PARAFARMACIE & CORTE COSTITUZIONALE:
il divieto di vendita nelle parafarmacie
dei farmaci di fascia C
soggetti a prescrizione medica
non contrasta con gli artt. 3 e 41 Cost.
né con il principio comunitario
di libertà di stabilimento
(Corte Cost., sentenza 9 luglio 2014, n. 216).
Massima per esteso
1. Il divieto di vendita nelle parafarmacie
dei farmaci di fascia C soggetti a prescrizione medica, previsto dall'art. 32 del d.l. 201/2011,
non contrasta con gli artt. 3 e 41 Cost. né con il principio comunitario di
libertà di stabilimento (art. 49 TFUE).
2. Il citato divieto è contenuto, più in particolare nell'art. 32 del d.l. n. 201/2001 convertito, con modificazioni, dalla l.
n. 214/201, che ha introdotto il principio secondo cui, fatte salve alcune
particolari categorie, i farmaci di fascia C possono essere dispensati nelle
parafarmacie, ad eccezione di quelli espressamente indicati nel citato elenco,
per i quali permane l’obbligo di prescrizione ed il conseguente divieto di
vendita; sicché nel regime vigente la regola generale è che i farmaci di fascia
C possono essere venduti nelle parafarmacie, mentre l’obbligo di prescrizione
ed il correlativo divieto rappresentano l’eccezione.
3. Per quanto riguarda, innanzitutto,
la pretesa violazione dell’art. 3 Cost., occorre osservare che non c’è alcuna
irragionevolezza nel prevedere che per determinati medicinali, periodicamente
individuati dal Ministero della salute dopo aver sentito l’Agenzia italiana del
farmaco, permanga l’obbligo della prescrizione medica e, di conseguenza, il
divieto di vendita nelle parafarmacie. Ed invero, nonostante siano
condivisibili le osservazioni compiute dal TAR rimettente per quello che
riguarda l’esistenza di una serie di elementi comuni alle farmacie e alle
parafarmacie, è indubbio che fra i due esercizi permangano una serie di
significative differenze, tali da rendere la scelta del legislatore non
censurabile in termini di ragionevolezza. Le farmacie, infatti, proprio in
quanto assoggettate ad una serie di obblighi che derivano dalle esigenze di
tutela della salute dei cittadini, offrono necessariamente un insieme di
garanzie maggiori che rendono non illegittima la permanenza della riserva loro
assegnata. Non si tratta di accogliere l’opinione secondo cui i farmacisti che
hanno superato il concorso per l’assegnazione di una farmacia danno maggiori
garanzie rispetto a quelli preposti alle parafarmacie, poiché gli uni e gli
altri hanno il medesimo titolo di studio e sono iscritti a tutti gli effetti
all’albo professionale. Si tratta, invece, di prendere atto che la totale
liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C soggetti a prescrizione
medica – che sono medicinali con una maggiore valenza terapeutica, risultando
altrimenti privo di senso l’obbligo di prescrizione – verrebbe affidata ad
esercizi commerciali che lo stesso legislatore ha voluto assoggettare ad una
quantità meno intensa di vincoli e adempimenti, anche in relazione alle
prescrizioni.
4. Né può giungersi a diversa conclusione
invocando l’art. 41 Cost. e il principio di tutela della concorrenza.
A questo riguardo va rilevato che, come si è
sottolineato, il regime delle farmacie è incluso – secondo costante
giurisprudenza di questa Corte – nella materia della «tutela della salute», pur
se questa collocazione non esclude che alcune delle relative attività possano
essere sottoposte alla concorrenza, come altre nell’ambito della medesima
materia. Come si è posto in evidenza, infatti, il legislatore, con il ricordato
art. 32 del d.l. n. 201 del 2011, ha ulteriormente ampliato la possibilità, per
le parafarmacie, di vendere medicinali di fascia C, mantenendo fermo il
criterio della prescrizione medica quale discriminante tra i farmaci
necessariamente dispensati dalle farmacie e quelli che possono esserlo anche
dalle parafarmacie.
L’incondizionata liberalizzazione di quella categoria
di farmaci inciderebbe, con effetti che non sono tutti prevedibili, sulla
distribuzione territoriale delle parafarmacie le quali, non essendo inserite
nel sistema di pianificazione sopra richiamato, potrebbero alterare il sistema
stesso, che è posto, prima di tutto, a garanzia della salute dei cittadini.
5. anche la Corte di giustizia dell’Unione
europea è stata chiamata a pronunciarsi, sotto il profilo della tutela della
libertà di stabilimento, sulla compatibilità della normativa oggi in esame in
riferimento ai principi del diritto dell’Unione.
Ha affermato, inoltre, che la tutela della salute può
giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento (punto 41); che
l’apertura delle farmacie sul territorio italiano è oggetto di un regime di
pianificazione (punto 45) e che la situazione auspicata dalle ricorrenti in
quel giudizio equivarrebbe a poter commercializzare tali medicinali senza osservare
il requisito della pianificazione territoriale (punto 51), con ripercussioni
negative sull’effettività dell’intero sistema di pianificazione delle farmacie
e quindi sulla sua stabilità (punto 54). La Corte di giustizia ha pure
affermato che la riserva della distribuzione di detti farmaci alle sole
farmacie è atta a garantire la tutela della salute (punto 55) e che la
normativa italiana al riguardo è proporzionata e necessaria (punti
58-65).
Sentenza per esteso
SENTENZA N. 216
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Sabino
CASSESE; Giudici : Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO,
Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio
MATTARELLA, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto-legge 4 luglio
2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in
materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con
modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promosso dal Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria,
nel procedimento vertente tra T.M. e l’ASP – Azienda sanitaria provinciale di
Reggio Calabria ed altri, con ordinanza dell’8 maggio 2012, iscritta al n. 180
del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di
costituzione di T.M. e della Federfarma – Federazione nazionale unitaria dei
titolari di farmacia italiani, nonché gli atti di intervento della LI.F.I.,
Liberi farmacisti italiani e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 24 giugno 2014 il Giudice relatore Sergio Mattarella;
uditi gli avvocati
Attilio Luigi Maria Toscano per T.M., Massimo Luciani per la Federfarma –
Federazione nazionale unitaria dei titolari di farmacia italiani e l’avvocato dello
Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di un
giudizio amministrativo promosso da una farmacista per l’annullamento di un
provvedimento emesso dall’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria
relativo all’autorizzazione alla vendita di medicinali, il Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria,
con ordinanza dell’8 maggio 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3
e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5,
comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il
rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della
spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto
2006, n. 248, «nella parte in cui non consente agli esercizi commerciali ivi
previsti (c.d. parafarmacie) la vendita di medicinali di fascia C soggetti a
prescrizione medica».
1.1.— Il giudice
remittente precisa, in punto di fatto, che la ricorrente ha chiesto al
Ministero della salute ed all’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria
di essere autorizzata alla vendita anche dei medicinali non soggetti a rimborso
previsti dall’art. 8, comma 10, lettera c), della legge 24 dicembre 1993, n.
537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), ma che la richiesta è stata
respinta sul rilievo che le cosiddette parafarmacie possono effettuare soltanto
la vendita di farmaci da banco o di automedicazione di cui all’art. 9-bis del
decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347 (Interventi urgenti in materia di spesa
sanitaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 16 novembre
2001, n. 405; con esclusione, quindi, di tutti i farmaci soggetti ad obbligo di
prescrizione medica, anche se non soggetti a rimborso da parte del Servizio
sanitario nazionale.
1.2.— Tanto premesso, il
giudice a quo osserva che non è possibile procedere – come pure sollecitato
dalla parte ricorrente – ad un’interpretazione adeguatrice della norma
impugnata, poiché il testo della medesima dispone che le parafarmacie
nell’attuale quadro normativo non sono abilitate alla vendita dei farmaci della
cosiddetta fascia C.
Sempre in via
preliminare, il TAR rileva di non potere aderire alla richiesta della
ricorrente di rimettere la questione, in via pregiudiziale, alla Corte di
giustizia dell’Unione europea, benché su identica questione il Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia abbia già rimesso la decisione a
detta Corte, con ordinanza del 22 marzo 2012, n. 896.
1.3.— In punto di
rilevanza il TAR – dopo aver accennato al fatto che la legislazione in materia
di farmacie è costruita, da sempre, intorno ad un obiettivo di pianificazione
territoriale delle medesime – precisa che il citato art. 8, comma 10, della
legge n. 537 del 1993 ha diviso i farmaci in tre fasce, a seconda che essi
siano a totale carico del servizio sanitario nazionale o, viceversa, a totale
carico dell’assistito. L’art. 87 del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219
[Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica)
relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano,
nonché della direttiva 2003/94/CE], invece, classifica i farmaci a seconda che
gli stessi siano soggetti o meno all’obbligo di ricetta medica, stabilendo che
nella categoria dei farmaci non soggetti a tale prescrizione rientrino i
medicinali da banco o di automedicazione, che sono quelli ai quali fa
riferimento l’art. 9-bis del d.l. n. 347 del 2001, ossia gli unici che possono
essere venduti anche nelle parafarmacie. E che tale sia il senso univoco del
sistema vigente è confermato anche dall’art. 32 del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento del conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, il quale – nel consentire che
nelle parafarmacie vengano venduti senza ricetta i medicinali di cui all’art.
8, comma 10, della legge n. 537 del 1993 – espressamente affida (comma 1-bis)
al Ministro della salute il compito di redigere periodicamente un elenco dei
farmaci di fascia C per i quali permane l’obbligo di ricetta medica, sicché gli
stessi non possono essere venduti nelle parafarmacie.
Ritiene, pertanto, il
TAR che, poiché è indubbia la permanenza del divieto di vendita dei farmaci soggetti
a prescrizione medica da parte delle parafarmacie, tanto dia conto della
rilevanza dell’odierna questione, in quanto solo attraverso la declaratoria di
illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006 si
potrebbe accogliere il ricorso oggetto del giudizio principale, che allo stato
attuale della normativa dovrebbe essere respinto.
1.4.— Il TAR per la
Calabria procede, a questo punto, alla valutazione della non manifesta
infondatezza della prospettata questione.
A tale proposito, il
remittente rileva che la violazione degli artt. 3 e 41 Cost. emerge sulla base
dei due elementi che caratterizzano i farmaci in questione: il fatto che essi
siano a totale carico del cittadino ed il fatto che per il loro acquisto sia
necessaria la prescrizione del medico. Ed infatti, anche la giurisprudenza
costituzionale ha evidenziato che l’attività del farmacista è un’attività
imprenditoriale (sentenza n. 87 del 2006), finalizzata però all’erogazione ai
cittadini di un servizio di fondamentale importanza. Ora, che nelle
parafarmacie sia consentita solo la vendita dei farmaci a totale carico del
cittadino si giustifica in nome della necessità di tenere sotto controllo la
spesa pubblica destinata all’assistenza farmaceutica; ma l’art. 5, comma 1, oggetto
di censura non si limita ad escludere dalla possibilità di vendita nelle
parafarmacie i soli farmaci che sono a carico integrale del Servizio sanitario
nazionale, bensì estende tale divieto anche ai farmaci per i quali, pur essendo
necessaria la prescrizione medica, l’onere economico è a totale carico del
cittadino.
Tale limitazione appare
in contrasto con l’art. 41 Cost., perché in un sistema affidato al principio
della libertà dell’iniziativa economica, i limiti che ad essa possono essere
posti debbono essere in funzione di tutela dell’utilità sociale, della libertà,
sicurezza e dignità umana; in altri termini, i limiti all’iniziativa economica
devono essere armonizzati in modo da consentire di raggiungere fini sociali e
di benessere collettivo, come la Corte costituzionale ha ribadito in numerose
occasioni. Nel caso specifico, invece, la limitazione della libera vendita da
parte delle parafarmacie non trova un ragionevole fondamento sotto il profilo
della tutela della salute; nel sistema attuale, infatti, i farmaci di cui
all’art. 87, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 219 del 2006 possono
essere venduti nelle farmacie tradizionali solo dietro presentazione di ricetta
medica, sicché il controllo sull’idoneità del farmaco allo scopo terapeutico è
affidato “a monte” al medico che lo prescrive, con conseguente esonero del
farmacista da ogni responsabilità che non sia quella di consegnare il farmaco
prescritto nella ricetta. Nelle parafarmacie, l’art. 5, comma 2, del d.l. n.
223 del 2006 prescrive che la vendita dei medicinali ammessi alla libera
distribuzione abbia luogo sotto la direzione di un farmacista abilitato
all’esercizio della professione ed iscritto all’albo; è vero che i farmaci
somministrabili senza prescrizione possono apportare danni ben minori alla
salute, ma è pur vero che si tratta, comunque, di medicine; sicché – ad avviso
del giudice a quo – pare del tutto illogico che la legge consenta la vendita
nelle parafarmacie dei farmaci che non richiedono prescrizione del medico – con
evidente maggiore responsabilità in capo al farmacista – e non consenta la
vendita dei farmaci soggetti a prescrizione, per i quali la verifica effettuata
dal medico riduce notevolmente la sfera di libertà decisionale (e la
conseguente responsabilità) in capo al farmacista venditore.
In sostanza, una volta
che per un determinato farmaco il sistema pone a carico del medico il controllo
del rischio derivante dall’utilizzo, diventa «del tutto indifferente che la
vendita sia effettuata presso una farmacia “tradizionale” ovvero una c.d.
parafarmacia», e non ha più alcun senso il divieto posto dalla norma rimessa al
giudizio di legittimità costituzionale. Ritiene quindi il TAR per la Calabria
che sia «irragionevole, illogica ed ingiustificata l’esclusione dalla vendita
da parte delle c.d. parafarmacie dei farmaci di fascia C distribuibili solo
dietro presentazione di prescrizione medica»; oltre tutto, l’inserimento di un
maggior numero di operatori sul mercato interno consentirebbe la creazione di
«una dinamica dei prezzi che andrebbe a beneficio dei consumatori».
D’altra parte – conclude
il TAR – l’irrazionalità dell’attuale sistema è stata colta anche dallo stesso
legislatore, come risulta dal fatto che la stesura originaria dell’art. 32,
comma 1, del d.l. n. 201 del 2011 consentiva, sia pure con alcune limitazioni,
la vendita nelle parafarmacie dei farmaci della cosiddetta fascia C,
possibilità che è stata di fatto cancellata con la legge di conversione, con la
previsione, contenuta nel comma 1-bis sopra menzionato, per cui il Ministro
della salute è tenuto periodicamente a redigere un elenco dei farmaci di cui
all’art. 8, comma 10, lettera c), della legge n. 537 del 1993 per i quali
permane l’obbligo di ricetta medica e dei quali non è consentita la vendita
nelle parafarmacie.
Il TAR, quindi, nel
chiedere l’accoglimento della questione, sollecita la Corte costituzionale ad
avvalersi della previsione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
dichiarando anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1-bis, del
d.l. n. 201 del 2011.
2.— Nel giudizio si è
costituita la parte privata ricorrente, chiedendo l’accoglimento della
prospettata questione.
La parte, dopo aver
ricordato che l’art. 5 del d.l. n. 223 del 2006 impone a chi esercita la
professione in una parafarmacia il possesso degli stessi titoli e delle stesse
qualificazioni professionali dei farmacisti tradizionali, rileva che simile
previsione garantisce comunque la tutela del diritto alla salute dei cittadini.
Del resto, anche in
ipotesi di accoglimento della presente questione, le farmacie tradizionali
rimarrebbero comunque titolari di un regime di monopolio nella vendita dei
farmaci della cosiddetta fascia A, ossia quelli soggetti a rimborso totale o
parziale da parte del Servizio sanitario nazionale. Sicché l’ampliamento della
possibilità di vendita dei farmaci a totale pagamento dei cittadini non
potrebbe che incoraggiare la concorrenza e garantire, in definitiva, un
servizio migliore per tutti.
3.— Nel giudizio si è
costituita anche l’associazione LI.F.I., Liberi farmacisti italiani, deducendo
di aver svolto un intervento ad adiuvandum nel giudizio a quo, in favore della
farmacista ricorrente.
Tale associazione svolge
considerazioni identiche a quelle della parte privata ricorrente.
4.— Si è altresì
costituita in giudizio la Federfarma – Federazione nazionale unitaria dei
titolari di farmacia italiani – chiedendo che la prospettata questione venga
dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
4.1.— L’inammissibilità
deriverebbe da una pluralità di ragioni.
Innanzitutto, dal fatto
che lo stesso TAR remittente, pur avendo illustrato le ragioni per le quali non
ha ritenuto di dover rimettere alla Corte di giustizia dell’Unione europea la
decisione circa il possibile contrasto tra la norma impugnata e i principi del
diritto dell’Unione di concorrenza e di libertà di stabilimento, ha tuttavia
dato conto che siffatta questione esiste, tanto che altro TAR ne ha già
disposto la rimessione alla Corte di Lussemburgo. Pertanto, in considerazione
del primato del diritto europeo rispetto a quello nazionale e del noto
principio della cosiddetta doppia pregiudiziale, l’odierna questione dovrebbe
essere dichiarata inammissibile, almeno fino a quando la Corte di giustizia
dell’Unione non si sia pronunciata sul punto.
Oltre a tale ragione di
inammissibilità, la Federfarma evidenzia che mancherebbero comunque, nella
specie, le condizioni per poter pronunciare una sentenza additiva.
Ove pure si ritenesse
astrattamente fondata la prospettata questione, infatti, la cosiddetta
liberalizzazione invocata dal TAR di Reggio Calabria non è imposta dalla
Costituzione e potrebbe essere «maggiore o minore, secondo un ordine di
gradazione entro il quale non vi è alcuna possibilità di scegliere un punto di
equilibrio a rime obbligate». D’altra parte, l’art. 32 del d.l. n. 201 del 2011
ha operato, al proprio interno, una serie di distinzioni, escludendo comunque
alcuni farmaci e collegando la vendita nelle parafarmacie alla verifica
dell’esistenza di una serie di condizioni riguardanti sia l’idoneità
dell’esercizio commerciale che la sussistenza di requisiti organizzativi anche
in ordine alla diffusione sul territorio; ciò comporterebbe, quindi, la
necessità di rivisitare l’intera materia, riformando anche le disposizioni
sulle farmacie tradizionali, in modo da garantire quella diffusione capillare
sul territorio che è necessaria per la tutela della salute.
Sussisterebbe, in altre
parole, una discrezionalità politico-legislativa non eliminabile, tale da
escludere che la Corte possa emettere una sentenza additiva.
4.2.— Nel merito, la
questione sarebbe comunque infondata.
L’ordinanza di
rimessione, infatti, muove dalla premessa che la vendita dei farmaci nelle
parafarmacie sia assistita dai medesimi requisiti previsti per le farmacie
tradizionali, il che non sarebbe conforme al vero, poiché esistono numerose e
significative differenze.
Innanzitutto, il
farmacista titolare di una farmacia ordinaria, oltre ad essere iscritto al
relativo albo, ha anche superato – a differenza di quanto previsto per la
titolarità delle parafarmacie – il concorso per titoli ed esami di cui all’art.
4 della legge 8 novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore
farmaceutico), il che di per sé costituisce una garanzia di verifica delle sue
capacità professionali in confronto con quelle dei colleghi. Oltre a ciò, la
riserva di vendita di certi farmaci alle sole farmacie autorizzate si fonda
sull’esistenza «di requisiti strutturali ed organizzativi che non sono
richiesti a nessuna categoria di esercizi commerciali»; fra questi, la
Federfarma rammenta, a titolo esemplificativo, l’obbligo di esporre gli orari
di apertura e di chiusura, quello di essere dotati delle sostanze medicinali
prescritte come obbligatorie dalla farmacopea ufficiale, quello di conservare
tutte le ricette mediche e quello di ricevere ispezioni ordinarie o
straordinarie da parte delle autorità sanitarie. Le farmacie tradizionali,
inoltre, sono soggette, per quanto riguarda il diritto di sciopero, al rispetto
della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di
sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della
persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia
dell’attuazione della legge), sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali,
mentre le parafarmacie «costituiscono normali esercizi commerciali,
caratterizzati da un regime giuridico esente da questi controlli».
Oltre a queste
significative diversità, la parte evidenzia che la distribuzione delle farmacie
sul territorio è regolata sulla base del necessario contemperamento tra le
esigenze di reperimento di farmaci da parte dei cittadini e le esigenze
reddituali di ciascuna sede; senza contare che, in base all’art. 7 della legge
n. 362 del 1991 ed all’art. 11 della legge 2 aprile 1968, n. 475 (Norme
concernenti il servizio farmaceutico), la titolarità delle farmacie può
appartenere solo ad un farmacista o ad una società di farmacisti che abbia ad
oggetto esclusivo la loro gestione, in modo da garantire che l’esercizio dell’attività
di impresa sia collegata con la «pratica quotidiana della professione
sanitaria». D’altra parte, pur essendo stato ormai liberalizzato l’orario di
apertura delle farmacie dall’art. 11, comma 8, del d.l. n. 201 del 2011, è
anche vero che i turni e gli orari delle farmacie tradizionali sono strutturati
in modo da garantire – come conferma anche la sentenza n. 27 del 2003 della
Corte costituzionale – che lo svolgimento del servizio sia connotato non solo
dalla qualità del medesimo, ma anche dalla prossimità ai cittadini, «affinché
non abbia mai a verificarsi l’impossibilità, per il cittadino, di ottenere
agevolmente i farmaci dei quali ha realmente bisogno»; il tutto in
considerazione del fatto che si tratta «di un regime immediatamente servente la
salute», diritto fondamentale di cui all’art. 32 della Costituzione.
5.— Nel giudizio è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga
dichiarata infondata.
Dopo aver ricapitolato
le principali disposizioni di legge in argomento, l’Avvocatura dello Stato
osserva che il sistema vigente pare essere conforme ai principi stabiliti dalla
Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di concorrenza, perché si applica
in modo non discriminatorio, è giustificato da motivi imperativi di interesse
generale, è finalizzato alla tutela della salute ed è adeguato rispetto al fine
da raggiungere.
Le ragioni sulle quali
il giudice a quo fonda la presunta illegittimità costituzionale della normativa
censurata sarebbero, secondo l’Avvocatura dello Stato, tutte non decisive; che
la vendita senza oneri per la finanza pubblica debba necessariamente implicare
un’autorizzazione illimitata non risponde alle complesse finalità sanitarie che
regolano la materia, così come non assume decisivo rilievo il criterio della
totale liberalizzazione, perché i farmaci ed il luogo di vendita dei medesimi
sono «momenti fondamentali in cui lo Stato esplica la sua funzione di tutela
della salute pubblica». Mentre, infatti, le farmacie tradizionali sono
associate «ad una politica generale di sanità pubblica, in gran parte
incompatibile con una logica puramente commerciale», non altrettanto avviene
per le parafarmacie, estranee al circuito del Servizio sanitario nazionale.
Sicché, in definitiva,
la scelta compiuta dal legislatore nazionale costituisce un ragionevole punto
di equilibrio, proporzionato rispetto alla «discrezionalità che la normativa
europea riconosce in tale settore agli Stati membri».
6.— In prossimità
dell’udienza la parte privata ricorrente nel giudizio a quo e la Federfarma
hanno presentato memorie, insistendo per l’accoglimento delle già prospettate
conclusioni.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria,
dubita, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, della
legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto-legge 4 luglio
2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in
materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con
modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, «nella parte in cui non
consente agli esercizi commerciali ivi previsti (c.d. parafarmacie) la vendita
di medicinali di fascia C soggetti a prescrizione medica».
Ad avviso del giudice a
quo, essendo quella del farmacista un’attività imprenditoriale, finalizzata
però all’erogazione ai cittadini di un servizio di fondamentale importanza, il
divieto di vendita di tali farmaci nelle parafarmacie non si giustifica in nome
della necessità di tenere sotto controllo la spesa pubblica destinata
all’assistenza farmaceutica, trattandosi di farmaci ad integrale carico del
cittadino. Oltre a ciò, sarebbe illogico consentire la vendita nelle
parafarmacie di farmaci che non richiedono la prescrizione del medico – con
evidente maggiore responsabilità in capo al farmacista – e non consentire la
vendita di farmaci soggetti a prescrizione, per i quali la verifica effettuata
dal medico riduce notevolmente la sfera di libertà decisionale (e la
conseguente responsabilità) in capo al farmacista venditore; e, d’altra parte,
in un sistema affidato al principio della libertà dell’iniziativa economica, i
limiti che ad essa possono essere posti debbono essere in funzione di tutela
dell’utilità sociale, della libertà, sicurezza e dignità umana, mentre
l’inserimento di un maggior numero di operatori sul mercato interno
consentirebbe la creazione di «una dinamica dei prezzi che andrebbe a beneficio
dei consumatori».
2.— Va innanzitutto
dichiarato inammissibile l’intervento dell’associazione LI.F.I., Liberi
farmacisti italiani, intervenuta ad adiuvandum della posizione della ricorrente
nel giudizio a quo.
In conformità alla
pacifica giurisprudenza di questa Corte, infatti, nei giudizi in via
incidentale sono legittimati ad intervenire solo i soggetti che, pur non
essendo parti del giudizio principale, siano tuttavia portatori di un interesse
qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio (tra le tante, sentenze n. 199 del 2011, n. 116 e n. 134 del 2013);
nel caso specifico, invece, tale interesse non sussiste in capo
all’associazione Liberi farmacisti italiani, poiché la medesima non può
definirsi ente esponenziale rispetto alla categoria dei farmacisti ed è,
comunque, portatrice solo di un generico interesse all’accoglimento della
prospettata questione.
3.— La Federfarma ha
posto, nelle proprie difese, una prima eccezione di inammissibilità della
questione, sotto il profilo per cui la medesima – secondo quanto già disposto
da altro Tribunale amministrativo regionale – avrebbe dovuto essere rimessa
alla Corte di giustizia dell’Unione europea per valutare la compatibilità della
disposizione denunciata rispetto ai principi di concorrenza e di libertà di
stabilimento contenuti nel diritto dell’Unione. In ossequio alla giurisprudenza
di questa Corte in tema di cosiddetta doppia pregiudiziale, l’odierna questione
sarebbe inammissibile, in quanto solo dopo il pronunciamento da parte della
Corte europea potrebbe valutarsi la sussistenza o meno di una questione di
legittimità costituzionale.
3.1.— Tale eccezione non
è fondata.
Premesso, infatti, che
la decisione se rimettere o meno la questione pregiudiziale alla Corte di
Lussemburgo appartiene alla discrezionalità del giudice a quo, questa Corte ha
da tempo stabilito i rapporti esistenti tra le due diverse rimessioni.
Come più volte è stato
affermato, «i giudici nazionali le cui decisioni sono impugnabili hanno il
compito di interpretare il diritto comunitario e se hanno un dubbio sulla
corretta interpretazione hanno la facoltà e non l’obbligo di operare il rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia per ottenerla e farne applicazione, se
necessario a preferenza delle contrastanti norme nazionali. Il giudice di
ultima istanza, viceversa, ha l’obbligo di operare il rinvio, a meno che non si
tratti di una interpretazione consolidata e in termini o di una norma
comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi». La questione
pregiudiziale di legittimità costituzionale «sarebbe invece inammissibile,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, ove il giudice rimettente chiedesse
la verifica di costituzionalità di una norma, pur esplicitando un dubbio quanto
alla corretta interpretazione di norme comunitarie ed un contrasto con queste
ultime; il dubbio sulla compatibilità della norma nazionale rispetto al diritto
comunitario va risolto, infatti, eventualmente con l’ausilio della Corte di
giustizia, prima che sia sollevata la questione di legittimità costituzionale,
pena l’irrilevanza della questione stessa» (così la sentenza n. 75 del 2012, in
linea con le precedenti pronunce n. 284 del 2007 e n. 227 del 2010).
Nel caso in esame, del
resto, la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a
pronunciarsi su una questione del tutto simile a quella odierna e, nelle more
della presente decisione da parte di questa Corte, ha emesso già una propria
sentenza, che sarà in seguito richiamata.
4.— La Federfarma ha
prospettato anche un’ulteriore eccezione di inammissibilità della questione,
rilevando che la medesima non potrebbe comunque dare luogo ad una sentenza di
illegittimità costituzionale, in considerazione del contenuto non obbligato, ma
discrezionale, della eventuale pronuncia di accoglimento.
4.1.— Riguardo a questa
eccezione va rilevato, anzitutto, che il petitum è specifico e puntuale;
tuttavia, poiché coinvolge direttamente la trattazione del merito dell’odierna
questione, tale eccezione verrà decisa unitamente a questo.
5.— La questione posta
all’esame della Corte riguarda un particolare aspetto del regime delle
farmacie, ossia la possibilità di vendere nelle cosiddette parafarmacie anche i
medicinali di fascia C soggetti a prescrizione medica.
A questo proposito, va
innanzitutto rilevata la correttezza della ricostruzione del quadro normativo
da parte del TAR rimettente e la conseguente impossibilità di fornire
un’interpretazione diversa delle vigenti disposizioni. È indubbio, infatti, che
la norma impugnata – da leggere unitamente alle altre che si richiameranno –
non consente alle parafarmacie di vendere i farmaci di fascia C soggetti ad
obbligo di prescrizione medica, anche se detti medicinali sono a carico
integrale dell’assistito e senza alcun onere economico per il Servizio
sanitario nazionale.
5.1.— Tanto premesso,
osserva la Corte che, per costante giurisprudenza ribadita nel corso degli
anni, il regime delle farmacie rientra a pieno titolo nella materia «tutela
della salute». Ciò in quanto la «complessa regolamentazione pubblicistica della
attività economica di rivendita dei farmaci è preordinata al fine di assicurare
e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a
garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo
marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale sia l’indubbia
natura commerciale dell’attività del farmacista» (così la sentenza n. 87 del
2006, confermata dalle successive sentenze n. 255 del 2013, n. 231 del 2012, n.
150 del 2011, n. 295 del 2009 e n. 430 del 2007).
Proprio allo scopo di
garantire, attraverso la distribuzione dei farmaci, un diritto fondamentale
come quello alla salute, il legislatore ha organizzato il servizio farmaceutico
secondo un sistema di pianificazione sul territorio, per evitare che vi sia una
concentrazione eccessiva di esercizi in certe zone, più popolose e perciò più redditizie,
e nel contempo una copertura insufficiente in altre con un minore numero di
abitanti. Il sistema della pianificazione ha trovato piena regolazione con le
leggi 2 aprile 1968, n. 475 (Norme concernenti il servizio farmaceutico), e 8
novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore farmaceutico), la cui
disciplina è stata ulteriormente modificata ed aggiornata anche in tempi molto
recenti [v. l’art. 11 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni
urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 24 marzo 2012, n. 27].
La pianificazione
territoriale, però, non è l’unico strumento col quale si è ritenuto di
garantire, in relazione all’approvvigionamento dei medicinali, l’uguale tutela
della salute dei cittadini in tutte le parti del Paese.
Il regio decreto 27
luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie),
aveva già stabilito, infatti, che sul farmacista gravassero una serie di
obblighi. Questi obblighi si sono sviluppati nel corso del tempo e dell’aumento
delle conoscenze in materia farmacologica, fino ad arrivare alle previsioni
contenute nel decreto legislativo 3 ottobre 2009, n. 153 (Individuazione di nuovi
servizi erogati dalle farmacie nell’ambito del Servizio sanitario nazionale,
nonché disposizioni in materia di indennità di residenza per i titolari di
farmacie rurali, a norma dell’articolo 11 della legge 18 giugno 2009, n. 69),
il cui art. 1, in particolare, ha posto a carico delle farmacie una serie di
funzioni assistenziali di stretta collaborazione col Servizio sanitario
nazionale.
Si tratta, come si è
ricordato, di una «complessa regolamentazione pubblicistica dell’attività
economica di rivendita dei farmaci» (sentenza n. 150 del 2011), rispetto alla
quale non è possibile isolare uno degli elementi senza tenere conto della
disciplina nella sua globalità. In ragione di ciò, l’individuazione del punto
di equilibrio tra i diversi interessi è affidato al legislatore, cui è rimessa
la relativa valutazione, fermo rimanendo il limite della non irragionevolezza
delle scelte compiute.
5.2.— Per quanto
riguarda, più direttamente, la disciplina della classificazione dei farmaci e
la vendita dei medesimi, assumono importanza fondamentale alcune norme che il
giudice a quo ha correttamente richiamato.
Si tratta, innanzitutto,
dell’art. 8, comma 10, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi
correttivi di finanza pubblica), che divide i farmaci in tre classi, a seconda
del rispettivo interesse terapeutico: la fascia A, che contiene i farmaci di
maggiore rilevanza terapeutica; la fascia B, che è stata poi soppressa
dall’art. 85 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria
2001), e la fascia C, che contiene i farmaci di minore interesse terapeutico.
Il successivo comma 14 del medesimo art. 8 ha disposto che i farmaci di fascia
A siano a totale carico del Servizio sanitario nazionale, con la corresponsione
di una quota fissa da parte dell’assistito (cosiddetto ticket), mentre quelli
di fascia C sono a totale carico dell’assistito.
Va poi considerato
l’art. 87 del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 [Attuazione della direttiva
2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice
comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva
2003/94/CE], che ha provveduto a classificare i medicinali a seconda della loro
soggezione, o meno, all’obbligo di prescrizione medica, stabilendo altresì la
durata delle singole prescrizioni e la possibilità di rinnovo delle medesime;
nel comma 1, lettera e), di tale articolo sono ricompresi i medicinali non
soggetti a prescrizione medica, fra i quali i medicinali da banco o di
automedicazione.
Assume grande
importanza, in questo quadro, l’art. 32 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.
201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011,
n. 214. Tale disposizione ha subito modifiche in sede di conversione in legge,
con l’aggiunta di un comma 1-bis. Da un punto di vista generale, quanto
previsto dai due commi ha ampliato la possibilità di vendita dei farmaci di
fascia C da parte delle parafarmacie; il comma 1, infatti, consente – a
condizione che le parafarmacie posseggano i requisiti fissati con apposito
decreto del Ministro della salute – la vendita dei farmaci di fascia C (di cui
all’art. 8, comma 10, lettera c, sopra citato) ad eccezione di quelli di cui
all’art. 45 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in
materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), di quelli di
cui all’art. 89 del d.lgs. n. 219 del 2006, di quelli del sistema endocrino e
di quelli somministrabili per via parenterale. Il successivo comma 1-bis
stabilisce che il Ministero della salute, sentita l’Agenzia italiana del
farmaco, indichi, con un elenco periodicamente aggiornabile, i farmaci
appartenenti alla fascia C per i quali permane l’obbligo di ricetta medica e
dei quali non è consentita la vendita nelle parafarmacie.
Può dirsi, in
definitiva, che l’art. 32 ora esaminato ha innovato il sistema precedente,
introducendo il principio secondo cui, fatte salve alcune particolari
categorie, i farmaci di fascia C possono essere dispensati nelle parafarmacie,
ad eccezione di quelli espressamente indicati nel citato elenco, per i quali
permane l’obbligo di prescrizione ed il conseguente divieto di vendita; sicché
nel regime vigente la regola generale è che i farmaci di fascia C possono
essere venduti nelle parafarmacie, mentre l’obbligo di prescrizione ed il
correlativo divieto rappresentano l’eccezione. Ciò è confermato, ove ve ne
fosse bisogno, dagli artt. 1 e 2 del decreto ministeriale 15 novembre 2012
(Attuazione delle disposizioni dell’articolo 32, comma 1, del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre
2011, n. 214, sulla vendita dei medicinali previsti dall’articolo 8, comma 10,
lettera c), della legge 21 dicembre 1993, n. 537. Decreto sostitutivo del
decreto ministeriale 18 aprile 2012).
6.— L’ordinanza di
rimessione odierna pone a questa Corte il dubbio di legittimità costituzionale
relativo alla permanenza – da ritenere residuale, secondo quanto si è detto –
del divieto di vendita nelle parafarmacie dei farmaci di fascia C soggetti a
prescrizione medica.
6.1.— La questione non è
fondata.
Per quanto riguarda,
innanzitutto, la pretesa violazione dell’art. 3 Cost., occorre osservare che
non c’è alcuna irragionevolezza nel prevedere che per determinati medicinali,
periodicamente individuati dal Ministero della salute dopo aver sentito
l’Agenzia italiana del farmaco, permanga l’obbligo della prescrizione medica e,
di conseguenza, il divieto di vendita nelle parafarmacie. Ed invero, nonostante
siano condivisibili le osservazioni compiute dal TAR rimettente per quello che
riguarda l’esistenza di una serie di elementi comuni alle farmacie e alle
parafarmacie, è indubbio che fra i due esercizi permangano una serie di
significative differenze, tali da rendere la scelta del legislatore non
censurabile in termini di ragionevolezza. Le farmacie, infatti, proprio in
quanto assoggettate ad una serie di obblighi che derivano dalle esigenze di
tutela della salute dei cittadini, offrono necessariamente un insieme di
garanzie maggiori che rendono non illegittima la permanenza della riserva loro
assegnata. Non si tratta di accogliere l’opinione secondo cui i farmacisti che
hanno superato il concorso per l’assegnazione di una farmacia danno maggiori
garanzie rispetto a quelli preposti alle parafarmacie, poiché gli uni e gli
altri hanno il medesimo titolo di studio e sono iscritti a tutti gli effetti
all’albo professionale. Si tratta, invece, di prendere atto che la totale
liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C soggetti a prescrizione
medica – che sono medicinali con una maggiore valenza terapeutica, risultando
altrimenti privo di senso l’obbligo di prescrizione – verrebbe affidata ad
esercizi commerciali che lo stesso legislatore ha voluto assoggettare ad una
quantità meno intensa di vincoli e adempimenti, anche in relazione alle
prescrizioni.
6.2.— Né può giungersi a
diversa conclusione invocando l’art. 41 Cost. e il principio di tutela della
concorrenza.
A questo riguardo va
rilevato che, come si è sottolineato, il regime delle farmacie è incluso –
secondo costante giurisprudenza di questa Corte – nella materia della «tutela
della salute», pur se questa collocazione non esclude che alcune delle relative
attività possano essere sottoposte alla concorrenza, come altre nell’ambito
della medesima materia. Come si è posto in evidenza, infatti, il legislatore,
con il ricordato art. 32 del d.l. n. 201 del 2011, ha ulteriormente ampliato la
possibilità, per le parafarmacie, di vendere medicinali di fascia C, mantenendo
fermo il criterio della prescrizione medica quale discriminante tra i farmaci
necessariamente dispensati dalle farmacie e quelli che possono esserlo anche
dalle parafarmacie.
L’incondizionata
liberalizzazione di quella categoria di farmaci inciderebbe, con effetti che
non sono tutti prevedibili, sulla distribuzione territoriale delle parafarmacie
le quali, non essendo inserite nel sistema di pianificazione sopra richiamato,
potrebbero alterare il sistema stesso, che è posto, prima di tutto, a garanzia
della salute dei cittadini.
7.— Come si è già
rilevato in precedenza, anche la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata
chiamata a pronunciarsi, sotto il profilo della tutela della libertà di
stabilimento, sulla compatibilità della normativa oggi in esame in riferimento
ai principi del diritto dell’Unione.
7.1.— Quella Corte, con
la sentenza 5 dicembre 2013 (in cause riunite C-159, 160 e 161/12), Venturini,
chiamata a risolvere una questione del tutto simile a quella odierna, rimessale
dal TAR per la Lombardia, ha affermato che l’art. 49 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE) deve essere interpretato nel senso che
esso non osta ad una normativa nazionale che non consente a un farmacista,
abilitato e iscritto all’ordine professionale, ma non titolare di una farmacia
compresa nella pianta organica, di distribuire al dettaglio, in una
parafarmacia, anche quei farmaci soggetti a prescrizione medica che non sono a
carico del Servizio sanitario nazionale, bensì vengono pagati interamente
dall’acquirente.
Ha osservato la Corte di
Lussemburgo, tra l’altro, che la tutela della salute può giustificare
restrizioni alla libertà di stabilimento (punto 41); che l’apertura delle
farmacie sul territorio italiano è oggetto di un regime di pianificazione
(punto 45) e che la situazione auspicata dalle ricorrenti in quel giudizio
equivarrebbe a poter commercializzare tali medicinali senza osservare il
requisito della pianificazione territoriale (punto 51), con ripercussioni
negative sull’effettività dell’intero sistema di pianificazione delle farmacie
e quindi sulla sua stabilità (punto 54). La Corte di giustizia ha pure
affermato che la riserva della distribuzione di detti farmaci alle sole
farmacie è atta a garantire la tutela della salute (punto 55) e che la
normativa italiana al riguardo è proporzionata e necessaria (punti 58-65).
7.2.— La Corte europea,
d’altra parte, ha in più occasioni riconosciuto che l’art. 49 del TFUE deve
essere interpretato nel senso che la tutela della libertà di stabilimento non
osta a che uno Stato membro adotti un regime di autorizzazione preventiva per
l’apertura di nuove farmacie, se tale regime si rivela indispensabile per
colmare eventuali lacune nell’accesso alle prestazioni sanitarie, in maniera
tale da garantire un’assistenza sanitaria adeguata alle necessità della
popolazione, orientata a coprire tutto il territorio e a tenere conto delle
regioni geograficamente isolate o altrimenti svantaggiate (sentenze 1° giugno
2010, in cause riunite C-570/07 e C-571/07, Blanco Perez e Chao Gomez, punti 70
e 71; e 13 febbraio 2014, in causa C-367/12, Sokoll-Seebacher, punti 24-25).
Nella sentenza
Sokoll-Seebacher appena richiamata, inoltre, la Corte di giustizia ha anche
precisato che «la salute e la vita delle persone occupano una posizione
preminente tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato e che spetta agli
Stati membri stabilire il livello al quale essi intendono garantire la tutela
della salute pubblica e il modo in cui tale livello debba essere raggiunto.
Poiché quest’ultimo può variare da uno Stato membro all’altro, si deve
riconoscere agli Stati membri un margine di discrezionalità» (punto 26). Emerge
da questa giurisprudenza, quindi, che le ragioni di tutela della salute,
declinate secondo le peculiarità della normativa nazionale, ben consentono di
derogare all’ampia nozione di libertà di stabilimento e, di conseguenza, di
libertà di impresa.
Tali considerazioni –
che vanno ben oltre la semplice esclusione della violazione dei principi della
libertà di stabilimento – corroborano ulteriormente il convincimento di questa
Corte nel senso che si è detto.
8.— La prospettata
questione, dunque, deve essere dichiarata non fondata.
Per Questi Motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto-legge
4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica,
nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale),
convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevata, in
riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria,
con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio
2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Sergio MATTARELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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