CULTURA:
marzo 1873,
Giuseppe Garibaldi,
da deputato,
scrive al direttore del giornale mantovano "La Favilla".
ERA OGGI.
Non tutto è condivisibile dello scritto di Garibaldi (deputato nel marzo 1873).
Ma questo è un giudizio di valore.
Il giudizio di fatto è difficilmente controvertibile: 140 anni fa, l'Italia ancora viveva tra i due eterni poli (solo apparentemente in lotta "fratricida") della conservazione corrotta ed inetta del ceto dirigente da un lato ("intransigente" nel testo), e dell'utopismo rivoluzionario dall'altro (Mazzini docet), sostenuto anche da uomini di straordinario pragmatismo come Garibaldi.
Tra questi due poli, nel nel bel mezzo c'era (e c'è) la "carne viva" del Paese, afflitta da enormi problemi di istruzione, infrastrutture, etica pubblica, criminalità organizzata, povertà, deficit democratico, etc.
Credo che l'Italia d'allora avesse gli anticorpi però.
Da amministrativista vi confido che in giro non vedo giuristi del livello di Vittorio Emanuele Orlando.
Quella di oggi li sta ancora trovando questi anticorpi...
Mi direte "li troverà, come ha sempre fatto".
Sì è vero, ma come diceva Keynes "nel lungo periodo saremo tutti morti".
Le risposte giuste quindi, sono, quelle dotate di tempestività, condizione necessaria ma non sufficiente.
"Che farà l’Italia? – Questo si chiederà nel mondo, dopo la proclamazione della repubblica in Ispagna. E, bisogna confessarlo sebbene con rammarico, il nostro popolo è indietro de’ suoi fratelli latini.
Che farà l’Italia! La democrazia, a questa dimanda, guarderà verso gli uomini che la guidarono qualche volta. Ed io, per la parte mia, mi trovo un poco impacciato a rispondere.
Il concerto clericale e monarchico, e la corruzione delle masse, sono tali nella nostra penisola, da render difficile una induzione, se non del tutto impossibile; ed io credo, la maggioranza degli italiani ripugni ad un cataclisma rivoluzionario, che sarebbe tremendo, proporzionato all’odio immenso suscitato da chi sì indegnamente manomette da tanto tempo l’Italia. Dunque non rivoluzioni di sangue.
Aspetteremo l’abdicazione degl’infallibili e degl’inviolabili? È cotesta un’idea da pazzi, a cui nemmeno i bimbi crederebbero. A mio avviso, invece, la possibilità della repubblica in Francia ed in Spagna, devesi principalmente alla organizzazione democratica di que’ paesi. Il 4 settembre 1870 e l’11 febbraio 1873 trovarono nei due paesi un lavoro di preparazione, non completo, ma sufficiente, perché vi s’appoggiasse il sentimento nazionale, stanco e disgustato dall’egoismo e dalla corruzione di clericali e monarchici.
Lo stesso egoismo, la stessa corruzione, esistono in Italia; ciò che vi manca è l’organizzazione democratica, per poter raccogliere in un tempo determinato i frutti raccolti da un campo in cui quell’egoismo e quella corruzione hanno già seminato. Los intransigentes, in Ispagna particolarmente, avversarono il direttorio repubblicano: il quale prova oggi coi fatti essere stato sulla retta via.
In Italia accade lo stesso; vi sono gl’intransigenti, che ieri ancora censurarono Marsala e Mentana, e quante imprese hanno spinto il risorgimento nazionale, non compiuto, naturalmente, ma certo in migliori condizioni, che non fosse prima del 1859. Ora, perché tutte le associazioni italiane, tendenti al bene, non si affratellano e non si pongono, per amore d’indispensabile disciplina, sotto il vessillo democratico del Patto di Roma, presieduto dall’illustre Campanella?
La più antica e la più veneranda delle società democratiche, la Massoneria, non darà essa l’esempio di aggregazione al fascio italiano? Le Società operaie, internazionali, artigiane ecc.
non portano esse nel loro emblema la fratellanza universale, quanto la Massoneria. Formate il fascio, dunque, repubblicani ringhiosi; stringetevi intorno al Patto di Roma; maledite i deputati del tornaconto, ed inviate al loro posto uomini i quali somiglino all’ultimo avanzo di quella famiglia che riposa nel sarcofago di Gropello. Indi lasciate ai Lanza, ai Sella, ai Minghetti della monarchia, la cura di seppellirla.
La società va riconoscendo a poco a poco essere la repubblica il solo governo dell’ordine, il solo possibile, e quello che più la onora; imperocché la repubblica, considerata in sé stessa, è essenzialmente un governo di onesti. E come sarebbe altrimenti?
Le monarchie corrompono mezzo un paese, per torturare l’altra metà. All’una tolgono i figli e le speranze, per ingrassare e mantenere ne’ godimenti il resto.
Ciò non può durare, e quando l’occasione si presenti propizia, le nazioni rovesceranno cotesti anormali e mostruosi sistemi. L’Inghilterra non è una repubblica; ma la pubblica opinione vi è onnipotente, e fissandosi essa su qualunque riconosciuto miglioramento, lo accenna alle moltitudini, lo propaga senza posa e finisce sempre per ottenerlo.
A quest’ordine di cose appartiene l’arbitrato internazionale, già messo in pratica dai due colossi anglo-sassoni, e che preoccupa oggi gli uomini di cuore d’ogni parte del mondo.
Io credo sarà facilissimo raccogliere la Spagna repubblicana, retta da sommi uomini, al grande concetto umanitario. Meno facilmente, forse, vi aderirà la Francia; ma anche per lei, altro non sarà che quistione di tempo. E quando i quattro grandi Stati atlantici avranno annunziato al mondo il sublime arbitrato, che significa: non più eserciti permanenti, non più guerra fra le nazioni, io vo’ vedere che cosa faranno i governi, dei loro grandi eserciti, che rovinano i popoli e calpestano le più giuste aspirazioni.
Molti, massime tra i nostri giovani commilitoni, regneranno al metodo di aspettativa da me accennato. Io sono, per altro, obbligato a consigliare di non far correre rivi di sangue per ottenere una vittoria, in altro modo non dubbia, e di imitare i nostri fratelli di Spagna e Francia, che si accingono a provare coi fatti esser la repubblica il solo governo ragionevole, il solo conveniente alla libertà ed alla prospera vita dei popoli".
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