impresa, per definizione verrebbe meno in radice
l'esigenza di tutelare autonomia e indipendenza del magistrato.
Con il tredicesimo motivo il
ricorrente lamenta l'inosservanza del principio di tassatività e del divieto di
applicazione analogica di norme eccezionali (art. 14 disp. prel. cod. civ.),
perché il divieto di attività di docenza del magistrato per la preparazione ai
concorsi sarebbe stato esteso al caso in cui la detta attività si svolga
liberamente in modo individuale ed autonomo, e quindi non nell'ambito di un
incarico.
Con il quattordicesimo motivo,
rubricato "Erronea applicazione del capo 15 della circolare sugli
incarichi extragiudiziari per erronea interpretazione della sua ratio", il
Dott. P. contesta che la ratio dell'affermata necessità di applicare analogicamente
il capo 15 della circolare sugli incarichi extragiudiziari sia stata
individuata dalla procura generale, nel capo di incolpazione, nella esigenza di
rispettare la riserva che, in materia di formazione dei laureati per la
preparazione all'accesso in magistratura e alle professioni legali, il
legislatore avrebbe disposto in favore delle Scuole per le professioni forensi
disciplinate dal d.lgs. 17 novembre 1997, n. 398 (Modifica alla disciplina del
concorso per uditore giudiziario e norme sulle scuole di specializzazione per
le professioni legali, a norma dell'articolo 17, commi 113 e 114, della legge
15 maggio 1997, n. 127), e dal decreto ministeriale 21 dicembre 1999, n. 537
(Regolamento recante norme per l'istituzione e l'organizzazione delle scuole di
specializzazione per le professioni legali).
Il quindicesimo motivo,
prospettato in subordine, lamenta inosservanza dell'art. 12 delle preleggi
dovuta all'errata affermazione della sussistenza in concreto dell'eadem ratio.
Ciò sul rilievo che i giovani che seguivano i seminari monografici del Dott. P.
erano tutti giovani già diplomati, i quali avevano palesato le loro insicurezze
e l'esigenza di ulteriori approfondimenti, specie monografici, sicché
l'attività svolta dal Dott. P. si è posta come un successivo completamento
della formazione, in quanto integrativa e perfezionativa di quella già offerta
dalle Scuole.
Con il sedicesimo motivo si
denuncia vizio di omessa motivazione per travisamento dei fatti e/o erroneo
apprezzamento delle risultanze istruttorie relative agli elementi costituitivi
della fattispecie prevista dal capo 15 della circolare sugli incarichi
extragiudiziari. Nel caso di specie - si sostiene -non sussisterebbero gli
elementi costitutivi della fattispecie dichiarata "non autorizzarle"
dalla circolare: l'esistenza di una organizzazione, lo svolgimento di una
attività che possa definirsi "scuola privata" e la specifica
destinazione di questa scuola privata alla preparazione a concorsi o esami per
l'accesso alle magistrature e alle altre professioni legali.
Con il diciassettesimo motivo
ci si duole della falsa ed erronea applicazione del capo 15 sulla circolare
sugli incarichi extragiudiziari per erronea interpretazione della nozione di
scuola privata. Nel caso di specie non sussisteva nessuno degli elementi
costitutivi della scuola: nessuna organizzazione di persone (avendo il Dott. P.
sempre svolto da solo l'attività in esame); nessuna organizzazione di cose
(giacché il Dott. P. ha sempre ricevuto nella sua dimora i giovani interessati
ai suoi seminari); il contenuto delle lezioni non era affatto quello proprio
del "programma regolamentare" necessario per partecipare al concorso
in magistratura, in quanto si trattava di meri approfondimenti seminariali di
taglio prettamente monografico; nessuna destinazione specifica di questa
attività alla preparazione dei candidati.
Con il diciottesimo mezzo
(inosservanza dell'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006) si deduce che,
permanendo un consistente e più che ragionevole dubbio sulla responsabilità disciplinare
del Dott. P. , la Sezione disciplinare avrebbe dovuto escludere la sussistenza
dell'addebito.
Il diciannovesimo motivo
lamenta la mancata applicazione del criterio di giudizio offerto dall'art.
3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, secondo cui l'illecito disciplinare non è
configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza.
Con il ventesimo motivo
(inosservanza del principio di necessaria colpevolezza per l'omesso rilievo
della mancanza di elemento psicologico) si fa presente che nell'anno 2007 il
Dott. P. , allora in servizio presso la Corte d'appello di Napoli, a seguito di
un esposto anonimo indirizzato al presidente di quella Corte, rappresentò al
capo dell'ufficio distrettuale in tutti i dettagli l'attività svolta presso la
sua dimora, mediante apposita relazione scritta, e si sottolinea che, in quella
vicenda, il presidente della Corte dispose l'archiviazione degli atti. Secondo
il ricorrente, la vicenda dell'esposto anonimo del 2007, con tutti i connessi
chiarimenti offerti e documentati dal Dott. P. e le rassicurazioni da lui
ricevute, avrebbero radicato nell'incolpato uno stato di assoluta buona fede,
ossia di convincimento più che ragionevole circa la liceità e l'ammissibilità
dell'attività di insegnamento da lui svolta presso la sua dimora.
Con l'ultimo motivo, posto in
estremo subordine, si prospetta la violazione del principio di necessaria
corrispondenza tra chiesto (accusa) e pronunziato (decisione disciplinare): e
ciò sul rilievo che, mentre nel caso di specie tutto il procedimento si è
sviluppato nel senso di accertare l'eventuale sussistenza di un'impresa quale
fattispecie vietata dall'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del
1941, il giudice disciplinare avrebbe pronunciato una decisione "a
sorpresa", ravvisando la sussistenza della diversa fattispecie
dell'esercizio di una "libera professione", mai in precedenza oggetto
di contraddittorio e di difesa.
2. - I motivi - i quali,
stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono
infondati.
2.1. - È anzitutto erronea la
premessa che, con la sentenza impugnata, la Sezione disciplinare del Consiglio
superiore della magistratura abbia individuato il fondamento dell'illecito
disciplinare, di cui il Dott. P. è stato riconosciuto responsabile, nella contravvenzione
alla circolare sugli incarichi extragiudiziari 16 dicembre 1987, n. 15207, che,
con le modifiche introdotte con la deliberazione del 24 luglio 2007, ha
ribadito e precisato il divieto per i magistrati di partecipare, a qualsiasi
titolo, all'attività delle scuole private di preparazione a concorsi o esami
per l'accesso alle magistrature e alle altre professioni legali.
In realtà, il fondamento della
responsabilità è stato dalla sentenza ravvisato nello svolgimento, da parte
dell'incolpato, di un'attività incompatibile con la funzione giudiziaria ai
sensi dell'art. 16, primo comma, del regio decreto n. 12 del 1941, così come
richiede l'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 perché sia
configurabile l'illecito disciplinare extrafunzionale contestato nella specie,
avendo la Sezione disciplinare ritenuto che nella nozione di libera
professione, contemplata dal citato art. 16, primo comma, rientri, appunto,
l'organizzazione individuale, in forma continuativa, di un'attività di gestione
di corsi a pagamento di preparazione a concorsi o esami per l'accesso a
professioni del settore giuridico.
La sentenza impugnata,
infatti, dopo avere richiamato il divieto di esercitare “qualsiasi libera
professionale”, imposto ai magistrati dall'art. 16, primo comma,
dell'Ordinamento giudiziario, si è sviluppata lungo le seguenti linee
argomentative:
- l'attività di lavoro
autonomo, esercitata abitualmente anche se non in via esclusiva, costituisce
esercizio di attività professionale;
- nella categoria generale
delle professioni intellettuali, solo quelle determinate dalla legge (art.
2229, primo comma, cod. civ.) sono tipizzate ed assoggettate all'iscrizione in
albi ed elenchi; all'infuori di queste, vi sono non solo professioni
intellettuali caratterizzate per il loro specifico contenuto, ma anche
prestazioni di contenuto professionale o intellettuale non specificamente
caratterizzate, che ben possono essere oggetto di lavoro autonomo;
- l'attività di insegnamento
svolta dal Dott. P. costituisce esercizio di una libera professione, le cui
singole prestazioni venivano fornite su richiesta dei soggetti che
partecipavano ai corsi;
- la prestazione collettiva
delle lezioni integra esercizio di una "scuola";
- è corretto l'inquadramento
dei fatti nella norma dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del
2006.
Nell'economia della sentenza
della Sezione disciplinare, il richiamo alla normativa secondaria del Consiglio
superiore assume una valenza meramente ricognitiva della portata di un divieto
che discende direttamente, ed in maniera compiuta ed autosufficiente, dalla
norma di legge.
E questa impostazione
metodologica seguita dalla sentenza è corretta.
Con riguardo, infatti,
all'illecito disciplinare consistente nello svolgimento di un'attività incompatibile
con la funzione giudiziaria ai sensi dell'art. 16, primo comma, del regio
decreto n. 12 del 1941, è la norma di Ordinamento giudiziario a stabilire,
direttamente, cosa si debba intendere per attività non consone alla funzione e
allo status del magistrato, prevedendo, sotto la rubrica "Incompatibilità
di funzioni", che ai magistrati è vietato “assumere pubblici o privati
impieghi od uffici”, nonché “esercitare industrie o commerci”, o “qualsiasi
libera professione”. L'illecito disciplinare in questione ha una tipicità che
si muove tutta nel perimetro della configurazione data dalla norma di legge:
una tipicità che non è suscettibile di essere implementata dalla normativa
secondaria del CSM. Sotto questo profilo, la circolare del Consiglio sugli incarichi
extragiudiziari, come non potrebbe innovare o integrare la portata delle
attività vietate, così neanche potrebbe imporre alla Sezione disciplinare
un'interpretazione autentica di ciò che rientra (o che fuoriesce) dai confini
del primo comma dell'art. 16. La circostanza che le attribuzioni disciplinari
siano riservate, per legge, ad una apposizione Sezione del CSM, e differenziate
per natura da tutte le altre funzioni consiliari, rappresenta un ostacolo alla
precostituzione, ad opera dell'intero Consiglio nell'esercizio delle funzioni
di alta amministrazione, di regole interpretative destinate a imporsi al
giudice disciplinare.
Nondimeno, la presa d'atto, da
parte della circolare del Consiglio superiore, del contenuto del divieto
dell'esercizio di certe attività, da la misura di quali incarichi
extragiudiziari i magistrati siano abilitati, previa autorizzazione dello
stesso Consiglio superiore, a svolgere. Nel contesto del sistema ordinamentale,
infatti, il regime delle attività vietate, di cui al primo comma dell'art. 16,
si collega alla disciplina dettata dal secondo comma del citato art. 16, il
quale, nel testo risultante dalla novella introdotta con la legge 2 aprile
1979, n. 97, prescrive (con una norma la cui violazione configura illecito
disciplinare ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera e, del d.lgs. n. 109 del
2006) che i magistrati “non possono... accettare incarichi di qualsiasi
specie... senza l'autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura”:
una disciplina, dunque, che, nel determinare la possibilità, ma anche i limiti,
le condizioni e le modalità per l'attribuzione ai magistrati di incarichi
estranei ai loro compiti di istituto, attribuisce un potere di intervento al
Consiglio superiore. Ed è, appunto, in quest'ambito che la circolare del CSM
svolge una funzione, essenziale, di autodisciplina dell'esercizio della
discrezionalità amministrativa spettante all'organo di governo autonomo della
magistratura sul tema degli incarichi extragiudiziari.
D'altra parte, alla base della
disciplina della incompatibilità di funzioni - si esprima essa attraverso la
previsione di attività vietate o di incarichi extragiudiziari assumibili, ma
con i limiti e le condizioni stabiliti dal Consiglio superiore - sta una comune
ragione di fondo. Come per tutti i pubblici dipendenti, così per i magistrati,
i limiti di compatibilità dell'ufficio ricoperto con lo svolgimento di altre
attività e con l'assunzione di altri incarichi sono un elemento del loro stato
giuridico; ma, in particolare, per i magistrati, l'assunzione di compiti e lo
svolgimento di attività estranei a quelli propri dell'ufficio ad essi affidato
- anche quando non richiedano una sospensione o una riduzione delle funzioni
ordinarie del magistrato - sono fattori suscettibili di avere effetti sul
regolare e corretto svolgimento di una funzione essenziale che la Costituzione
affida ai magistrati nel quadro dei principi dello Stato di diritto, e di
incidere, in astratto, "sulla loro indipendenza ed imparzialità, connotato
e condizione essenziale per lo svolgimento della funzione loro attribuita: sia
in quanto può esservi una interferenza diretta fra compiti propri e ulteriori
attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di
attribuzione, dell'incarico, per la sua stessa natura e per i vantaggi che
possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del
magistrato" (Corte cost., sentenza n. 224 del 1999).
2.2. - Si tratta, a questo
punto, di stabilire se sia corretto - a prescindere, dunque, dal supporto
derivante dalla più volte citata circolare del Consiglio superiore -
l'inquadramento dell'attività svolta dal Dott. P. tra quelle incompatibili con
la funzione giudiziaria, perché vietate dall'art. 16, primo comma,
dell'Ordinamento giudiziario, richiamato dall'art. 3, comma 1, lettera d), del
d.lgs. n. 109 del 2006.
Al quesito deve darsi risposta
positiva, sottraendosi alle plurime censure articolate dal ricorrente la
conclusione alla quale è giunta la Sezione disciplinare.
Occorre premettere che il
giudice a quo, nel condividere la prospettazione del titolare dell'azione
disciplinare, ha accertato: (a) che il Dott. P. ha organizzato individualmente
un'attività di gestione di corsi di preparazione al concorso per l'accesso in
magistratura, con lezioni tenute dallo stesso magistrato di regola due giorni a
settimana in favore di numerosi studenti (da venti a sessanta); (b) che in
corrispettivo delle lezioni il magistrato ha ricevuto una remunerazione
direttamente dai partecipanti alle lezioni; (c) che questa attività si è
protratta dal 2007 al 2011.
Questa attività, per le
caratteristiche sopra sintetizzate e per la continuità nel tempo, è assurta -
secondo l'apprezzamento, congruo e motivato, della Sezione disciplinare - ad
una seconda professione (libera) del magistrato, e ricade pertanto sotto il
divieto riguardante l'incompatibilità di funzioni stabilito dal primo comma del
citato art. 16 dell'Ordinamento giudiziario.
Il divieto di esercitare
“qualsiasi libera professione”, di cui all'art. 16, primo comma,
dell'Ordinamento giudiziario, non può infatti essere inteso come limitato alle
professioni intellettuali per l'esercizio delle quali - secondo la previsione
del primo comma dell'art. 2229 cod. civ. – “è necessaria l'iscrizione in
appositi albi o elenchi”.
Per un verso queste Sezioni
Unite - ritenendo indifferente che l'attività allora contestata (nella specie
si trattava di attività di amministratore dietro mandato svolta da un
magistrato in favore di privati cittadini, e "finalizzata all'incremento,
alla conservazione ed alla tutela dei redditi e del patrimonio") non
corrispondesse a prestazioni tipiche delle professioni di avvocato o di commercialista
- hanno già stabilito (sentenza 27 giugno 2003, n. 10233) che la norma
disciplinare, facendo divieto di esercitare “qualsiasi libera professione”,
"mira ad impedire che l'esercizio professionale di qualsiasi attività,
indipendentemente dalla natura delle prestazioni volta a volta rese, possa
costituire per il magistrato, oltre che ragione di limitazione del suo impegno
istituzionale, fattore di condizionamento ed inquinamento dello stesso".
Per l'altro, è costante nella
giurisprudenza di questa Corte l'insegnamento secondo cui nella categoria
generale delle professioni intellettuali solo quelle determinate dalla legge
sono tipizzate ed assoggettate all'iscrizione in albi ed elenchi, sicché,
all'infuori di queste, vi sono non solo professioni intellettuali caratterizzate
per il loro specifico contenuto, ma anche prestazioni di contenuto
professionale o intellettuale non specificamente caratterizzate, che ben
possono essere oggetto di lavoro autonomo (Sez. lav., 10 aprile 1980, n. 2305;
Sez. II, 26 agosto 1993, n. 9019). La nozione di attività professionale
intellettuale è, dunque, una nozione aperta, qualificata per la presenza di due
requisiti (la professionalità, intesa sotto il profilo della continuità del suo
esercizio, e l'intellettualità, intesa come espressione della erogazione a
favore dei terzi di prestazioni a carattere tecnico-intellettuale), ed è
identificabile anche là dove non sia imposta, a chi intenda esercitarla,
l'iscrizione in appositi albi o elenchi.
Ne deriva, pertanto, che
l'attività didattica del magistrato, con la gestione sistematica e
continuativa, da parte dello stesso, in forma di lavoro autonomo, attraverso la
tenuta di lezioni a pagamento, di un servizio di formazione di più discenti
finalizzato all'accesso a professioni del settore giuridico, costituisce
esercizio di attività libero professionale, come tale rientrante nel divieto di
cui all'art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario per
l'incompatibilità con l'esercizio delle funzioni di magistrato.
2.3. - La configurabilità
dell'illecito di cui l'incolpato è stato ritenuto responsabile non è esclusa
dalla circostanza che l'attività esercitata dal Dott. P. non sia stata svolta
in forma di impresa. Non rileva, cioè, che nella specie l'attività didattica
non abbia riprodotto per complessità una struttura imprenditoriale e che
all'organizzazione dei corsi di preparazione al concorso non si sia
accompagnata la predisposizione di strutture capaci di dare all'attività di
gestione dei corsi carattere di autonomia rispetto alla persona del docente
magistrato e all'insegnamento da lui impartito.
Ai fini della configurabilità
del divieto di cui all'art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario,
basta che la preparazione ai concorsi o agli esami per l'accesso alle
professioni forensi, attraverso l'offerta al mercato dei servizi di quella
particolare utilità, economicamente valutabile, costituita dalla prestazione di
insegnamento, avvenga con un'attività continuativa e professionale, anche
quando l'aspetto organizzativo si risolva tutto nella autorganizzazione di chi
ponga in vita la prestazione intellettuale.
Del divieto in questione
ricorrono infatti la lettera e la ratio.
La lettera, perché il citato
art. 16, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario, vietando non solo di
esercitare “commerci”, ma, appunto, “qualsiasi libera professione”, preclude al
magistrato non soltanto l'attività di impresa, ma anche l'esercizio
professionale e non episodico di un'attività lavorativa di carattere
intellettuale, fonte di reddito per l'interessato, posta in essere senza
vincoli di subordinazione e con ampia discrezionalità tecnica, senza che sia a
tal fine richiesta la compresenza dell'aspetto organizzativo di beni (come
l'utilizzazione di locali diversi dall'abitazione del docente) e di persone (come
l'assunzione di personale che adempia a funzioni di segreteria o la
collaborazione di altri docenti che sostituiscano il docente personalmente
impedito).
La ratio, perché lo
svolgimento da parte del magistrato, con continuità e con un tornaconto sul
piano economico e patrimoniale, di una seconda attività professionale, anche
quando non realizzata in forme imprenditoriali, compromette il primato della
funzione di servizio del magistrato per i cittadini e per la Repubblica,
finendo con l'incidere sull'interesse pubblico a che sia assicurato il regolare
e corretto svolgimento della funzione giudiziaria, vale a dire di una funzione
che gode in Costituzione di una speciale garanzia di indipendenza e di
autonomia rispetto ad ogni altra funzione.
Pertanto, non rileva che il
Dott. P. , per lo svolgimento dell'attività contestata, non abbia utilizzato
locali diversi dalla propria dimora in XXXXXXXX e abbia svolto da solo la
prestazione di insegnamento. E neppure rileva che le lezioni tenute abbiano
avuto carattere seminariale.
Lo stesso termine
"scuola" è stato impiegato nella sentenza impugnata per designare la
prestazione collettiva delle lezioni da parte del magistrato istruttore in
favore di un numero significativo di studenti (da venti a sessanta), l'erogazione
a pagamento di detto servizio, diretto alla preparazione dei giovani a concorsi
od esami per le professioni legali, e la sistematicità dell'attività; non certo
per dare rilievo ad aspetti organizzativi implicanti la necessità di
un'iscrizione per i partecipanti, lo svolgimento, da parte del docente, di un
programma regolamentare o la presenza di una struttura specificamente destinata
allo scopo e tale da porsi come vera e propria istituzione scolastica. La
critica articolata al riguardo dalla difesa del ricorrente, anche là dove
addebita alla sentenza impugnata il vizio di travisamento dei fatti o l'erroneo
apprezzamento delle risultanze istruttorie, si risolve o in un tentativo di
sollecitare questa Corte a sindacare sul piano del merito le valutazioni,
sorrette da motivazione congrua ed esenti da vizi logici, del giudice
disciplinare, o nella sottolineatura di profili assolutamente ininfluenti,
essendo - va ribadito - irrilevante, ai fini della configurabilità
dell'illecito in questione, stabilire se le lezioni vertessero, ciascuna, su
argomenti monografici di volta in volta esaminati, o se le stesse, fossero
collocabili nell'ambito di un corso o di un programma "regolamentare"
o fossero rivolte, semplicemente, a consolidare nella preparazione, attraverso
una offerta formativa integrativa e perfezionativa di quella già offerta dalle
Scuole per le professioni legali istituite presso le Università, "giovani
già diplomati, i quali avevano palesato le loro insicurezze e l'esigenza di
ulteriori approfondimenti, specie monografici".
2.4. - Né, d'altra parte,
l'attività in concreto espletata dal Dott. P. può ritenersi priva di rilevanza
disciplinare per effetto di quanto stabilito, per il personale docente delle
scuole di ogni ordine e grado, dall'art. 508 del testo unico delle disposizioni
legislative vigenti in materia di istruzione, approvato con il d.lgs. 16 aprile
1994, n. 297.
A prescindere dal fatto che
anche per il personale docente delle scuole l'attività di insegnamento privato
è circondata da limiti e in qualche caso anche da divieti (posto che: al
personale docente non è consentito impartire lezioni private ad alunni del
proprio istituto; il personale docente, ove assuma lezioni private, è tenuto ad
informare il direttore didattico o il preside, al quale deve altresì comunicare
il nome degli alunni e la loro provenienza; ove le esigenze di funzionamento
della scuola lo richiedano, il direttore didattico o il preside possono vietare
l'assunzione di lezioni private o interdirne la continuazione, sentito il
consiglio di circolo o di istituto; al personale ispettivo e direttivo è fatto
divieto di impartire lezioni private); ed a prescindere, ancora, dal rilievo
che nel caso del Dott. P. non ci si trova di fronte ad una occasionale attività
di insegnamento privato, ma - secondo l'apprezzamento della Sezione
disciplinare - ad una vera e propria gestione continuativa, sistematica e
professionale, in corrispettivo di un compenso, di corsi collettivi integranti
esercizio di una "scuola"; è assorbente considerare che il regime di
incompatibilità di funzioni è diversamente disciplinato dal legislatore per il
personale docente delle scuole e per i magistrati e ciò che è (sia pure con
certi limiti) consentito ai primi, non per ciò solo è ammesso per i secondi.
Invero, il comune aspetto di
fondo, dipendente dal fatto che i docenti ed i magistrati sono legati, gli uni
e gli altri, da un rapporto di servizio pubblico con lo Stato e svolgono,
entrambi, attività in nome e per conto dello Stato medesimo, non ha impedito al
legislatore di considerare, nell'ambito di un esercizio non irragionevole della
sua discrezionalità politica, le peculiarità dello status dei magistrati
rispetto a quello degli insegnanti delle scuole. Sotto il profilo della
incompatibilità di funzioni, un trattamento differenziato, e più rigoroso, per
i magistrati, rivolto sia ad evitare ogni possibile confusione tra il loro
ruolo e quello di esercenti attività estranee alle funzioni giurisdizionali,
sia a consentire l'esatto ed il tempestivo adempimento dei doveri d'ufficio, è,
del resto, imposto dalla stessa Costituzione, la quale, agli articoli da 101 a
113, prevede apposite disposizioni dirette ad assicurare, a garanzia
dell'autonomia e dell'imparzialità di una funzione di vitale importanza per l'esistenza
e l'attuazione di uno Stato di diritto, la più ampia tutela dell'indipendenza
dei magistrati, considerati sia come singoli soggetti sia come ordine
giudiziario (cfr. Corte cost., sentenza n. 289 del 1992).
2.5. - Sotto questo profilo,
la rilevanza disciplinare della condotta neppure è esclusa dalla disciplina
dettata per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche dall'art. 53 del
d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il quale, nel prevedere che i dipendenti pubblici
non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza, e nello stabilire (con una
norma che sanziona con la nullità gli atti e i provvedimenti di segno contrario
adottati dalle amministrazioni di appartenenza) che gli incarichi retribuiti
sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri
d'ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso, esclude
tuttavia - espressamente - i compensi derivanti da “attività... di docenza e di
ricerca scientifica” (comma 6, lettera f bis, nel testo da ultimo modificato
dall'art. 2, comma 13 quinquies, lettera b, del decreto-legge 31 agosto 2013,
n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125).
Nella vicenda in esame,
infatti, si è in presenza, non di un incarico (per tale intendendosi l'attività
destinata a svolgersi nel contesto di un rapporto di collaborazione
appositamente instaurato con soggetti conferenti), ma di un'attività
professionale continuativa di docenza posta in essere, in forma libera ed
autonoma, dal Dott. P. . D'altra parte, anche ove ci si trovasse di fronte ad
un incarico, varrebbe l'osservazione (già espressa da queste Sezioni Unite con
la sentenza 28 novembre 2007, n. 24669) che il rapporto tra le due norme
primarie di cui all'art. 16 dell'Ordinamento giudiziario e all'art. 53 del
citato decreto legislativo non si pone in termini di abrogazione, ma di
coordinamento ed integrazione, atteso che l'esistenza di una disposizione
normativa che in via generale ed astratta postuli per i dipendenti pubblici la
possibilità di svolgere incarichi non esclude la potestà autorizzatoria del
CSM, spettando in ogni caso all'organo di autogoverno verificare che nel caso
concreto non sussistano ragioni, connesse al prestigio della magistratura
ovvero alla funzionalità del singolo ufficio giudiziario, che si oppongano a
che quel particolare incarico sia svolto da quel determinato magistrato.
2.6. - È del pari evidente
l'insostenibilità del tentativo del ricorrente di ricondurre l'attività da lui
compiuta nell'ambito dell'esercizio di pura libertà intellettuale della persona
e di libera manifestazione del pensiero attraverso l'insegnamento, e quindi di
una situazione soggettiva che gode della tutela costituzionale rafforzata della
inviolabilità, preclusiva di qualsiasi rilevanza disciplinare.
Al riguardo, occorre
premettere che i magistrati debbono godere - e non sono possibili dubbi in
proposito - degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino
(Corte cost., sentenze n. 100 del 1981 e n. 224 del 2009).
I magistrati non sono esseri
inanimati o meri burocrati della legge e non vivono separati dal resto della
società civile. Come cittadini e come persone, essi hanno certamente il diritto
ed il dovere di contribuire alla vita intellettuale e culturale del Paese.
Sono pertanto liberamente
espletagli, e non richiedono alcuna autorizzazione, le attività che
costituiscono espressione di diritti fondamentali, quali la libertà di
manifestazione scritta e verbale del pensiero, di associazione, di esplicazione
della personalità; la pubblicistica; la produzione artistica e scientifica; le
attività di creazione di opere dell'ingegno; la partecipazione, come relatori,
qualora non sia prevista alcuna attività di retribuzione, a seminari e
convegni; l'adesione ad organismi che danno luogo ad un rapporto associativo
trasparente; la partecipazione ad attività di volontariato.
Anche in quest'ambito, deve
tuttavia ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai
magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento
costituzionale. Poiché, infatti, lo status del magistrato è caratterizzato da
diritti e doveri che, avuto riguardo alla specificità della funzione
giudiziaria, senza dubbio investono il suo comportamento anche fuori
dell'ufficio, pur quando ci si trovi al cospetto dell'esercizio di un diritto
di libertà di rango costituzionale il magistrato deve responsabilmente valutare
che l'attività in concreto espletata non comprometta la sua affidabilità e
credibilità, in termini di indipendenza e di imparzialità, e deve curare che
questa si svolga con modalità tali da non risultare pregiudizievole per il
servizio giustizia.
Ciò premesso, nella specie si
è certamente al di fuori del nucleo dei diritti di libertà pura, perché - come
accertato incensurabilmente dalla Sezione disciplinare - il Dott. P. ha fatto
dell'insegnamento privato un'attività, non episodica e disinteressata, ma
professionale e sorretta dal conseguimento di un vantaggio economico,
costituente per il magistrato istruttore (secondo l'apprezzamento
esaurientemente e logicamente motivato del giudice a quo) una seconda
professione (libera): un'attività che non può essere ricondotta alla mera
utilizzazione economica, da parte dell'autore o dell'inventore, di opere
dell'ingegno.
Né sposta la conclusione la
circostanza che il Dott. P. fosse pienamente libero di svolgere questa libertà
didattica, e che altrettanta libertà avessero i discenti di seguire uno o più
mesi di lezioni (salvo l'obbligo, di questi ultimi, di versare il corrispettivo
per il singolo mese di lezioni seguite). Non è, infatti, in discussione la non
vincolatività (sia per il magistrato istruttore che per gli allievi)
dell'offerta dei servizi di insegnamento, perché ciò che rileva, ed è
sufficiente ad integrare l'illecito in termini di incompatibilità con la
funzione giudiziaria, è il fatto che l'attività di insegnamento abbia assunto
carattere professionale, sistematico e continuativo.
2.7. - È inoltre da escludere
che il Dott. P. avesse maturato un legittimo affidamento sulla liceità sul
piano disciplinare della propria attività, per essere la Sezione disciplinare
del Consiglio superiore giunta, in una precedente e analoga vicenda riguardante
altro magistrato, ad una pronuncia di assoluzione.
È esatto che, con la sentenza
18 luglio 2008, n. 86, il giudice disciplinare ritenne non integrato l'illecito
contestato (si trattava, anche lì, di un caso di violazione degli artt. 16
dell'Ordinamento giudiziario e 3, comma 1, lettera d, del d.lgs. n. 109 del
2006 per la gestione autonoma, professionale e non episodica di corsi di
preparazione al concorso per uditore giudiziario) per il fatto che l'incolpato,
con lo svolgimento dell'attività didattica privata, non aveva dato vita ad una
impresa, mancando qualunque forma di investimento e qualunque apporto di lavoro
eccedente quello del magistrato istruttore.
Ma va tuttavia precisato che
la citata sentenza disciplinare ha cura di sottolineare che - in presenza di
correnti di pensiero, sia giudiziarie che
scientifiche, anche a lungo
contrapposte - la soluzione più "benevola" (nel senso, appunto, della
legittimità dell'attività didattica di preparazione ai concorsi nei limiti
quantitativi e qualitativi che non ne implicassero la natura imprenditoriale)
era stata assunta in quanto il fatto era cessato prima dell'entrata in vigore
della nuova circolare del luglio 2007, la quale - si e-videnzia - "toglie
ogni questione, giacché, al di là delle forme organizzative, vieta l'attività
in sé". La sentenza, cioè, quando stabilisce la necessità della forma
dell'organizzazione di tipo imprenditoriale per la configurabilità
dell'illecito, guarda al passato; per le condotte collocabili dopo il luglio
2007, la soluzione adottata in quella fattispecie è - dichiaratamente - priva
di efficacia precedenziale e di significato orientativo, valendo anzi l'opposta
regola del divieto assoluto, a prescindere dalle dimensioni e dalla forma
organizzativa.
Ora, non interessa stabilire
se sia o meno corretto il valore dirimente e costitutivo attribuito dalla
sentenza alla circolare del Consiglio superiore che disciplina l'autorizzazione
degli incarichi extragiudiziari, in attuazione della previsione di cui all'art.
16, secondo comma, del regio decreto n. 12 del 1941. Quel che è indiscutibile è
che questa circolare - nello stabilire l'ambito e le caratteristiche delle
attività vietate come premessa alla soluzione preventiva delle questioni
prospettabili sul tema, ad essa proprio, degli incarichi - costituisce una formale
deliberazione dell'organo di autogoverno della magistratura che, tra l'altro
espressamente richiamata dalla sentenza della Sezione disciplinare, assume
quantomeno la valenza di escludere che il magistrato possa riporre un legittimo
affidamento sulla diversa opzione interpretativa, disattesa dalla circolare,
che ammette la liceità della attività in questione quando esercitata in forme
non imprenditoriali.
2.8. - Allo stesso modo, non
può essere accampato come scusa il provvedimento adottato in data 28 giugno
2007 dal presidente della Corte d'appello di Napoli, recante l'archiviazione di
un esposto anonimo contro lo stesso Dott. P. , motivata sul rilievo che
l'attività di insegnamento fa fino ad allora espletata ed oggetto di
quell'esposto, avendo contenuto intrinsecamente intellettuale, era priva di
significato disciplinarmente apprezzabile per l'assenza di strutture capaci di
dare all'attività carattere di autonomia anche rispetto alla persona del
docente magistrato e all'insegnamento da lui impartito.
Detto provvedimento di
archiviazione è del tutto insuscettibile di ingenerare una legittima
rassicurazione o di rafforzare, nel Dott. P. , il convincimento in ordine alla
liceità e dunque alla possibilità di continuare a svolgere, per il futuro, la
medesima attività: sia perché la possibilità di assumere come scusa l'erroneo
convincimento della liceità della propria condotta, se è ammissibile per il
cittadino comune soltanto in presenza di situazioni eccezionali, è in linea di
massima da escludere nel caso del magistrato, il quale ha il dovere di vagliare
con il massimo scrupolo la compatibilità delle attività esercitate con il suo
particolare status e possiede le conoscenze tecnico-giuridiche necessarie per
sciogliere i dubbi che possono sorgere al riguardo; sia perché quel
provvedimento di archiviazione venne adottato sulla base dell'espresso richiamo
di una delibera del CSM (la "circolare n. 5114... in data 3 giugno
1981") superata dalla più recente, e più volte richiamata, formale
risoluzione dello stesso Consiglio superiore, di cui è espressa menzione della
citata sentenza n. 86 del 2008 della Sezione disciplinare.
2.9. - Va poi escluso che,
pervenendo ad una pronuncia di condanna motivata sul rilievo dell'esercizio, da
parte del Dott. P. , di un'attività libero professionale, la Sezione
disciplinare abbia emesso una decisione a sorpresa, ponendo a base della
condanna un'ipotesi di illecito disciplinare diversa da quella contestata
nell'atto introduttivo del giudizio.
Contrariamente a quanto
affermato dalla difesa del ricorrente, infatti, la scelta effettuata dal
competente organo disciplinare nell'atto di iniziativa, e trasfusa nell'atto
introduttivo del giudizio, contiene la definizione dell'ipotesi di illecito
(l'avere, tra il 2007 ed il 2011, il Dott. P. "organizzato
individualmente, in forma continuativa, attività di gestione di corsi di
preparazione al concorso per l'accesso in magistratura, con lezioni tenute di
regola due giorni la settimana, in favore di numerosi partecipanti, tra venti e
sessanta, in corrispettivo di una remunerazione") prescindendo del tutto
dal riferimento all'esercizio di un'impresa, tant'è vero che il capo di
incolpazione precisa, espressamente, che il divieto di organizzazione di scuole
private è configurabile "sotto qualsiasi forma e indipendentemente dalle
caratteristiche dimensionali". A ciò aggiungasi che l'ipotesi contestata
non si limita a descrivere la condotta nei suoi elementi fattuali, ma contiene
anche - secondo il nuovo sistema di tipicità dell'illecito disciplinare - il
giudizio di disvalore sulla condotta stessa formulato con il pertinente
richiamo delle disposizioni di legge che vengono in considerazione nella
specie: l'art. 3, comma, 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 e l'art. 16
dell'Ordinamento giudiziario.
Non sussiste, pertanto, alcuna
violazione del principio di necessaria corrispondenza tra accusa e decisione.
2.10. - Né è riscontrabile la
lamentata inosservanza dell'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 per non avere
il giudice disciplinare fatto applicazione del criterio di giudizio, offerto da
tale disposizione, che esclude la configurabilità dell'illecito disciplinare
“quanto il fatto è di scarsa rilevanza”.
Secondo la costante
giurisprudenza di queste Sezioni Unite (v., tra le tante, la sentenza 5 luglio
2011, n. 14665), per l'applicazione di questa esimente è necessario che
l'incolpato eccepisca e provi, o che comunque risulti, che il fatto del quale
lo stesso è (stato giudicato) responsabile sia effettivamente di scarsa
rilevanza.
La norma dell'art. 3-bis tende
ad attenuare la rigidità della tipizzazione degli illeciti disciplinari,
sancendo - in riferimento a tutte le ipotesi di illecito previste negli artt. 2
e 3 del d.lgs. n. 109 del 2006 - che il fatto, pur a-strattamente rientrante in
una delle fattispecie tipizzate, costituisce, in concreto, illecito
disciplinare soltanto se supera, in base a valutazione che la Sezione può
compiere anche d'ufficio sulla base dei fatti acquisiti al procedimento, la
soglia della non scarsa rilevanza.
Nel caso di specie, nessuno
degli elementi che il ricorrente prospetta (il numero dei discenti, l'importo
dei compensi, il luogo nel quale si tenevano le lezioni, la mancanza di
qualunque promozione pubblicitaria) è potenzialmente idoneo a condurre ad una soluzione
di segno positivo, a fronte di una attività pluriennale, sistematica e
continuativa in contrasto con puntuali e tassative disposizioni di legge e con
precisi canoni deontologici.
2.11. - Inconferente è
l'invocazione dell'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006.
La disposizione che impone
alla Sezione disciplinare di dichiarare esclusa la sussistenza dell'addebito
“se non è raggiunta prova sufficiente” al riguardo, è una norma che attiene
allo standard probatorio richiesto per pervenire ad una affermazione di
responsabilità. Con questa regola di giudizio - modellata sulla disciplina del
processo penale e improntata a ragioni di favor nei confronti dell'incolpato -
si esclude che la sanzione disciplinare possa essere irrogata in presenza di una
serie incompleta di elementi di responsabilità, ovvero di una contrapposizione
fra elementi contrari ed elementi favorevoli all'incolpato.
Ma si tratta di
un'insufficienza che riguarda la prova, appunto, del fatto: nel suo
accadimento, nella sua materialità o nella sua riferibilità all'incolpato. E
poiché la predetta regola di giudizio non muta la natura del sindacato delle
Sezioni Unite, che non può sconfinare nell'ambito del giudizio di merito, essa
deve ritenersi osservata, a prescindere dalla persistenza dei dubbi della
difesa sulla correttezza della ricostruzione prescelta dal giudice a quo,
quando, come nella specie, la Sezione disciplinare abbia operato un'attenta e
completa disamina delle risultanze probatorie, sorreggendola con una
motivazione esaustiva rispettosa dei canoni della logica.
D'altra parte, poiché
l'incertezza che, secondo la delineata regola di giudizio, conduce alla
esclusione della sussistenza dell'addebito verte sulla prova del fatto, l'art.
19, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 non ha modo di trovare applicazione
allorché la quaestio coinvolga, com'è nella presente vicenda, non l'an della
condotta, ma la sua inquadrabilità nell'ambito della fattispecie disciplinare
astratta delineata dal legislatore: il che pertiene alla logica del giudizio
sussuntivo, scrutinabile in cassazione attraverso il prisma dell'errore di
diritto, senza che la complessità dell'indagine ermeneutica al riguardo possa
riflettersi, o risolversi, nel mancato raggiungimento della prova sufficiente
della sussistenza dell'addebito.
2.12. - Priva di qualsiasi
collegamento con la ratio della sentenza impugnata è, infine, la censura con
cui si sostiene che l'illecito non poteva essere fondato sulla, in realtà
insussistente, riserva in favore delle Scuole di specializzazione per le
professioni legali istituite presso le Università.
3. - Il ricorso è rigettato.
Nessuna pronuncia va emessa in
ordine alle spese del giudizio, in quanto il Ministero della giustizia non ha
spiegato difese.
Risultando dagli atti che il
procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo
unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al comma 1 quater
all'art. 13 del testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,
introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di
stabilità 2013).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Depositata in cancelleria il 10 dicembre 2013.
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