Massima
"Ai fini della integrazione dell’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. q), del d.lgs. n. 109 del 2006, diversamente da quanto avveniva nella vigenza dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, non rilevano, tra l’altro, la sussistenza di scarsa laboriosità o di negligenza del magistrato, dovendosi piuttosto porre l’accento sul dato obiettivo della lesione del diritto delle parti alla durata ragionevole del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., e all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; lesione che è di per sé idonea ad incidere anche sul prestigio della funzione giurisdizionale.
La Sezione disciplinare ha recepito i richiamati recenti orientamenti espressi da queste Sezioni Unite in ordine alla consistenza dell’illecito in esame, con specifico riferimento alla connessione ritenuta esistente tra la individuazione, quale illecito disciplinare, del ritardo, con le caratteristiche prima evidenziate della reiterazione, della gravità e della ingiustificatezza, nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali e l’esigenza di assicurare la ragionevole definizione dei giudizi, secondo la regola propria del giusto processo, che è tale se è svolto in un tempo ragionevole, alla determinazione del quale concorre anche il lasso di tempo impiegato dal magistrato per il deposito del provvedimento a seguito della decisione.
Né potrebbe obiettarsi che in tal modo verrebbe a gravarsi il magistrato di una responsabilità di tipo oggettivo, atteso che, come rilevato, la soglia di giustificazione deve ritenersi superata in concreto qualora il ritardo leda il su richiamato diritto delle parti alla durata ragionevole del processo, costituendo in tal caso il comportamento del magistrato di per sé espressione di colpa, quantomeno in relazione alla incapacità di organizzare in modo idoneo il proprio lavoro (in tal senso, v. Cass., S.U., n. 8488 del 2011, cit.)".
Sentenza per esteso
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
V..T. era stato chiamato a rispondere
dell’illecito di cui agli artt. 1 e 2, comma 1, lett. q), del d.lgs. 23
febbraio 2006, n. 109, poiché, nella qualità di magistrato in servizio presso
il Tribunale di Roma, nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle
funzioni, ritardava in modo reiterato, grave ed ingiustificato il deposito di
numerosi provvedimenti. In particolare, al dott. T. veniva contestata la
violazione dei doveri di diligenza e laboriosità, per avere ritardato il
deposito di 247 sentenze civili, eccedendo oltre tre volte i termini previsti
dalla legge per il compimento dell’atto, con la precisazione che il ritardo in
147 casi non superava i 220 giorni; in 56 casi si collocava tra 220 e 320
giorni; in 32 casi tra 321 e 420 giorni; in 9 casi tra 421 e 520 giorni; in un
caso era stato di 646 giorni, in un altro caso di 730 giorni ed in ultimo caso
di 741 giorni. Fatti, questi, accertati in Roma il 10 dicembre 2008.
Da tale incolpazione il dott. T. veniva
assolto dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura
con sentenza del 30 novembre 2010 in quanto i ritardi, gravi e reiterati,
potevano ritenersi giustificati per la molteplicità dei compiti che l’incolpato
aveva dovuto espletare, anche di carattere straordinario alla luce della
situazione venutasi a creare nell’ambito della sezione fallimentare del
Tribunale di Roma, alla quale lo stesso era stato trasferito dalla sezione dei
giudici per le indagini preliminari, nonché per la complessità di alcuni dei
procedimenti dei quali si era dovuto occupare quale giudice delegato.
Avverso questa sentenza il Ministero della
giustizia proponeva ricorso che veniva accolto da queste Sezioni unite, con
sentenza del 13 settembre 2011, atteso lo scostamento della Sezione
disciplinare dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di
illecito disciplinare di cui alla lett. q) del comma 1 dell’art. 2 del d.lgs.
n. 109 del 2006, e segnatamente dalla qualificazione della ingiustificatezza
dei ritardi gravi e reiterati come condizione di inesigibilità, nella specie
non valutata.
In sede di rinvio, con sentenza n. 35 del
2012, la Sezione disciplinare ha dichiarato il dott. T. responsabile della
incolpazione ascrittagli e gli ha inflitto la sanzione della censura.
La Sezione disciplinare ha preso in esame
essenzialmente il quadro dei ritardi superiori all’anno, posto che proprio con
riferimento ai ritardi ultrannuali, nella giurisprudenza delle Sezioni unite e
in particolare nella sentenza di cassazione con rinvio, si è affermata la
possibilità che l’illecito sia escluso, ove i ritardi siano anche reiterati,
solo nel caso di inesigibilità di un diverso comportamento da parte
dell’incolpato. All’esito di tale e-same, la Sezione, premesso che non era in
contestazione la gravità e la reiterazione dei ritardi, e cioè degli elementi
di fatto sui quali si era formato il giudicato, ha rilevato che le sentenza
depositate con ritardo superiore all’anno non erano quaranta, come affermato
nella sentenza delle Sezioni unite, ma quindici; ciò tuttavia, ad avviso della
Sezione, non poneva in discussione né la gravità né la reiterazione dei
ritardi.
Quanto alla giustificatezza la Sezione ha
osservato che l’incolpato non ha allegato fatti o circostanze assolutamente
eccezionali, tali da far ritenere inesigibile l’ottemperanza ai termini di
deposito dei provvedimenti da lui redatti, almeno nel senso del non superamento
del termine di un anno di ritardo. La Sezione ha quindi esaminato il quadro
delle giustificazioni addotte dall’incolpato sia con riferimento alla
situazione dell’ufficio giudiziario presso il quale egli era in servizio, sia
in relazione al carico di lavoro su di lui gravante, posto in comparazione con
quello degli altri colleghi nel medesimo periodo, per giungere alla conclusione
che la situazione del dott. T. non si caratterizzava in termini di assoluta
eccezionalità.
In particolare, per quanto ancora rileva, la
Sezione disciplinare ha escluso che la patologia addotta dall’incolpato
(artropatia psoriasica) integrasse il carattere dell’eccezionalità, tale da
giustificare il superamento dell’anno nel deposito delle sentenze.
Con ricorso depositato in data 18 maggio 2012
il dott. T. ha chiesto la cassazione della predetta sentenza sulla base di
quattro motivi; il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso si articola in quattro motivi.
1.1. Con il primo motivo, rubricato
“violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. per omessa motivazione
risultante dal testo del provvedimento impugnato”, il ricorrente censura la
sentenza impugnata con riferimento alla mancanza di motivazione in ordine alla
affermata irrilevanza della patologia, la cui esistenza era ampiamente
dimostrata in atti, in ordine alla configurabilità di una situazione eccezionale.
Il ricorrente si duole altresì che la Sezione disciplinare non abbia disposto
un accertamento tecnico sul punto. In proposito, il ricorrente richiama il
contenuto delle certificazioni prodotte nel corso del giudizio disciplinare, le
quali denotavano, proprio nel periodo in cui erano maturati i ritardi
contestati, l’esistenza di un quadro patologico significativo e comunque
incidente sulla funzionalità delle mani, sottoposte a ripetuti interventi
chirurgici che, pur se ambulatoriali, avevano comunque comportato la
prescrizione di periodi di riposo di 20 o 30 giorni.
1.2. Con il secondo motivo il ricorrente
lamenta “violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. per
contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento
impugnato”, atteso che in questo, da un lato, si è data per accertata la sua
laboriosità, diligenza e scrupolosità, e, dall’altro, lo si è ritenuto
meritevole di sanzione disciplinare per il dato oggettivo della esistenza di
ritardi oltre una certa soglia. E ciò tanto più sarebbe contraddittorio, dal
momento che l’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede che in tanto possano
essere applicate le sanzioni di cui agli artt. 2, 3 e 4, in quanto sia
ravvisabile la violazione dei doveri di diligenza e correttezza prescritti al
magistrato.
1.3. Con il terzo motivo il ricorrente
eccepisce la incostituzionalità degli artt. 1 e 2, comma 1, lett. q), del
d.lgs. n. 109 del 2006, ove interpretati nel senso di ritenere l’illecito
sussistente a prescindere dall’elemento psicologico. La detta normativa
contrasterebbe, ad avviso del ricorrente, con l’art. 24 Cost., precludendo al
magistrato la possibilità di difendersi dimostrando la mancanza di colpa, che
sarebbe nella specie irrilevante.
1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia
violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ove la normativa interna venga
intesa nel senso di configurare una responsabilità disciplinare oggettiva,
precludendo all’incolpato la possibilità di mostrare la mancanza di colpa.
2. Il secondo, il terzo e il quarto motivo, che
per ragioni di ordine logico vanno esaminati per primi e congiuntamente, in
quanto riguardano il principio di diritto applicato dalla Sezione disciplinare
in sede di rinvio,
sono infondati.
2.1. Giova premettere che nella giurisprudenza
di queste Sezioni Unite si sono consolidati i seguenti principi: a) il ritardo
nel deposito delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali integra
l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1,
lett. q), qualora sia – indipendentemente da ogni altro criterio di valutazione
– oltre che reiterato e grave, anche ingiustificato, come tale intendendosi –
in ogni caso – il ritardo che leda il diritto delle parti alla durata ragionevole
del processo di cui agli artt. 111, comma secondo, Cost. e 6, paragrafo 1,
della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
b) diversamente da quanto avveniva nella vigenza dell’art. 18 del r.d.lgs. n.
511 del 1946, perché tale illecito sia integrato, non rilevano – quali
condizioni per la sua stessa configurabilità – né la compromissione del
prestigio dell’Ordine giudiziario o il venir meno della fiducia e della
considerazione di cui il magistrato deve godere, né la sussistenza di scarsa
laboriosità o di negligenza dello stesso magistrato, né la valutazione della
complessiva organizzazione dell’ufficio di appartenenza e di tutte le funzioni
svolte dal magistrato oltre quelle interessate da detto ritardo, in quanto nessuno
di tali elementi è previsto dalla fattispecie tipica del nuovo illecito
disciplinare; c) tali circostanze di fatto – laboriosità o no del magistrato
incolpato, suo carico di lavoro, organizzazione dell’ufficio giudiziario di
appartenenza, funzioni giurisdizionali concretamente svolte – ed altre ancora,
possono rilevare, se adeguatamente dimostrate, quali indici di
“giustificazione” del ritardo, vale a dire quali situazioni ostative a
carattere soggettivo od oggettivo che determinino la concreta “inesigibilità”
del rispetto dei termini stabiliti per il deposito dei provvedimenti
giurisdizionali; d) in ogni caso, la soglia di giustificazione deve ritenersi
sempre superata in concreto, qualora il ritardo leda il su richiamato diritto
delle parti alla durata ragionevole del processo; e) quando, per quantità di
casi ed entità del ritardo, risulti superata in concreto tale soglia di
giustificazione, il comportamento del magistrato è di per sé espressione di
colpa, quantomeno in relazione alla incapacità di organizzare in modo i-doneo
il proprio lavoro (in tal senso, v. Cass., S.U., n. 8488 dei 2011, e pronunce
ivi richiamate, nonché, successivamente, Cass., S.U., n. 528 del 2012).
Nella sentenza da ultimo citata, si è altresì
rilevato, con specifico riferimento al tema della ingiustificabilità del
ritardo, come la stessa non costituisca un ulteriore elemento della
fattispecie, ma ne rappresenti un elemento esterno che gravità nell’area delle
situazioni riconducibili alle condizioni di inesigibilità (in tal senso, v.
anche la sentenza di cassazione con rinvio n. 18697 del 2011, emessa nel
presente giudizio disciplinare, nonché Cass., S.U., n. 18699 del 2011).
Si tratta quindi di un elemento funzionale alla
delimitazione degli obblighi giuridicamente determinati sul piano normativo con
lo scopo di temperarne il rigore applicativo quando, per circostanze
specificamente accertate, la sanzione apparirebbe irrogata non iure, potendosi
parlare quindi anche di causa di giustificazione non codificata rilevante sul
piano oggettivo o su quello soggettivo (Cass., S.U., n. 528 del 2012, cit.). In
tale quadro, si è attribuito un particolare rilievo ai ritardi di grande entità
nel deposito dei provvedimenti, per il fatto che essi comportano la violazione
del principio di ragionevole durata del processo riconducibile alla garanzia
costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.) e conseguentemente
risultano intollerabili per la inerente lesione degli interessi delle parti e
del regolare corso della giustizia. Si è anche indicato (mediante
valorizzazione di indicazioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo
relative alla durata di un giudizio di legittimità) nel superamento del termine
di un anno l’elemento che può determinare tale specifica intollerabilità del
ritardo (cfr. Cass., S.U., n. 18699 del 2011, cit.). In casi di tale
particolare gravità dei ritardi la possibilità che essi siano scriminati si
restringe ed è richiesto a tal fine il concorso di fattori eccezionali e
proporzionati alla particolarità gravità che, alla stregua dell’ordinamento
giuridico, deve attribuirsi alla violazione (cfr. le sentenze già richiamate,
nonché Cass., S.U., n. 28801 del 2011).
2.2. Sono quindi infondate le censure
concernenti la asserita affermazione della responsabilità disciplinare pur in
presenza di una positiva esclusione di rilievi di neghittosità o trascuratezza
a carico del ricorrente.
Le censure risultano formulate sulla base della
erronea premessa che la configurabilità del contestato illecito disciplinare
presupporrebbe la violazione dei doveri funzionali di laboriosità e di
diligenza; violazione, nel caso di specie, positivamente esclusa dalla Sezione
disciplinare.
Come si è già rilevato, ai fini della
integrazione dell’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. q), del d.lgs. n.
109 del 2006, diversamente da quanto avveniva nella vigenza dell’art. 18 del
r.d.lgs. n. 511 del 1946, non rilevano, tra l’altro, la sussistenza di scarsa
laboriosità o di negligenza del magistrato, dovendosi piuttosto porre l’accento
sul dato obiettivo della lesione del diritto delle parti alla durata
ragionevole del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., e all’art.
6, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali; lesione che è di per sé idonea ad incidere anche sul prestigio
della funzione giurisdizionale.
La Sezione disciplinare ha recepito i richiamati
recenti orientamenti espressi da queste Sezioni Unite in ordine alla
consistenza dell’illecito in esame, con specifico riferimento alla connessione
ritenuta esistente tra la individuazione, quale illecito disciplinare, del
ritardo, con le caratteristiche prima evidenziate della reiterazione, della
gravità e della ingiustificatezza, nel deposito dei provvedimenti
giurisdizionali e l’esigenza di assicurare la ragionevole definizione dei
giudizi, secondo la regola propria del giusto processo, che è tale se è svolto
in un tempo ragionevole, alla determinazione del quale concorre anche il lasso
di tempo impiegato dal magistrato per il deposito del provvedimento a seguito
della decisione.
Né potrebbe obiettarsi che in tal modo verrebbe
a gravarsi il magistrato di una responsabilità di tipo oggettivo, atteso che,
come rilevato, la soglia di giustificazione deve ritenersi superata in concreto
qualora il ritardo leda il su richiamato diritto delle parti alla durata ragionevole
del processo, costituendo in tal caso il comportamento del magistrato di per sé
espressione di colpa, quantomeno in relazione alla incapacità di organizzare in
modo idoneo il proprio lavoro (in tal senso, v. Cass., S.U., n. 8488 del 2011,
cit.).
2.3. Manifestamente infondata risulta quindi la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, lett. q), del
d.lgs. n. 109 del 2006, nella interpretazione ad esso data dalle Sezioni unite
di questa Corte e dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della
magistratura.
Nella recente sentenza n. 13795 del 2012 queste
Sezioni unite hanno avuto modo di affermare che la richiamata interpretazione
non introduce affatto, e per di più contra legem, una presunzione di
ingiustificabilità del ritardo superiore all’anno. Con le richiamate sentenze
si è infatti individuato un criterio volto ad orientare l’interpretazione degli
elementi costitutivi dell’illecito contestato, e segnatamente quello della
gravità e quello della ingiustificatezza. Esaminando congiuntamente i due
requisiti, infatti, in presenza di una previsione normativa che indica un
criterio idoneo ad escludere la gravità del ritardo (“si presume non grave,
salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo
dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto”), si è
individuato un criterio temporale che, non solo vale a connotare in termini di
gravità il ritardo, ma che opera anche sul piano delle ragioni che possono
essere addotte a giustificazione dello stesso. E tale criterio non
irragionevolmente è stato individuato nel termine di un anno, atteso che se si
considera siffatto periodo idoneo alla conclusione di un intero grado di
giudizio, lo stesso deve di norma, e salvo condizioni di inesigibilità, il cui
onere probatorio grava sul magistrato, essere ritenuto sufficiente per il
deposito di un provvedimento.
Né – si è osservato – potrebbe obiettarsi che in
tal modo si verrebbero a configurare due tipologie di illecito ai sensi
dell’art. 2, comma 1, lett. q), del d.lgs. n. 109 del 2006 – e cioè il ritardo
infrannuale, suscettibile di essere giustificato anche senza fare ricorso a
condizioni di inesigibilità, e quello ultrannuale, per il quale opererebbe come
causa di giustificazione unicamente la inesigibilità della condotta prescritta
-, atteso che la condotta disciplinarmente illecita continua ad essere
caratterizzata dalla concorrenza dei tre requisiti della reiterazione, della
gravità e della ingiustificatezza dei ritardi, mentre la entità del ritardo
rileva nel senso che, in presenza di una condotta reiterata, la illiceità della
condotta può essere esclusa solo allorché vengano addotte situazioni di
inesigibilità.
È agevole rilevare che siffatta interpretazione
non incide in alcun modo sulla configurazione dell’illecito, ma mira ad offrire
canoni suscettibili di omogeneità applicativa in presenza di situazioni idonee
ad incidere sul diritto delle parti alla ragionevole durata del processo e, di
riflesso, sullo stesso prestigio della magistratura.
Né potrebbe configurarsi violazione dei principi
di legalità, di tipizzazione dell’illecito disciplinare e di colpevolezza
atteso che la individuazione di criteri obiettivi di interpretazione
dell’illecito disciplinare come tipizzato dal legislatore non solo non integra
una lesione del principio di legalità, ma è attività imposta dalla presenza di
espressioni legislative che, evocando concetti quali quelli di gravità e di
ingiustificatezza, richiedono l’intervento dell’interprete. Né può sostenersi
che la violazione del principio di legalità sarebbe integrata per il fatto che
risulterebbe mutato il bene giuridico tutelato dalla norma in tema di ritardi –
ravvisabile, per effetto della richiamata interpretazione, nella ragionevole
durata del processo – atteso che la norma continua ad operare, ovviamente, sul
piano disciplinare e l’accertamento della violazione non comporta in alcun modo
una ricaduta automatica sul diverso piano del diritto ad un indennizzo per la
irragionevole durata del processo ai sensi della legge n. 89 dei 2001. Il
riferimento alla ragionevole durata del processo, giova ribadire, opera solo
sul piano della valutazione delle giustificazioni addotte a fronte di ritardi
che si protraggono per un lasso di tempo sufficiente, secondo uno standard affermato
dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e di questa
stessa Corte, per la definizione di un intero grado di giudizio. Peraltro, è
innegabile che un reiterato e grave ritardo nel deposito dei provvedimenti,
oltre ad incidere direttamente sui diritti delle parti, è idoneo ad arrecare
pregiudizio anche al prestigio della funzione giurisdizionale e alla
considerazione sociale dell’operato della magistratura.
Né, infine, potrebbe ipotizzarsi una violazione
del principio di colpevolezza. Il reiterato superamento del termine indicato
dall’art. 2, comma 1, lett. q), d.lgs. n. 109 del 2006 (il triplo dei termini
previsti dalla legge per il compimento dell’atto), invero, vale già a connotare
la condotta del magistrato in termini di possibile esposizione ad azione
disciplinare e a porre il magistrato stesso nella condizione di dover
giustificare la propria condotta. La individuazione di una soglia di ritardo
rispetto alla quale la scriminante, per poter operare, deve attingere il
livello della inesigibilità non viola quindi il principio di colpevolezza,
neanche sotto il profilo della non prevedibilità della sanzionabilità della
condotta nel momento in cui la stessa è stata tenuta.
3. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La Sezione disciplinare ha infatti preso atto
della documentazione medica prodotta dall’incolpato e, con motivazione immune
da vizi in sede di legittimità, ha ritenuto che le condizioni di salute non
fossero tali da consentire di ravvisare quel fatto eccezionale del deposito oltre
l’anno dei provvedimenti oggetto di contestazione.
Il ricorrente si duole del fatto che il giudice
disciplinare non abbia disposto l’espletamento di un accertamento tecnico
d’ufficio in ordine alla consistenza della patologia e alla sua incidenza causale
quanto al ritardo nel deposito dei provvedimenti di cui al capo di
incolpazione; tuttavia, la censura non può essere condivisa sia perché la
documentazione medica non è stata prodotta nel corso della istruttoria
disciplinare, sia e soprattutto perché il ricorrente non ha neanche allegato di
essersi dovuto assentare dal lavoro per effetto della indicata patologia
ricorrendo all’istituto del congedo ordinario per malattia. In sostanza, la
Sezione disciplinare ha esaminato il problema posto dalla documentata patologia
e ne ha escluso il valore esimente, con giudizio insindacabile in sede di
legittimità.
4. In conclusione, il ricorso deve essere
rigettato perché infondato.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese del
presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta
il ricorso.