PROCESSO:
il ricorso avverso il silenzio-inadempimento
e la c.d. "class action" pubblica
a confronto
(Cons. St., Sez. IV,
sentenza 26 agosto 2015, n. 4014;
T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II "quater",
sentenza 26 febbraio 2014, n. 2257)
Si torna dopo due settimane di stop.
Due le sentenze: una del Consiglio di Stato del 2015, sulla legittimazione attiva nel ricorso avverso il silenzio inadempimenti; l'altra del TAR Roma del 2014, sulla legittimazione nel ricorso di cui al d. lgs. n. 198/2009 (c.d. "class action" pubblica), la quale traccia pure distinzione molto analitica tra i due rimedi.
P.S.: chi fosse interessato, si affretti ad iscriversi al CORSO ESAME 2015 (Modulo amministrativo). Grazie!
1. Massima
1. E’ necessaria e sufficiente la
sussistenza di un interesse, ovviamente giuridicamente rilevante, concreto ed
attuale, per esser legittimati a proporre il ricorso contro il
silenzio-inadempimento ex artt. 31 e 117 c.p.a., non essendo richiesto
che l’interesse sia presidiato da una posizione giuridica di interesse
legittimo fondata espressamente dalla norma attributiva del potere.
2.
E
ciò si spiega con il fatto che, nell’azione sul silenzio, ad essere in
discussione non è (o non è solo) il bene della vita al quale l’interesse
legittimo si correla, ma ancor più a monte, il fondamentale principio di
doverosità dell’azione amministrativa che, seppur non può essere fatto valere
dal quisque de populo nell’interesse oggettivo dell’ordinamento, è tuttavia
suscettibile di accertamento ad iniziativa di chiunque possa ritrarre dal
giudizio una concreta ed apprezzabile utilità.
2. Massima
1. Può affermarsi che la differenza tra il mezzo di tutela giudiziale indicato negli artt. 31 e 117 c.p.a. e quello previsto dall’art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 198 del 2009 è determinata dall’oggetto della domanda che il ricorrente propone al giudice amministrativo, pur partendo da un analogo presupposto costituito dalla violazione, da parte dell’amministrazione competente, del termine fissato, per legge o per regolamento ovvero con atto amministrativo generale, per l’adozione del provvedimento conclusivo del pr ocedimento che lo riguarda:
A) nel primo caso (artt. 31 e 117 c.p.a.), accertata giudizialmente l’illecita violazione dei termini, la richiesta del ricorrente è circoscritta alla condanna dell’amministrazione a provvedere entro il termine “di regola” di trenta giorni o comunque entro altro termine assegnato all’ente dal giudice amministrativo per concludere il procedimento che lo vede diretto ed esclusivo interessato;
B) nel secondo caso (art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 198 del 2009) la domanda giudiziale del ricorrente è molto più articolata e non è tesa ad ottenere la tempestiva conclusione del procedimento che lo riguarda, bensì è volta ad ottenere che d’ora in poi quell’amministrazione ponga fine al comportamento costantemente violativo delle regole imposte dall’ordinamento sul rispetto dei termini procedimentali, pretendendosi dal giudice amministrativo l’emanazione di un provvedimento giudiziale particolarmente penetrante e complesso nella sua attuazione da parte dell’ente idoneo a rimuovere ogni inefficienza ritenuta ileggittima in via generale e definitiva.
2. Quanto alla legittimazione a ricorrere nell’azione di classe c.d. pubblica, la medesima costituisce uno strumento creato dal legislatore italiano al fine di tutelare la posizioni di soggetti privati ed associazioni che lamentino la costante violazione da parte di una amministrazione pubblica degli obblighi normativamente imposti in tema di rispetto dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi, indipendentemente dalla circostanza che detti termini siano funzionali all’adozione di provvedimenti destinati ad un soggetto o ad una ristretta cerchia di destinatari ovvero abbiano come fine ultimo l’adozione di atti di atti amministrativi generali obbligatori non aventi contenuto normativo.
1. Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede
giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1073 del
2015, proposto da:
Edmondo Filosa, Angelo Petraglia, Vittorio Vacallo, Alfonso De Sio, Vincenzo Avagliano, Carmine Abate, Francesco Ronca, Emiddio Citro, Sonia Arpaia, Rosalia Gibboni, Francesco Veneruso, Vincenzo Vaccaro, Luigi Amendola, Raffaele Furmio, Vincenzo Passero, Gaetano Eredi Celano, Adelina Camperlingo, Antonio Baratta, Gerardo Romano, Francesco Grieco, Massimiliano Provenza, Gerardo Giancarlo, Rosario Verde, Claudio Aliberti, Alessandro Buzzanga, Filomena Passannante, Maria Cristina Furmio, tutti rappresentati e difesi dagli avv. Antonio Rizzo, Enza Maria Accarino, Gaetano Di Giacomo, con domicilio eletto presso Gaetano Di Giacomo in Roma, Via Cicerone 49;
contro
Comune di Battipaglia, in persona del Sindaco p.t.,
rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Lullo, con domicilio eletto presso
Cons. Di Stato Segreteria in Roma, p.za Capo di Ferro 13;
Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Salerno, Curatela Fallimento Società Iacp Futura Società Consortile Arl, non costituiti in giudizio.
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - SEZ. STACCATA
DI SALERNO: SEZIONE I n. 02096/2014, resa tra le parti, concernente silenzio
serbato dall'amministrazione sulla diffida relativa all'acquisizione al
patrimonio comunale
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune
di Battipaglia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 5
maggio 2015 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Antonio
Rizzo e Giuseppe Lullo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO e DIRITTO
Con delibera n. 61/1998, il Consiglio comunale di
Battipaglia approvava un progetto di edilizia residenziale pubblica
localizzato sul terreno di proprietà della sig.ra Enrica Campione, in
località S. Anna del comune di Battipaglia.
Successivamente, lo stesso Comune emanava i decreti
di autorizzazione alla occupazione e di esproprio (n. 3143/2002), e concedeva
all’I.A.C.P. Salerno, giusta apposita convenzione, il diritto di superficie
ad aedificandum sull’area. L’I.A.C.P. provvedeva poi all’attuazione del programma
attraverso la I.A.C.P. Futura s.c.a.r.l., che subentrava nella convenzione.
Tutti gli atti della predetta procedura erano
impugnati dalla sig.ra Campione.
Nelle more della definizione del giudizio
amministrativo, su tali suoli la I.A.C.P. Futura realizzava l’intervento
costruttivo programmato, giusta c.e. nn. 169/1998 e 95/2001. La proprietà
superficiaria veniva poi trasferita, con diversi atti di compravendita agli
odierni appellanti.
Gli atti della procedura venivano infine annullati
dal TAR Salerno con sentenza n. 86/2005, confermata dal Consiglio di Stato,
sez. IV, con sentenza n. 3085/2012.
In conseguenza del richiamato annullamento
giudiziale, i superficiari, supponendo la perdita di efficacia, in via
derivata, degli atti di compravendita stipulati, diffidavano il Comune di
Battipaglia ad emettere provvedimento di acquisizione sanante. In mancanza di
riscontro adivano il TAR per “l’accertamento e la declaratoria
dell’illegittimità del silenzio-rifiuto serbato dal comune di Battipaglia
sull’atto di invito e diffida stragiudiziale notificato il 26.02.2014” nonché
per “la declaratoria del correlativo obbligo della P.A. di provvedere con
l’emanazione di definitivo atto”, atteso che “affinché possa perfezionarsi il
trasferimento della proprietà del fondo occupato, su cui è stato realizzato
l’intervento costruttivo di pubblica utilità e che costituisce la sola
condizione legittimante la mancata restituzione al proprietario, è necessario
che il comune di Battipaglia, responsabile per l’illecito in atto, si avvalga
dell’art. 42-bis del DPR n. 327/2001, fatto sempre salvo il ricorso a
strumenti di natura privatistica, come la stipula di un contratto di acquisto
avente anche funzione transattiva”.
Il TAR, definitivamente decidendo, dichiarava la
pretesa inammissibile per mancanza in capo ai ricorrenti di una posizione
legittimante. Osservava che la relazione di immediata inerenza con
l'esercizio del potere amministrativo di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n.
327/2001 “pertiene da un lato alla proprietaria dell’area (illegittimamente)
espropriata, la quale ambisce a recuperare il godimento del bene che le è
stato sottratto e che può tuttavia soccombere di fronte a interessi pubblici
puntualmente valutati e resi evidenti nella motivazione del nuovo atto,
dall’altro al soggetto beneficiario, titolare di un interesse specularmente
opposto”. Precisava che il successivo acquisto sulla base di contratti di
compravendita rappresenta invece “una circostanza estranea al rapporto di
diritto pubblico intercorrente tra l’Amministrazione, la proprietaria dei
beni (titolare di interesse legittimo oppositivo, il quale ha già trovato
tutela attraverso le richiamate sentenze di questo TAR e del Giudice
dell’appello) e soggetto espropriatario (l’I.A.C.P. s.c.a.r.l., titolare di interesse
legittimo pretensivo); “una circostanza, cioè, che appartiene al contenuto
contrattuale, liberamente definito in esercizio di autonomia negoziale
privata, ma che non è idonea a far sorgere alcun rapporto con la Pubblica
Amministrazione”, e tanto meno un obbligo di provvedere in capo ad essa.
Avverso la sentenza propongono ora appello i
superficiari. Deducono: l’amministrazione aveva già avviato d’ufficio il
procedimento di cui all’art. 42 bis, ma non l’ha mai concluso. Gli acquirenti
degli immobili non sarebbero – come erroneamente affermato dal TAR - soggetti
estranei al rapporto privi di una posizione giuridica differenziata, ma al
contrario, gli unici soggetti effettivamente pregiudicati dall’annullamento
dell’originario titolo espropriativo. Del resto l’art. 31 c.p.a., che
disciplina l’azione sul silenzio, conferirebbe legittimazione a “chiunque” vi
abbia interesse, ossia a chiunque possa trarre concreta utilità dall’azione.
Il Comune di Battipaglia si è costituito in
giudizio. Assume di non disporre di somme sufficienti per l’emanazione del
provvedimento di acquisizione sanante, e di avere, proprio in ragione di tale
circostanza, cercato un bonario componimento con l’espropriata. In relazione
ai motivi d’appello, replica difendendo le statuizioni di prime cure in punto
di legittimazione a ricorrere.
La causa è stata trattenuta in decisione alla
pubblica udienza del 5 maggio 2015.
L’appello è fondato.
In primis giova richiamare l’orientamento della
Sezione secondo il quale, nell'attuale quadro normativo, vigente l'art.
42-bis, le Amministrazioni hanno l'obbligo giuridico di far venir meno - in
ogni caso - l'occupazione "sine titulo" e, quindi, di adeguare
comunque la situazione di fatto a quella di diritto" (Cons. di Stato,
sez. IV, n.1713/2013, n. 2126/2015)
Dunque, sussistendo in astratto un obbligo di
provvedere, l’azione per silentium è validamente esperibile.
Quanto alla legittimazione soggettiva, non può che
richiamarsi il disposto di cui all’art. 31 cpa: “decorsi i termini per la
conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla
legge, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di provvedere”.
E’ dunque necessaria e sufficiente la sussistenza di
un interesse, ovviamente giuridicamente rilevante, concreto ed attuale, per
poter proporre l’azione, non essendo richiesto che l’interesse sia presidiato
da una posizione giuridica di interesse legittimo fondata espressamente dalla
norma attributiva del potere. E ciò si spiega con il fatto che, nell’azione
sul silenzio, ad essere in discussione non è (o non è solo) il bene della
vita al quale l’interesse legittimo si correla, ma ancor più a monte, il
fondamentale principio di doverosità dell’azione amministrativa che, seppur
non può essere fatto valere dal quisque de populo nell’interesse oggettivo
dell’ordinamento, è tuttavia suscettibile di accertamento ad iniziativa di
chiunque possa ritrarre dal giudizio una concreta ed apprezzabile utilità.
Nel caso di specie, non v’è dubbio che gli appellanti
abbiano un interesse concreto al definitivo consolidamento della loro
posizione proprietaria - che assumono inefficace a cagione del venir meno
dell’originario titolo espropriativo – realizzabile attraverso l’emanazione
del provvedimento di cui all’art. 42 bis o comunque attraverso una definitiva
decisione dell’amministrazione idonea ad evitare loro pregiudizio.
L’azione proposta è dunque ammissibile.
Come anticipato, è anche fondata in relazione alla
sussistenza di un obbligo generico di provvedere.
L’accertamento giudiziale non può tuttavia spingersi
oltre la generica fissazione di un termine, essendo i contenuti delle residue
determinazioni connotate da ampia ed eccezionale discrezionalità
dell’amministrazione, secondo la ratio ordinamentale di recente chiarita
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 71/2015.
L’appello è pertanto accolto, e per l’effetto, è
assegnato all’amministrazione, anche in considerazione delle oggettive
difficoltà rappresentate, termine massimo di nove mesi per provvedere.
Le spese del doppio grado seguono solo in parte la
soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Per il resto appare equo
compensarle, avuto riguardo alla novità e peculiarità della questione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto,
lo accoglie. Per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, condanna
l’amministrazione a provvedere, secondo quanto meglio specificato in
premessa, entro e non oltre mesi nove dalla comunicazione o notificazione
della presente sentenza.
Condanna l’amministrazione a rifondere parzialmente
le spese sostenute per il doppio grado di giudizio dagli appellanti, in
misura di €. 2.000, oltre oneri di legge. Le compensa per il resto.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del
giorno 5 maggio 2015 con l'intervento dei magistrati:
Goffredo Zaccardi, Presidente
Raffaele Potenza, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Antonio Bianchi, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/08/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
2. Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Tribunale
Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda
Quater)
ha
pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 769 del
2012, proposto da:
Asiafi Amir, Boudenne Yacine, Boukrani Mohammed, Boutrane Abdelouahed, Charif Mohammed, Dahan Posada Yasmira Amparo De Fatima, Diop Ousmane, De Monte Jesus Loana, El Garagui Mohammed, El Hamel Abdellah, El Kabdy Touria, El Koura Zakaria, Ez Zahri Salah, Fari Brahim, Fari Brahim, Gaye Lemou, Hamdaoui El Bachir, Hannan Abdul, Kabouchi Farouk, Khaled Abu Muhammad, Khanboubi Mohammed, Khelifi Mohamed, Kouassi Koffi Bertin, Chatoui Lahcen, Lamhamdi Abdelhadi, Lasose Sanchez Santa, Mghirbi Kaboura, Midi Aicha, Mohammad Din, Mouloud Abderrezak, Mouradi Abderrahim, Moustati Jamal, Mozumder Md Mosaraf Hossain, Mwela Kuelo, Oketic Rade, Ridinger Gayle Mary, Rob Md Abdur, Saadi Mohammed, Sall Abdoulaye, Seele Haile Mesghena, Singh Charanjit, Sokolov Serghei, Uwakah Eberechi Innocentia, Yaccoubi Hachemi Ben Ali, Yakoubi Mounir, Younes Abdulkader, nonché l’organizzazione sindacale CGIL-CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA DEL LAVORO, l’associazione FEDERCONSUMATORI-FEDERAZIONE NAZIONALE DI CONSUMATORI ED UTENTI, l’INCA-ISTITUTO NAZIONALE CONFEDERALE ASSISTENZA, questi ultimi enti in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Vittorio Angiolini, Marco Cuniberti, Antonio Mumolo e Luca Santini ed elettivamente domiciliati presso lo Studio dell’ultimo dei suindicati difensori in Roma, Viale Carso, n. 23;
contro
il MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del
Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, Via dei Portoghesi, n.
12;
e con l'intervento
di
ad adiuvandum:
Jamal Ed Altri Ouakkaha, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Vittorio Angiolini, Marco Cuniberti, Antonio Mumolo e Luca Santini ed elettivamente domiciliati presso lo Studio dell’ultimo dei suindicati difensori in Roma, Viale Carso, n. 23;
per l'accertamento
della lesione diretta concreta e attuale dei
diritti e degli interessi dei ricorrenti derivante dalla mancata conclusione
entro i termini di legge dei procedimenti amministrativi in tema di concessione
della cittadinanza ex art. 9 della legge 5 febbraio 1992 n. 91
nonché per la condanna
dell’Amministrazione resistente al ripristino del
corretto svolgimento della funzione amministrativa ad essa attribuita mediante
adozione di ogni atto ritenuto idoneo a risolvere in maniera sistematica e
generale il disservizio dedotto.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio
dell’Amministrazione intimata e i documenti depositati;
Visto l’atto di intervento ad adiuvandum;
Esaminate le ulteriori memorie con documenti
prodotte;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9
aprile 2013 il dott. Stefano Toschei e uditi per le parti i difensori come specificato
nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO e DIRITTO
1. – L’azione che dà vita al presente contenzioso
è proposta, ai sensi dell’art. 1 del decreto legislativo 20 dicembre 2009 n.
198, da 46 persone di origine straniera, che avevano a suo tempo proposto
istanza ai competenti uffici del Ministero dell’interno al fine di ottenere il
rilascio della cittadinanza italiana e da tre enti associativi,
l’organizzazione sindacale CGIL, l’associazione FEDERCONSUMATORI e l’INCA, per
denunciare la costante violazione dei termini di conclusione del procedimento
disciplinato dall’art. 9 della legge 5 febbraio 1992 n. 91 da parte dei
predetti uffici ed ottenere la condanna del Ministero “al ripristino del
corretto svolgimento della funzione amministrativa ad essa attribuita mediante
adozione di ogni atto ritenuto idoneo a risolvere in maniera sistematica e
generale il disservizio dedotto”.
L’atto introduttivo del presente giudizio è
concepito espressamente quale atto di avvio di una azione di classe (c.d.
pubblica) che intende portare in emersione la costante violazione delle
disposizioni normative fissate al fine di contenere temporalmente la durata dei
procedimenti di rilascio della cittadinanza italiana avviati ai sensi dell’art.
9 della legge n. 91 del 1992 e che tutti gli odierni ricorrenti hanno avuto
modo di denunciare con atto di diffida notificato al Ministero qui intimato in
data 13 maggio 2011 e rispetto al quale l’Amministrazione ha ritenuto di non
dare in alcun modo seguito.
In particolare i ricorrenti, dopo aver
sinteticamente rammentato gli aspetti essenziali della procedura per come
disciplinata dalla richiamata disposizione legislativa, analiticamente
descrivono, per ciascuno straniero parte attrice del presente giudizio, il
ritardo accumulato dal Ministero nel corso del singolo procedimento avviato al
fine di ottenere la cittadinanza italiana, evidenziando come, a distanza di
molto tempo e comunque al termine di un periodo ampiamente maggiore rispetto a
quello lasciato dalla norma agli uffici per il regolare svolgimento
dell’istruttoria, le relative procedure non erano ancora state concluse;
chiarendo infine che tali ingiustificati ritardi nella definizione dei processi
amministrativi costituivano un metodo costante e sistematico di svolgimento
delle procedure istruttorie da parte degli uffici ministeriali competenti,
segnalando come i ritardi, talvolta, sono caratterizzati da prassi distorsive
poste ingiustificatamente in atto da alcuni unità territoriali competenti alla
evasione delle relative “pratiche”. A tal proposito raccontano i ricorrenti che
in molti casi gli uffici periferici richiedono la produzione di documenti non
necessari ovvero richiedono una nuova produzione in versione aggiornata dei
documenti già presentati all’atto della proposizione della domanda, seppure
l’obsolescenza del dato o della informazione necessari a dimostrare il possesso
dei requisiti di rilascio della cittadinanza in favore dello straniero siano da
imputarsi ai ritardi con i quali sono state istruite le singole pratiche. In
altri casi, invece, il mancato raccordo tra amministrazioni competenti allo
scrutinio della documentazione prodotta nel percorso istruttorio, plurifasico e
plurisoggettivo, per come è richiesto dalla normativa di settore, al fine della
verifica della sussistenza dei presupposti in capo al richiedente per il
rilascio della cittadinanza, spesso realizzato attraverso procedure non
telematizzate, provoca significativi ritardi nella definizione dei singoli
procedimenti.
In più, i ricorrenti segnalano che lo stato di
inefficienza nella gestione dei procedimenti relativi alla concessione della
cittadinanza avrebbe potuto essere eliminato o, quanto meno, attenuato
attraverso un opportuno uso delle risorse finanziarie aggiuntive attribuite al
Ministero per effetto della disposizione di cui all’art. 1, comma 12, della
legge 15 luglio 2009 n. 94, grazie alla quale i richiedenti il rilascio della
concessione della cittadinanza italiana sono obbligati a versare una tassa pari
a 200 euro, il cui gettito è espressamente finalizzato per metà “alla copertura
degli oneri connessi alle attività istruttorie inerenti ai procedimenti (…) in
materia di immigrazione, asilo e cittadinanza”. I ricorrenti, in argomento,
soggiungono che il medesimo art. 1, comma 12, impone ai richiedenti il rilascio
della cittadinanza di attestare con certificazione in bollo il possesso dei
requisiti pretesi dalla legge al fine di ottenere il predetto titolo
abilitativo e comprovante lo status di cittadino italiano, finendo per
alimentare l’incremento di risorse finanziarie destinate in favore degli uffici
competenti che, tuttavia, non paiono avere saputo sfruttare tali vantaggi
economici al fine dell’attenuazione dei disservizi in questa sede giudiziale
lamentati.
2. - Da qui la richiesta di un intervento
giurisdizionale che possa indirizzarsi su diversi versanti, che vengono
puntualmente declinati dai ricorrenti nell’atto introduttivo del presente
giudizio (ved. pagg. 25 e 26) nel modo che segue; anzitutto imporre al
Ministero una preventiva attività istruttoria volta ad eseguire un censimento
ed un adeguato monitoraggio:
- sull’uso delle risorse aggiuntive rese disponibili dalla novella
dell’art. 1, comma 12 della legge n. 94 del 2009;
- delle risorse umane applicate alla gestione dei procedimenti
amministrativi in tema di concessione della cittadinanza, da porre in relazione
con l’evoluzione dei carichi di lavoro nel corso del tempo;
- circa i tempi medi di conclusione dei procedimenti in questione,
anche con riferimento alla durata delle singole sottofasi nelle quali può
suddividersi la procedura;
- dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero
dell’interno allo scopo di individuare quelli che non presentano disservizi e
quindi distrarre risorse umane da quei processi in favore dei procedimenti in
questione.
Una volta eseguita la surriferita complessa
attività istruttoria e conoscitiva, che nel pensiero dei ricorrenti dovrebbe
essere formalmente disposta dal Tribunale in sede di acquisizione al processo
di elementi istruttori utili alla definizione della controversia, i ricorrenti
medesimi chiedono che il Tribunale, accertata la lesione dei loro diritti ed
interessi per effetto delle violazioni ed inadempimenti qui denunciati con
riferimento alla gestione ed alla definizione dei procedimenti di rilascio
della cittadinanza italiana, ordini all’amministrazione resistente “di porvi
riparo e di ripristinare il corretto svolgimento della funzione amministrativa
entro un termine prestabilito” (così, testualmente, a pag. 27 del ricorso
introduttivo) ed in concreto e nel contempo ordini al Ministero dell’interno di
realizzare i seguenti interventi (ved. pagg. 27 e 28 del ricorso introduttivo):
1) determinare il passaggio da una modalità di
trattazione in serie delle pratiche ad una modalità in parallelo;
2) procedere all’informatizzazione integrale
della procedura, specie per quanto riguarda le comunicazioni tra
Amministrazioni;
3) porre termine alla prassi degli uffici
periferici che producono l’effetto di dilatare i termini procedimentali
complessivi;
4) porre termine alla prassi invalsa in taluni
uffici periferici di onerare i richiedenti a produzioni documentali dispendiose
e non necessarie;
5) impedire la richiesta di produzioni
documentali aggiornate allorquando la protrazione della durata del procedimento
non sia imputabile al richiedente;
6) predisporre un piano per l’uso delle risorse
aggiuntive di cui alla legge n. 94 del 2009, da destinare allo smaltimento
sollecito dei carichi di lavoro arretrati;
7) operare una distrazione delle risorse umane
dalle procedure ministeriali che non manifestino disservizi a quelle aventi ad
oggetto lo scrutinio delle richieste di rilascio della cittadinanza italiana.
3. – Si è costituita in giudizio
l’amministrazione intimata eccependo preliminarmente l’inammissibilità del
ricorso proposto per difetto di legittimazione dei ricorrenti persone fisiche
che avrebbero potuto dolersi della mancata conclusione dei relativi
procedimenti attraverso lo strumento della impugnazione del
silenzio-inadempimento. In seguito, con memoria conclusiva, la difesa erariale
ha eccepito, sempre nei confronti dei ricorrenti persone fisiche, l’intervenuta
improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse alla
decisione della presente controversia, atteso che tutte le procedure che li
riguardavano sono state completate, medio tempore, per effetto dell’adozione
nei confronti di ciascuno di loro dei relativi decreti ministeriali di
definizione dei singoli procedimenti. Sempre in via preliminare la difesa
erariale eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a
scrutinare nello specifico la domanda siccome proposta dai ricorrenti, atteso
che costoro chiedono, nel formulare le conclusioni, che il giudice amministrativo
condanni ad un facere specifico e dettagliato l’amministrazione resistente,
violando in tal modo la c.d. riserva di amministrazione che costituisce uno dei
principi cardine della separazione di poteri nel nostro sistema giuridico. Nel
merito l’Avvocatura generale dello Stato sostiene che non sussistano nella
specie i presupposti per proporre una azione di classe pubblica ai sensi del
decreto legislativo 20 dicembre 2009 n. 198, visto che quest’ultima ha ad
oggetto la denuncia circa la mancata emanazione di atti amministrativi generali
obbligatori non aventi contenuto normativo nonché la violazione dei termini per
la conclusione del procedimento amministrativo funzionale all’adozione dei
predetti atti generali obbligatori, ma non può proporsi con riferimento alla
denuncia circa la mancata e tempestiva conclusione di procedimenti
amministrativi aventi effetti e conseguenze particolari e non generali, in
quanto destinate a restare circoscritte nell’alveo soggettivo del richiedente.
In virtù di tale riflessione, dunque, ad avviso della difesa erariale “il
rimedio che i ricorrenti avrebbero dovuto azionare non è quello della c.d.
class action, bensì quello del silenzio-inadempimento” (così, testualmente, a
pag. 5 della memoria prodotta dal Ministero).
Inoltre e sempre con riferimento al merito della
controversia, la difesa erariale sottolinea come l’ampia discrezionalità che
connota l’attività amministrativa di tipo procedimentale non può restare
compressa dalla imposizione ab externo di modalità specifiche attraverso le
quali viene definito il metodo di esercizio del potere amministrativo, restando
tale tipo di scelta operativa propria del complesso di prerogative
dell’amministrazione circa “il quomodo della organizzazione procedimentale”
(così ancora, testualmente, a pag. 7 della memoria prodotta dal Ministero).
Da ultimo l’Avvocatura sottolinea come l’art. 4
del decreto legislativo n. 198 del 2009 impone al giudice di limitare i poteri
ordinatori entro le “risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in
via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, sicché
se si volessero accordare le richieste per come formulate dai ricorrenti
nell’atto introduttivo del presente giudizio verosimilmente non sarebbe
possibile imporre all’amministrazione, in un procedimento complesso,
plurifasico e pluristrutturato come quello di rilascio della cittadinanza
italiana, nel quale peraltro sono coinvolte più Amministrazioni, gli
adempimenti pretesi senza prevedere l’impiego di ulteriori risorse ed oneri a
carico della finanza pubblica.
4. – Intervenivano in giudizio, ad adiuvandum, 63
persone, che avevano chiesto e non ancora ottenuto la cittadinanza italiana
attraverso procedimenti che si protraevano dalla data di avvio con notevole
ritardo rispetto ai tempi previsti per la loro conclusione dalla normativa di
settore, allo scopo di confortare ulteriormente il ricorso proposto dai
ricorrenti. Più in particolare gli intervenienti specificano che la loro
introduzione nel contenzioso in essere viene realizzata ai sensi e per gli
effetti dell’art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 198 del 2009 a mente
del quale “I soggetti che si trovano nella medesima situazione giuridica del
ricorrente possono intervenire nel termine di venti giorni liberi prima dell'udienza
di discussione del ricorso che viene fissata d'ufficio, in una data compresa
tra il novantesimo ed il centoventesimo giorno dal deposito del ricorso”. Essi,
dunque, formulavano conclusioni identiche a quelle dei ricorrenti.
In vista dell’udienza di merito le parti
presentavano ulteriori memorie e documenti confermando le già rassegnate
conclusioni.
Mantenuta riservata la decisione all’udienza del
9 aprile 2013, la riserva è stata sciolta nelle Camera di consiglio del 2
luglio 2013 e del 19 novembre 2013.
5. – La controversia in esame viene avviata con
una azione di classe c.d. pubblica proposta da tre associazioni,
l’organizzazione sindacale CGIL, la FEDERCONSUMATORI e l’INCA, nonché da 46
persone di origine straniera, che avevano a suo tempo proposto istanza ai
competenti uffici del Ministero dell’interno al fine di ottenere il rilascio
della cittadinanza italiana e che al momento dell’avvio del presente giudizio
non erano stati definiti, allo scopo di denunciare la costante violazione dei
termini di conclusione del procedimento disciplinato dall’art. 9 della legge 5
febbraio 1992 n. 91 per la conclusione delle procedure di rilascio della
cittadinanza italiana da parte dei predetti uffici ed ottenere la condanna del
Ministero “al ripristino del corretto svolgimento della funzione amministrativa
ad essa attribuita mediante adozione di ogni atto ritenuto idoneo a risolvere
in maniera sistematica e generale il disservizio dedotto”, finendo con
l’indicare la strada del percorso di adempimento che questo Tribunale adito
dovrebbe imporre all’amministrazione resistente, anticipandolo con una fase
istruttoria che, pure, dovrebbe essere ordinata già in sede processuale a
carico della predetta amministrazione dallo stesso Tribunale. L’azione di
classe viene supportata dall’intervento ad adiuvandum, proposto ai sensi
dell’art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 198 del 2009, di 63 persone
straniere che si trovano al momento dello spiegato intervento nella stessa
condizione che riguardava i 46 ricorrenti all’epoca della proposizione del
presente ricorso, non avendo ottenuto ancora, al momento della presentazione
dell’atto di intervento e nonostante fosse già trascorso un periodo temporale,
dal momento della trasmissione della domanda volta ad ottenere il rilascio
della cittadinanza italiana, ampiamente superiore rispetto a quello stabilito
dalla normativa di settore, la definizione dei rispettivi procedimenti.
Nelle memorie prodotte l’Avvocatura generale
dello Stato, in via preliminare, ha dapprima eccepito la carenza di
legittimazione dei 46 ricorrenti, per poi chiedere l’accertamento del
sopravvenuto difetto di interesse di costoro alla decisione della controversia
avendo il Ministero medio tempore definito tutti i procedimenti che li
riguardano, e quindi ha opinato circa la carenza di giurisdizione del giudice
amministrativo adito.
Pare al Collegio indispensabile definire
pregiudizialmente la questione di giurisdizione sollevata dalla difesa erariale
ponendosi tale scoglio processuale quale antecedente necessario rispetto alla
questione circa la legittimazione attiva dei ricorrenti e, successivamente,
all’ulteriore questione in merito alla permanenza dell’interesse in capo a
costoro a vedere decisa la controversia.
6. – Sostiene l’Avvocatura generale dello Stato che
per il tipo di richiesta formulata dai ricorrenti a questo Tribunale, il
giudice amministrativo finirebbe, in caso di eventuale accoglimento del
ricorso, per “definire in concreto le modalità esecutive ed operative” alle
quali dovrà attenersi nel futuro il Ministero - e le altre Amministrazioni
coinvolte – nell’esame e nella definizione delle procedure avviate su istanza
di parte e volte ad ottenere il rilascio della cittadinanza italiana, dovendosi
spingere fino ad emanare una “sentenza contenente la condanna ad un facere
specifico e dettagliato” a carico dell’amministrazione soccombente.
Rileva il Collegio che la prospettazione
sviluppata dalla difesa erariale non può essere condivisa in quanto, sotto un
primo profilo, essa si muove nell’ottica dell’esame del merito della domanda
giudiziale proposta e della valutazione circa la sua fondatezza o meno, anche
sotto il profilo dell’ammissibilità del tipo di domanda secondo lo schema
normativo disciplinante la proposizione della c.d. azione di classe pubblica,
vicenda che, dunque, non impinge su alcuna questione di giurisdizione; sotto
altro profilo la difesa erariale non tiene in alcun conto la circostanza che la
domanda viene proposta espressamente ai sensi dell’art. 1 del decreto
legislativo 20 ottobre 2009 n. 198, previsione normativa alla quale fanno
richiamo, altrettanto espresso, coloro che sono intervenuti ad adiuvandum a
processo avviato.
Per come si è già riferito, con il ricorso qui in
esame è azionato il rimedio introdotto dall'art. 1, comma 1, del decreto
legislativo 20 dicembre 2009 n. 198, recante attuazione dell'articolo 4 della
legge 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ricorso per l'efficienza delle
amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici - c.d. class action.
Il predetto articolo 1 declina con puntualità e
precisione i presupposti dell’azione che possono catalogarsi quali oggettivi
elementi prodromici utili al fine della proposizione dell’azione di classe;
essa dunque può proporsi allorquando derivi una lesione diretta, concreta ed attuale
degli interessi dei ricorrenti dalla:
1) violazione di termini;
2) mancata emanazione di atti amministrativi
generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi
obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un
regolamento;
3) violazione degli obblighi contenuti nelle
carte di servizi;
4) violazione di standard qualitativi ed
economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità
preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche
amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in
materia di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009 n.
150, coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la
valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 13 del medesimo decreto e secondo le scadenze temporali
definite dal precitato decreto legislativo n. 150 del 2009.
Orbene, i ricorrenti (tutti, sia le associazioni
che le persone fisiche) lamentano la costante violazione dei termini fissati da
fonte primaria per la durata dell’intero procedimento volto ad ottenere la
concessione della cittadinanza italiana attivato dallo straniero interessato ed
in possesso dei requisiti richiesti dalla normativa di settore, di talché
pongono a fondamento dell’azione proposta il primo tra i sopra elencati fatti
prodromici utili all’avvio del processo ai sensi dell’art. 1, comma 1, del
decreto legislativo n. 198 del 2009.
Inoltre l’azione è stata proposta nei confronti
del Ministero dell’interno, quale amministrazione competente allo svolgimento
del procedimento in questione, seppure con la collaborazione di altre
amministrazioni, e soprattutto all’adozione del provvedimento conclusivo, ai
sensi dell’art. 1, comma 5, del decreto legislativo n. 198 del 2009, a mente
del quale “Il ricorso è proposto nei confronti degli enti i cui organi sono
competenti a esercitare le funzioni o a gestire i servizi cui sono riferite le
violazioni e le omissioni di cui al comma 1”. Detto decreto legislativo,
infine, all’art. 1, comma 7, affida l’esame del ricorso alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Discende da quanto sopra, quindi, che nessun
dubbio può nutrirsi circa la giurisdizione del giudice amministrativo a
conoscere la presente controversia, in quanto attivata ai sensi del più volte
citato art. 1 del decreto legislativo n. 198 del 2009.
7. - Neppure, a sorreggere la paventata carenza
di giurisdizione del Tribunale adito, può soccorrere quanto sostenuto dalla
difesa erariale – con osservazioni contenute nella parte della memoria
conclusiva nella quale il Ministero sostiene l’infondatezza, nel merito, della
domanda proposta - sulla interpretazione secondo la quale il riferimento
normativo recato dal citato articolo 1, al comma 1, alla “violazione dei
termini”, quale presupposto per la proponibilità dell’azione di classe
“pubblica” non va collegato “a termini inerenti ad un provvedimento
amministrativo individuale e, segnatamente, al provvedimento amministrativo di
concessione della cittadinanza italiana”, dal momento che detta violazione di
termini deve riguardare un “procedimento amministrativo funzionale all’adozione
di atti amministrativi generali obbligatori non aventi contenuto normativo”
(così, testualmente, a pag 5 della memoria conclusiva dell’amministrazione
resistente).
Più specificamente e tenuto conto del panorama di
necessaria tipizzazione normativa delle azioni processuali, l’Avvocatura
generale sostiene che la violazione dei termini procedimentali fissati per
l’adozione di un provvedimento amministrativo ad effetti e portata individuali
può provocare la proposizione dell’azione di accertamento di cui agli artt. 31
e 117 c.p.a., ma non costituisce un fatto giuridico idoneo ad autorizzare la
proposizione di una class action pubblica, essendo dedicata tale tipo di azione
a tutelare i soggetti, singoli o associazioni, che dimostrino di essere
pregiudicati dal ritardo con il quale, in violazione delle norme che fissano
termini certi, l’amministrazione competente adotta atti amministrativi generali
obbligatori non aventi contenuto normativo ovvero dalla loro mancata adozione.
Tale interpretazione riduttiva della portata
della previsione di cui all’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n 198 del
2009 non è condivisa dal Collegio.
Sotto un primo profilo puramente testuale, la
formulazione della disposizione in esame non autorizza una siffatta
perimetrazione angusta dell’ambito di operatività dell’azione di classe
pubblica e ciò in quanto la piana lettura della disposizione recata dall’art.
1, comma 1, del decreto legislativo n 198 del 2009 non qualifica il tipo di
termine normativamente fissato per la conclusione di un procedimento
amministrativo distinguendo tra termine per procedimenti volti all’adozione di
atti conclusivi ad efficacia limitata (ovvero di circoscritto interesse) alla
sfera del soggetto che detta procedura abbia volontariamente avviato e termine
destinato ad essere “funzionale all’adozione di atti amministrativi generali
obbligatori non aventi contenuto normativo” (come sostiene la difesa erariale).
Infatti il legislatore nella disposizione più volte qui citata,
nell’individuare i fatti giuridici al verificarsi dei quali è possibile
proporre l’azione di classe pubblica, fa riferimento in via generale ed
indiscriminata alla ipotesi della “violazione di (tutti i) termini” fissati per
legge o attraverso le fonti normative che stabiliscono la definizione dei
termini procedimentali, restando separata dalla particella disgiuntiva (e non congiuntiva)
“o” l’ulteriore ipotesi (la seconda delle quattro più sopra espressamente
elencate in via ricognitiva) idonea a determinare la proponibilità della
predetta azione di classe e collegata non alla violazione di termini, bensì
“alla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non
aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un
termine fissato da una legge o da un regolamento”.
A ciò deve aggiungersi una necessaria
interpretazione (rectius, collocazione) sistematica della norma in questione.
Sin dal varo della legge 7 agosto 1990 n. 241 la fissazione normativa (non
necessariamente attraverso fonti di primo grado ma anche per effetto di
disposizioni di rango regolamentare) dei tempi massimi di durata dei
procedimenti amministrativi ha costituito una costante preoccupazione del
legislatore, certamente accentuata nella novella di cui alla legge 11 febbraio
2005 n. 15. La perdurante risposta negativa delle amministrazioni, quasi mai in
linea con la volontà legislativa di rendere certa e celere la durata dei tempi
di esercizio dell’attività amministrativa e sempre più spesso indotte alla
sistematica violazione dei termini procedimentali, ha costretto il legislatore
a definire con maggiore rigore il perimetro temporale di legittimità
dell’azione degli uffici pubblici, anche applicando formule di responsabilità
specifica per i dirigenti di quegli uffici che si rendono protagonisti di
prassi violative dei disposti normativi volti a definire l’area temporale di tempestività
dell’esercizio dei poteri autoritativi, in disparte la discrezionalità
accordata alle amministrazioni procedenti sul merito dell’esercizio delle
competenze loro attribuite legislativamente, fissando termini estremamente
ridotti, tranne talune eccezioni, per la conclusione dei procedimenti
amministrativi, in particolare riformulando il testo dell’art. 2 della legge n.
241 del 1990, attraverso la novellazione della predetta norma disposta con
l’art. 7 della legge 18 giugno 2009 n. 69 e giungendo financo a riservare alla
competenza normativa esclusiva dello Stato [in attuazione dell’art. 117,
secondo comma, lett. m) della costituzione] il potere di fissare tetti massimi
non superabili di durata dei singoli procedimenti.
Inoltre, scorrendo la produzione normativa degli
ultimi quattro anni, si assiste ad una sempre maggiore ricerca da parte del
legislatore di valorizzare il rilievo del rispetto dei termini procedimentali
(relativi ad ogni tipo di intervento amministrativo) quale ineludibile sintomo
di trasparenza dell’azione amministrativa, in diretta attuazione del principio
di cui all’art. 97 Cost. (si veda in argomento la formulazione dell’art. 54 del
decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 che, prima della modifica sostitutiva
operata dall’art. 53 del decreto legislativo 14 marzo 2013 n. 33, recante il
c.d. testo unico sulla trasparenza amministrativa, fissava l’obbligo per le
amministrazioni di rendere visibili sul sito web istituzionale i termini di
tutti i procedimenti amministrativi svolti dal singolo ente, obbligo oggi
sancito dall’art. 35 del suddetto decreto legislativo n. 33 del 2013), quale
decisivo indicatore della performance dell’attività (dei singoli uffici)
dell’ente ai sensi del decreto legislativo 27 ottobre 2009 n. 150 nonché quale
strumento idoneo ad evitare l’affiorare di fenomeni corruttivi, tanto da
doverne anche dare conto nei c.d. Piani anticorruzione, nazionale e triennali
(questi ultimi da adottarsi in ambito locale), il cui obbligo di adozione è
stato introdotto dalla legge 6 novembre 2012 n. 190, per come è espressamente
previsto dall’art. 1, comma 9 (in particolare la lett. d) della predetta legge,
nel quale si sottolinea come tra le azioni di opposizione ai fenomeni
corruttivi il Responsabile, nominato ai sensi dell’art. 1, comma 7, della
stessa legge, debba predisporre un sistema specifico di costante ed efficace
monitoraggio circa “il rispetto dei termini, previsti dalla legge o dai
regolamenti, per la conclusione dei procedimenti” per poi darne conto nella
predisposizione del Piano.
Tale complesso di elementi testimonia come
l’azione di classe c.d. pubblica costituisce uno strumento creato dal
legislatore italiano al fine di tutelare la posizioni di soggetti privati ed
associazioni che lamentino la costante violazione da parte di una
amministrazione pubblica degli obblighi normativamente imposti in tema di
rispetto dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi,
indipendentemente dalla circostanza che detti termini siano funzionali
all’adozione di provvedimenti destinati ad un soggetto o ad una ristretta
cerchia di destinatari ovvero abbiano come fine ultimo l’adozione di atti di
atti amministrativi generali obbligatori non aventi contenuto normativo.
8. - Può quindi affermarsi che la differenza tra
il mezzo di tutela giudiziale indicato negli artt. 31 e 117 c.p.a. e quello
previsto dall’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 198 del 2009 è
determinata dall’oggetto della domanda che il ricorrente propone al giudice
amministrativo, pur partendo da un analogo presupposto costituito dalla
violazione, da parte dell’amministrazione competente, del termine fissato, per
legge o per regolamento ovvero con atto amministrativo generale, per l’adozione
del provvedimento conclusivo del pr ocedimento che lo riguarda:
A) nel primo caso (artt. 31 e 117 c.p.a.),
accertata giudizialmente l’illecita violazione dei termini, la richiesta del
ricorrente è circoscritta alla condanna dell’amministrazione a provvedere entro
il termine “di regola” di trenta giorni o comunque entro altro termine
assegnato all’ente dal giudice amministrativo per concludere il procedimento
che lo vede diretto ed esclusivo interessato;
B) nel secondo caso (art. 1, comma 1, del decreto
legislativo n. 198 del 2009) la domanda giudiziale del ricorrente è molto più articolata
e non è tesa ad ottenere la tempestiva conclusione del procedimento che lo
riguarda, bensì è volta ad ottenere che d’ora in poi quell’amministrazione
ponga fine al comportamento costantemente violativo delle regole imposte
dall’ordinamento sul rispetto dei termini procedimentali, pretendendosi dal
giudice amministrativo l’emanazione di un provvedimento giudiziale
particolarmente penetrante e complesso nella sua attuazione da parte dell’ente
idoneo a rimuovere ogni
Per maggior chiarezza circa le osservazioni sopra
sviluppate ed ad ulteriore conforto in ordine all’avviso espresso dal Collegio,
si può richiamare la previsione recata dall’art. 1, comma 33, della citata
legge n. 190 del 2012 che, disponendo in materia di obblighi di pubblicazione
dei dati (delle informazioni e dei documenti) disponibili presso una pubblica
amministrazione, puntualizza come la violazione degli oneri di pubblicità, tra
i quali come si è detto (e per quanto è qui di interesse) spicca la
divulgazione all’esterno dell’ente dei termini di conclusione dei procedimenti
di competenza dell’ente medesimo [l’art. 35, comma 1, lett. f) del decreto
legislativo n. 33 del 2013 ora stabilisce che sul sito web istituzionale
dell’ente debbono essere pubblicati “il termine fissato in sede di disciplina
normativa del procedimento per la conclusione con l'adozione di un
provvedimento espresso e ogni altro termine procedimentale rilevante”] oltre a
realizzare forme di responsabilità dirigenziale ai sensi “dell’articolo 21 del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”,
“costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici ai sensi
dell'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198”.
In ragione di tutto quanto si è sopra osservato
deve, dunque, confermarsi la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine
al “tipo” di domanda giudiziale proposta dai ricorrenti.
9. – Passando ora ad esaminare le ulteriori
questioni in rito sollevate in via di eccezione preliminare dalla difesa erariale,
pare opportuno distinguere tra l’eccezione di inammissibilità del ricorso per
difetto di legittimazione passiva dei 46 ricorrenti persone fisiche e
l’eccezione di improcedibilità del ricorso con riferimento alla posizione dei
medesimi ricorrenti assumendosi che, essendo intervenuto medio tempore il
completamento delle procedure amministrative (di rilascio della cittadinanza
italiana) che essi stessi avevano attivato e che non si erano ancora definite
all’epoca della proposizione del ricorso qui in esame, costoro non vantano più
alcuna attualità ed interesse alla definizione del giudizio.
Il Collegio osserva che le eccezioni sollevate
con la memoria di costituzione e con quella conclusiva dall’Avvocatura generale
dello Stato proiettano una faro volto ad illuminare questioni di impedimento
processuale alla coltivazione del giudizio con esclusivo riferimento agli
stranieri che hanno proposto, insieme con le tre associazioni meglio indicate
in epigrafe, il ricorso qui in esame. Sarà dunque cura del Tribunale, d’ufficio
ed una volta definita la fondatezza o meno delle eccezioni sollevate
dall’Avvocatura, completare l’indagine sulla corretta proposizione del giudizio
con riguardo anche alla sussistenza della legittimazione dell’interesse ad
agire in capo alle associazioni co-ricorrenti.
Pare al Collegio che la norma invocata a supporto
della proposizione dell’azione di classe qui in esame sia destinata a
consentire anche a persone fisiche e non solo ad associazioni di rivolgersi al
giudice amministrativo per denunciare le violazioni descritte nell’art. 1,
comma 1, del decreto legislativo n. 198 del 2009.
Ed infatti il decreto legislativo ora citato:
- all’art. 1, comma 1, prescrive che; “ Al fine
di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione
di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei
per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le
modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni
pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici”;
- all’art. 1, comma 4, aggiunge poi che:
“Ricorrendo i presupposti di cui al comma 1, il ricorso può essere proposto
anche da associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati,
appartenenti alla pluralità di utenti e consumatori di cui al comma 1”.
E’ quindi evidente che l'art. 1 del decreto
legislativo n. 198 del 2009 riconosce la legittimazione a proporre l'azione per
l'efficienza delle pubbliche amministrazioni sia ai singoli "titolari di
interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e
consumatori" (art. 1, comma 1) sia ad "associazioni o comitati a
tutela degli interessi dei propri associati, appartenenti alla pluralità di
utenti e consumatori di cui al comma 1" e quindi titolari di interessi
giuridicamente rilevanti ed omogenei tra loro (art. 1, comma 4).
Precisato quanto sopra in ambito normativo non
appare utile al dibattito l’affermazione della difesa erariale secondo cui il
singolo individuo che intenda dolersi del mancato rispetto dei termini
procedimentali non possa azionare il rimedio della c.d. class action pubblica,
dovendo limitarsi a sollevare individualmente la questione per il tramite
dell’azione di accertamento del silenzio-inadempimento ai sensi degli artt, 31
e 117 c.p.a., Infatti, la novità del rimedio giudiziale introdotto dal
legislatore con l’art. 1 del decreto legislativo n. 198 del 2009 (e la
peculiarità che lo distanzia dalla – solo - omonoma figura giudiziale
civilistica) sta nella circostanza che anche il singolo utente può,
singolarmente o in gruppo con altri utenti o soggetti con i quali condivida lo
stesso malessere, giuridicamente rilevante, attuale e concreto, nei confronti
delle inadempienze perpetrate da una o più amministrazioni pubbliche,
rivolgersi al giudice amministrativo perché disponga in merito al ripristino
del corretto svolgimento della funzione o della corretta erogazione di un
servizio, semprechè:
A) l’interesse che muove il singolo sia, solo
apparentemente individuale, in quanto si confonde e si estende nell’interesse
di altri soggetti in quanto a loro comune, dal momento che tutti si trovano,
nei confronti dell’amministrazione di riferimento, nelle medesime condizioni di
doglianza pretensiva;
B) detto interesse, all’atto della proposizione
del ricorso che reca l’azione di classe, deve mantenersi in termini di
attualità e concretezza con riguardo al soggetto proponente.
Nel caso di specie il ricorso non è proposto da
un singolo richiedente la tempestiva definizione del procedimento di rilascio
della cittadinanza da lui avviato, ma da ben 46 stranieri che si trovano (o,
comunque, si trovavano all’epoca della proposizione del ricorso qui in
scrutinio) tutti nella condizione di attesa rispetto ad una procedura di
rilascio della cittadinanza italiana avviata da tempo superiore a quello
previsto dalla legge per la sua definizione che, al momento della proposizione
del ricorso medesimo, non era intervenuta.
Ne deriva la sussistenza della legittimazione e,
per quanto si è testé anticipato, dell’interesse alla proposizione del ricorso
in capo ai 46 stranieri ricorrenti.
10. – Deve ora verificarsi se, ferma la
legittimazione e la sussistenza dell’interesse a proporre il ricorso in capo ai
46 stranieri ricorrenti, detta posizione processuale possa considerarsi
permanere, tramutandosi in interesse alla definizione della controversia,
pendente iudicio, nonostante che, medio tempore, i procedimenti relativi ai
singoli ricorrenti si sono ormai definiti.
Tale fatto nuovo e sopravvenuto nel corso del
processo, ad avviso della difesa erariale, renderebbe vana la definizione del
giudizio in capo a costoro che non avrebbero ragione di valersene avendo già
ottenuto il bene della vita al quale aspiravano – e per il cui perseguimento
avevano per l’appunto proposto il ricorso – durante il processo e senza che
dall’eventuale sentenza possano trarre ulteriori vantaggi, tenuto conto che
espressamente l’art. 1, comma 6, del decreto legislativo n. 198 del 2009
stabilisce che “Il ricorso non consente di ottenere il risarcimento del danno
cagionato dagli atti e dai comportamenti di cui al comma 1; a tal fine, restano
fermi i rimedi ordinari”.
Assume fondamentale importanza riscontrare come
l’interesse agitato dai 46 stranieri ricorrenti non era volto ad ottenere la sollecita
definizione di ciascun procedimento di rilascio della cittadinanza italiana
pendente, altrimenti il ricorso di classe andrebbe dichiarato inammissibile,
essendo (per come si è già sopra precisato) il loro interesse ad ottenere il
provvedimento finale del procedimento pendente presidiato dall’ordinamento
grazie all’azione di accertamento di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a.. Al
contrario l’obiettivo del gravame è evidentemente teso ad ottenere una
decisione del giudice amministrativo che sia idonea a porre fine alla costante
pratica di violazione del rispetto dei termini procedimentali fissati dalla
legge per la conclusione dei procedimenti di rilascio del titolo di
riconoscimento della cittadinanza italiana allo straniero da parte degli Uffici
competenti.
In ragione di ciò, dunque, si presenta totalmente
aliena rispetto alla posizione dei ricorrenti di una azione di classe pubblica
proposta da persone fisiche la circostanza che le singolari posizioni
amministrative aventi carattere patologico si siano definite favorevolmente, in
quanto l’obiettivo del ricorso al giudice amministrativo è distinto dalla
soddisfazione personale ma assume rilievo in un ambito di efficacia più
generale rispetto al ristretto perimetro della soddisfazione della singola
posizione soggettiva.
Non vi è quindi ragione per dichiarare il ricorso
improcedibile con riferimento alle posizioni dei 46 ricorrenti.
11. – Da ultimo, e prima di analizzare il merito
della controversia, va scrutinata la sussistenza o meno della legittimazione e dell’interesse
a proporre l’azione di classe pubblica da parte delle tre associazioni
ricorrenti.
Con riguardo alla prima associazione, vale a dire
la Confederazione italiana del lavoro (CGIL), va rammentato come sia pacifico
in giurisprudenza che i sindacati non possono agire per la difesa di singole
posizioni o di interessi di una sola parte degli iscritti ma sono invece
legittimati ad agire in giudizio a tutela delle prerogative dell'organizzazione
sindacale, quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di
lavoratori e degli interessi collettivi della categoria stessa, interamente
considerata (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2011 n. 1540 e 30
gennaio 2007 n. 351), come accaduto nel caso di specie. Infatti, nella concreta
fattispecie, l'associazione sindacale risulta senz'altro titolare di una
posizione soggettiva che la legittima all'azione di classe pubblica che è volta
a tutelare la posizione soggettiva di cittadini stranieri che hanno trovato una
stabile occupazione nel nostro Paese, costituendo tale condizione uno dei
presupposti principali per il riconoscimento della cittadinanza italiana, e che
intendono quali lavoratori stranieri concretizzare la loro aspettativa a
vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana entro i termini, peraltro già
sensibilmente lunghi (ben 730 giorni) fissati dalla legislazione italiana per
la conclusione del relativo procedimento.
Peraltro all’art. 2 dello Statuto della CGIL
(depositato in giudizio) si legge, nell’elencazione dei principi fondamentali
ai quali si ispira l’azione di quel sindacato, che la “CGIL considera la
solidarietà attiva tra i lavoratori di tutti i Paesi, e le loro organizzazioni
sindacali rappresentative, un fattore decisivo per la pace, per l’affermazione
dei diritti umani, civili e sindacali e della democrazia politica, economica e
sociale, per l’indipendenza nazionale e la piena tutela dell’identità culturale
ed etnica di ogni popolo” e che essa “afferma il valore della solidarietà in
una società senza privilegi e discriminazioni, in cui sia riconosciuto il
diritto al lavoro, alla salute, alla tutela sociale, il benessere sia equamente
distribuito, la cultura arricchisca la vita di tutte le persone, rimuovendo gli
ostacoli politici, sociali ed economici che impediscono alle donne e agli
uomini native/i e immigrate/i di decidere – su basi di pari diritti ed
opportunità, riconoscendo le differenze – della propria vita e del proprio
lavoro”.
Ne deriva che, ai sensi dell’art. 2 dello
Statuto, la CGIL persegue obiettivi tra i quali rientra indubitabilmente il
rispetto dello straniero dinanzi all’esercizio del potere amministrativo,
seppure di tipo ampiamente discrezionale come avviene nel rilascio della
cittadinanza italiana, con particolare riguardo al rispetto delle regole che
disciplinano quella azione amministrativa da parte degli Uffici competenti.
Sussistono dunque in capo alla CGIL
legittimazione ed interesse all’azione di classe pubblica qui proposta in
ragione del tipo di obiettivo che con essa detta ricorrente persegue.
12. – Parimenti alla precedente, le altre due
associazioni ricorrenti, la Federconsumatori e l’Inca, presentano entrambe i
presupposti per riconoscere in essa la legittimazione e l’interesse a proporre
l’azione di cui al ricorso.
La Federconsumatori è un'associazione di
consumatori iscritta, ai sensi dell'art. 137 del d.lgs. 6 settembre 2005, n.
206 (recante il c.d. Codice del consumo) nell'elenco delle associazioni dei
consumatori e degli utenti, rappresentative a livello nazionale, come da
decreto di conferma del Ministero dello sviluppo economico del 17 dicembre
2012.
L'art. 2 dello statuto associativo affida alla
Federconsumatori tra le finalità da perseguire con ogni mezzo legittimo,
compresa la promozione di azioni collettive nei confronti di enti pubblici e di
società e di privati, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, si
rinvengono:
- la promozione sociale e la tutela degli
interessi economici e giuridici di consumatori ed utenti attraverso tutti gli
strumenti specificatamente previsti dalla normativa nazionale, regionale e
comunitaria;
- ogni azione volta ad ottenere il riconoscimento
dei diritti dei cittadini da parte delle amministrazioni pubbliche e degli enti
nonché delle aziende che prestano servizi di interesse pubblico.
Orbene le caratteristiche soggettive e lo scopo
della Federconsumatori sono sufficienti per fondare la legittimazione ad agire
nel presente giudizio proponendo l’azione di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 198
del 2009.
Per quanto concerne l’Inca, infine, l’ente è assoggettato
alla legge 30 marzo 2001 n. 152 (recante "Nuova disciplina per gli
istituti di patronato e di assistenza sociale") al fine di svolgere, tra
l’altro (art. 2 dello Statuto) attività di consulenza ed assistenza a
lavoratori, pensionati, cittadini italiani, stranieri e apolidi presenti sul
territorio nazionale “per il conseguimento in Italia e all'estero delle
prestazioni di qualsiasi genere in materia di sicurezza sociale, di
immigrazione e emigrazione, previste da leggi, regolamenti, statuti, contratti
collettivi ed altre fonti normative, erogate da amministrazioni e enti
pubblici, da enti gestori di fondi di previdenza complementare o da Stati
esteri nei confronti dei cittadini italiani o già in possesso della
cittadinanza italiana, anche se residenti all'estero” (art. 7 della legge n.
152 del 2001) e nello specifico per il conseguimento in Italia e all'estero,
delle prestazioni in materia di previdenza e quiescenza obbligatorie e di forme
sostitutive e integrative delle stesse; delle prestazioni erogate dal Servizio
sanitario nazionale; delle prestazioni di carattere socio-assistenziale,
comprese quelle in materia di emigrazione e immigrazione; delle prestazioni
erogate dai fondi di previdenza complementare, anche sulla base di apposite
convenzioni con gli enti erogatori (art. 8 della legge n. 152 del 2001).
Anche in questo caso, dunque, il Collegio non
ravvede ragioni per escludere la legittimazione ad agire e l’interesse a
ricorrere dell’Inca con riferimento alla specifica azione giudiziale proposta
in questa sede.
13. – Può ora affrontarsi il merito dell’azione
proposta.
Come si è avuto modo di specificare all’inizio
della presente decisione, i ricorrenti con l’azione di classe chiedono al
giudice amministrativo di intervenire su due fronti:
- il primo in via preventiva e di carattere
istruttorio nonché prodromico al successivo;
- il secondo strettamente derivante dal
precedente e caratterizzato alla incisività nei confronti dell’operato
dell’amministrazione competente.
Sotto il primo versante i ricorrenti chiedono di
imporre una preventiva attività istruttoria volta ad eseguire un censimento ed
un adeguato monitoraggio:
- sull’uso delle risorse aggiuntive rese disponibili dalla novella
dell’art. 1, comma 12 della legge n. 94 del 2009;
- delle risorse umane applicate alla gestione dei procedimenti
amministrativi in tema di concessione della cittadinanza, da porre in relazione
con l’evoluzione dei carichi di lavoro nel corso del tempo;
- circa i tempi medi di conclusione dei procedimenti in questione,
anche con riferimento alla durata delle singole sottofasi nelle quali può
suddividersi la procedura;
- dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero
dell’interno allo scopo di individuare quelli che non presentano disservizi e
quindi distrarre risorse umane da quei processi in favore dei procedimenti in
questione.
Una volta eseguita la surriferita complessa
attività istruttoria e conoscitiva, per effetto di una puntuale prescrizione
del Tribunale da realizzarsi pendente iudicio e sulla scorta degli elementi
acquisiti, al giudice amministrativo adito i ricorrenti chiedono istruttori
utili alla definizione della controversia, i ricorrenti medesimi chiedono che
si ordini al Ministero dell’interno di realizzare i seguenti interventi:
1) determinare il passaggio da una modalità di
trattazione in serie delle pratiche ad una modalità in parallelo;
2) procedere all’informatizzazione integrale
della procedura, specie per quanto riguarda le comunicazioni tra
Amministrazioni;
3) porre termine alla prassi degli uffici
periferici che producono l’effetto di dilatare i termini procedimentali
complessivi;
4) porre termine alla prassi invalsa in taluni
uffici periferici di onerare i richiedenti a produzioni documentali dispendiose
e non necessarie;
5) impedire la richiesta di produzioni
documentali aggiornate allorquando la protrazione della durata del procedimento
non sia imputabile al richiedente;
6) predisporre un piano per l’uso delle risorse
aggiuntive di cui alla legge n. 94 del 2009, da destinare allo smaltimento
sollecito dei carichi di lavoro arretrati;
7) operare una distrazione delle risorse umane
dalle procedure ministeriali che non manifestino disservizi a quelle aventi ad
oggetto lo scrutinio delle richieste di rilascio della cittadinanza italiana.
14. - A questo punto il Collegio ritiene di
centrale importanza rammentare come l’Avvocatura generale dello Stato
prospetti, sia attribuendo a tale rilievo valore di eccezione preliminare di
inammissibilità dell’azione di classe pubblica qui proposta sia ritenendo una
sua incisività nella definizione della presente controversia nel merito, che un
serio impedimento all’adozione di qualsivoglia decisione di accoglimento della
domanda proposta dai ricorrenti da parte del giudice amministrativo derivi dalla
circostanza che l’art. 1, comma 1 bis, del d.lgs. n. 198 del 2009 prescrive un
limite insuperabile nei confronti del potere del giudice amministrativo nelle
procedure giudiziali quale è quella presente, nel senso che “Nel giudizio di
sussistenza della lesione di cui al comma 1 il giudice tiene conto delle
risorse strumentali, finanziarie e umane concretamente a disposizione delle
parti intimate.".
Ritiene il Collegio che l’esperibilità
dell’azione di classe pubblica, nel caso di specie, non è impedita dal momento
che la disciplina dei termini di conclusione del procedimento è interamente
compiuta a livello legislativo e regolamentare e pertanto deve ritenersi che la
predeterminazione del termine sia stata effettuata già valutando la sussistenza
delle risorse economiche e strumentali. Ne deriva che qualsiasi decisione
assuma il giudice amministrativo nella materia de qua, limitatamente
all’ipotesi di obbligare le amministrazioni competenti ad attenersi
scrupolosamente ai parametri normativi fissati per la tempestiva conclusione
dei procedimenti volti ad ottenere il rilascio della cittadinanza italiana, va
intesa nel rispetto “delle risorse strumentali, finanziarie e umane
concretamente a disposizione”.
D’altronde non costituisce una novità nel nostro
ordinamento che la previsione di gravosi adempimenti rimessi alle
amministrazioni dal legislatore in numerose recenti disposizioni normative
debba realizzarsi “con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili
a legislazione vigente” con le risorse umane, strumentali e finanziarie
disponibili a legislazione vigente, tenendo conto che dall’attuazione delle
prescrizioni medesime “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica” (i virgolettati sono tratti dall’art. 2 della legge n. 190
del 2012, c.d. legge anticorruzione).
Ciò nondimeno deve ritenersi che la richiamata
disposizione di cui all’art. 1, comma 1 bis, del d.lgs. n. 198 del 2009
costituisca lo strumento normativo fondamentale per sincronizzare l’esercizio
del potere da parte del giudice amministrativo con la ratio legis che sottende
alla presenza dell’azione di classe pubblica nel nostro ordinamento giuridico.
Con tale azione il legislatore, come si è già
accennato, ha voluto prevedere un ulteriore mezzo di tutela in favore di coloro
che lamentano un comportamento di “malamministrazione” da parte di un soggetto
che esercita (non correttamente) il potere autoritativo, potendo costoro
rivolgersi al giudice amministrativo al fine di ottenere un espresso invito
giudiziale a carico dell’ente volto ad imporre il riallineamento del
comportamento patologico rispetto ai canoni legislativi. Il potere attribuito
al giudice amministrativo, tuttavia, non si spinge fino a consentirgli una
ingerenza penetrante nell’organizzazione dell’ente e nei modelli
comportamentali, atteso che entrambi sono il frutto di decisioni normative (sia
di rango primario che regolamentare) rispetto alle quali il giudice
amministrativo, nel rispetto del principio della tripartizione dei poteri, non
può e non deve intervenire.
Fermo quanto sopra appare evidente che, di tutte
le richieste giudiziali presentate dai ricorrenti e sopra nuovamente
sintetizzate, il Collegio può accogliere soltanto quella, ricomponibile nei
vari passaggi delle conclusioni recate dal ricorso introduttivo, di invitare il
Ministero dell’interno a porre in essere ogni adempimento utile, di carattere
organizzativo e procedurale, volto al rigoroso rispetto dei termini previsti
per la conclusione del procedimento di rilascio della cittadinanza italiana,
tenuto conto che, la previsione legislativa di riconoscere ben 730 giorni di
tempo (a mente dell’art. 3 del D.P.R. 18 aprile 1994 n. 362, Regolamento
recante disciplina dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana)
all’amministrazione competente per completare il percorso istruttorio con
l’adozione del provvedimento conclusivo appare più che idonea a rendere
ingiustificabile ogni ragione di ritardo nel completamento della filiera
amministrativa in questione a far data dalla presentazione della relativa
istanza.
Sicché nei limiti ora indicati il ricorso può
trovare accoglimento.
15. – In ragione delle suesposte osservazioni e
nei limiti appena segnalati, il ricorso va accolto, ordinandosi al Ministero
dell’interno, a mente dell'art. 3 del D.P.R. n. 362 del 1994, di porre rimedio
alla denunciata situazione di generalizzato mancato rispetto del termine di 730
giorni per la conclusione del procedimento di cui all'art. 9 del d.lgs. 5
febbraio 1992 n. 91 (c.d. T.U. dell’immigrazione (concernente il rilascio della
cittadinanza italiana) mediante l'adozione degli opportuni provvedimenti, entro
un il termine di un anno, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed
umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica.
Stante la peculiarità e la complessità delle
questioni fatte oggetto del presente contenzioso, stima il Collegio che
sussistano i presupposti di cui all’art. 92 c.p.c. novellato, per come
richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a., per compensare le spese
di lite tra tutte le parti in giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il
Lazio (Sezione Seconda Quater)
pronunciando in via definitiva sul ricorso
indicato in epigrafe, lo accoglie limitatamente alla denunciata violazione
generalizzata dei termini di conclusione del procedimento sull'istanza di
rilascio della concessione della cittadinanza italiana per come fissati
dall'art. 3 del D.P.R. n. 362 del 1994 e, per l'effetto, condanna il Ministero
dell’interno a porre rimedio a tale situazione mediante l'adozione degli
opportuni provvedimenti, entro il termine di un anno dalla comunicazione della
presente sentenza, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane
già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle Camere di consiglio del
9 aprile 2013, del 2 luglio 2013 e del 19 novembre 2013 con l'intervento dei
magistrati:
Angelo
Scafuri, Presidente
Pietro
Morabito, Consigliere
Stefano
Toschei, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/02/2014
IL SEGRETARIO
(Art.
89, co. 3, cod. proc. amm.)
|
venerdì 18 settembre 2015
PROCESSO: il ricorso avverso il silenzio-inadempimento e la c.d. "class action" pubblica a confronto (Cons. St., Sez. IV, sentenza 26 agosto 2015, n. 4014; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II "quater", sentenza 26 febbraio 2014, n. 2257).
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