ENTI LOCALI:
la condanna penale non definitiva
dell'amministratore locale
comporta la sua sospensione;
quella definitiva la decadenza
(Cons. St., Sez. III,
sentenza 14 febbraio 2014, n. 730).
Massima per esteso
1. La “sospensione” non può che dipendere, per sua stessa natura,
che da una condanna non definitiva. Se invece la condanna è definitiva, vi è la
decadenza, non la sospensione. Se la legge n. 190/2012 avesse veramente inteso
accomunare la sospensione e la decadenza nel riferimento alla condanna
“definitiva” avrebbe fatto un non senso; si sarebbe trattato, in realtà, della
soppressione dell’istituto della “sospensione” e tanto valeva dirlo
apertamente.
2. Ciò appare ancor più evidente se si considera che nel disposto del
d.lgs. n. 235/2012 (come del resto nella normativa anteriore) le fattispecie
penali che dànno luogo alla sospensione sono un campo più ristretto di quello
delle fattispecie che comportano la decadenza. Questa differenza si spiega ed
appare perfettamente logica se si correla la sospensione ad una condanna non
definitiva: proprio perché la posizione penale dell’interessato è ancora sub
iudice la sospensione si giustifica solo per le ipotesi più gravi di reato;
quando invece l’illecito penale è definitivamente accertato la decadenza si
giustifica anche per ipotesi relativamente meno gravi.
3. Lo
sviluppo della normativa in materia, anteriormente alla legge delega del 2012,
attuata dalla L. n. 190/2012 (c.d. "legge anticorruzione") e a
partire dalla legge n. 55/1990, è stato sempre, difatti coerente, nel prevedere
lo strumento della sospensione dalla carica, in presenza di un procedimento
penale per fattispecie penali di una certa gravità, pur in assenza di una
condanna definitiva; sopravvenendo la quale alla sospensione subentra la
decadenza. Anzi i vari passaggi hanno affinato la disciplina della sospensione,
nel trasparente scopo di rendere tale strumento maggiormente efficace, e non
già di renderlo evanescente.
Excursus storico-normativo
1. L’istituto
della sospensione degli amministratori regionali e degli enti locali
assoggettati a un procedimento penale ha avuto la prima manifestazione
nell’art. 15 della legge n. 55/1990. La sospensione si verificava al momento
del rinvio a giudizio, peraltro limitatamente al delitto di associazione a
delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) ovvero al favoreggiamento
dello stesso. La sospensione si trasformava in decadenza al momento del
passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
2. E’ poi intervenuta la legge n. 16/1992, art. 1, che ha modificato
radicalmente il citato art. 15, introducendovi la nuova figura della
“incandidabilità” alle elezioni amministrative e regionali. La norma disponeva
l’incandidabilità in caso di condanna “anche non definitiva” per una serie di
fattispecie penali di una certa gravità; per altre fattispecie meno gravi
prevedeva che l’incandidabilità sorgesse per effetto di una condanna
definitiva, o anche di una condanna in primo grado confermata in appello. Sin
qui la norma si riferiva alle sentenze penali pronunciate prima dell’elezione.
Nel caso che le condanne in questione sopravvenissero dopo l’elezione, la norma
prevedeva la sospensione dalla carica, convertita di diritto in decadenza al
momento del passaggio in giudicato.
3. Queste
disposizioni sono state trasfuse, con qualche modifica, nel testo unico enti
locali (d.lgs. n. 267/2000), articoli 58 e 59. L’art. 58 concerneva
l’incandidabilità conseguente alla condanna definitiva (era eliminato ogni
riferimento alle condanne non definitive; l’art. 59 la sospensione conseguente
alla condanna non definitiva (e, per talune fattispecie, alla condanna in primo
grado confermata in appello).
4. Il testo
degli artt. 58 e 59 del t.u.e.l. è stato a sua volta trasfuso, senza rilevanti
variazioni, nel testo degli artt. 10 e 11 del d.lgs. n. 235/2012.
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