sabato 14 novembre 2015

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA': Acquisizione sanante - Gli ambiti procedimentali e le novità giurisprudenziali (di Michele Lobrace, con nota a sentenza T.A.R. Campania, Salerno, Sez. II, 4 febbraio 2015 n. 228)


ESPROPRIAZIONE 
PER PUBBLICA UTILITA': 
Acquisizione sanante - Gli ambiti procedimentali 
e le novità giurisprudenziali 
(di Michele Lobrace
con nota a sentenza T.A.R. Campania, Salerno, 
Sez. II, 4 febbraio 2015 n. 228)



Post di Michele Lobrace 
(Studio Legale Paolino-Annunziata (SA)


ACQUISIZIONE SANANTE – GLI AMBITI PROCEDIMENTALI
E LE NOVITA' GIURISPRUDENZIALI

Nei casi in cui la P.A. ponga in essere attività di costruzione di opere di pubblica utilità sul suolo privato altrui, sine titulo,  il proprietario del fondo può optare, ex art. 936 c.c., per l'acquisizione nel suo patrimonio dell'opera – corrispondendo il maggior valore dei materiali e della mano d'opera oppure l'aumento di valore recato al fondo – oppure per la messa in pristino dell'area, a spese del terzo, escludendo però la possibilità di chiedere la rimozione dell'opera trascorsi sei mesi dalla conoscenza dell'incorporazione.
Negli anni '80 la Corte di Cassazione a S.U. introdusse nel nostro ordinamento, ex art. 938 c.c., l'istituto dell'accessione invertita, ossia un particolare modo di acquisizione della proprietà di un terreno da parte della P.A. che avesse irreversibilmente trasformato la destinazione del fondo del privato (Cass. S.U. 26.02. 1983, n. 1464). Il fondo diventava di spettanza della P.A., ma la situazione diveniva fonte di indennizzo da espropriazione per il privato, con giurisdizione del G.A., secondo lo schema dell'espropriazione ordinaria.
Un nuovo intervento del Supremo consesso – Cass. S.U. 10.06.1988, n. 3940 – pone una serie di limiti alla P.A. in merito all'acquisizione, surrogandola alle sole ipotesi in cui fosse intervenuta precedentemente una dichiarazione di pubblica utilità, in quanto atto manifestativo dell'interesse pubblico. Si delineava così la metamorfosi dell' “accessione invertita” in “occupazione acquisitiva”.
Mancando l'intervenuta dichiarazione di pubblica utilità, si configurava l'usurpazione sine titulo che dava al proprietario il diritto alla restituzione del bene con conseguente diritto al risarcimento dei danni, ferma la facoltà di quest'ultimo di abdicare volontariamente la proprietà in capo alla P.A.
Giunsero rilievi critici sulle modalità di espropriazione indiretta da parte della Corte EDU, che la qualificò come contraria all'art. 6 della Convenzione di Roma – equo processo – e all'art. 1 del Protocollo Addizionale – protezione della proprietà – poiché lesivi del principio di legalità, certezza del diritto ed effettività della tutela giurisdizionale (caso Belvedere c/ Italia, 30.05. 2000; caso Carbonara e Ventura c/ Italia, 20.05.2000).
Sulla scorta delle sollecitazioni europee, il nostro Legislatore, in fase di riorganizzazione della materia espropriativa introduce l'art. 43 nel T.U. espropriazioni – Dpr 8/06/01, n. 327 – introdusse nel nostro ordinamento la c.d. acquisizione sanante. La P.A. che avesse utilizzato un bene immobile per scopi di pubblico interesse, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, poteva sanare la situazione contra ius e disporre l'acquisizione al suo patrimonio indisponibile con effetti ex tunc, purché fosse risarcito il danno patito dal proprietario e prevedendo, in aggiunta, una forma di “acquisizione giudiziaria”.
La norma fu subito censurata dalla Corte EDU – caso Scordino c/ Italia – soprattutto in ordine al quantum del ristoro patrimoniale derivante dall'acquisizione sanante; allo stesso modo la norma fu censurata dalla Corte Costituzionale che la dichiarò illegittima (Cort. Cost. n. 293/2010).
A seguito di tale declaratoria di illegittimità costituzionale, il legislatore interviene con l'introduzione dell'art. 42–bis. Tale nuovo istituto si atteggia a “procedimento semplificato di espropriazione” che ingloba in se la dichiarazione di pubblica utilità ed il decreto di esproprio, sintetizzando uno actu l'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati nella norma.
La norma introduce novità significative, classificando l'acquisto da parte della P.A. con efficacia ex nunc che decorre dall'emanazione dell'atto di acquisizione. Altra novità riguarda la necessità di una motivazione “rafforzata” che vada ad esplicitare le attuali ed eccezionali ragioni di pubblico interesse. Inoltre, nel computare l'indennizzo viene fatto rientrare non solo il danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale, forfettariamente liquidato, prevedendo la condizione sospensiva del trasferimento della proprietà al completo pagamento delle somme dovute. Infine, per il periodo di occupazione sine titulo viene corrisposta una somma determinata forfettariamente a titolo di risarcimento e si escluse, a differenza della precedente normativa, la possibilità della c.d. acquisizione giudiziale.
La Corte Costituzionale – 30.04.2015, n. 71 – si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale di questo art. 42-bis reputando la sua piena conformità all'impianto costituzionale ( artt. 3, 24, 42) e definendo eliminata con questa nuova formulazione la “défaillance” strutturale lamentata dalla Corte EDU riguardo al fenomeno delle espropriazioni indirette.
Di recente il TAR Campania – Salerno, con sentenza unica nel suo genere, a fronte di un'occupazione sine titulo posta in essere da una ASL locale , ha affermato che, a fronte delle varie alternative che il G.A. affida all'Amministrazione su di un'opera realizzata su cosa occupata illegittimamente, non decorrono più i termini in quanto il proprietario deve preliminarmente indicare come vuole essere indennizzato altrimenti si configura l'indebito arricchimento.
                                 

Breve nota a sentenza

(TAR CAMPANIA – SALERNO, SEZ. II, 04.02.2015, N. 228) 

  • La scelta di procedere all’acquisizione dell’area o alla sua restituzione dipende dall’opzione che i proprietari devono scegliere  ai sensi dell’art. 936, comma 2, cc. La norma contempla e tempera le conseguenze patrimoniali derivanti dall’applicazione del principio quid quid solo inaedificatur solo cedit (secondo cui qualunque costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo, come prevede l’art. 934 c.c.), e serve ad applicare il divieto generale di indebito arricchimento – ex art. 2041 cc – secondo cui a nessuno è consentito accrescere il proprio patrimonio a danno di altri.
  • Il legislatore consente al proprietario del suolo che ha subito la costruzione sul proprio fondo di operare una duplice scelta, ovvero, ritenere le opere costruite e di corrispondere un indennizzo a chi ha realizzato l'opera (ex art. 936, comma 2) consentendo di optare tra il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera oppure l’aumento di valore arrecato al fondo.
  • Il diritto di ritenzione, diviene dovere di trattenere le opere fatte, se siano trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell’incorporazione; in tal caso il proprietario perde il primo diritto di scelta – ovvero ritenere o meno le opere fatte sul proprio fondo – ma mantiene l’opzione in ordine al quantum dell’indennizzo.
  • Decaduto il diritto di ritenzione del proprietario viene riconosciuto il potere della P.A. di procedere all’acquisizione delle aree. Residua solo un ordine di scelta in ordine al quantum dell’indennizzo previsto ex art. 936, comma 2, cc, che va contemperato con il potere della P.A. di acquisire l’area ai sensi dell’art. 42-bis del T.U. espropriazioni.
  • Subordinare, però, l’esercizio di tale scelta alla decisione della P.A. di acquisire o meno i beni, vuol dire delineare una soluzione non del tutto in linea con il principio di buona fede che ormai è entrato anche nei rapporti tra privati e P.A.
  • Il rifiuto dei proprietari ad esercitare l’opzione – deducendo che sia potere che può esercitarsi solo successivamente alla scelta della P.A. di procedere o meno all’acquisizione dell’area – oltre a non avere un riscontro normativo, si palesa in contrasto con l’obbligo di buona fede e leale cooperazione. Inoltre, il rifiuto non sottende alcun valido interesse dei proprietari e, pertanto, non va giuridicamente riconosciuto anche perché potrebbe integrare un abuso di diritto.
  • Tale circostanza comporta che il Collegio sia tenuto a fissare i termini per l’esercizio del diritto di opzione dei proprietari e, conseguentemente, rifissare i termini per l’esercizio dei poteri della P.A. e mancandone disposizione normativa lo dispone il Collegio reputandolo non come intervento invasivo del Giudice ma in conformità all’art. 650 cc e 1183 cc come funzione suppletiva per esercitare diritti sia per ottemperare a doveri.
  • In mancanza del diritto di scelta sarà la P.A. a poter liquidare un indennizzo pari al valore dei beni materiali e della mano d’opera o dell’aumento del valore del fondo.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1743 del 2014, proposto da:
Azienda Sanitaria Locale Salerno, in persona del legale rapp. p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Maria Annunziata, Walter Maria Ramunni, Gaetano Paolino, con domicilio eletto presso l’avv. Gaetano Paolino in Salerno, piazza Sant'Agostino, 29;
contro
Comune di Salerno, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Brancaccio, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Salerno, largo Dogana Regia, N.15;
nei confronti di
Generoso Marino, Ersilia Marino, Giulia Musto, Mario Gallo, Vincenzo Musto, Maria Pia Marino, Massimo Marino, Fortunato Fierro, Filomena Fierro, Giuseppe Fierro, tutti quali eredi di Margherita Gallo, rappresentati e difesi dagli avv. Giuseppe Vitolo, Giovanni Ernesto Cerisano, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Giuseppe Vitolo in Salerno, c.so Garibaldi, n.181;

per la richiesta di chiarimenti in ordine alle modalità di corretta ottemperanza della sentenza n. 1066/12.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Salerno e di GenerosoMarino, Ersilia Marino, Giulia Musto, Mario Gallo, Vincenzo Musto, Maria Pia Marino, Massimo Marino, Fortunato Fierro, Filomena Fierro, Giuseppe Fierro, tutti quali eredi di Margherita Gallo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 27 novembre 2014 il dott. Maurizio Santise e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Il presente giudizio origina dalle sentenze del Tar n. 223/2004 e n. 2800/2007 con cui sono stati annullati gli atti della procedura ablatoria finalizzata alla realizzazione di un poliambulatorio e di una residenza sanitaria. Il Tar, con sentenza n. 1066/2012, confermata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 306 del 22.1.2014), ha condannato l’Asl alla restituzione dei beni oggetto di illegittima   occupazione, secondo le modalità e con gli effetti della ordinaria normativa civilistica (in particolare, art. 936 c.c.).
Ha poi intimato all’Asl di valutare entro 90 giorni dalla notifica della sentenza a cura di parte ricorrente se acquisire l’area o restituire i beni. Nel primo caso, ha stabilito che dovranno essere corrisposte le somme a titolo di risarcimento/indennizzo, osservando i criteri previsti dal T.U.
In caso, invece, di restituzione dei beni, ha stabilito che dovrà applicarsi l’art. 936 c.c., senza che sussista il potere dei proprietari di chiedere la rimozione delle opere, in quanto tale diritto si è estinto.
Il Consiglio di Stato, nel confermare la citata sentenza, ha ulteriormente chiarito che sia il Comune di Salerno (che ha adottato tutti gli atti relativi al procedimento espropriativo poi annullati), sia l’Asl di Salerno (che ha provveduto alla realizzazione dell’opera edilizia sanitaria) sono responsabili solidalmente per il risarcimento del danno (pag. 11) e che è l’Asl di Salerno ad essere legittimata ad emanare il provvedimento di cui all’art. 42 bis T.U. 32//2001, in relazione all’immobile destinato a poliambulatorio (pag. 14). Quanto ai criteri cui ancorare il risarcimento del danno a causa dell’illegittima occupazione, il Consiglio di Stato ha confermato i principi dettati dal Tar. Parimenti la sentenza del Tar è stata confermata in relazione alla decadenza dei proprietari dall’esercitare la richiesta di rimozione delle opere realizzati sui propri fondi.
Il risarcimento del danno è stato commisurato al valore venale del bene alla data in cui sarà adottato l’atto di acquisizione. L’illegittima occupazione, a far data dal 2000, deve essere risarcita tenendo come riferimento il 5% annuo del valore venale del bene.
Tanto premesso, l’Asl, con il presente ricorso, ha richiesto chiarimenti in ordine ai seguenti punti:
1. Conseguenze derivanti dalla mancata indicazione, da parte dei soggetti privati proprietari delle aree, che hanno chiesto in giudizio la restituzione delle aree, dell’opzione di cui all’art. 936, co. 2 c.c., nonché chiarimenti in ordine ai criteri da adottare ai fini della quantificazione dell’importo che i proprietari dovrebbero corrispondere in caso di restituzione dei beni;
2. Individuazione dei criteri di ripartizione delle quote di responsabilità tra Asl e Comune di Salerno sia nelle ipotesi di restituzione delle aree, sia nell’ipotesi alternativa di acquisizione delle stesse;
3. Restituzione o acquisizione di aree detenute dal Comune di Salerno e non dall’Asl Salerno;
4. Determinazione dei criteri di liquidazione degli interessi moratori in ipotesi di restituzione delle aree.
Il Comune di Salerno si è costituito regolarmente in giudizio, evidenziando che alcuna inottemperanza al giudicato amministrativo è imputabile, ad alcun titolo, al Comune di Salerno e che l’obbligo di resituzione incombe unicamente all’Asl. Non vi sarebbe, poi, alcuna somma allo stato determinabile a titolo di risarcimento del danno, in quanto l’Asl non ha ancora deciso se acquisire o restituire i beni.
I proprietari si sono costituiti in giudizio chiedendo, tra le altre cose, dichiararsi inammissibile il ricorso, in quanto tutti i chiarimenti richiesti troverebbero già chiara risposta nelle sentenze passate in giudicato.
Alla camera di consiglio del 27 novembre 2014, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO
1. Giunge all’attenzione del Collegio una richiesta di chiarimenti in ordine alla modalità di ottemperanza in relazione alla sentenza di questo Tar 1066/2012, confermata in appello.
Va premesso che è ius receptum il principio secondo cui la c.d. «ottemperanza di chiarimenti», ex art. 114 c.p.a., non scaturisce da un'azione o da una domanda in senso tecnico, costituendo un mero incidente sulle modalità di esecuzione del giudicato (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 17/09/2014, n. 4722), che presuppone, quale suo irrinunciabile requisito, una situazione di incertezza da dirimere e che impedisce la sollecita esecuzione del titolo esecutivo.
Non può l’ottemeperanza di chiarimenti essere utilizzata in assenza di una conclamata incertezza di esecuzione, né è possibile, attraverso tale strumento, rimettere in discussione le sentenze passate in giudicato.
Per tali motivi il Consiglio di Stato ha recentemente chiarito che tale strumento non può essere utilizzato per chiedere l'accertamento sulla esatta esecuzione del giudicato, da parte della stessa amministrazione tenuta all'adempimento (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 12/06/2014, n. 2993).
Sulla stessa scia si colloca la giurisprudenza dei Tar, la quale ha evidenziato che l’ottemperanza di chiarimenti non può trasformarsi in un'azione di accertamento della legittimità o liceità della futura azione amministrativa, salvo che questa non attenga ad una effettiva modalità di esecuzione della sentenza, né può trasformasi in un appello mascherato, che porti di fatto a stravolgere il contenuto della pronuncia, che non può più venire riformata né integrata dal giudice dell'ottemperanza ove la pretesa avanzata sia de plano ricavabile dal tenore testuale della sentenza da eseguire (T.A.R. Torino (Piemonte) sez. I, 03/05/2014, n. 744).
Alla luce delle tracciate linee interpretative possono essere forniti i chiarimenti richiesti.
2. La prima questione sottoposta all’attenzione del Collegio, riguarda le conseguenze derivanti dal mancato esercizio dell’opzione, ai sensi dell’art. 936, co. 2 c.c., da parte dei proprietari delle aree. In altre parole, l’Asl ha evidenziato nel ricorso che la scelta di procedere all’acquisizione dell’area o alla sua restituzione dipende dall’opzione che i proprietari effettueranno ai sensi dell’art. 936, co. 2 c.c. I proprietari, costituitisi in giudizio, ritengono di non essere tenuti preliminarmente ad esercitare l’opzione citata, trattandosi di un potere che può essere esercitato solo successivamente alla scelta della p.a. di procedere o meno all’acquisizione dell’area. Hanno, peraltro, evidenziato che, il potere dell’Asl di acquisire le aree si è estinto perché non è stato esercitato nei termini previsti in sentenza.
Tanto premesso, va chiarito che l’art. 936 c.c. è norma che contempla e tempera le conseguenze patrimoniali derivanti dall’applicazione del principio quid quid solo inaedificatur solo cedit (secondo cui qualunque costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo, come prevede l’art. 934 c.c.), che altrimenti sarebbero sproporzionatamente vantaggiose per il proprietario del suolo. La norma in esame è, quindi, chiara applicazione del divieto generale di indebito arricchimento, fotografato dall’art. 2041 c.c., secondo cui a nessuno è consentito accrescere il proprio patrimonio con danno altrui.
In quest’ottica, il legislatore attribuisce al proprietario che ha subito la costruzione dell’opera sul proprio fondo una doppia scelta: la scelta di ritenere le opere medesime e di corrispondere l’indennizzo, di cui al comma secondo dell’art. 936 c.c., consentendo al proprietario di optare tra il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera oppure l’aumento di valore recato al fondo.
Il diritto di ritenzione, tuttavia, diviene dovere di trattenere le opere fatte, se siano trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell’incorporazione; in tale ipotesi, infatti, il proprietario perde il primo diritto di scelta (quello di ritenere o meno le opere fatte sul proprio suolo), ma mantiene l’opzione in ordine al quantum dell’indennizzo.
Il comma secondo, tuttavia, è norma che va adattata alla peculiarietà dei casi che vedono coinvolta la p.a. Infatti la norma prevede che il proprietario, se sceglie di ritenere la cosa, deve, sempre a sua scelta, pagare il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera oppure l’aumento recato al fondo. Tutta la vicenda, quindi, si fonda su una scelta del proprietario che ha subito la costruzione al di sopra del proprio fondo. Nel caso di specie, però, le sentenze hanno accertato la decadenza del diritto di ritenzione del proprietario e riconosciuto il potere della p.a. di procedere con l’acquisizione delle aree.
Residua, quindi, allo stato, solo un potere di scelta da parte dei proprietari in ordine al quantum dell’indennizzo previsto, dall’art. 936, co. 2, c.c., che va contemperato con il potere della p.a. di acquisire l’area ai sensi dell’art. 42 bis Tu sull’espropriazione.
Al fine di esercitare il citato potere, l’Asl ha chiesto ai proprietari dell’area di conoscere l’eventuale contenuto dell’opzione che gli stessi eserciterebbero in conseguenza della eventuale mancata acquisizione dell’area. Questi ultimi si sono trincerati dietro un netto rifiuto, evidenziando che l’opzione in esame è potere cronologicamente successivo alla scelta della p.a.
Il Collegio ritiene che, nella logica dell’art. 936, co. 2, c.c., l’esercizio dell’opzione è cronologicamente successivo rispetto alla decisione, da parte del proprietario, di ritenere o meno le opere costruite sul proprio fondo.
Nel caso di specie, però, la scelta in ordine alla sorte dei beni, non dipende dai proprietari, poiché il relativo diritto di scelta si è estinto, ma dalla p.a., che deve decidere se esercitare o meno il potere riconosciuto dall’art. 42 bis T.U. sull’espropriazione.
L’unica scelta che residua ai proprietari è quella relativa al quantum del’indennizzo contemplato dall’art. 936, co. 2. c.c. Subordinare, però, l’esercizio di tale scelta alla decisione della p.a. di acquisire o meno i beni, vuol dire delineare una soluzione non del tutto in linea con il principio di buona fede che è ormai entrato a pieno titolo anche nei rapporti tra privati e p.a. L’amministrazione ha, infatti, chiarito che a seconda della scelta effettuata dai proprietari, potrà decidere se acquisire l’area oppure no, in quanto vengono in gioco somme di danaro ingenti, che influiscono necessariamente sulla scelta della p.a.
Come detto, il rifiuto opposto dai proprietari di esercitare l’opzione, oltre a non trovare fondamento normativo, si palesa in contrasto con l’obbligo di buona fede e leale cooperazione che pervade anche i rapporti tra p.a. e privati. Inoltre, si tratta di un rifiuto che non sottende alcun valido interesse dei proprietari e, pertanto, non va riconosciuto giuridicamente, anche perché capace di integrare la figura dell’abuso del diritto.
Ne deriva che i proprietari sono tenuti a esercitare l’opzione, anche se la p.a. non si è ancora determinata in ordine alla restituzione o acquisizione delle aree.
Tale circostanza comporta che il Collegio sia tenuto a fissare i termini per l’esercizio dell’opzione dei proprietari e, conseguentemente, rifissare i termini per l’esercizio del potere della p.a.
In assenza di disposizione normativa che prevede un termine per effettuare la scelta in capo ai proprietari, questo Collegio ritiene di poter fissare il termine di giorni trenta dalla notificazione e/o comunicazione della presente sentenza per esercitare l’opzione. Tale soluzione non delinea un potere invasivo del giudice, ma si deduce dal complessivo sistema in cui, nell’incertezza dei tempi, il legislatore attribuisce al giudice di intervenire in via suppletiva sia per esercitare diritti (cfr., art. 650 c.c.) sia per ottemperare a doveri (art. 1183 c.c.). In mancanza dell’esercizio del diritto di scelta, questo si estinguerà e sarà la p.a. a poter liquidare un indennizzo pari al valore dei materiali e al prezzo della mano d’opera o all’aumento di valore del fondo.
L’Asl, entro novanta giorni dalla ricezione della comunicazione di esercizio dell’opzione o dalla scadenza del termine previsto per esercitare l’opzione, dovrà decidere se resituire i beni o procedere all’acquisizione delle aree, come già evidenziato dal Tar nella sentenza 1066/2012.
3. Deve essere, invece, dichiarato inammissibile la richiesta di chiarimenti in relazione ai criteri da adottare ai fini della quantificazione dell’importo che i proprietari dovrebbero corrispondere in caso di restituzione, non avendo la ricorrente evidenziato alcun profilo di criticità o di incertezza in proposito ed apparendo la richiesta meramente esplorativa.
.4. Con il secondo motivo di ricorso, l’Asl ha chiesto di chiarire quali siano gli ambiti di responsabilità in relazione al risarcimento del danno da corrispondere ai proprietari.
Sul punto, l’art. 2055, co. 3, del c.c., prevede che nel dubbio le colpe si presumono uguali.
Nel caso di specie, non è emersa alcuna diversa responsabilità delle pp.aa. e, quindi, la somma a titolo di risarcimento del danno va equamente ripartita tra le pp.aa., salvo diverso accertamento da far valere, eventualmente, in sede di esercizio di azione di regresso.
5. Con il terzo motivo di ricorso, l’Asl ha chiesto chiarimenti in ordine alla restituzione o acquisizione di aree detenute dal Comune di Salerno. In altri termini, secondo l’Asl, deve essere il Comune di Salerno a restituire o acquisire le aree dallo stesso detenute.
Sia la sentenza del Tar che del Consiglio di Stato hanno, però, evidenziato che l’obbligo restitutorio o quello alternativo dell’acquisizione non possono che far carico all’ASL (cfr., pag. 15 della sentenza del Consiglio di Stato). Ne deriva che nessun dubbio può residuare dalla lettura della sentenza e la circostanza dedotta dall’Asl, secondo cui ci sarebbe un viale detenuto dal Comune di Salerno, non è idonea a mutare l’essenza del giudicato, che copre il dedotto, ma anche il deducibile.
6. Con un ulteriore motivo di ricorso, l’Asl chiede di quantificare correttamente gli interessi moratori da corrispondere ai privati. Tale motivo di ricorso è inammissibile perché genericamente formulato, non avendo indicato l’amministrazione ricorrente i dubbi o le incertezze che richiederebbero un chiarimento.
La complessità della vicenda giustifica la compensazione delle spese di lite tra le parti.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, fornisce i chiarimenti richiesti e dichiara inammissibile la richiesta di chiarimenti in relazione alle lett. a), nei limiti specificati in motivazione, e d) del ricorso.
Compensa le spese di lite tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 27 novembre 2014 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Antonio Esposito, Presidente
Giovanni Sabbato, Consigliere
Maurizio Santise, Referendario, Estensore



DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/02/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)



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