ENTE PUBBLICO:
il cangiante carattere funzionale
(e non sostanziale)
della nozione di ente pubblico,
con particolar riguardo all' "in house"
(Cons. St., Sez. VI,
sentenza 26 maggio 2015, n. 2660)
Breve commento
Il Cons. Giovagnoli (che ho molto apprezzato per le doti umane, oltre che professionali, frequentando il suo corso per la preparazione al concorso da uditore) si rivela, ancora una volta, giurista assai sensibile agli aspetti ricostruttivi ed alle implicazioni sistematiche che i singoli istituti, come la società in house nel caso di specie, hanno, rifuggendo da quella tendenza "pretoria" eccessivamente casistica che spesso stordisce con un fiume di dati privi di valide coordinate di riferimento.
In questo trovo il Cons. Giovagnoli molto vicino all'approccio che contraddistingue, in generale ma anche con specifico riguardo al tema del riparto di giurisdizione in materia di società in mano pubblica, un altro grande giurista, il Dott. Renato Rordorf.
E credo di fare un complimento ad entrambi.
La sentenza (da leggere per intero) si segnala per l'analisi del aspetto particolare del fenomeno dell'in house relativo alla partecipazione azionaria da parte di una pluralità di p.a., e per la relativa disciplina contenuta nelle nuove direttive appalti 2014, che ammettono l'in house anche in caso di partecipazione del privato, ma non vincolano il legislatore al riguardo, potendo il medesimo continuare a ritenerlo istituto eccezionale rispetto al principio di libera concorrenza, e come tale ammissibile solo in caso di partecipazione totalitaria pubblica (e controllo analogo e attività dedicata).
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il
Consiglio di Stato
in
sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha
pronunciato la presente
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale 9943 del 2014, proposto da:
Consorzio Interuniversitario Cineca, rappresentato e difeso dagli avv. Giuseppe Caia, Nicola Aicardi, Mario Sanino, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli N.180;
Consorzio Interuniversitario Cineca, rappresentato e difeso dagli avv. Giuseppe Caia, Nicola Aicardi, Mario Sanino, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli N.180;
contro
Be
Smart Srl, rappresentato e difeso dagli avv. Filippo Arturo Satta, Gian Michele
Roberti, Anna Romano, con domicilio eletto presso Filippo Satta in Roma, Foro
Traiano 1/A;
nei
confronti di
Universita'
degli Studi di Reggio Calabria, rappresentato e difeso per legge
dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
per
la riforma
della
sentenza breve del T.A.R. CALABRIA - CATANZARO :SEZIONE II n. 01186/2014, resa
tra le parti, concernente affidamento dei servizi informatici relativi
all'attivazione del sistema u-gov e esse3
Visti
il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti
gli atti di costituzione in giudizio di Be Smart Srl e di Universita' degli
Studi di Reggio Calabria;
Viste
le memorie difensive;
Visti
tutti gli atti della causa;
Relatore
nell'udienza pubblica del giorno 3 febbraio 2015 il Cons. Roberto Giovagnoli e
uditi per le parti gli avvocati Caia, Sanino, Romano, Satta, Roberti e, dello
Stato, Tortora;
Ritenuto
e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
e DIRITTO
1.
Viene in decisione l’appello proposto dal Consorzio Interuniversitario Cineca
per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la
quale il T.a.r. per la Calabria, sede di Catanzaro, ha accolto il ricorso
proposto in primo grado da Be Smart s.r.l. e, per l’effetto, ha annullato, la
delibera del Consiglio di Amministrazione dell’Università della Calabria del 14
aprile 2014.
2.
Con la delibera impugnata, l’Università della Calabria, sul presupposto che il
rapporto con il Cineca fosse riconducibile alla figura dell’in house, ha
disposto l’affidamento diretto senza gara dei servizi informatici relativi
all’attivazione del sistema U-GOV e ESSE3 della medesima Università, così
confermando, previa integrazione e specificazione della motivazione, i
contenuti delle precedenti delibere del Consiglio di Amministrazione del 23
settembre 2013 e del 17 dicembre 2013.
3.
La sentenza impugnata ha accolto il ricorso ritenendo che la delibera impugnata
non avesse adeguatamente motivato in ordine al possesso da parte del Consorzio
interunivestiario CINECA dei requisiti dell’in house providing
Secondo
il T.a.r., in particolare, non risulterebbe provato il requisito del controllo
analogo, in considerazione del fatto che: a) lo Statuto del Cineca
riconosce alle Università consorziate unicamente il diritto di prendere parte
alle sedute del Consiglio consortile tramite un proprio rappresentante; b)
manca, inoltre, la partecipazione pubblica totalitaria perché al Cineca
partecipano anche Università private (come, ad esempio, l’Università
commerciale Luigi Bocconi e lo I.U.L.M.).
4.
Il Cineca lamenta l’erroneità di tale sentenza, formulando, in sintesi, le
seguenti censure:
a) la deroga all’obbligo dell’evidenza
pubblica troverebbe il suo fondamento nell’art. 19, comma 2, d.lgs. 12 aprile
2006, n. 163, in quanto il Cineca sarebbe titolare di un “diritto esclusivo”
ai sensi dell’art. 7, comma 42-bis, d.l. 6 luglio 2012, n. 95,
convertito, con modifiche, in legge 7 agosto 2012, n. 135. Tale disposizione
normativa qualifica, infatti, il Cineca quale “unico soggetto nazionale”
investito del “compito di assicurare l’adeguato supporto, in termini di
innovazione e offerta di servizi, alle esigenze del Ministero, del sistema
universitario e del settore di ricerca e del settore istruzione”; b)
in ogni caso, anche a prescindere dal rilievo assorbente dell’art. 7, comma 42bis,
d.l. n. 95 del 2012, il rapporto tra Università e Cineca rispetterebbe i
requisiti dell’in house. Vi sarebbe, infatti, il controllo analogo
atteso che: b1) le università non statali presenti nella compagine
consortile dovrebbero essere qualificate come enti pubblici o, comunque,
soggetti equiparati agli enti pubblici; b2) il Cineca sarebbe
sottoposto al controllo analogo congiunto degli enti consorziati sia sotto il
profilo funzionale (perché non persegue fini autonomi, ma è un’autorità
servente, tenuta ad operare su mandato e nell’interesse dei consorziati
stessi), sia sotto il profilo strutturale organizzativo (in quanto tutti i
consorziati partecipano tramite un loro rappresentante al Consiglio consortile,
il quale, ai sensi dell’art. 7, comma 1, dello Statuto è, fra l’altro,
investito delle “funzioni di indirizzo strategico e di controllo nei
confronti degli organi consortili, anche ai fini del controllo analogo
congiunto”; b3) sempre ai fini del controllo analogo, oltre a
quanto previsto dallo Statuto, rileverebbe l’accordo quadro sottoscritto
dall’Università della Calabria e il Cineca, approvato dalla delibera del
Consiglio di Amministrazione dell’Università 23 settembre 2013.
5.
Si è costituita in giudizio la società Be Smart s.r.l., la quale, oltre a
chiedere il rigetto dell’appello, ha riproposto, ai sensi dell’art. 101 Cod.
proc. amm., il motivo di primo grado (non esaminato dal T.a.r.) volto a far
valere la carenza dell’ulteriore requisito dell’attività prevalentemente
svolta. Giova evidenziare che Be Smart ha anche notificato tale memoria al
dichiarato fine di farla valere anche come appello incidentale, in
considerazione del fatto chela sentenza appellata contiene un’incidentale affermazione
che sembra dichiarare sussistente il requisito dell’attività prevalentemente
svolta.
Secondo
Be Smart, tale requisito non sussiste, atteso che Cineca presterebbe la propria
attività anche a favore di università non consorziate e di enti pubblici e privati,
anche attraverso società controllate, talune (Kions.p.a.) costituite dallo
stesso Cineca, altre (SuperComputingSolution s.r.l.) acquisite sul mercato da
operatori terzi.
6.
Si è costituita in giudizio l’Università della Calabria chiedendo l’accoglimento
dell’appello principale proposto dal Cineca.
7.
Alla pubblica udienza del 3 febbraio 2015, la causa è stata trattenuta per la
decisione.
8.
L’appello non merita accoglimento.
9.
È, innanzitutto, infondato il primo motivo di appello con il quale Cineca
contesta la sentenza gravata nella parte in cui non ha preso in considerazione
l’art. 7, comma 42-bis, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito con
modificazioni in legge 7 agosto 2012, n. 135).
Muovendo
da tale disposizione, Cineca assume di essere titolare di un diritto di
esclusiva nella prestazione dei servizi inerenti al sistema universitario, tale
per cui le Università ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006, sarebbero
legittimate ad affidare in via diretta i propri servizi al Consorzio senza alcuna
procedura competitiva.
10.
L’interpretazione proposta da Cineca risulta smentita sia dal dato letterale
che da quello telelogico.
L’art.
7, comma 42-bis, d.l. n. 95 del 2012, testualmente prevede che: “Il
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca promuove un processo
di accorpamento dei consorzi interuniversitari Cineca, Cilea e Caspur al fine
di razionalizzare la spesa per il funzionamento degli stessi attraverso la
costituzione di un unico soggetto a livello nazionale con il compito di assicurare
l’adeguato supporto, in termini di innovazione e offerta di servizi, alle
esigenze del Ministero, del sistema universitario, del settore ricerca e del
settore istruzione. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
Il
fine della norma è dichiaratamente quello di contenere i costi, evitando il
dispendio di risorse (in termini di strutture, personale e attività) che la
coesistenza di tre consorzi con analoghe funzioni determinava.
In
tale contesto, Cineca viene qualificato come “unico soggetto a livello
nazionale”, non in quanto titolare di un diritto di esclusiva ai sensi
dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006 (come soggetto cioè a favore del quale è
prevista una “riserva” nello svolgimento di una certa attività), ma nel senso
che, all’esito del previsto processo di accorpamento, rimane l’unico soggetto
esistente sul piano nazionale, in luogo dei tre consorzi prima operanti.
Deve,
quindi, escludersi, tenendo conto della ratio della norma e
del suo complessivo tenere letterale, che l’espressione “unico soggetto a
livello nazionale” utilizzata dalla citata disposizione legislativa
implichi l’attribuzione a Cineca di un diritto di esclusiva.
11.
Del resto, l’attribuzione di un diritto di esclusiva ai sensi dell’art. 18
della direttiva 2004/18/CE attuato con l’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006,
implicando la creazione di una situazione di monopolio, per la sua portata
significativamente derogatoria della concorrenza e delle regole dell’evidenza
pubblica, richiederebbe una esplicita formulazione della volontà legislativa,
che certamente manca nella disposizione sopra trascritta.
In
ogni caso, non si può non rilevare come, ai sensi dell’art. 18 della direttiva
2004/18/CE (e dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006 che vi ha dato attuazione) il
diritto di esclusiva, per poter giustificare la deroga alle regole della
concorrenza e dell’evidenza pubblica, deve essere previsto da disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative che siano “compatibili con il
trattato”.
Nel
caso di specie, il requisito della compatibilità sarebbe insussistente: non si
ravvisa, infatti, alcun motivo imperativo di interesse generale che, in base
alle disposizioni del trattato, possa giustificare la creazione di questa
riserva a favore del Cineca, e non risulterebbero, comunque, rispettati i
principi di necessità, proporzionalità e trasparenza.
12.
Deve, dunque, escludersi che l’affidamento diretto possa essere giustificato ai
sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006, non esistendo a favore di Cineca la
titolarità di un diritto esclusivo conferitole dall’art. 7, comma 42-bis,
d.. n. 95 del 2012.
13.
Occorre, a questo punto, esaminare la sussistenza dei presupposti dell’in
house.
Il
Collegio ritiene che il legame che sussiste tra l’Università della Calabria e
il Cineca non sia riconducibile al modello dell’in house.
14.
Preliminarmente, giova ricostruire brevemente i tratti essenziali dell’istituto
dell’in house, come risultanti dalla giurisprudenza comunitaria e
nazionale.
I principi
generali affermati con la sentenza Teckal e poi costantemente
ribaditi con le pronunce successive sono così riassumibili: (i) l’affidamento
diretto (senza gara e senza ricorso a procedure di evidenza pubblica) di
appalti e concessioni è consentito tutte le volte in cui si possa affermare che
l'organismo affidatario (nei casi in questione, una società), ancorché dotato
di autonoma personalità giuridica, presenti connotazioni tali da giustificare
la sua equiparazione a un “ufficio interno” dell'amministrazione affidante,
poiché in questo caso non vi sarebbe un rapporto di alterità sostanziale, ma
solo formale, sicché non si tratterebbe, nella sostanza, di un effettivo
“ricorso al mercato” (“outsourcing”), bensì di una forma di
“autoproduzione” o comunque di erogazione di servizi pubblici “direttamente” ad
opera dell’amministrazione, attraverso strumenti “propri” (“in house
providing”); (ii) detta equiparazione sarebbe predicabile esclusivamente in
presenza di due specifici presupposti, identificati nel c.d. “controllo
analogo”, ovverosia in una situazione, di fatto e di diritto, nella quale
l’ente sia in grado di esercitare sulla società un controllo analogo a quello
che lo stesso ente esercita sui propri “servizi interni”, e nella necessità che
la società svolga la “parte più importante della propria attività” con
l'amministrazione o le amministrazioni affidanti.
La
Corte di Giustizia UE ha chiarito che il requisito del c.d. controllo analogo
richiede la necessaria partecipazione pubblica totalitaria, posto che la
partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al capitale di una
società, alla quale partecipi anche l’Amministrazione aggiudicatrice, esclude
in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un
controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi (cfr. C. giust.
UE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; C. giust. UE 21 luglio
2005, C-231/03, Consorzio Coname; C. giust. UE, sez. I, 18 gennaio
2007, C-225/05, Jean Auroux).
La
partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una condizione necessaria, ma
non ancora sufficiente, dovendosi ulteriormente verificare la presenza di
strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico più incisivi rispetto a
quelli previsti dal diritto civile a favore del socio totalitario.
L’amministrazione aggiudicatrice deve, infatti, essere in grado di esercitare
un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni
importanti dell’entità affidataria e il controllo esercitato deve essere
effettivo, strutturale e funzionale (v., in tal senso, C. giust. UE, sez. III,
sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, Econord, punto 27
della motivazione e giurisprudenza ivi citata).
Inoltre,
la Corte di giustizia ha riconosciuto che, a determinate condizioni, il “controllo
analogo” può essere esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche che
possiedono in comune l’entità affidataria (v., in tal senso, la sentenza Econord,
punti da 28 a 31 e giurisprudenza ivi citata).
In
base alla giurisprudenza da ultimo richiamata, nel caso in cui venga fatto
ricorso ad un’entità posseduta in comune da più autorità pubbliche, il
“controllo analogo” può essere esercitato congiuntamente da tali autorità,
senza che sia indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente
da ciascuna di esse.
Da
ciò consegue che, se un’autorità pubblica diventa socia di minoranza di una
società per azioni a capitale interamente pubblico al fine di attribuirle la
gestione di un servizio pubblico, il controllo che le autorità pubbliche associate
nell’ambito di tale società esercitano su quest’ultima può essere qualificato
come analogo al controllo che esse esercitano sui propri servizi, qualora esso
venga esercitato congiuntamente dalle autorità suddette.
Con
particolare riferimento alla possibilità di ritenere sussistente un controllo
analogo esercitato in forma congiunta, la Corte di Giustizia ha ulteriormente
chiarito che ove più autorità pubbliche facciano ricorso ad un’entità comune ai
fini dell’adempimento di un compito comune di servizio pubblico, non è
indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un potere di controllo
individuale su tale entità; ciononostante, il controllo esercitato su
quest’ultima non può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell’autorità
pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell’entità
in questione, e ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato
la nozione stessa di controllo congiunto.
Infatti,
l’eventualità che un’amministrazione aggiudicatrice abbia, nell’ambito di
un’entità affidataria posseduta in comune, una posizione inidonea a garantirle
la benché minima possibilità di partecipare al controllo di tale entità
aprirebbe la strada ad un’elusione dell’applicazione delle norme del diritto
dell’Unione in materia di appalti pubblici o di concessioni di servizi, dal
momento che una presenza puramente formale nella compagine di tale entità o in
un organo comune incaricato della direzione della stessa dispenserebbe detta
amministrazione aggiudicatrice dall’obbligo di avviare una procedura di gara
d’appalto secondo le norme dell’Unione, nonostante essa non prenda parte in
alcun modo all’esercizio del «controllo analogo» sull’entità in questione (v.,
in tal senso, sentenza del 21 luglio 2005, Coname).
15.
Nel caso di specie deve escludersi che ricorrano i requisiti dell’in house,
così come definiti dalla giurisprudenza appena richiamata.
16.
In primo luogo, manca il requisito della partecipazione pubblica totalitaria.
Al
consorzio Cineca partecipano, infatti, anche Università private, come, ad
esempio, l‘Università commerciale Bocconi di Milano, l’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano e lo I.U.L.M.
La
tesi dell’appellante, secondo cui le Università private dovrebbero essere
qualificate comunque come enti pubblici, in ragione del fatto che svolgono
attività di interesse pubblico, non può essere condivisa.
17.
È vero, infatti, che nel corso degli ultimi anni, la nozione di ente pubblico
si è progressivamente “frantumata” e “relativizzata”. Spesso la giurisprudenza
ha riconosciuto, dando rilievo a dati sostanziali e funzionali, natura
pubblicistica a soggetti formalmente privati, al fine di sottoporli in tutto o
in parte ad un regime di diritto amministrativo. Tale equiparazione è stata a
volte espressamente stabilita anche dal legislatore con disposizioni che
sottopongono soggetti formalmente privati a regole pubblicistiche: si pensi
alla stessa figura dell’organismo di diritto pubblico o alle più recenti
previsioni normative che hanno in parte “amministrativizzato” l’attività delle
società a partecipazione pubblica (cfr., ad esempio, l’art. 18 d.l. 25 giugno
2008, n. 112, convertito modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).
Tale
fenomeno ha trovato un punto di emersione anche in sede processuale, tanto che
l’art. 7, comma 2, Cod. proc. amm. espressamente prevede, ai fini del riparto
della giurisdizione, che “Per pubbliche amministrazioni, ai fini del
presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque
tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”.
È
altrettanto vero che, proprio con particolare riferimento alle Università
“private”, la giurisprudenza, in alcune occasioni (in particolare ai fini del
riparto della giurisdizione sulle controversie concernenti il rapporto di
impiego o della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti per le
controversie aventi ad oggetto la responsabilità di amministratori e
dipendenti), ha affermato la loro equiparazione agli enti pubblici, dando
rilevanza gli scopi, alla struttura organizzativa e ai poteri amministrativi
ritenuti del tutto analoghi a quelli delle Università statali (così
testualmente, ad esempio, Cass. Sez. Un. , 11 marzo 2004, n. 5054 riferita alla
LUISS).
18.
Tali tendenze normative e tali arresti giurisprudenziali non possono, tuttavia,
essere invocati per sostenere,sic et simpliciter, una completa
equiparazione, ad ogni fine, tra Università private ed enti pubblici.
La
nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può, infatti,
ritenersi fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altri termini, che il
riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi
fini, ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale
sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica
amministrazione.
Al
contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e
cangiante di ente pubblico. Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso
soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi
istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad
altri istituti regimi normativi di natura privatistica.
Questa
nozione “funzionale” di ente pubblico, che ormai predomina nel dibattito
dottrinale e giurisprudenziale, ci insegna, infatti, che il criterio da
utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è
sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime
normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso
sottesa. Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la
funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un
determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi
verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della
cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono
l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina
pubblicistica.
La
conseguenza che ne deriva è, come si diceva, che è del tutto normale, per così
dire “fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico,
possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti
che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali.
Emblematica,
in tal senso, è la figura dell’organismo di diritto pubblico, che è equiparato
sì all’ente pubblico quando aggiudica contratti (ed è sottoposto alla
disciplina amministrativa dell’evidenza pubblica), rimanendo, però, di regola,
nello svolgimento di altre attività, un soggetto che tendenzialmente opera
secondo il diritto privato.
19.
Tornando al caso oggetto del presente giudizio, appurato che la nozione di ente
pubblico cui si deve fare riferimento è funzionale e cangiante, allora, la
circostanza che talvolta le Università private siano state ritenute enti
pubblici dalla giurisprudenza (e trattate come tali ai fini della giurisdizione
sulle controversie in materia di impiego o della giurisdizione della Corte dei
conti) non è di per sé sufficiente per ritenere che lo siano sempre. Non è di
per sé sufficiente per ritenere che lo siano, per quanto più interessa in
questa sede, anche quando si tratta di verificare la condizione, rilevante per
configurare un rapporto in house, della partecipazione pubblica
totalitaria.
La
nozione di ente pubblico che viene in rilievo per verificare se sia soddisfatto
il requisito del controllo pubblico totalitario non può, infatti, non tener
conto della ratio sottesa all’istituto dell’in house medesimo.
Alla
base dell’istituto vi è, come sopra si è ricordato, la considerazione che il
soggetto in house, nonostante la formale distinta personalità
giuridica, ha nella sostanza un rapporto di immedesimazione con
l’Amministrazione affidante, essendo equiparabile ad un suo organo o ad un suo
ufficio interno privo di sostanziale autonomia decisionale.
Un
rapporto, quindi, solo apparentemente intersoggettivo, ma, nella sostanza,
equiparabile ad un rapporto interorganico. L’esclusione dalla disciplina
dell’evidenza pubblica deriva proprio dal fatto che rispetto al soggettoin
house non è possibile neanche ravvisare una vera e propria fattispecie
contrattuale, atteso che la nozione di contratto implica l’esistenza di una
relazione intersoggettiva, implica cioè l’esistenza di almeno due soggetti che
siano sostanzialmente distinti.
In
quest’ottica si spiega perché la giurisprudenza comunitaria abbia richiesto
come condizione necessaria la partecipazione pubblica totalitaria. La Corte di
giustizia ha motivato l’incompatibilità di qualsiasi partecipazione anche minoritaria
di un’impresa privata sulla base di due considerazioni principali: a)
qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a
considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura
differente rispetto a quelli di interesse pubblico; b)
l’attribuzione diretta di un appalto pubblico ad un soggetto partecipato anche
in minima parte da privati pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza
libera nella misura in cui offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale
dell’ente beneficiario dell’affidamento un vantaggio rispetto ai suoi
concorrenti (cfr. Corte giustizia,Sez. I, 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt
Hall).
È
evidente, quindi, che ciò che rileva per escludere il controllo analogo è la
mera presenza, anche in minima parte, di capitali provenienti da privati,
perché l’investimento privato persegue fini disomogenei rispetto a quelli di
pubblico interesse, escludendo quindi quell’assimilazione sostanziale su cui si
fonda l’istituto dell’in house. Il privato titolare di quei capitali,
inoltre, grazie all’affidamento diretto beneficerebbe di un vantaggio
competitivo ottenuto senza rispetto delle regole sulla concorrenza.
20.
Alla luce di queste considerazioni deve allora ritenersi che la nozione di ente
pubblico che viene in rilievo ai fini della verifica del requisito del
controllo analogo nell’ambito dell’istituto dell’in house sia
particolarmente rigorosa e restrittiva, dovendosi escludere la possibilità di
equiparare all’ente pubblico qualsiasi soggetto che, a prescindere dai poteri,
dai fini e dalla struttura organizzativa, operi grazie a capitali privati. E
questo è certamente il caso delle Università private di cui si discorre in
questa sede.
22.
Ci si deve chiedere se tali conclusioni meritino conferma anche alla luce delle
previsioni contenuto nelle nuove direttive comunitarie in materia di appalti e
concessioni.
Recentemente,
infatti, in sede consultiva, proprio con riferimento specifico al Cineca, si è
affermata, valorizzando la portata delle nuove direttive, la compatibilità
dell’in house con forme minime di partecipazione privata al
capitale (cfr. Cons. Stato, sez. II, parere 30 gennaio 2015, affare n.
18/2013).
Il
riferimento è all’art. 12 della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014;
all’art. 28 della direttiva 2014/25/UE (settori speciali) e all’art. 17 della
direttiva 2014/23/UE (concessioni). Per quel che rileva in questa sede, l’art.
12 della nuova direttiva appalti (2014/24/UE), nel definire in rubrica la
materia come quella afferente gli “appalti pubblici tra enti nell’ambito del
settore pubblico”, ha in parte recepito la preesistente giurisprudenza, ma
in una parte rilevante ha profondamente innovato, definendo in modo
parzialmente diverso le condizioni di esclusione dalla direttiva medesima. L’art.
12, lett. c), in particolare, ammette l’in house nonostante
l’assenza della partecipazione pubblica totalitaria ritenendo l’istituto
compatibile con “forme di partecipazione di capitali privati, che non
comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni
legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano
un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
23.
Il Collegio ritiene che le previsioni contenute nella direttiva 2014/24/UE non
assumano rilievo nel presente giudizio.
24.
In primo luogo, deve escludersi che la nuova direttiva, nonostante il suo
contenuto in alcune parti dettagliato, possa ritenersi self-executing per
la dirimente considerazione che è ancora in corso il termine previsto per la
sua attuazione da parte dello Stato.
È
vero che la giurisprudenza comunitaria riconosce una forma di rilevanza
giuridica alla direttiva anche prima che sia scaduto il termine per il suo
recepimento. Si tratta, però, di una rilevanza giuridica certamente minore rispetto
al c.d. effetto diretto (che implica l’immediata applicazione della direttiva
dettagliata ai rapporti c.d. verticali), che si traduce semplicemente, in nome
del principio di leale collaborazione, in un dovere di standstill,
ovvero nel dovere per il legislatore di astenersi dall’adottare, nel periodo
interocorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine
assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa compromettere il
conseguimento del risultato prescritto (C. giust. 18 dicembre 1997,
C-129/96, Inter-EnvironnementVallonie) e per il giudice di
astenersi da qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto
nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la
messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva (C. giust. UE, 15 aprile
2008, C-268/08, Impact).
Non
si tratta, quindi, del dovere di immediata applicazione o dell’obbligo di
interpretazione conforme (che operano solo dopo che è scaduto il termine di
recepimento), ma soltanto di un obbligo negativo, che si sostanzia nel dovere
di astenersi dall’interpretazione difforme potenzialmente pregiudizievole per i
risultati che la direttiva intende conseguire.
Si
tratta, in altri termini, di un obbligo attenuato rispetto a quello di
interpretazione conforme in quanto discende da un principio sì fondamentale del
diritto dell’Unione, quale è quello di leale cooperazione, ma, pur tuttavia,
gerarchicamente sotto ordinato a quello del primato, il cui mancato rispetto
mina la stessa essenza dell’ordinamento dell’Unione.
Come
è stato efficacemente evidenziato in dottrina, se l’obbligo d'interpretazione
conforme ha un valore prossimo all’effetto diretto, lo stesso valore non può
riconoscersi all’obbligo di astensione da un’interpretazione difforme dal
diritto dell’Unione europea che non consente una lettura della norma interna
additiva, dovendosi altrimenti ritenere i due istituti giuridici
sovrapponibili.
La
fattispecie in esame si colloca al di fuori dell’ambito di questa limitata rilevanza
giuridica “negativa” che eccezionalmente può essere riconosciuta alla direttiva
prima della scadenza del termine di recepimento: le regole sull’in house,
di cui si fa applicazione nel presente giudizio, che potenzialmente potrebbero
contrastare con le previsioni della nuova direttiva, sono, infatti, regole già
esistenti nell’ordinamento nazionale (non introdotte ex novodal
legislatore nazionale in violazione del dovere di standstill) e
sono, inoltre, regole che trovano la loro fonte proprio nell’ordinamento
dell’Unione Europea, avendo esse origine dalla sopra richiamata giurisprudenza
della Corte di giustizia che nel corso degli anni ha fissato rigorosi limiti
alla operatività dell’in house.
Non
si può, quindi, ritenere che la mera pubblicazione della direttiva determini,
prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento, il superamento
automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione
comunitaria.
26.
Per ragioni analoghe, non appare corretto ritenere immediatamente operativa la
possibilità di partecipazione di capitali privati house richiamando il c.d.
obbligo di interpretazione conforme da parte del giudice nazionale.
Nel
caso di specie, invero,non risultano sussistenti i presupposti per la c.d.
interpretazione conforme o per il divieto di interpretazione difforme, secondo
quanto già esposto.
A
venire in rilievo non è, infatti, una norma nazionale “ambigua” o “plurivoca”,
suscettibile di più interpretazioni, di cui almeno una conforme al contenuto di
una direttiva comunitaria sopravvenuta.
Viene
al contrario in rilievo una nozione diin house di matrice
comunitaria (elaborata da una giurisprudenza pietrificata, tanto da costituire
diritto vivente) che è univoca nell’escludere la compatibilità dell’istituto
con la partecipazione di soggetti privati.
Ritenere
da subito possibili forme di partecipazione di capitali privati
significherebbe, pertanto, disapplicare la fin qui consolidata giurisprudenza
comunitaria sui limiti all’in house, dando prevalenza ad una nozione meno
restrittiva prevista da una direttiva sopravvenuta ancora in corso di
recepimento.
Non
si tratterebbe, quindi, di interpretare il diritto nazionale in maniera
conforme al dirittoeurounitario sopravvenuto, ma, al contrario, di disapplicare
o correggere l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia, per assicurarne la conformità alla direttiva sopravvenuta, la quale,
però, (non essendo scaduto il termine di recepimento) non è ancora cogente
all’interno degli ordinamenti nazionali.
27.
In ogni caso, anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte sul regime
giuridico della direttiva in pendenza del termine di recepimento, appare
decisivo il richiamo alla consolidata giurisprudenza nazionale (avallata anche
dalla Corte costituzionale) secondo cui l’in house di derivazione
comunitaria rappresenta, comunque, una deroga alla regola della concorrenza.
Trattandosi di istituto “eccezionale”, di esso il legislatore nazionale può, ma
non deve, avvalersi, risultando, pertanto, certamente legittima la scelta di
configurare sul piano del diritto interno la possibilità di ricorrere
all’istituto in termini più restrittivi rispetto a quelli consentiti (ma non
imposti) dal diritto dell’Unione europea.
Applicando
tali principi, deve quindi ritenersi che l’in house aperto ai
privati previsto dall’art. 12 cit. della nuova direttiva, rappresenti non un
obbligo, ma una facoltà della quale il legislatore nazionale potrebbe
legittimamente anche decidere di non avvalersi, scegliendo di attuare un
livello di tutela della concorrenza ancor più elevato rispetto a quello
prescritto a livello comunitario. La Corte costituzionale, infatti,
nell’affermare la legittimità costituzionale della disciplina nazionale che in
materia di servizi pubblici locali prevedeva limiti all’utilizzo dell’in
house ulteriori rispetto a quelli enucleati dalla giurisprudenza
comunitaria, ha testualmente affermato che “è innegabile l’esistenza di un
“margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princípi di
tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con
riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la
tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato. Ne deriva, in
particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina
che preveda regole concorrenziali di applicazione più ampia rispetto a quella
richiesta dal diritto comunitario” (Corte cost. 17 novembre 2010, n. 325;
in termini analoghi cfr. anche Corte cost. 20 marzo 2013, n. 46).
28.
Va ulteriormente considerato, peraltro, che in forza dell’art. 12 della nuova
direttiva appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati”
devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in
conformità dei trattati”.
Nel
caso di specie, tale ulteriore condizione risulta carente.
In
primo luogo, infatti, manca una prescrizione legislativa che espressamente
preveda la partecipazione di soggetti privati al CINECA.
Non
può, a tal fine, ritenersi sufficiente il già citato art. 7, comma 42-bis,
d.l. n. 95 del 2012, che, prevedendo l’accorpamento dei preesistenti consorzi
interuniversitari Cineca, Cilea e Caspur, ha, di fatto, determinato l’ingresso
nel Cineca di alcuni soggetti privati (Milano Bocconi, Milano Cattolica del
Sacro Cuore, Milano IULM).
La
partecipazione al Cineca di oggetti privati non è, dunque, oggetto di esplicita
prescrizione legislativa, ma è solo una conseguenza di fatto prodotta dalla
fusione per incorporazione (questa sì oggetto di espressa previsione
legislativa) del Cineca con in Consorzi Cilea e Caspur.
In
secondo luogo, anche a rinvenire in tale disposizione la prescrizione
legislativa richiesta dalle nuove direttive, difficilmente risulterebbe
rispettata la condizione di compatibilità con i trattati, che sembra richiedere
il rispetto dei principi di necessità (rispetto al perseguimento di motivi
imperativi di interesse generale), proporzionalità e trasparenza.
29.
Nessun utile argomento a sostegno della tesi dell’appellante può, quindi,
desumersi dall’art. 12 della nuova direttiva appalti.
Ne
deriva, quindi, che, alla luce delle considerazioni svolte, la mancanza della
partecipazione pubblica totalitaria vale, di per sé, alla luce del diritto
vigente, ad escludere la configurabilità del rapporto in house.
30.
Per completezza può comunque ulteriormente evidenziarsi che nel caso di specie
risultano carenti anche gli ulteriori presupposti richiesti dalla
giurisprudenza comunitaria, ovvero l’esistenza di strumenti idonei ad
assicurare l’esercizio da parte dell’Università della Calabria, anche in forma
congiunta con altri enti consorziati, di poteri di controllo analogo.
31.
Non vale in senso contrario richiamare il principio affermato dalla Corte di
giustizia UE nella sentenza sez. III 29 novembre 2012, (cause riunite C-182/11
e C-183/11, Econord), secondo cui, ove più autorità pubbliche
facciano ricorso ad un’entità comune ai fini dell’adempimento di un compito
comune di servizio pubblico, non è indispensabile che ciascuna di esse detenga
da sola un potere di controllo individuale su tale entità, potendo il controllo
esercitarsi anche in maniera congiunta qualora ciascuna delle autorità stesse
partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi della società.
Nella
motivazione, quella stessa sentenza ha, infatti, precisato che ai fini del
controllo congiunto non è sufficiente la mera partecipazione formale al
capitale e agli organi direttivi dell’ente in house.
La
Corte di giustizia ha chiarito, infatti, che il controllo esercitato su
quest’ultimo non può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell’autorità
pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell’entità
in questione, e ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato
la nozione stessa di controllo congiunto.
Infatti,
l’eventualità che un’amministrazione aggiudicatrice abbia, nell’ambito di
un’entità affidataria posseduta in comune, una posizione inidonea a garantirle
la benché minima possibilità di partecipare al controllo di tale entità
aprirebbe la strada ad un’elusione dell’applicazione delle norme del diritto
dell’Unione in materia di appalti pubblici o di concessioni di servizi, dal
momento che una presenza puramente formale nella compagine di tale entità o in
un organo comune incaricato della direzione della stessa dispenserebbe detta
amministrazione aggiudicatrice dall’obbligo di avviare una procedura di gara
d’appalto secondo le norme dell’Unione, nonostante essa non prenda parte in
alcun modo all’esercizio del “controllo analogo” sull’entità in questione (v.,
in tal senso, sentenza del 21 luglio 2005, Coname, C-231/03, punto
24).
La
Corte di giustizia ha, quindi, concluso nel senso che spetta al giudice
nazionale verificare in concreto se il controllo congiunto sia escluso dal
controllo esclusivo esercitato da una delle amministrazioni partecipanti
all’ente in house.
32.
Nel caso di specie, la sussistenza in concreto di un controllo analogo da parte
delle Università consorziate è escluso dalla posizione di indiscussa primazia
riconosciuta al MIUR nell’ambito dell’organizzazione e del funzionamento del
CINECA.
Si
fa riferimento, in particolare, delle previsioni statutarie che stabiliscono le
prerogative del MIUR, significativamente più estese rispetto a quelle
riconosciute agli altri consorziati ma,: la presenza di un rappresentante del
MIUR in tutti gli organi direttivi del CINECA (il Consiglio consortile — art.
7, co. 1, lett. b; il Consiglio di Amministrazione — art. 11, co. 1, lett. d;
il Collegio dei revisori dei conti — art. 13, co. 1); la possibilità di
assumere le più importanti deliberazioni del Consiglio consortile solo con il
voto favorevole del rappresentante del MIUR, che, pertanto, dispone di una
sorta di diritto di veto (art. 7, co. 5 e art. 8, co. 1, lett. l); il potere
attribuito al MIUR di disporre lo scioglimento degli organi consortili, per
gravi inadempienze o perdite (art. 20). A termini di legge, al MIUR è, poi,
riservato il potere di approvare lo Statuto del CINECA (art. 61, RD 31/08/1933,
n. 1592), nonché le sue modifiche.
Tale
posizione di primazia spettante al MIUR porta ad escludere che la
partecipazione paritaria, ancorché con diritto di voto, da parte delle
Università consorziate al Consiglio consortile del Cineca sia sufficiente ad
assicurare il controllo analogo in forma congiunta. Ciò anche in considerazione
del fatto che, per un verso, partecipando in posizione paritaria, ciascuna
università conta per una quota pari a circa 1/72 (e dunque per poco più
dell’1%) e che, comunque, le delibere di maggiore importanza, non possono
essere assunte, nell’ambito dello stesso Consiglio consortile, senza il
consenso del MIUR.
33.
Non risulta, infine, sussistente neanche il requisito dell’attività
prevalentemente svolta a favore di soggetti consorziati.
Risulta
dagli atti (e non è stato, peraltro, specificamente contestato dall’appellante)
che il Cineca svolge, direttamente o tramite società controllate, una parte
rilevante della propria attività a favore di soggetti non consorziati, pubblici
e privati, sia in Italia che all’estero.
Lo
svolgimento di attività imprenditoriale verso l’esterno attribuisce al Cineca
una vocazione commerciale che impedisce di considerarlo alla stregua di un
soggetto in house, ovvero di un mero organo delle Amministrazioni
consorziate. Né in senso contrario è utile il richiamo ai principi recentemente
affermati dalla Corte di giustizia nella sentenza 18 dicembre 2014, causa
C-586/13, (valorizzati, invece, nel già citato parere reso da Cons. Stato, sez.
II, 30 gennaio 2015, cit.), che non si occupa specificamente dell’in house,
limitandosi ad affermare il principio secondo cui la natura di ente pubblico
economico non è di per sé una ragione ostativa alla partecipazione a procedura
di evidenza pubblica.
34.
Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello proposto dal Cineca deve
essere respinto.
Le
spese seguono la soccombenza e sono liquidate in complessivi € 5.000, oltre
agli accessori di legge, e sono posto in solido in capo al Cineca e
all’Università della Calabria.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente
pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna
il Conorzio interuniversitario Cineca e l’Università della Calabria al
pagamento, a favore della società Be Smart. S.r.l., delle spese del giudizio di
appello, che liquida in complessivi € 5.000, oltre agli accessori di legge.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così
deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2015 con
l'intervento dei magistrati:
Luciano
Barra Caracciolo, Presidente
Roberto
Giovagnoli, Consigliere, Estensore
Claudio
Contessa, Consigliere
Gabriella
De Michele, Consigliere
Giulio
Castriota Scanderbeg, Consigliere
|
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L'ESTENSORE
|
IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA
IN SEGRETERIA
Il
26/05/2015
IL
SEGRETARIO
(Art.
89, co. 3, cod. proc. amm.)
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