SERVIZI PUBBLICI:
in materia di limiti alla presenza nell'acqua di elementi chimici dannosi alla salute
c'è discrezionalità "purissima" della P.A.
c'è discrezionalità "purissima" della P.A.
(Cons. St., Sez. VI, 21 luglio 2013 n. 5133).
Mi preoccupa sapere che il G.A. riconosce alla P.A. una discrezionalità "purissima".
E che il risarcimento per equivalente è una chimera nel processo amministrativo (c'è l'austerity...).
Massima
1. L’art. 13 d.lgs. n. 31
del 2001, intitolato “Deroghe”, in recepimento del correlativo istituto di
derivazione comunitaria (art. 9 della direttiva 98/83/CE), prevede la facoltà per
Regioni o Province autonome di stabilire deroghe ai valori di parametro
fissati con da fonte sub-legislativa.
2. La ratio sottesa all’istituto della deroga è da individuarsi nell’esigenza di gestire una situazione di superamento di valori per determinati parametri, correlabile alla presenza nelle acque di elementi minerali di origine geologica, con il miglior compromesso in termini di rischi-benefici, tenendo in particolare conto i rischi connessi alla limitazione d’uso o alla sospensione della distribuzione idrica; nel contempo, la concessione della deroga è subordinata alla previsione ed alla implementazione delle misure necessarie a migliorare la qualità dell’acqua nel tempo, in un regime di costante sorveglianza.
3. Con riguardo alla sostanza dell’arsenico, la direttiva ed il d.lgs. citati hanno imposto valori di parametro sensibilmente più restrittivi, passando dal valore di 50 µg/l, previsto dalla preesistente direttiva 80/778/CE (recepita dal d.P.R. 24 maggio 1988, n. 236), a 10 μg/l.
La non conformità delle acque destinate al consumo umano alle previsioni della direttiva vigente è risultata quindi non da un deterioramento della qualità dell’acqua di origine, ma dall’evoluzione della normativa che ha progressivamente ridotto i valori parametrici al fine di incrementare il livello di protezione dei consumatori; la normativa comunitaria (così come quella nazionale) ha assunto la missione di migliorare la qualità delle acque, a favore delle popolazioni che – in assenza della normativa di protezione – avrebbero continuato ad utilizzare e ad assumere, presumibilmente come le precedenti generazioni, acque potenzialmente lesive per la salute.
4. Ritiene al riguardo la Sezione che non sussiste l’elemento dell’antigiuridicità della condotta (ossia, un comportamento non iure) – e, a maggior ragione, non sussiste nemmeno quello della colpevolezza –, in quanto, in presenza di una disciplina armonizzata a livello comunitario che dichiaratamente assicura una tutela esaustiva di un particolare profilo sanitario, il principio di precauzione (codificato dall’art. 191 del Trattato UE) deve ritenersi assorbito dalla medesima disciplina, con la conseguente legittimità delle attività nazionali svolte in ottemperanza a tali previsioni.
Infatti, come già sopra esposto, la ratio sottesa alla disciplina in deroga consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra situazioni giuridicamente tutelate (sul piano costituzionale e comunitario), nella specie, tra il diritto alla salute (peraltro, con una tecnica di tutela preventiva improntata al principio di precauzione, tenuto conto della opinabilità scientifica dei parametri correlati alla presenza nelle acque di elementi minerali di origine geologica e della loro pericolosità per la salute), e l’esigenza di evitare i rischi igienico-sanitari connessi alla limitazione d’uso o di sospensione della distribuzione idrica, pure incidenti in modo pregiudizievole su interessi primari della collettività e della persona.
Alle Amministrazioni coinvolte (non solo a quella statale, ma anche a quelle regionali e agli enti locali), la normativa di settore – di derivazione comunitaria – ha attribuito la responsabilità, con il correlativo potere, di individuare un punto di equilibrio dinamico in termini di rischi-benefici, improntata ai principi di proporzionalità e ragionevolezza, tant’è che la concessione della deroga è stata subordinata alla previsione ed alla implementazione delle misure necessarie a ripristinare la qualità dell’acqua nel tempo, in un regime di costante sorveglianza e monitoraggio.
La disciplina in deroga, di cui si è avvalsa l’Amministrazione, non prevede, invero, la continuazione pura e semplice dell’erogazione del servizio idrico a valori di contaminazione naturale eccedenti quelli ‘a regime’, ma ne impone degli obiettivi di adeguamento a questi ultimi, il cui raggiungimento è sottoposto a controlli periodici, così attuando un non irragionevole bilanciamento tra situazioni giuridiche tra loro potenzialmente confliggenti.
Non è, pertanto, configurabile quella lesione o messa a pericolo del diritto alla salute paventata dagli originari ricorrenti, e dunque neppure una condotta (attiva od omissiva) contra ius, poiché le relative esigenze di tutela sono state considerate in modo esaustivo dalle autorità comunitarie e nazionali, in contemperamento con gli interessi pubblici e le situazione giuridiche confliggenti, attraverso un’azione legislativa e amministrativa che, in un’ottica di precauzione inserita in un processo dinamico di progressivo adeguamento degli standard del servizio in esame ai valori ottimali ‘a regime’, era tesa a ridurre progressivamente i valori parametrici al fine di incrementare il livello di protezione degli utenti del servizio idrico ed a contrastare – in coerenza con la missione che ha voluto assumere l’Unione Europea – la presenza naturale dell’arsenico negli acquiferi destinati alla produzione di acque potabili.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5133 del 2012,
proposto dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e
dal Ministero della salute, in persona dei rispettivi Ministri in carica,
rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria per
legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Codacons ed Associazione Utenti dei Servizi Pubblici,
in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, nonché
i signori Carla Anzalone, Sandro Bernardi, Antonella Candela, Luigia Onorati,
Massimiliano Orzati, Lorenzo Parrini, Maria Giovanna Patanè, Giuseppe Pazzaglia
e Franco Picozzi, rappresentati e difesi dagli avvocati Carlo Rienzi e Marco
Ramadori, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, viale delle
Milizie, 9;
i signori Adelaide Arduini, Stefania Ascanio, Claudio Bonini, Mario Bonini,
Augusto Bussoletti, Michele Cacchione, Fabio Canestrelli, Ilaria Canestrelli,
Ernesta Cardini, Sonia Cerenza, Alessandro Coniglio, Andrea Elisabeth Dane,
Ofelia De Cataldo, Angelo Di Muzio, Vittorio Dullio Dini, Stefania Fante,
Daniele Ferrini, Daniele Filosi, Carlo Gelsi, Vincenzo Gelsi, Pasquale
Iervolino, Gabriele Kielmann, Giambattista Francesco Lucarelli, Antonio Maffia,
Fiorella Marmeggi, Gabriello Mattera, Maria Menheere Petronella, Filippo
Mezzapelle, Domenico Montoro, Marta Murzi, Mauro Palombelli, Paolo Piccolo,
Franco Picozzi, Massimo Prosperi, Cesare Romano, Maria Civita Romano, Olivia
Rubini, Antonella Sarlo, Claudio Sposato, Nicola Sposato, Tommaso Claudio
Torrillo, Roberto Traon, non costituiti in giudizio nel presente grado;
nei confronti di
Comune di Aprilia, Comune di Campo nell’Elba, Comune
di Capoliveri, Comune di Cisterna di Latina, Comune di Mazzano Romano, Comune
di Porto Azzurro, Comune di Rio Marina, Comune di Sermoneta, Comune di Cori,
Comune di Latina, Comune di Velletri e Regione Lazio, non costituiti in
giudizio nel presente grado;
Regione Toscana, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa
dagli avvocati Lucia Bora e Fabio Ciari, con domicilio eletto presso lo studio
dell’avvocato Marcello Cecchetti in Roma, via Antonio Mordini, 14;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA, SEZIONE II-BIS,
n. 665/2012, resa tra le parti, concernente: annullamento delle ordinanze
d’urgenza adottate dai Comuni intimati; adozione delle necessarie misure ai
sensi dell’art. 34, comma 1, lett. b), cod. proc. amm.; risarcimento del danno
arrecato ai ricorrenti di primo grado dal comportamento anche omissivo delle
Amministrazioni intimate, da valutare in via equitativa in relazione alla
mancata riduzione delle tariffe, alle spese vive sostenute, al danno biologico
ed al danno morale;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti
appellate;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 29 gennaio
2013, il Cons. Bernhard Lageder e uditi, per le parti, l’avvocato dello Stato
Vincenzo Rago e gli avvocati Rienzi, Ramadori e Marcello Cecchetti,
quest’ultimo per delega dell’avvocato Bora;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con la sentenza in epigrafe, il T.a.r. per il Lazio
pronunciava definitivamente sul ricorso n. 3446 del 2011, proposto dal Coordinamento
di associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti utenti e consumatori - Codacons,
dall’Associazione utenti dei servizi pubblici e da numerosi utenti
del servizio idrico avverso le ordinanze d’urgenza, con le quali i sindaci dei
numerosi Comuni menzionati in epigrafe – in attuazione del decreto
interministeriale del 24 novembre 2010 (Disciplina concernente le deroghe
alle caratteristiche di qualità delle acque destinate al consumo umano che
possono essere disposte dalle regioni Campania, Lazio, Lombardia e Toscana),
a sua volta adottato in ottemperanza alla decisione della Commissione europea
C(2010) 7605 del 28 ottobre 2010 – avevano dichiarato la non potabilità e
inibito l’uso delle acque destinate al consumo umano fino al ripristino della
potabilità (prevedendo, in alcuni casi, la somministrazione dell’acqua
destinata al consumo umano con mezzi alternativi, ad. es. autobotti), nella
parte in cui avevano omesso di prevedere la riduzione delle tariffe per il
consumo dell’acqua potabile, tenuto conto dell’erogazione di un servizio
inadeguato e non pienamente funzionale al suo scopo.
Il ricorso era, inoltre, diretto ad ordinare alle
Amministrazioni coinvolte, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. b), cod. proc.
amm., l’adozione delle misure atte ad eliminare la contaminazione naturale
arsenica dall’acqua potabile in conformità alle disposizioni europee, a
salvaguardia degli utenti, ed a condannare i Ministeri competenti al riesame
dei criteri per una rideterminazione al ribasso della tariffa base dell’acqua,
proporzionalmente alla impossibilità parziale di erogazione del servizio in
ragione della sopravvenuta non potabilità.
Infine, i ricorrenti avevano proposto domanda di
condanna dei Ministeri e delle Regioni resistenti, previo accertamento delle
correlative responsabilità, al risarcimento dei danni subiti in qualità di
utenti del servizio idrico, in quanto esposti alla distribuzione, nei periodi
di deroga agli standard comunitari di cui si era avvalso lo Stato italiano, di
acqua destinata al consumo umano e come tale considerata nei canoni di legge
quanto ai limiti di concentrazione, in falda, dei minerali presenti nel sottosuolo
vulcanico del territorio italiano (in particolare dell’arsenico), ma priva dei
necessari requisiti posti a tutela della salute umana.
Il T.a.r., in particolare, provvedeva come segue:
(i) respingeva l’eccezione di carenza di
legittimazione attiva dei ricorrenti, affermandone la sussistenza sia in capo
agli enti collettivi Codacons (in forza delle previsioni statutarie e degli
artt. 13 e 18 l. 8 luglio 1986, n. 349, richiamando altresì, ad
colorandum, il combinato disposto degli artt. 137 e 2 d.lgs. 6 settembre
2005, n. 206) ed Associazione utenti dei servizi pubblici (in virtù delle
relative previsioni statutarie), sia in capo ai privati che agivano quali
singoli utenti;
(ii) respingeva l’eccezione di difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia,
rilevando che questa atteneva non già alla determinazione della tariffa finale
per l’utente ed a singoli rapporti individuali d’utenza, bensì alla stessa
individuazione e qualificazione autoritativa dell’idoneità del servizio
pubblico in esame sotto il profilo della pubblica salute, oltre che alla
verifica dell’eventuale lesione del diritto alla salute conseguente all’errata
disciplina pubblicistica del medesimo servizio, e dunque alle scelte
discrezionali dell’Amministrazione in ordine alla determinazione del canone e
all’organizzazione del servizio, ed affermando di conseguenza la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera
c), cod. proc. amm.;
(iii) respingeva l’eccezione di inammissibilità del
ricorso per carenza di interesse, affermando la sussistenza di un interesse
concreto, differenziato ed attuale in capo ai ricorrenti, associazioni ed
utenti, alla decisione delle domande giudiziali proposte, da un lato, nel ruolo
di statutaria rappresentanza degli interessi della generalità degli utenti e,
dall’altro, in qualità di diretti utenti, ed in entrambi i casi non concernenti
direttamente le modalità di prestazione del servizio all’utente finale, bensì
il legittimo esercizio dei poteri autoritativi della pubblica autorità relativi
alla disciplina del servizio pubblico in esame, sotto i plurimi profili del
rispetto della vigente normativa (e non delle specifiche condizioni
contrattuali) circa la idoneità (più che la qualità) del servizio prestato, e
circa la necessaria tutela del diritto alla salute esposto a rischio,
escludendo altresì qualsiasi profilo di tardività con riferimento alla mancata
tempestiva impugnazione del decreto ministeriale del 21 novembre 2010 sulla
base del rilievo che la competenza in materia tariffaria competeva
esclusivamente agli enti locali, i cui provvedimenti erano stati
tempestivamente impugnati [fermi i poteri dell’Amministrazione centrale di
predisporre i relativi criteri, ossia, di adottare il c.d. metodo normalizzato
per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa
di riferimento del servizio idrico integrato di cui al d.m. 1 agosto 1996,
emanato in attuazione dell’art. 13 l. 5 gennaio 1994, n. 36, e fatto salvo, in
regime transitorio, dall’art. 170, comma 3, lett. l), d.lgs. 3 aprile 2006, n.
152];
(iv) in reiezione della correlativa eccezione,
affermava la sussistenza della legittimazione passiva in capo a tutte le
Amministrazioni intimate;
(v) respingeva la domanda di annullamento delle
ordinanze, con cui i Comuni resistenti avevano disposto la non potabilità e
l’inibizione dell’uso delle acque destinate al consumo umano, nella parte in
cui non avevano previsto una riduzione delle tariffe per il consumo dell’acqua
potabile, e la connessa domanda di inibire, ai sensi dell’art. 140 d.lgs. n.
206 del 2005, gli atti e i comportamenti tenuti dalle Amministrazioni
resistenti e, per l’effetto, di ordinare alle stesse di porre in essere le
attività di propria competenza, al fine di consentire la determinazione al
ribasso delle tariffe oggi praticate dalle autorità d’ambito in favore degli
abitanti di tutti i comuni in cui l’acqua era stata espressamente dichiarata
non potabile, con fissazione delle modalità esecutive ai sensi dell’art. 34,
comma 2, lett. e), cod. proc. amm., rilevando che i poteri d’urgenza ex art. 32
l. 23 dicembre 1978, n. 833, attivati con gli impugnati provvedimenti, non
potevano estendersi alle previsioni tariffarie, estranee al relativo ambito
applicativo, e che i comuni non erano direttamente competenti a variare le
tariffe in esame, rientrando le relative funzioni, secondo la disciplina
applicabile ratione temporis (artt. 148 e 154 d.lgs. n. 152 del 2006),
nell’esclusiva competenza delle autorità d’ambito, munite di autonoma
personalità giuridica e dunque soggettivamente distinte dalle Amministrazioni
comunali che pure vi aderivano, e comunque, tenuto conto che al tempo delle
diffide intimate dal Codacons alle Amministrazioni regionali e locali erano
tenute al rispetto del c.d. metodo normalizzato di determinazione delle tariffe
fissato in ambito nazionale, né la domanda poteva trovare accoglimento nei
confronti dello Stato e delle Regioni, “alla stregua della disciplina
sopravvenuta al recente referendum abrogativo, che impone ai ricorrenti di
riformulare la domanda e se del caso di ricorrere contro il diniego o il
silenzio, fermo restando che in nessun modo la riduzione della tariffa attuale
(che va parametrata al servizio oggi fornito) potrà tener conto di eventuali
limitazioni passate del servizio (che potrebbero casomai motivare eventuali
richieste indennitarie o risarcitorie)” (v. così, testualmente, l’impugnata
sentenza);
(vi) respingeva la domanda risarcitoria in relazione
ai periodi 2004-2006 e 2007-2009, per i quali le Regioni e le Provincie
autonome coinvolte dal fenomeno della contaminazione naturale da arsenico delle
falde acquifere potabili (cinque Regioni e le due Province autonome) erano
state autorizzate, con una serie di decreti ministeriali adottati dal Ministero
dell’ambiente congiuntamente al Ministero della salute, ad avvalersi della
facoltà di deroga nazionale ai valori massimi stabiliti dal d.lgs. 2 febbraio
2001, n. 31, di recepimento della direttiva 98/83/CE (il cui art. 12 prevedeva
tale facoltà di deroga), sulla base dei seguenti rilievi:
- non potevano essere ravvisati né uno specifico
profilo di antigiuridicità per violazione di disposizioni giuridiche o di norme
tecniche o di cautela, né un particolare profilo di colpevolezza sub specie di
dolo o di colpa nella valutazione dell’interesse pubblico sanitario, in capo
alle amministrazioni resistenti, le quali, nell’attuare (ciascuna per quanto di
competenza) la citata disciplina armonizzata concernente la qualità delle acque
destinate al consumo umano, avevano attivato l’istituto della possibile deroga
ai previsti limiti di concentrazione di talune sostanze tossiche e nocive in
relazione alle criticità più rilevanti di contaminazione naturale delle falde
acquifere, con riferimento fra l’altro alla concentrazione massima di arsenico
pari a 10 μg/l (microgrammi per litro), e le quali, nei trienni in questione,
avevano adottato il valore massimo di 50 μg/l ammesso dalla previgente
disciplina nazionale (d.P.R. 24 maggio 1988, n. 236) ai fini dell’ottemperanza
all’obbligo di rispettare comunque un valore massimo ammissibile (qualora, come
nel caso di specie, non fosse stato possibile rispettare provvisoriamente il
nuovo limite e neppure fosse stato possibile l’approvvigionamento dell’acqua
potabile con altro mezzo congruo, e purché ciò non rappresentasse un potenziale
pericolo per la salute umana);
- in presenza di una disciplina armonizzata a livello
comunitario, che dichiaratamente assicurava una tutela esaustiva di un
particolare profilo sanitario, il principio di precauzione doveva ritenersi
assorbito dalla medesima disciplina, con la conseguente legittimità delle
attività nazionali svolte in ottemperanza a tali previsioni, sicché era
precluso il richiesto risarcimento del danno in relazione alla prestazione del
servizio idrico in conformità alla vigente disciplina nazionale e comunitaria
nei trienni di operatività della deroga, né appariva ammissibile alcuna rivalsa
risarcitoria nei confronti degli enti locali per la mancata parametrazione delle
tariffe alla diminuita qualità del servizio, in quanto una tale possibilità era
loro preclusa dal c.d. metodo normalizzato [v. sopra sub (v)];
(vii) accoglieva, nei confronti delle sole resistenti
Amministrazioni statali (mentre riteneva insussistente ogni responsabilità
delle Amministrazioni regionali e locali), parzialmente la domanda risarcitoria
proposta in relazione al periodo successivo al diniego di deroga per il terzo
triennio 2010-2012, opposto dalla Commissione europea con la decisione del 28 ottobre
2010 all’istanza del 13 novembre 2009 – con cui le Autorità italiane avevano
richiesto l’ottenimento dell’ultimo periodo di deroga al limite massimo
consentito dalla legge per l’arsenico nell’acqua (da l0 μg/l fino a 50 μg/l, in
relazione alle varie realtà territoriali) per 128 comuni, di cui 91 nel Lazio,
8 in Lombardia, l0 nelle Province autonome di Trento e Bolzano, 16 in Toscana e
3 in Umbria, interessando circa un milione di utenti (1.009.455 persone,
secondo i ricorrenti) –, sulla base delle seguenti premesse e rilievi:
- la decisione comunitaria del 28 ottobre 2010, resa
nota il 5 novembre 2010, in applicazione del principio di precauzione aveva
evidenziato il pur solo potenziale rischio sanitario che, in relazione alla
gravità delle conseguenze (“talune forme di tumore”) ed alla entità e
tipologia dei soggetti esposti (un milione di consumatori, con particolari
rischi “soprattutto per i neonati” ed “i bambini fino all’età di tre
anni”), aveva impedito ogni ulteriore possibile deroga oltre la soglia di
20 μg/l, escludendola del tutto per i minori di tre anni ed imponendo
un’attività sia di informazione di tutti gli utenti circa i rischi per i
bambini fino a tre anni, sia di progressivo adeguamento e monitoraggio con
relazioni periodiche sui progressi compiuti, a partire dalla prima relazione
che doveva intervenire entro il 28 febbraio 2011;
- dunque, a decorrere dal 5 novembre 2010 e fino alla
data di proposizione del ricorso introduttivo del giudizio, doveva essere
vagliata la conformità dell’attività di tutte le Amministrazioni intimate,
quale ricostruibile sulla base dell’esame dell’imponente e complessa
documentazione acquisita in esito a correlativa ordinanza istruttoria, al
principio di precauzione riferito agli importanti rischi sanitari evidenziati
dalla Commissione europea alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche
ancora in attesa di conferma, “e ciò del tutto indipendentemente sia dalla
mancata precedente attivazione delle pur possibili proroghe, sia dall’eventuale
effettivo verificarsi di specifiche lesioni in danno di specifici soggetti”
(v. così, testualmente, l’appellata sentenza);
- alla luce dell’esame dell’acquisito materiale
istruttorio, doveva pervenirsi alla conclusione che tutte le resistenti
Amministrazioni regionali e locali avevano sostanzialmente adempiuto, pur in
tempi e modi diversi, ai propri obblighi relativi alla gestione ed
all’adeguamento del servizio idrico, al monitoraggio ed alla segnalazione delle
criticità relative alla presenza di sostanze tossiche ed all’adozione,
nell’ambito delle disponibilità di bilancio, delle misure informative della
popolazione, delle misure temporanee sostitutive per la fornitura di acqua
potabile e per la progressiva conformazione del servizio idrico alle nuove
prescrizioni, né i ricorrenti avevano allegato principi di prova contrastanti
con le predette conclusioni;
- invece, a conclusioni diverse si prestava l’esame
dell’attività delle Amministrazioni centrali della sanità e dell’ambiente, le
quali, pur in prossimità della scadenza del secondo periodo triennale di deroga
e nelle ulteriori more del necessario parere della Commissione europea ai fini
di un non certo terzo periodo di deroga (in effetti poi consentito solo in
minima parte), non risultavano aver adottato iniziative specifiche, adeguate e
proporzionate alla diffusione, alla gravità ed all’urgenza del problema, alla
stregua di un parametro di buon andamento dell’attività amministrativa ed alla
luce delle più recenti acquisizioni scientifiche sui rischi sanitari connessi,
dando solo dopo 73 giorni dalla comunicazione, in data 5 novembre 2010, della
decisione comunitaria del 28 ottobre 2010, concreta ed imperativa attuazione al
disposto della Commissione europea che, in applicazione del principio di
prevenzione, aveva espressamente limitato ed in alcuni casi (per i bambini fino
a tre anni) vietato del tutto la deroga ai valori massimi di arsenico
nell’acqua destinata al consumo umano da tempo disposta dalle Autorità
italiane, in quanto potenzialmente cancerogeno, intervenendo solo un mese circa
prima del termine assegnato all’Italia dalla medesima Commissione europea per
la presentazione della prima relazione periodica sui risultati delle azioni
intraprese per il superamento della situazione;
- non era pertanto possibile escludere che l’attività
svolta dalle competenti Amministrazioni centrali dello Stato italiano nel dare
adempimento alla citata decisione comunitaria avesse concretato una violazione
dei principi di buon andamento e imparzialità, economicità, efficacia, pubblicità
e trasparenza, tanto più ineludibili al fine di prevenire rischi sanitari solo
ipotetici ma molto gravi in danno di soggetti particolarmente esposti ed
indifesi quali i bambini fino a tre anni, configurando in tal modo una condotta
illegittima ascrivibile ad un atteggiamento colposo, in quanto non rispettoso
della buona azione amministrativa alla stregua dei criteri di ragionevolezza,
proporzionalità ed adeguatezza;
(viii) in punto di quantum debeatur, nulla
riconosceva a titolo di danni derivati dalla mancata riduzione delle tariffe
[per le ragioni in diritto esposte sub (v)] ed a titolo di
danni patrimoniali (per carenza di ogni correlativo principio di prova),
mentre, per il “danno non patrimoniale complessivamente risarcibile, a
titolo di danno biologico, morale ed esistenziale, per l’aumento di probabilità
di contrarre gravi infermità in futuro e per lo stress psico-fisico e
l’alterazione delle abitudini di vita personali e familiari conseguenti alla
ritardata ed incompleta informazione del rischio sanitario”, liquidava, in
via equitativa, in favore di ciascuna delle singole persone fisiche ricorrenti,
quali utenti del servizio idrico esposti ad un fattore di rischio in
conseguenza della condotta illecita delle Amministrazioni statali, l’importo
risarcitorio di euro 100,00, oltre agli accessori (mentre i ricorrenti avevano
chiesto un importo risarcitorio di euro 600,00 in favore di ogni persona fisica
ricorrente);
(ix) in parziale accoglimento del ricorso, condannava
dunque i due Ministeri, in solido tra di loro, al risarcimento dei danni, nella
misura sopra liquidata, “in favore di ciascun ricorrente persona fisica
quale utente alla data del 28 ottobre 2010, del servizio idrico in area
territoriale caratterizzata, alla medesima data, dalla presenza di arsenico
nell’acqua erogata in percentuali superiori a 20 μg/l” (v. così,
testualmente, la parte dispositiva dell’appellata sentenza);
(x) dichiarava le spese di causa interamente
compensate tra tutte le parti.
2. Avverso tale sentenza interponevano appello le
Amministrazioni statali soccombenti (il Ministero dell’ambiente e il Ministero
della salute), premettendo che avverso l’articolato decreto ministeriale del 24
novembre 2010, di attuazione della decisione comunitaria del 28 ottobre 2010,
non era stata proposta alcuna impugnazione, e deducendo i motivi d’impugnazione
come di seguito testualmente rubricati:
a) “Violazione del combinato disposto degli artt.
115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., dell’art. 2043 c.c., nonché dei principi
di cui alla legge n. 241/1990 e successive integrazioni e modificazioni.
Mancanza di prova del nesso causale (legittimità dell’azione amministrativa
fino al 28 ottobre 2010): i limiti di arsenico previsti dalla Commissione
Europea erano stati rispettati e il provvedimento di adeguamento alla decisione
della Commissione Europea è stato tempestivo, emanato in tempi ragionevoli, in
data 24 novembre 2010, anche alla luce dei principi di cui alla legge n.
241/1990 e successive modificazioni, della c.d. trasparenza dell’azione
amministrativa che prevedono un termine di 30 giorni per la definizione di un
procedimento amministrativo. Insussistenza di una responsabilità colpevole
delle Amministrazioni appellanti. Difetto di motivazione”;
b) “Insussistenza di un comportamento colpevole del
Ministero: difetto di legittimazione passiva del Ministero in ordine ai
comportamenti ritenuti erroneamente dannosi dal TAR; violazione dei principi di
cui al d.lg.vo n. 31/2001; erronea interpretazione delle conseguenze della
emanazione della decisione della Commissione europea del 28 ottobre 2010”;
c) “Erroneo rigetto della eccezione di
inammissibilità del ricorso per carenza di interesse e per mancata impugnazione
del decreto interministeriale del 24 novembre 2010. Insussistenza della colpa e
mancata, tempestiva impugnazione di un provvedimento amministrativo. Insussistenza
di una responsabilità colpevole delle Amministrazioni appellanti”;
d) “Violazione dei principi della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo: impossibilità di entrare nel merito delle
scelte discrezionali della pubblica amministrazione. Incensurabilità del
“merito” dell’azione amministrativa (la giurisdizione esclusiva è pur sempre
una giurisdizione di legittimità). Insussistenza di un comportamento colpevole
delle Amministrazioni statali”;
e) “Mancanza di prova dei danni morali. Violazione degli
artt. 2697 e 2043 c.c.. Erronea motivazione del tutto incongrua”.
Le Amministrazioni statali appellanti chiedevano
dunque, previa sospensione della provvisoria esecutorietà dell’appellata
sentenza e in sua riforma, la reiezione dell’avversario ricorso di primo grado,
con vittoria di spese.
3. Si costituivano in giudizio il Codacons,
l’Associazione Utenti dei Servizi Pubblici ed alcuni degli
originari ricorrenti, contestando la fondatezza dell’appello principale e
proponendo, a loro volta, appello incidentale contro le statuizioni ad essi
sfavorevoli, affidato ai seguenti motivi:
a) l’erronea esclusione della responsabilità dei
Ministeri dell’ambiente e della salute, in solido con le Regioni resistenti in
primo grado, per i danni causati a decorrere dal 2004, e dunque da epoca
ampiamente anteriore al 28 ottobre 2010, nonché l’erronea mancata estensione
della condanna risarcitoria in favore di tutti i ricorrenti di primo grado, in
particolare in favore “degli utenti che alla data del 28 ottobre 2010 non abitavano
in area territoriale caratterizzata, alla medesima data, dalla presenza di
arsenico nell’acqua erogata in percentuali superiori a 20 microgrammi al litro”,
sotto il profilo che, “al di là di qualsiasi deroga consentita dalla legge
per valori superiori al limite di 10 microgrammi per litro, la dannosità
dell’arsenico nell’acqua destinata al consumo umano è riscontrabile anche in
presenza di percentuali inferiori ai 20 microgrammi al litro” (v. così,
testualmente, l’appello incidentale);
b) l’erroneo mancato accoglimento della domanda “di
voler inibire, ai sensi dell’art. 140 del Codice del consumo, gli atti e i
comportamenti tenuti dalle Amministrazioni odierne resistenti e, per l’effetto,
di voler ordinare alle stesse di attivarsi nel porre in essere le attività di
propria competenza, al fine di risolvere concretamente il problema
dell’arsenico nei comuni interessati dalla decisione dell’UE”, anche sulla
base del rilievo che le deroghe andavano considerate come strumento finalizzato
alla soluzione dei problemi di contaminazione, sicché, una volte ottenute,
dovevano essere adottati “tutti gli interventi utili a tornare il prima
possibile a distribuire acqua potabile e di buona qualità”;
c) l’erroneo rigetto della domanda volta ad ordinare al
Ministero competente, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. b), cod. proc.
amm., di provvedere al riesame dei criteri per la determinazione delle tariffe
base in funzione di una loro riduzione, nonché l’erroneo rigetto della domanda
di annullamento delle ordinanze sindacali d’urgenza di non potabilità
dell’acqua, lesive dell’art. 154 d.lgs. n. 152 del 2006, laddove non avevano
previsto l’abbassamento delle tariffe dell’acqua, in conseguenza del venir meno
della qualità del servizio erogato;
d) l’erroneo mancato accoglimento integrale della
domanda risarcitoria fino all’importo di euro 600,00 per ciascuna persona
fisica ricorrente (di cui euro 100,00 da commisurarsi al consumo medio
dell’acqua potabile, a titolo di danno patrimoniale da mancata riduzione della
tariffa, ed i restanti 500,00 euro a titolo di danno patrimoniale per la spesa
sostenuta per l’acquisto di bottiglie di acqua minerale o per ricorrere a
strumenti di depurazione casalinghi, a titolo di danno biologico ed a titolo di
danno morale).
Gli appellanti incidentali chiedevano dunque, in
parziale riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento integrale delle
domande proposte col ricorso di primo grado, con vittoria di spese.
4. Si costituiva in giudizio l’appellata Regione
Toscana, resistendo. L’appellata assumeva di aver sempre rispettato, nel
proprio ambito territoriale, i limiti (in deroga) di legge, avendo ottenuto le
necessarie deroghe sia da parte del Ministero sia da parte della Commissione
europea.
5. Non si sono costituiti nel presente grado di
giudizio i Comuni appellati e la Regione Lazio.
6. Accolta con ordinanza n. 3050 del 31 luglio 2012
l’istanza di sospensiva, la causa veniva trattenuta in decisione all’udienza
pubblica del 29 gennaio 2013.
7. Ritiene la Sezione che l’appello principale è
fondato, mentre destituito di fondamento è l’appello incidentale.
7.1. Al fine di delimitare l’oggetto del thema
decidendum del presente giudizio d’appello, tenuto conto dei limiti
deldevolutum, giova premettere, in linea pregiudiziale di rito, che non
risultano specificamente impugnate le statuizionisub 1.(i)
(reiettiva dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo ai
ricorrenti) e sub 1.(ii) (reiettiva dell’eccezione di difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo), con la conseguenza che ogni
relativa questione è, ormai, preclusa per effetto della formazione del
giudicato endoprocessuale sui rispettivi capi della sentenza.
Giova, al riguardo, precisare che il quarto motivo
d’appello principale – con cui le Amministrazioni appellanti censurano
l’impugnata sentenza sotto il profilo che il T.a.r., nella valutazione
dell’elemento soggettivo della colpevolezza, avrebbe travalicato i limiti del
giudizio di legittimità e sarebbe entrato a vagliare il merito delle scelte
discrezionali dell’amministrazione – non si dirige avverso la statuizione
affermativa della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art.
133, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., ma ha ad oggetto l’asserita violazione
dei limiti interni posti ai poteri di cognizione del giudice amministrativo nel
sindacato sull’azione amministrativa, e dunque non è idoneo ad intaccare la
statuizione sub 1.(ii).
7.2. In via pregiudiziale di rito il Collegio rileva
che, per motivi di economia processuale, si può prescindere dall’esame delle
eccezioni processuali di inammissibilità del ricorso originario per carenza
d’interesse e di difetto di legittimazione passiva, attesa l’infondatezza nel
merito del ricorso per le ragioni esposte di seguito.
7.3. Prima di affrontare i singoli motivi d’appello,
dedotti in via principale ed incidentale, giova esporre brevemente il contesto
normativo, comunitario e nazionale, e fattuale, in cui si colloca la presente
controversia.
7.3.1. La direttiva 98/83/CE, finalizzata a tutelare
la salute umana da rischi chimici e microbiologici correlati al consumo delle
acque, ha stabilito ‘valori parametrici’ specifici per diversi fattori di
rischio, adeguati a garantire che le acque possano essere consumate in
condizioni di sicurezza nell’intero arco della vita.
Tali fattori sono presi comunque in considerazione
dalla direttiva, anche se i ‘fattori di rischio’ non sono conseguenza di
attività umane (quali le attività produttive, inquinanti et similia),
ma sono strettamente connaturati alle caratteristiche morfologiche e geologiche
dei luoghi: nella specie, rilevano i particolari ‘valori parametrici’ delle
acque tratte dal sottosuolo, caratterizzate da una anomala – ma del tutto
‘naturale’ – presenza di arsenico nella falda del sottosuolo vulcanico.
I valori massimi – anche quelli riguardanti l’arsenico
– sono stati fissati dalla direttiva principalmente sulla base degli
orientamenti e ‘valori guida’ stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS) per la qualità dell’acqua potabile, adottando, in taluni casi,
criteri anche più conservativi. I ‘valori guida’ rappresentano la
concentrazione massima di un contaminante tale da assicurare un consumo sicuro
dell’acqua nell’intero arco di una vita, tenendo conto anche delle fasce di
popolazione più vulnerabili. Secondo quanto indicato dalla stessa OMS, il
superamento di un ‘valore guida’ può non comportare un rischio o un aumento di
rischio significativo per la salute umana, e le deviazioni dei valori al di
sopra di ‘valori guida’, sia nel breve che nel lungo periodo, non indicano
necessariamente la non idoneità dell’acqua al consumo. L’entità del superamento
ed il periodo, per il quale il ‘valore guida’ può essere superato senza effetti
sulla salute pubblica, devono essere valutate a seconda della specifica sostanza.
7.3.2. Su queste basi, la stessa direttiva ha previsto
espressamente che gli Stati membri potessero stabilire deroghe ai valori di
parametro, purché la deroga non presentasse un rischio per la salute umana, che
l’approvvigionamento delle acque potabili nella zona interessata non potesse
essere mantenuto con nessun altro mezzo congruo, che la deroga avesse durata
più breve possibile e fosse concessa dallo Stato membro al massimo per due
successivi trienni, con la possibilità di rinnovare la deroga per un ulteriore
periodo di tre anni, previo parere favorevole della Commissione Europea.
Infatti, per quanto qui interessa, l’art. 9 della
citata direttiva, recante la rubrica “Deroghe”, recita testualmente:
“1. Gli Stati membri possono stabilire deroghe ai
valori di parametro fissati nell'allegato I, parte B o a norma dell'articolo 5,
paragrafo 3, fino al raggiungimento di un valore massimo che essi stabiliscono,
purché nessuna deroga presenti un potenziale pericolo per la salute umana e
l'approvvigionamento delle acque destinate al consumo umano nella zona
interessata non possa essere mantenuto con nessun altro mezzo congruo. Le
deroghe devono avere la durata più breve possibile, non superiore a un periodo
di tre anni; verso la fine di tale periodo occorre procedere ad un riesame al
fine di stabilire se siano stati compiuti sufficienti progressi. Qualora
intenda concedere una seconda deroga, uno Stato membro comunica alla
Commissione i risultati di tale riesame, unitamente alle motivazioni della sua
decisione in merito alla seconda deroga. Quest'ulteriore deroga non può essere
superiore a tre anni.
2. In circostanze eccezionali uno Stato membro può
chiedere alla Commissione una terza deroga per un periodo fino a tre anni. La
Commissione decide in merito a tale richiesta entro tre mesi. (…).
6. Lo Stato membro che si avvale delle deroghe di cui
al presente articolo provvede affinché la popolazione interessata sia
tempestivamente informata, secondo le modalità opportune, della deroga
applicata e delle condizioni che la disciplinano. Ove occorra, lo Stato membro
provvede inoltre a fornire raccomandazioni a gruppi specifici di popolazione
per i quali la deroga possa costituire un rischio particolare. (…)”.
L’art. 13 d.lgs. n. 31 del 2001, intitolato “Deroghe”,
in recepimento del correlativo istituto di derivazione comunitaria, statuisce
testualmente:
“1. La regione o provincia autonoma può stabilire
deroghe ai valori di parametro fissati nell'allegato I, parte B, o fissati ai
sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera b), entro i valori massimi ammissibili
stabiliti dal Ministero della sanità con decreto da adottare di concerto con il
Ministero dell'ambiente, purché nessuna deroga presenti potenziale pericolo per
la salute umana e sempreché l'approvvigionamento di acque destinate al consumo
umano conformi ai valori di parametro non possa essere assicurato con nessun
altro mezzo congruo.
2. Il valore massimo ammissibile di cui al comma 1 è
fissato su motivata richiesta della regione o provincia autonoma, corredata
dalle seguenti informazioni:
a) motivi della richiesta di deroga con indicazione
della causa del degrado della risorsa idrica;
b) i parametri interessati, i risultati dei controlli
effettuati negli ultimi tre anni, il valore massimo ammissibile proposto e la durata
necessaria di deroga;
c) l'area geografica, la quantità di acqua fornita
ogni giorno, la popolazione interessata e gli eventuali effetti sulle industrie
alimentari interessate;
d) un opportuno programma di controllo che preveda, se
necessario, una maggiore frequenza dei controlli rispetto a quelli minimi
previsti;
e) il piano relativo alla necessaria azione
correttiva, compreso un calendario dei lavori, una stima dei costi, la relativa
copertura finanziaria e le disposizioni per il riesame.
3. Le deroghe devono avere la durata più breve
possibile, comunque non superiore ad un periodo di tre anni. Sei mesi prima
della scadenza di tale periodo, la regione o la provincia autonoma trasmette al
Ministero della sanità una circostanziata relazione sui risultati conseguiti,
ai sensi di quanto disposto al comma 2, nel periodo di deroga, in ordine alla
qualità delle acque, comunicando e documentando altresì l'eventuale necessità
di un ulteriore periodo di deroga.
4. Il Ministero della sanità con decreto da adottare
di concerto con il Ministero dell'ambiente, valutata la documentazione
pervenuta, stabilisce un valore massimo ammissibile per l'ulteriore periodo di
deroga che potrà essere concesso dalla regione. Tale periodo non dovrà,
comunque, avere durata superiore ai tre anni.
5. Sei mesi prima della scadenza dell'ulteriore
periodo di deroga, la regione o provincia autonoma trasmette al Ministero della
sanità un'aggiornata e circostanziata relazione sui risultati conseguiti.
Qualora, per circostanze eccezionali, non sia stato possibile dare completa
attuazione ai provvedimenti necessari per ripristinare la qualità dell'acqua,
la regione o la provincia autonoma documenta adeguatamente la necessità di un
ulteriore periodo di deroga.
6. Il Ministero della sanità con decreto di concerto
con il Ministero dell'ambiente, valutata la documentazione pervenuta, previa
acquisizione del parere favorevole della Commissione europea, stabilisce un
valore massimo ammissibile per l'ulteriore periodo di deroga che non deve essere
superiore a tre anni. (…)”.
La ratio sottesa all’istituto della
deroga, disciplinato dall’art. 9 della direttiva 98/83/CE (e recepito dall’art.
13 d.lgs. n. 31 del 2001), è da individuarsi nell’esigenza di gestire una
situazione di superamento di valori per determinati parametri, correlabile alla
presenza nelle acque di elementi minerali di origine geologica, con il miglior
compromesso in termini di rischi-benefici, tenendo in particolare conto i
rischi connessi alla limitazione d’uso o alla sospensione della distribuzione
idrica; nel contempo, la concessione della deroga è subordinata alla previsione
ed alla implementazione delle misure necessarie a migliorare la qualità
dell’acqua nel tempo, in un regime di costante sorveglianza.
7.3.3. Con riguardo alla sostanza dell’arsenico, la
direttiva 98/83/CE, recepita con il d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 31 (Attuazione
della direttiva 98/83/CE relativa alla qualità delle acque destinate al consumo)
– entrato in vigore alla fine dell’anno 2003 –, ha imposto valori di parametro
sensibilmente più restrittivi, passando dal valore di 50 µg/l, previsto dalla
preesistente direttiva 80/778/CE (recepita dal d.P.R. 24 maggio 1988, n. 236),
a 10 μg/l.
La non conformità delle acque destinate al consumo
umano alle previsioni della direttiva vigente è risultata quindi non da un
deterioramento della qualità dell’acqua di origine, ma dall’evoluzione della
normativa che ha progressivamente ridotto i valori parametrici al fine di
incrementare il livello di protezione dei consumatori; la normativa comunitaria
(così come quella nazionale) ha assunto la missione di migliorare la qualità
delle acque, a favore delle popolazioni che – in assenza della normativa di
protezione – avrebbero continuato ad utilizzare e ad assumere, presumibilmente
come le precedenti generazioni, acque potenzialmente lesive per la salute.
È, dunque, incontestato, che la richiesta delle
deroghe da parte italiana è ascrivibile alle particolari condizioni geologiche
sussistenti in diversi territori che determinano la presenza naturale
dell’arsenico negli acquiferi destinati alla erogazione di acque potabili, e
non già a fenomeni di inquinamento determinate da attività umane, di cui
avrebbero dovuto senz’altro rispondere i responsabili.
7.3.4. Per quanto qui interessa, nei trienni 2004-2006
e 2007-2009 cinque Regioni e le due Province autonome erano state autorizzate,
con una serie di decreti ministeriali adottati dal Ministero dell’ambiente
congiuntamente al Ministero della salute, ad avvalersi della facoltà di deroga
con riguardo ai valori massimi ammissibili (VMA), stabiliti, per l’arsenico –
sulla base di una valutazione tecnico-scientifica effettuata dal Consiglio
superiore della sanità e dall’Istituto superiore di sanità –, in misura pari a
50 µg/l, uguale a quello della normativa comunitaria e nazionale preesistente
(direttiva 80/778/CE, recepita dal d.P.R. n. 236 del 1988).
7.3.5. Al termine del secondo periodo di deroga, il
Ministero della salute, con nota 13 novembre 2009, ha chiesto il parere della
Commissione europea per ottenere il terzo periodo di deroga, per il triennio
2010-1012, con riguardo ad alcune aree di quattro Regioni (Lombardia, Toscana,
Lazio, e Umbria) e delle due Provincie autonome (Trento e Bolzano), per una
popolazione complessiva di ca. 1.000.000 di abitanti, per un periodo variabile
da alcuni mesi fino a 3 anni con valori richiesti in deroga di 15, 20, 30, 40 o
50 µg/l, a seconda delle circostanze, motivata dalla necessità di completare
azioni correttive complesse finalizzate a garantire la conformità delle acque
nel lungo periodo e comportanti, in alcuni casi, il riassetto dell’intero
sistema di distribuzione idrica del territorio, con reperimento di nuove
risorse idriche da destinare al consumo umano, ovvero l’adozione di trattamenti
di scala o di carattere più o meno localizzato.
La valutazione della richiesta di deroga, avanzata dal
Ministero della salute alla Commissione europea nel novembre 2009 e
perfezionata nel febbraio 2010, è stata istruita e compiuta nel corso di più di
nove mesi, durante i quali è stata attentamente considerata la sussistenza di
tutti gli elementi richiesti dalla normativa europea ai fini dell’adozione dei
provvedimenti di deroga, con richiesta di un parere allo Scientific
Committee on Health and Environmental Risks - SCHER.
La Commissione, in base ad una valutazione ancora più
prudente e cautelativa rispetto al parere dello SCHER –
adottato il 14 aprile 2010, peraltro non all’unanimità e con il parere
dissidente di due componenti –, con la decisione del 28 ottobre 2010 ha
consentito deroghe per l’arsenico, fino al valore massimo di 20 µg/l, per sei
comuni della Lombardia e per due comuni in Toscana (art. 1, comma 1, della
decisione, in relazione all’allegato I), respingendola per tutti gli altri
comuni (art. 1, comma 2, della decisione, in relazione all’allegato II), per i
quali erano stati proposti valori superiori, sulla base del testuale rilievo di
cui al “considerando” (5): “Per quanto riguarda l'arsenico, le prove
scientifiche nei documenti indicati in riferimento negli orientamenti
dell'Organizzazione mondiale della sanità e nel parere del comitato scientifico
dei rischi sanitari e ambientali consentono deroghe temporanee fino a 20 μg/l,
mentre valori di 30, 40 e 50 μg/l determinerebbero rischi sanitari superiori,
in particolare talune forme di cancro. Pertanto occorre autorizzare unicamente
deroghe per valori di arsenico fino a 20 μg/l”.
Le deroghe sono state assoggettate alle seguenti,
testuali condizioni aggiuntive stabilite nell’art. 2 della decisione: “Fatti
salvi gli obblighi fissati nella direttiva 98/83/CE, le deroghe di cui
all'articolo 1, paragrafo 1, sono soggette alle seguenti condizioni aggiuntive:
1) ai fini del consumo di acqua potabile da parte dei
neonati e dei bambini fino all'età di 3 anni, l'Italia assicura che la
fornitura di acqua rispetti i valori dei parametri della direttiva 98/83/CE;
2) l’Italia informa gli utenti sulle modalità per
ridurre i rischi legati all'acqua potabile per la quale è stata concessa la
deroga, e in particolare informa gli utenti sui rischi legati al consumo
dell'acqua oggetto di deroga da parte di neonati e di bambini fino all'età di 3
anni;
3) l’Italia effettua un monitoraggio regolare dei
parametri interessati nel quadro del regime di monitoraggio di cui all'allegato
III;
4) l’Italia mette in atto i piani di azioni correttive
di cui all'allegato III;
5) l’Italia presenta una relazione annuale sui
progressi nelle misure correttive di cui all'Allegato III entro due mesi dalla
fine di ogni anno di calendario a partire da 2011.
La relazione di cui al primo comma, punto 5, contiene
una sintesi del monitoraggio dei parametri oggetto di deroga, una panoramica
dei consigli forniti agli utenti e informazioni sui volumi di acqua in
bottiglia fornita agli utenti”.
7.3.6. Quanto alla tempistica successiva alla
comunicazione della decisione della Commissione europea, che sembra essere
stata comunicata alle Amministrazioni odierne appellanti, nel suo testo
integrale, via e-mail solo l’11 novembre 2010 (mentre le
stesse, il precedente 5 novembre 2010, appaiono essere state informate in via
breve sull’orientamento della Commissione in procinto di essere formalizzato e
pubblicato), risulta documentalmente comprovato che:
- per il 5 novembre 2010 presso il Ministero è stata
convocata una riunione con i rappresentanti delle Amministrazioni regionali
interessate, diretta ad affrontare le problematiche relative all’impatto che la
decisione comunitaria avrebbe avuto sulla gestione del servizio idrico;
- in data 24 novembre 2010 è stato adottato il decreto
del Ministro della salute, d’intesa con il Ministro dell’ambiente e della
tutela del territorio e del mare, di recepimento della citata decisione
comunitaria;
- in data 30 novembre 2010, l’Istituto superiore di
sanità ha formulato indirizzi circa le limitazioni d’uso delle acque in regime
di deroga;
- in data 1° dicembre 2010, una nota dell’apposita
Commissione istituita presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare ha richiesto alle Autorità d’ambito interessate “quali
misure, negli anni trascorsi, siano state previste per la risoluzione di tale
criticità e, laddove nessuna attività sia stata programmata in tal senso, di
voler tempestivamente prevedere, nel programma di interventi di cui al piano
d’ambito, l’inserimento di misure strutturali tali da garantire, nei comuni
interessati, una fornitura di acqua nel rispetto dei limiti di potabilità
definiti dal d.lgs. n. 31/2001”;
- con d.P.C.M. del 17 dicembre 2010, l’Amministrazione
statale, “CONSIDERATO che la Commissione europea, con decisione del 28
ottobre 2010, ha comunicato allo Stato italiano la decisione di non concedere
la possibilità richiesta dalla regione Lazio di derogare temporaneamente ai sopra
citati limiti di legge; CONSIDERATO che pertanto le Autorità locali competenti
dovranno adottare ordinanze contingibilí ed urgenti volte alla regolamentazione
dell'uso delle acque, con inevitabili gravi disagi per la popolazione
interessata, stimata in circa 150.000 persone, e con possibili ripercussioni di
natura igienico sanitaria; RAVVISATA pertanto la necessità di consentire
l'espletamento, in termini di somma urgenza, di tutte le iniziative necessarie
a garantire la somministrazione di acqua destinata al consumo umano, ed il
contestuale avvio degli interventi di potabilizzazione urgente finalizzati a
ricondurre la concentrazione di arsenico entro í limiti stabiliti dalla
Commissione europea; (…)”, dichiarava (ai sensi dell’art. 5, comma 1, l. 24
febbraio 1992, n. 225) lo stato di emergenza in relazione alla concentrazione
di arsenico nelle acque destinate all’uso umano superiore ai limiti di legge in
alcuni comuni del territorio della Regione Lazio;
- in data 17 gennaio 2011 il decreto interministeriale
del 24 novembre 2010 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della
Repubblica italiana ed in tale data è entrato in vigore, secondo le previsioni
del suo sesto ed ultimo articolo;
- con decisione del 22 marzo 2011, la Commissione
europea, in parziale accoglimento di correlativa richiesta dello Stato
italiano, ha autorizzato un’ulteriore deroga, fino ad una concentrazione di 20
μg/l di arsenico, per 90 comuni del Lazio (il cui territorio, secondo la
relazione di cui all’allegato III della decisione, rappresenta “una
elevatissima eterogeneità geologica, da cui discendono le criticità più spinte
dell'intera penisola, a cui vanno aggiunte variabilità climatiche e geochimiche
che influenzano i processi idrotermali”), per 6 comuni della Lombardia, per
13 comuni della Toscana, e per 3 comuni della Provincia autonoma di Trento,
fino al 31 dicembre 2012 (per la Provincia di Trento, fino al 31 dicembre
2011), imponendo condizioni sostanzialmente identiche a quelle stabilite nella
precedente decisione del 28 ottobre 2010.
7.4. Orbene, scendendo all’esame dei singoli motivi
d’appello, proposti in via principale ed incidentale, alla luce
dell’evidenziato quadro normativo e fattuale, in reiezione del motivo d’appello
incidentale sub 3.a), deve confermarsi la statuizione
escludente ogni responsabilità aquiliana delle Amministrazioni resistenti in
relazione ai trienni 2004-2006 e 2007-2009, per i quali era stato autorizzato
il regime di deroga.
Ritiene al riguardo la Sezione che non sussiste
l’elemento dell’antigiuridicità della condotta (ossia, un comportamento non
iure) – e, a maggior ragione, non sussiste nemmeno quello della
colpevolezza –, in quanto, in presenza di una disciplina armonizzata a livello
comunitario che dichiaratamente assicura una tutela esaustiva di un particolare
profilo sanitario, il principio di precauzione (codificato dall’art. 191 del
Trattato UE) deve ritenersi assorbito dalla medesima disciplina, con la
conseguente legittimità delle attività nazionali svolte in ottemperanza a tali
previsioni.
Infatti, come già sopra esposto, la ratio sottesa alla
disciplina in deroga consiste nella realizzazione di un ragionevole
bilanciamento tra situazioni giuridicamente tutelate (sul piano costituzionale
e comunitario), nella specie, tra il diritto alla salute (peraltro, con una
tecnica di tutela preventiva improntata al principio di precauzione, tenuto
conto della opinabilità scientifica dei parametri correlati alla presenza nelle
acque di elementi minerali di origine geologica e della loro pericolosità per
la salute), e l’esigenza di evitare i rischi igienico-sanitari connessi alla
limitazione d’uso o di sospensione della distribuzione idrica, pure incidenti
in modo pregiudizievole su interessi primari della collettività e della
persona.
Alle Amministrazioni coinvolte (non solo a quella
statale, ma anche a quelle regionali e agli enti locali), la normativa di
settore – di derivazione comunitaria – ha attribuito la responsabilità, con il
correlativo potere, di individuare un punto di equilibrio dinamico in termini
di rischi-benefici, improntata ai principi di proporzionalità e ragionevolezza,
tant’è che la concessione della deroga è stata subordinata alla previsione ed
alla implementazione delle misure necessarie a ripristinare la qualità
dell’acqua nel tempo, in un regime di costante sorveglianza e monitoraggio.
La disciplina in deroga, di cui si è avvalsa
l’Amministrazione, non prevede, invero, la continuazione pura e semplice
dell’erogazione del servizio idrico a valori di contaminazione naturale
eccedenti quelli ‘a regime’, ma ne impone degli obiettivi di adeguamento a
questi ultimi, il cui raggiungimento è sottoposto a controlli periodici, così
attuando un non irragionevole bilanciamento tra situazioni giuridiche tra loro
potenzialmente confliggenti.
Non è, pertanto, configurabile quella lesione o messa
a pericolo del diritto alla salute paventata dagli originari ricorrenti, e
dunque neppure una condotta (attiva od omissiva) contra ius, poiché le relative
esigenze di tutela sono state considerate in modo esaustivo dalle autorità
comunitarie e nazionali, in contemperamento con gli interessi pubblici e le
situazione giuridiche confliggenti, attraverso un’azione legislativa e
amministrativa che, in un’ottica di precauzione inserita in un processo
dinamico di progressivo adeguamento degli standard del servizio in esame ai
valori ottimali ‘a regime’, era tesa a ridurre progressivamente i valori
parametrici al fine di incrementare il livello di protezione degli utenti del
servizio idrico ed a contrastare – in coerenza con la missione che ha voluto
assumere l’Unione Europea – la presenza naturale dell’arsenico negli acquiferi
destinati alla produzione di acque potabili.
D’altra parte, dall’acquisita documentazione emerge
che gli obiettivi di risanamento delle situazioni in deroga risultano, in gran
parte, anche conseguiti: così, ad es., nella Regione Toscana si è passati, dal
27,87% dei ‘comuni in deroga’ nel 2003, al 9,76% nel 2010, che a loro volta
sono stati assoggettati a un piano di risanamento; v., altresì, le risultanze
della relazione tecnica, di cui all’allegato III della decisione della
Commissione europea del 22 marzo 2011, che presenta una situazione di netto
miglioramento in raffronto alla situazione dei trienni 2004-2006 e 2007-2009.
Dunque, ad avviso della Sezione la condotta delle
Amministrazioni si è fondata su valutazioni adeguatamente istruite e motivate
ed è stata rispettosa dei diritti e delle aspettative delle popolazioni locali.
7.5. L’esclusione dell’illegittimità ed illiceità
della condotta delle Amministrazioni resistenti impone la conferma delle
statuizioni di primo grado, reiettive di ogni pretesa risarcitoria, anche sotto
forma di riduzione tariffaria, in relazione ai periodi in questione (trienni
2004-2006 e 2007-2009), con conseguente infondatezza anche del motivo d’appello
incidentale sub 3.d), nella parte in cui si censura l’erroneo
mancato riconoscimento del danno patrimoniale da omessa riduzione tariffaria.
7.6. Quanto al periodo successivo al 28 ottobre 2010,
la sentenza appellata ha rilevato che “Non sembra pertanto possibile
escludere che l’attività svolta dalle competenti Amministrazioni centrali dello
Stato italiano nel dare adempimento alla decisione comunitaria in data 28
ottobre 2010 abbia concretato una violazione dei principi di buon andamento e
imparzialità, economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza, tanto più
ineludibili al fine di prevenire rischi sanitari solo ipotetici ma molto gravi
in danno di soggetti particolarmente esposti ed indifesi quali i bambini fino a
tre anni, configurando in tal modo una condotta illegittima, ascrivibile ad un
atteggiamento colposo, in quanto non rispettoso della buona azione
amministrativa alla stregua dei criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed
adeguatezza” (v. così, testualmente, l’impugnata sentenza).
Ritiene invece la Sezione che non vi sia stata la
violazione dei principi di buon andamento, imparzialità, economicità,
efficacia, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, ravvisata dal
Tribunale amministrativo regionale.
Infatti, ad un analitico esame della scansione
temporale che ha connotato l’azione delle Amministrazioni centrali in esito
all’adozione della decisione della Commissione europea del 28 ottobre 2010,
innanzitutto va evidenziato che questa è stata emessa a distanza di oltre
undici mesi dalla richiesta, inoltrata delle autorità italiane nel novembre
2009: ovviamente, le statuizioni e i tempi di emanazione della decisione della
Commissione europea sono di per sé insindacabili dal giudice nazionale, ma in
questa sede risultano significativi per constatare la complessità
dell’istruttoria da compiere già nel corso dei procedimenti rimessi alla cura
delle Amministrazioni intimate in primo grado.
Inoltre, a prescindere dalla questione dell’esatta
data di conoscenza effettiva del testo integrale della decisione da parte delle
Autorità centrali italiane (se cioè, questa sia avvenuta il 5, oppure l’11
novembre 2010), ritiene la Sezione che non si possono ravvisare ‘ritardi od
omissioni’ nel recepimento della decisione comunitaria e nell’adozione di
misure precauzionali ed informative (peraltro, in concreto incombenti alle
Amministrazioni regionali e comunali), risultando per contro dalla sequenza temporale sub 7.3.6.
che i due Ministeri hanno provveduto ad avvisare tempestivamente le Regioni
interessate per l’adozione delle misure a tutela della salute degli utenti
interessati, e ad adottare, appena due settimane dopo l’intervenuta cognizione
della decisione negativa della Commissione europea (e cioè entro un termine
senz’altro contenuto, in considerazione della complessità delle situazioni da
affrontare), il decreto interministeriale del 24 novembre 2010, di recepimento
della citata decisione, avviando altrettanto tempestivamente le misure
consequenziali.
In accoglimento del correlativo profilo di censura
dedotto dagli Amministrazioni appellanti principali, deve affermarsi
l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove, nella ricostruzione della tempistica
dell’azione delle autorità centrali successiva alla decisione della
Commissione, non ha considerato che l’efficacia dei decreti ministeriali di
deroga alle caratteristiche di qualità delle acque destinate al consumo umano,
concesse per il triennio precedente, era stata espressamente limitata fino al “pronunciamento
definitivo della Commissione europea in ordine alla richiesta di ulteriore
deroga ai valori di parametro di cui al decreto legislativo 2 febbraio 2001, n.
31” (v. ordinanza del Ministero della salute del 30 dicembre 2009,
pubblicata sulla G.U., Serie generale, n. 54 del 6 marzo 2010), con la
conseguenza che deve escludersi la creazione di un vuoto di regolamentazione,
poiché i precedenti decreti di deroga hanno perso la loro efficacia dal momento
della comunicazione della decisione del 28 ottobre 2010 (ossia, dall’11
novembre 2010), con conseguente entrata in vigore dei valori a regime (10
μg/l): la pubblicazione del decreto di recepimento, in data 17 gennaio 2011, di
conseguenza ha determinato il dies a quo di reviviscenza della deroga entro i
più ridotti limiti consentiti dalla decisione della Commissione europea
(infatti, l’art. 6 del decreto ministeriale di recepimento del 24 novembre 2010
ne fissava la data di entrata in vigore al giorno della sua pubblicazione nella
G.U.R.I.).
Non può, dunque, condividersi l’affermazione del
T.a.r., secondo cui gli odierni appellanti principali (il Ministero della
salute ed il Ministero dell’ambiente) avrebbero atteso 73 giorni (computati dal
5 novembre 2010 fino al 17 gennaio 2011) per dare “concreta ed imperativa
attuazione al disposto della Commissione europea”, poiché nella fase
interinale, fino alla pubblicazione del decreto di recepimento, era divenuto
inefficace il regime di deroga (con la conseguente insorgenza della necessità
di intervenire, nei comuni a valori eccedenti quelli ‘a regime’, con ordinanze
sindacali d’urgenza conseguenti alla non potabilità).
Né risulta che le Amministrazioni centrali odierne
appellanti principali siano incorse nella violazione di termini di conclusione
procedimentale, sicché neppure sotto tale profilo appaiono configurabili
elementi di una condotta colposa lesiva del principio di buon andamento
dell’amministrazione.
Per le esposte ragioni, in accoglimento in parte qua dei
motivi d’appello principale sub 2.a) e 2.b) ed in riforma
dell’impugnata sentenza, deve essere disattesa la domanda risarcitoria proposta
nei confronti dei due Ministeri in relazione al periodo successivo al 28
ottobre 2010, con conseguente assorbimento di tutti gli altri motivi d’appello
principale.
7.7. In relazione al periodo in questione deve,
invece, trovare conferma la statuizione del T.a.r., escludente qualsiasi
responsabilità delle Amministrazioni regionali e locali, le quali, come
correttamente accertato nell’impugnata sentenza in aderenza alle risultanze
istruttorie documentali, risultano aver sostanzialmente adempiuto, pur in tempi
e modi diversi, ai propri obblighi relativi alla gestione ed all’adeguamento
del servizio idrico, al monitoraggio ed alla segnalazione delle criticità
relative alla presenza di sostanze tossiche ed all’adozione, nell’ambito delle
disponibilità di bilancio, delle misure informative della popolazione, delle
misure temporanee sostitutive per la fornitura di acqua potabile e per la
progressiva conformazione del servizio idrico alle nuove prescrizioni.
7.8. A prescindere dalla natura assorbente
dell’accertata liceità e legittimità della condotta delle Amministrazioni
resistenti, non incorse neppure in un contegno d’inerzia giuridicamente
qualificata, all’accoglimento del motivo d’appello incidentale sub 3.b)
osta anche il rilievo che l’emanazione del richiesto ordine giudiziale di
provvedere è, ab imis, precluso dal divieto dell’art. 34, comma 2,
cod. proc. amm., secondo cui il giudice non può pronunciare con riferimento a
poteri amministrativi non ancora esercitati, in ossequio al principio
fondamentale della separazione dei poteri, specie in una materia improntata ad
un alto tasso di discrezionalità tecnica e amministrativa.
7.9. Privo di pregio è, infine, il motivo d’appello
incidentale sub 3.c), in quanto:
- esula dai poteri sindacali di emettere ordinanze
contingibili ed urgenti ex art. 32 l. n. 833 del 1978, in caso
di emergenze sanitarie e di igiene pubblica, di intervenire d’urgenza sulla
relativo regime tariffario;
- ogni relativa competenza – secondo la disciplina
vigente ratione temporis all’epoca dell’emanazione delle
impugnate ordinanze d’urgenza di non potabilità e di adozione delle correlative
misure sostitutive – rientra nelle attribuzione delle Autorità di ambito di cui
all’art. 148 d.lgs. n. 152 del 2006, soggetti giuridici distinti dai comuni, i
quali – tramite i propri organi assembleari, di cui i sindaci dei comuni
rientranti nel rispettivo ambito territoriale sono componenti di diritto –
emanano le proprie determinazioni in materia, sulla base della tariffa-base
stabilita dal Ministero dell’ambiente (v. art. 154 d.lgs. n. 152 del 2006);
- il T.a.r. ha, dunque, correttamente disatteso le
censure proposte avverso le ordinanze sindacali di non potabilità, nella parte
in cui non avrebbero provveduto alla riduzione della tariffa del servizio
idrico integrato.
Quanto alla censura d’erroneo rigetto della domanda
volta ad ordinare al Ministero competente, ai sensi dell’art. 34, comma 1,
lett. b), cod. proc. amm., di provvedere al riesame dei criteri per la
determinazione della tariffa-base in funzione di una loro riduzione in
conseguenza della ridotta qualità dell’acqua potabile contaminata di arsenico
oltre valore ‘a regime’, si osserva che la stessa deve essere respinta sulla
base del dirimente rilievo processuale che non è stato interposto uno specifico
motivo d’appello avverso il rilievo motivazionale, autonomamente sufficiente a
sorreggere la correlativa statuizione di rigetto di primo grado, secondo cui la
domanda in esame non poteva trovare accoglimento “alla stregua della
disciplina sopravvenuta al recente referendum abrogativo, che impone ai
ricorrenti di riformulare la domanda e se del caso di ricorrere contro il
diniego o il silenzio, fermo restando che in nessun modo la riduzione della
tariffa attuale (che va parametrata al servizio oggi fornito) potrà tener conto
di eventuali limitazioni passate del servizio (che potrebbero casomai motivare
eventuali richieste indennitarie o risarcitorie)” (v. così, testualmente,
l’impugnata sentenza).
Si precisa, al riguardo, che le argomentazioni svolte
nei due ultimi capoversi del § 22 della sentenza – affermative della teorica
illegittimità del decreto ministeriale n. 243 del 1° agosto 1996, di
determinazione della tariffa-base in applicazione del c.d. metodo normalizzato
–, devono qualificarsi alla stregua di meri obiter dicta, non
trovando il relativo passaggio motivazionale riscontro in una correlativa
statuizione di accoglimento (infatti, il ricorso è stato accolto limitatamente
alla pretesa risarcitoria relativa al danno non patrimoniale, nei confronti
delle sole Amministrazioni centrali e per il periodo successivo al 28 ottobre
2010).
7.10. Conclusivamente, in accoglimento dell’appello
principale e in reiezione dell’appello incidentale, in parziale riforma
dell’impugnata sentenza il ricorso di primo grado deve essere integralmente
respinto. Resta assorbita ogni altra questione (comprese le questioni relative
al quantum debeatur), ormai irrilevanti ai fini decisori.
8. Tenuto conto di ogni circostanza connotante la
presente controversia, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare le
spese del doppio grado di giudizio interamente compensate tra tutte le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto
(ricorso n. 5133 del 2012), accoglie l’appello principale, respinge l’appello
incidentale e, per l’effetto, in parziale riforma dell’impugnata sentenza,
respinge integralmente il ricorso di primo grado (ricorso n. 3446 del 2011
T.a.r. Lazio - Roma); dichiara le spese del doppio grado di giudizio
interamente compensate tra tutte le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del
giorno 29 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 21/06/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3,
cod. proc. amm.)
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