Il
15 gennaio la Consulta ha depositato la sentenza n. 1 del 2013,
contenente le motivazioni dell'accoglimento con ordinanza n. 218/2012 con cui
era stato accolto il ricorso del Presidente della Repubblica in merito alle
intercettazioni disposte dalla Procura di Palermo in merito alla "Trattativa
Stato-mafia". Che la Costituzionale svolga un'attività non soltanto
giuridica ma anche "politica" è realtà insita nella sua funzione di
"Giudice delle leggi", ossia degli atti politici per antonomasia. Nei
conflitti d'attribuzioni i termini della questione non si spostano troppo.
Diciamo, tuttavia, che nel caso in esame la "politicità" è sembrata
particolarmente accentuata, "patologica" più che fisiologica".
Prima della massima e della sentenza per esteso (vd. infra), vi
riporto l'intervista, sarcastica ed intrisa di sapienza giuridica, del Prof. Franco Cordero apparsa su "Il Fatto
quotidiano" del 2 luglio 2012, dopo la prima rilasciata sulla questione
(dall'insigne giurista) a "La Repubblica" del 29 giugno 2012:
"L’interrogativo
sollevato dalle indagini sulla trattativa Stato-mafia non
sopporta ombre: tergiversare significa non rispondere a una domanda che
riguarda sopra tutti e prima di tutto la salute della democrazia. Sul Fatto quotidiano del 24 giugno Paolo Flores d’Arcais chiedeva se le
dichiarazioni del presidente della Repubblica sulla necessità di una legge in
materia d’intercettazioni fossero davvero il male minore. E commentava: “Pesa
fin qui il silenzio di giuristi e intellettuali da sempre impegnati a difesa
della democrazia”. Cinque giorni dopo il torpore è stato rotto su Repubblica da Franco Cordero, tra i più autorevoli
processual-penalisti italiani.
Professore, gran parte del suo articolo riguarda interventi regi in materia giudiziaria. Perché? La storia aiuta a capire i termini delle questioni: i re erano condottieri, taumaturghi, custodi dell’ordine naturale, giudici par excellence; l’istituto s’evolve nel senso laico d’una divisione dei poteri; l’ultimo residuo mistico è l’idea d’una justice retenue in capo al monarca, liquidata dalla rivoluzione francese; e anacronisticamente riappare. Non è buon segno.
Qualcuno pensa che il capo dello Stato, in quanto presidente del Csm, sia primo giudice.
Se lo fosse, saremmo tornati ai bei tempi in cui Luigi IX, il santo, teneva udienza sotto un olmo. L’autogoverno della magistratura non tocca la fisiopatologia dei processi e relative terapie: lì vigono norme codificate; l’insegna della relativa disciplina è “procedura penale”.
S’è parlato anche di poteri del Colle in merito al coordinamento tra le procure.
Nella sintassi del diritto i poteri non germinano spontaneamente: esistono in quanto norme, costituite in un dato modo da certi organi, li attribuiscono alla tal persona; qui non ne vedo; e coniarle sarebbe un salto indietro.
Lei ha scritto: le conversazioni erano legittimamente intercettate.
Il giudice spiegava perché convenisse ascoltarle: niente da obiettare; e quando vi sia qualcosa d’eccepibile, non spetta al Quirinale rilevarlo, né rimediarvi.
Le intercettazioni indicano un atteggiamento “interventista” nel consigliere del Quirinale.
Dove il fine sia coordinare il lavoro delle procure, se ne occupa il procuratore nazionale antimafia: il quale, interpellato, risponde che tutto è avvenuto regolarmente; non c’era materia controvertibile. L’incongruo intervento, dunque, era gratuito.
S’è detto che il Capo dello Stato funga da cerniera tra le istituzioni.
Lasciamo da parte le metafore. Il quesito appartiene alla procedura penale, antica materia (l’ha fondata Alberto Gandino, magnus practicus, autore del ‘Tractatus de maleficiis’ nel tardo Duecento), ancora fragile ma non al punto che vi attecchisca lo stravagante: supponiamo che Sua Maestà, reputandosi organo censorio in materia giudiziaria, intimi al pubblico ministero Rosso d’astenersi dall’indagare trasmettendo gli atti a Verde; o esiga una richiesta d’archiviazione; o chieda conto al giudice del come mai non ritenga legittimo l’impedimento addotto dall’imputato; o interloquisca sulle prove o prescriva una lettura dei testi legali (mattane simili sfilano in un vecchio film girato da René Clair negli Usa, L’ultimo miliardario); l’unica risposta sarebbe una caritatevole fin de non recevoir, fingere che non sia avvenuto niente.
Se uno studente sostenesse quell’idea nell’esame di procedura penale?
Cantare i commi del codice è atletismo mnemonico: basta averne sotto mano un’edizione up to date; l’amnesia quindi merita indulgenza. Le storture sintattiche, no.
I pochi che hanno osato chiedere conto al Quirinale sono stati immediatamente tacciati di attentare alla democrazia.
Dev’essersi formata una retorica le cui battute escono automaticamente, cariche d’enfasi. Il ministro degli Interni denuncia l’aggressione al Capo dello Stato esortando gli italiani al massimo sdegno; e a proposito d’intercettazioni raccomanda ripensamenti seri ossia restrittivi. Altri vedono “schegge” togate cospiranti in difesa del “privilegio corporativo”, formula rumorosa priva d’ogni senso. Nel coro cantano a pieni polmoni plaudi-tori dell’uomo d’Arcore, in livrea o pseudo-equidistanti.
Anche il presidente Napolitano, chiamato in causa personalmente, nomina il bavaglio.
Tipica gaffe, sia detto rispettosamente, e rincresce notarla: sed magis amica veritas.
Sotto il governo Berlusconi parte della stampa protestava.
Ogni tanto scattano riflessi condizionati, inibitori e compulsivi; vi sono cose da non dire, “infandum”. Manierismi e stereotipi segnalano un calo della tensione critica, spiegabile dopo tanti anni d’asfissiante maleducazione verbale. Berlusco Magnus, uomo d’una suprema inettitudine al governo, a parte la scaltra gestione d’affari suoi, passa alla storia come formidabile guastatore dei meccanismi mentali collettivi: non s’è rassegnato alla caduta; padrone dell’ordigno mediatico, ha ancora delle chances in ambienti ridotti al panico dalla crisi, lui che se l’era covata e la negava. Recessioni intellettuali non costano meno dell’economica. Siamo al punto in cui quasi tutto diventa sostenibile, anche 2+2=5.
Il governatore della Lombardia da giorni nega d’essere sotto indagine perché la Procura non gli ha mandato avvisi di garanzia.
Quanto contorcibili siano gli argomenti legali, lo dicono famosi processi. Discorrere seriamente è un handicap sui palchi dove qualunque gesto verbale ha corso, specie se violento, convulso, deforme: platee scalmanate applaudono. Da notare come l’effetto distorsivo colpisca anche l’establishment culturale configurandosi come logofobia: chiamiamola paura del pensiero; qualche scuola lo vuole corto, saltuario, liquido; le catene ragionate costano fatica; “faticoso” è epiteto ricorrente nel lessico degli addetti alla censura.
L’urlo continuo manda in secondo piano cose importanti: qui dei magistrati indagano sulle stragi, una delle ferite più dolorose nella storia d’Italia.
Fosse vera l’ipotesi d’un patto tra istituzioni e la mafia, saremmo uno Stato dall’identità molto equivoca. Quando Moro stava in mano alle Brigate Rosse, nella cosiddetta prigione del popolo, che un ministero degli Interni inquinato da Gladio e P2 non riusciva a scovare, ed era condannato a morte se non fossero state accolte certe richieste, correva uno slogan: “Lo Stato non tratta con gli eversori terroristi”; costa poco declamare massime virtuose sulla pelle altrui. La premessa suona falsa, perché niente vietava il riscatto, giustificato dalla necessità di salvarlo “dal pericolo attuale d’un grave danno alla persona”, “da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile” (art. 54 Codice penale). Il caso attuale risulta alquanto diverso, supponendo negoziati al vertice: non eravamo ridotti al punto che la sopravvivenza dell’italicum genus dipenda da accordi con la mafia; né costituisce curiosità fatua sapere cosa avvenisse dietro le quinte; e spetta ai tribunali dire se l’accaduto sia delitto.
Tra poco sarà il 19 luglio, vent’anni dalla morte di Borsellino, e nelle cerimonie tutti chiederanno “tutta la verità”.
In Italia la politica è anche teatro, talvolta infimo, d’un vario genere, buffo, patetico, grottesco, feroce, gaglioffo, funereo (che spettacolo i visi alla messa funebre d’Aldo Moro), persino postribolare. Il senso dell’atto scenico va colto in particolari minimi, quali smorfie appena percettibili, tic, espressioni vacue. Speriamo che l’iter palermitano arrivi al dibattimento, se emergono prove tali che l’accusa sia sostenibile: affari simili è bene che diventino res iudicata; esiste una res iudicanda più seria del sapere in che Stato viviamo?
Principio di diritto.
il Capo dello Stato non può essere soggetto ad intercettazioni telefoniche, e che neppure quando le sue conversazioni siano captate «casualmente» può essere fatto un legittimo uso processuale dei relativi contenuti(salvo quanto tra breve si dirà). Anche in tali casi, dunque, la documentazione relativa alle comunicazioni deve essere distrutta, in applicazione del comma 3 dell'art. 271 c.p.p. e senza previo deposito della medesima: le parti del processo, dunque, non devono essere portate a conoscenza del contenuto dei colloqui, né possono interloquire sulla richiesta di distruzione che il pubblico ministero deve rivolgere al giudice.
Sentenza per esteso
SENTENZA N. 1
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’attività di intercettazione telefonica svolta nell’ambito di un procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, effettuata su utenza di altra persona, nel corso della quale sono state captate conversazioni del Presidente della Repubblica, promosso dal Presidente della Repubblica, con ricorso notificato il 24 settembre 2012, depositato in cancelleria il 26 settembre 2012 ed iscritto al n. 4 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2012, fase di merito.
Visto l’atto di costituzione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo;
uditi nell’udienza pubblica del 4 dicembre 2012 i Giudici relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati dello Stato Michele Giuseppe Dipace, Gabriella Palmieri e Antonio Palatiello per il Presidente della Repubblica e gli avvocati Giovanni Serges, Mario Serio e Alessandro Pace per il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso depositato il 30 luglio 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, «per violazione degli articoli 90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne costituiscono attuazione» – in particolare, l’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione), «anche con riferimento all’art. 271 del codice di procedura penale» – nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, in relazione all’attività di intercettazione telefonica, svolta riguardo alle utenze di persona diversa nell’ambito di un procedimento penale pendente a Palermo, nel corso della quale sono state captate conversazioni intrattenute dallo stesso Presidente della Repubblica.
1.1.– Il ricorrente riferisce che, con nota del 27 giugno 2012, l’Avvocato generale dello Stato, su mandato del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, aveva chiesto al dott. Francesco Messineo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, «una conferma o una smentita» di quanto risultava dalle dichiarazioni rese dal sostituto Procuratore Antonino Di Matteo nel corso di un’intervista pubblicata dal quotidiano «La Repubblica» del 22 giugno 2012: che erano state intercettate, cioè, conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, considerate allo stato irrilevanti, ma che la Procura si sarebbe riservata di utilizzare.
Con nota del 6 luglio 2012, il Procuratore della Repubblica – allegando la missiva del giorno precedente, con la quale il dott. Di Matteo aveva rappresentato che, in risposta ad una domanda «assolutamente generica» dell’intervistatore sulla sorte delle intercettazioni effettuate, egli si era limitato «all’ovvio richiamo alla corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo degli esiti delle attività di intercettazione telefonica» – aveva comunicato che la Procura di Palermo, «avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede[va] alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge».
Con successiva nota, diffusa il 9 luglio 2012, e con lettera pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» l’11 luglio 2012, il dott. Messineo aveva ulteriormente affermato che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione». Si aggiungeva dal Procuratore che, «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti. Ciò è quanto prevedono le più elementari norme dell’ordinamento […]».
1.2.– Ad avviso del ricorrente, la tesi del Procuratore della Repubblica non sarebbe condivisibile, in quanto, alla luce dell’art. 90 Cost. e dell’art. 7 della legge n. 219 del 1989 – salvi i casi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione e con l’applicazione del regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento d’accusa – le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché «indirette» od «occasionali», dovrebbero ritenersi assolutamente vietate. Di conseguenza, esse non potrebbero essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte, dovendo il pubblico ministero chiederne al giudice l’immediata distruzione.
L’art. 90 Cost. stabilisce, infatti, che «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione», aggiungendo che «in tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei propri membri». L’immunità in tal modo accordata al Presidente non consisterebbe solo in una irresponsabilità giuridica per le conseguenze penali, amministrative e civili eventualmente derivanti dagli atti tipici compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, ma anche in una irresponsabilità politica, diretta a garantire la piena libertà e la sicurezza di tutte le modalità di esercizio delle attribuzioni presidenziali. Lungi dal costituire un «inammissibile privilegio», legato ad esperienze ormai definitivamente superate e tale da incrinare il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, l’immunità in questione risulterebbe strumentale all’espletamento degli altissimi compiti che la Costituzione demanda al Presidente della Repubblica, nella sua veste di Capo dello Stato e di rappresentante dell’unità nazionale, intesi ad assicurare in modo imparziale, insieme agli altri organi di garanzia, il corretto funzionamento del sistema istituzionale e la tutela degli interessi permanenti della Nazione. La previsione dell’art. 90 Cost. rappresenterebbe, in questa prospettiva, anche un limite alle attribuzioni degli altri poteri dello Stato, le quali, ove non correttamente esercitate, menomerebbero le prerogative presidenziali.
Sarebbe, in pari tempo, del tutto evidente come, nello svolgimento dei predetti compiti, debba essere garantito al Presidente della Repubblica «il massimo di libertà di azione e di riservatezza», anche perché alcune delle attività che egli pone in essere nel perseguimento delle finalità istituzionali – e di non poco significato – «non hanno un carattere formalizzato».
La conseguente impossibilità che vengano posti limiti alla libertà di comunicazione del Capo dello Stato, anche da parte di altra autorità, risulterebbe confermata dall’interpretazione sistematica delle norme di legge ordinaria che, in attuazione dei principi costituzionali, disciplinano la posizione del Presidente. L’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 – disposizione che, in quanto contenuta in una fonte legislativa dichiaratamente volta ad attuare l’art. 90 Cost., assumerebbe un «ruolo integrativo» della norma costituzionale – vieta infatti, in modo assoluto, di disporre l’intercettazione di conversazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione nei confronti del Presidente della Repubblica, se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica. Il divieto è sancito con riferimento ai reati per i quali, in base all’art. 90 Cost., il Presidente può essere messo in stato di accusa (alto tradimento e attentato alla Costituzione). Ma se, in questi casi, vi è un divieto assoluto di intercettazione «diretta» fin quando il Presidente è in carica, sarebbe «naturale» che sussista un divieto, altrettanto assoluto, di intercettare e, se del caso, di utilizzare le comunicazioni presidenziali anche qualora captate in modo indiretto o casuale, trattandosi di attività egualmente idonea a ledere la sua sfera di immunità.
Sarebbe poi altrettanto evidente che il divieto assoluto di ricorso al controllo delle comunicazioni telefoniche, enunciato in rapporto ai reati presidenziali, debba estendersi, nel silenzio della legge, ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente. A maggior ragione dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di sue conversazioni intercettate occasionalmente nel corso di indagini concernenti reati addebitabili a terzi, come è avvenuto nel caso in esame.
1.3.– In conclusione, il divieto di intercettazione riguarderebbe anche le cosiddette intercettazioni «indirette» o «casuali» effettuate mentre il Presidente della Repubblica è in carica: con l’immediata conseguenza che i risultati delle captazioni eventualmente intervenute non potrebbero essere comunque utilizzati, dovendo la relativa documentazione essere immediatamente distrutta in applicazione dell’art. 271 cod. proc. pen. Varrebbero infatti a fortiori, per il Capo dello Stato, le tutele stabilite per l’intercettazione delle comunicazioni del difensore (art. 103 cod. proc. pen.): segnatamente, il divieto assoluto di utilizzazione, essendosi di fronte ad un atto eseguito «fuori dei casi consentiti della legge».
Con riguardo all’illegittima captazione di conversazioni del Presidente non sarebbero applicabili, dunque, né la procedura prevista dall’art. 268, commi 4 e seguenti, cod. proc. pen. (deposito della documentazione nella segreteria del pubblico ministero; facoltà di esame della stessa da parte dei difensori; acquisizione, ad opera del giudice per le indagini preliminari, delle conversazioni indicate dalle parti che appaiano non manifestamente irrilevanti; stralcio delle conversazioni di cui è vietata l’utilizzazione; inserimento nel fascicolo della documentazione acquisita e possibilità per le parti di estrarre copia delle registrazioni), né le disposizioni dell’art. 269 cod. proc. pen. (conservazione dei verbali e delle registrazioni fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione; udienza camerale per la distruzione, a tutela delle riservatezza degli interessati e su loro richiesta, delle registrazioni e dei verbali la cui conservazione non risulti necessaria ai fini del procedimento), né, ancora, la previsione dell’art. 270 cod. proc. pen. (utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi, secondo le prescrizioni del citato art. 268).
Egualmente inapplicabile sarebbe l’art. 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), che disciplina le intercettazioni indirette o casuali di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento. Alla luce della normativa costituzionale e ordinaria richiamata in precedenza, la posizione del Presidente della Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo, infatti, può essere sottoposto ad intercettazione da parte del giudice ordinario, previa autorizzazione della Camera di appartenenza; correlativamente, al solo parlamentare si riferisce l’art. 6 della legge n. 140 del 2003, quando richiede un’autorizzazione «successiva» per l’utilizzazione delle intercettazioni casuali. Con riguardo alle intercettazioni occasionalmente effettuate nel corso di indagini svolte nei confronti di altri soggetti, la tutela del parlamentare risponderebbe, d’altra parte, ad una ratio diversa da quella della tutela del Presidente della Repubblica. Rispetto a quest’ultimo, detta ratio risiederebbe nella protezione della funzione; per il parlamentare, invece, nella sola salvaguardia della sua riservatezza, che – come rilevato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 390 del 2007 – sarebbe ingiustificato differenziare da quella di qualunque altro cittadino, non essendo in tal caso configurabile un pregiudizio per la funzionalità della Camera di appartenenza, unico presupposto dell’autorizzazione prevista dall’art. 68 Cost.
Rispetto all’intercettazione di conversazioni del Presidente della Repubblica, in definitiva, non avrebbe senso porsi il problema di una loro eventuale utilizzazione nel procedimento in corso o in altri procedimenti, a carico o in difesa di diversi soggetti, poiché ciò vanificherebbe comunque la garanzia funzionale riconosciuta negli articoli da 87 a 90 della Costituzione; né assumerebbe rilievo la distinzione tra intercettazioni dirette, indirette o casuali, trattandosi di concetti che trovano il loro fondamento nella citata legge n. 140 del 2003 – insuscettibile di applicazione analogica al Capo dello Stato – e che presuppongono, altresì, l’esistenza di un organo competente al rilascio di una autorizzazione preventiva o successiva.
1.4.– Alla stregua delle considerazioni che precedono, si dovrebbe conclusivamente ritenere che la Procura della Repubblica di Palermo abbia fatto un uso non corretto dei propri poteri, menomando, con ciò, le prerogative del ricorrente. Queste ultime risulterebbero lese, in specie, dall’avvenuta registrazione delle intercettazioni «nelle quali era casualmente e indirettamente coinvolto il Presidente della Repubblica»; dalla permanenza della relativa documentazione tra gli atti del procedimento; dal fatto che ne sia stata valutata la rilevanza ai fini di una eventuale utilizzazione investigativa o processuale, e – soprattutto – dal manifestato intento della Procura di attivare un’udienza secondo le modalità indicate dall’art. 268 cod. proc. pen., per ottenerne l’acquisizione o la distruzione: procedura che – anche in ragione dell’instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggraverebbe gli effetti lesivi delle precedenti condotte, rendendoli definitivi.
Il ricorrente, pertanto, chiede alla Corte di dichiarare che non spetta alla Procura di Palermo «omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali di conversazioni del Presidente della Repubblica», delle quali si discute, né valutarne la «(ir)rilevanza», offrendole alla «udienza stralcio» disciplinata dall’art. 268 cod. proc. pen.
2.– Il conflitto è stato dichiarato ammissibile dalla Corte con ordinanza n. 218 del 2012, «impregiudicata ogni ulteriore e diversa determinazione, anche in relazione alla stessa ammissibilità del ricorso».
Con ordinanza istruttoria del 19 settembre 2012, la stessa Corte – ritenendo già da quel momento necessaria la cognizione dei relativi elementi – ha disposto che la Procura di Palermo, entro il termine di venti giorni dalla comunicazione del provvedimento, indicasse il numero e la data delle intercettazioni di comunicazioni telefoniche del Presidente della Repubblica effettuate nell’ambito del procedimento in questione, e che trasmettesse, altresì, copia integrale ed autentica delle richieste e dei provvedimenti di autorizzazione, compresi gli eventuali decreti di proroga, delle intercettazioni eseguite nell’ambito del citato procedimento, dei relativi verbali e delle eventuali relazioni di polizia giudiziaria, con esclusione delle parti relative al contenuto delle conversazioni cui avesse partecipato il Capo dello Stato. Adempimenti, questi, che sono stati tempestivamente effettuati.
Con decreto in pari data, il Presidente della Corte ha, inoltre, disposto che tutti i termini del procedimento fossero ridotti alla metà.
3.– Si è costituita nel giudizio la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, nella persona del Procuratore della Repubblica, dott. Francesco Messineo, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, in subordine, rigettato nel merito.
3.1.– In via preliminare, la resistente descrive in modo analitico il contesto fattuale entro il quale si collocano le intercettazioni dei colloqui telefonici del Presidente della Repubblica che hanno dato luogo al ricorso. Riferisce, in particolare, come dette intercettazioni siano state effettuate su utenze telefoniche in uso al senatore – non più in carica – Nicola Mancino, nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08, scaturito dalla riapertura delle indagini relativamente ad un altro procedimento (n. 18101/00), avente ad oggetto la cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia negli anni a cavallo tra il 1992 e 1994, in rapporto alla quale era stato ipotizzato il delitto di cui all’art. 338 del codice penale, aggravato ai sensi dell’art. 339 del medesimo codice e dell’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203.
Le operazioni di intercettazione, regolarmente autorizzate dal Giudice per le indagini preliminari tanto nei confronti del sen. Mancino che di altre persone, avevano avuto inizio nei primi giorni del novembre 2011. Per quanto in particolare attiene alle diverse utenze telefoniche in uso al predetto sen. Mancino, sottoposte a intercettazione in forza di due distinti decreti autorizzativi (uno solo dei quali seguito da ripetute proroghe), il controllo si era protratto dal 7 novembre 2011 al 9 maggio 2012, consentendo la captazione di 9.295 conversazioni. Tra esse, solo quattro – della durata complessiva di diciotto minuti – erano costituite da colloqui con il Presidente della Repubblica. Tali colloqui si erano svolti nei giorni 24 dicembre 2011, 31 dicembre 2011, 13 gennaio 2012 e 6 febbraio 2012. Nei primi due casi, si era trattato di telefonate “in uscita” (effettuate, cioè, dalla persona sottoposta alle indagini); nei casi successivi, di telefonate “in entrata”, cioè promananti dal Capo dello Stato (anche se la conversazione del 13 gennaio 2012 era stata preceduta da un contatto tra l’utenza sottoposta a controllo e il centralino del Quirinale, nel corso del quale il sen. Mancino aveva chiesto di parlare con il Presidente della Repubblica).
Con riguardo al decreto di autorizzazione sulla cui base erano stati captati i primi due colloqui telefonici del Capo dello Stato, la Procura palermitana, ritenendo che non fossero emersi elementi investigativi utili, non aveva chiesto la proroga delle operazioni di intercettazione, le quali erano cessate, quindi, il 26 gennaio 2012. Era stata, invece, prorogata sino al maggio 2012 l’efficacia del secondo decreto, sicché aveva potuto essere intercettata anche, in data 20 aprile, una chiamata proveniente dal centralino del Quirinale e diretta al sen. Mancino, il quale, però, non era stato reperito.
Su disposizione della Procura, cui la polizia giudiziaria aveva prontamente riferito in forma orale, il verbale delle intercettazioni dei colloqui telefonici ai quali aveva preso parte il Capo dello Stato era stato redatto senza alcuna trascrizione, neppure in forma sintetica, del contenuto delle conversazioni.
All’esito delle attività investigative, la Procura aveva deciso di esercitare l’azione penale solo nei confronti di alcuni degli indagati e per alcune delle incolpazioni, e di proseguire invece le indagini, con riserva di ulteriori valutazioni, riguardo agli altri indagati e alle residue ipotesi di reato. Il 1° giugno 2012 era stata, quindi, disposta la separazione del procedimento relativo ai soggetti per i quali era maturato il proposito di esercitare l’azione penale, tra cui il sen. Mancino. Nell’ambito di tale procedimento, che aveva preso il n. 11719/12, dopo la notificazione agli interessati dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 415-bis cod. proc. pen., era stata formulata richiesta di rinvio a giudizio, cui era seguito il decreto giudiziale di fissazione dell’udienza preliminare, convocata per il 29 ottobre 2012. Nel fascicolo relativo al procedimento separato, la Procura aveva, peraltro, inserito le sole intercettazioni ritenute utili per il processo, tra le quali non figuravano quelle concernenti i colloqui tra il sen. Mancino e il Capo dello Stato. La documentazione relativa a tali colloqui – tuttora custodita nel fascicolo relativo al procedimento n. 11609/08 – non aveva, pertanto, mai formato oggetto di deposito idoneo a renderla conoscibile alle parti processuali.
3.2.– Ciò premesso – e dopo aver rimarcato come, nel sollevare l’odierno conflitto, il Presidente della Repubblica si sia comportato in modo diverso rispetto a quanto era avvenuto in occasione di due precedenti intercettazioni «indirette» di sue comunicazioni, operate nel 2009 e nel 2010 nel corso di altrettante indagini della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze – la resistente eccepisce l’inammissibilità del ricorso sotto un duplice profilo.
In primo luogo, il ricorso avrebbe un oggetto «giuridicamente impossibile». Il ricorrente, infatti, avrebbe chiesto alla Corte di ordinare alla Procura di Palermo un «facere» – cioè «l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali del Presidente della Repubblica» – che esulerebbe dai poteri processuali della resistente. Tanto nell’ipotesi prevista dall’art. 271, comma 3, che in quella regolata dagli artt. 268, comma 6, e 269, comma 2, cod. proc. pen., la distruzione della documentazione delle intercettazioni non potrebbe essere comunque disposta dal pubblico ministero, ma esclusivamente dal giudice, a garanzia degli eventuali interessi di segno contrario.
In secondo luogo, il petitum risulterebbe contraddittorio rispetto alle ragioni addotte in suo sostegno. Pur invocando un provvedimento che esclude ogni vaglio giurisdizionale, infatti, la stessa Avvocatura dello Stato avrebbe prospettato, nella motivazione del ricorso, il dovere della Procura di chiedere «al giudice» la distruzione della documentazione, conformemente a quanto prevede il citato art. 271 del codice di rito penale.
3.3.– Nel merito, il ricorso sarebbe comunque infondato.
Al riguardo, la resistente rimarca come il carattere del tutto «casuale», e non già “mirato”, della captazione dei colloqui presidenziali sia stato riconosciuto dalla stessa Presidenza della Repubblica, e risulti comunque eloquentemente dimostrato dalla enorme sproporzione tra il numero complessivo delle telefonate intercettate sulle utenze in uso all’indagato e quello delle conversazioni – appena quattro – cui ha preso parte il Capo dello Stato.
Ciò posto, nessuno dei comportamenti censurati dal ricorrente potrebbe essere ritenuto realmente produttivo di una menomazione delle prerogative presidenziali.
Quanto all’avvenuta registrazione delle telefonate, si tratterebbe di operazione radicalmente priva di ogni idoneità lesiva in ragione delle sue stesse modalità tecniche. La registrazione, infatti, ha luogo in modo automatico, tramite apparecchiature informatiche, non controllate né influenzabili, almeno nell’immediato, da alcun operatore: e ciò anche quando la polizia giudiziaria sia posta in grado di ascoltare simultaneamente nei propri uffici le conversazioni intercettate, non avendo il cosiddetto ascoltatore “da remoto” – a garanzia della genuinità della registrazione – alcuna possibilità di intervenire per interrompere le operazioni.
Riguardo, poi, alla lamentata allegazione del testo delle telefonate agli atti del procedimento, essa non sarebbe mai avvenuta. Proprio perché ritenute processualmente irrilevanti, infatti, le intercettazioni delle comunicazioni presidenziali non sono state allegate al fascicolo relativo al procedimento n. 11719/12, attualmente pendente davanti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo. In ogni caso, l’allegazione agli atti costituirebbe «una circostanza in sé neutra»: ogni atto di indagine si colloca, infatti, all’interno di un determinato procedimento, onde la relativa documentazione è necessariamente unita al corrispondente fascicolo.
Per quel che attiene, ancora, alla censurata valutazione in ordine alla rilevanza delle intercettazioni, nella lettera inviata dal Procuratore della Repubblica di Palermo all’Avvocatura generale dello Stato il 6 luglio 2012 si legge che la Procura ha valutato come irrilevante «qualsivoglia comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato». Da tale affermazione si desumerebbe che la valutazione ha avuto ad oggetto le sole espressioni verbali della persona sottoposta ad indagini nel suo colloquio con il Presidente, e non le risposte fornite dell’interlocutore.
Peraltro, anche a voler prescindere da tale rilievo, resterebbe dirimente la considerazione che un divieto assoluto di valutazione delle espressioni verbali del Presidente, occasionalmente captate nel contesto di una intercettazione legittima, sarebbe ipotizzabile solo a fronte di una prerogativa presidenziale intesa come immunità totale dalla giurisdizione. Per converso, in presenza di un quadro costituzionale che prevede l’irresponsabilità del Capo dello Stato per gli atti funzionali, ma non lo esenta dalla giurisdizione per gli atti estranei alla funzione, e che certamente non copre le responsabilità del suo interlocutore, l’attività di valutazione risulterebbe non solo legittima, ma «doverosa e ineliminabile».
Quanto, infine, all’ipotizzato ricorso alla procedura prevista all’art. 268, commi 6 e seguenti, cod. proc. pen., sarebbe questa, in realtà, l’unica modalità legittima per pervenire alla distruzione del materiale. Alla fattispecie in esame, infatti, non sarebbe applicabile l’art. 271 cod. proc. pen., non ricorrendo alcuna delle ipotesi di inutilizzabilità disciplinate da tale disposizione.
Non verrebbe in rilievo, in particolare, la previsione del comma 1, relativa alle intercettazioni eseguite «fuori dai casi consentiti dalla legge», la quale – alla luce di quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità – presupporrebbe, in ossequio al principio di tassatività delle invalidità processuali, l’avvenuta violazione di un divieto normativo espresso, nella specie non rinvenibile. Il divieto di intercettare le comunicazioni del Presidente della Repubblica sancito dall’art. 7 della legge n. 219 del 1989 atterrebbe, infatti, alle sole intercettazioni «dirette». Sulla base delle sentenze della Corte costituzionale n. 390 del 2007, n. 113 e n. 114 del 2010, la preclusione potrebbe venire estesa, al più, alle intercettazioni indirette «non accidentali» – ossia alle intercettazioni che, sebbene disposte su utenze di altri soggetti, mirino in concreto ad accedere nella sfera delle comunicazioni del Capo dello Stato – ma non pure alle intercettazioni «casuali». Un divieto di intercettare anche «casualmente» le conversazioni presidenziali, del resto, sarebbe inconcepibile sul piano logico, dato che qualsiasi proibizione legale presuppone necessariamente che l’accadimento che si intende scongiurare sia prevedibile e prevenibile: tratti, questi, incompatibili con un evento qualificato come «casuale».
La fattispecie in discussione non sarebbe riconducibile neppure alla previsione del comma 2 dell’art. 271 cod. proc. pen., inerente alle intercettazioni di comunicazioni coperte dal segreto professionale. L’accostamento – prospettato dal ricorrente – tra le intercettazioni casuali di conversazioni presidenziali e le intercettazioni delle comunicazioni del difensore sarebbe, infatti, chiaramente improprio, non essendovi alcuna analogia tra le due ipotesi.
Anche nel caso della distruzione delle intercettazioni inutilizzabili, disciplinato dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen., non sarebbe d’altronde possibile prescindere – oltre che dall’intervento del giudice – dalle garanzie del contraddittorio. Varrebbe, a tale riguardo, il principio enunciato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 463 del 1994 in rapporto alla procedura di distruzione delle intercettazioni a tutela della riservatezza, regolata dall’art. 269, comma 2, cod. proc. pen.: e, cioè, che il giudice, prima di decidere, deve sentire in camera di consiglio le parti interessate in ordine all’eventuale rilevanza in futuro delle registrazioni, quale possibile prova di non colpevolezza. Identica sarebbe, infatti, l’esigenza che ricorre nelle due situazioni, di non impedire all’innocente di portare in giudizio la prova che lo scagiona, ancorché irritualmente acquisita, essendo la sanzione dell’inutilizzabilità destinata a colpire esclusivamente gli «effetti “contra reum”» dell’atto di cui si discute.
La distruzione, nel caso regolato dall’art. 271, non potrebbe essere inoltre immediata, in quanto – secondo la giurisprudenza di legittimità – richiederebbe, a differenza di quella disposta ai sensi dell’art. 269, commi 2 e 3, cod. proc. pen., «una statuizione di inutilizzabilità processualmente insuscettibile di modifiche, che faccia escludere la possibilità di utilizzazione futura nell’ambito del processo a carico di altri imputati a seguito di diverse e autonome valutazioni del giudice competente».
3.4.– Su un piano più generale, la Procura contesta la validità della tesi del ricorrente in ordine all’ampiezza delle prerogative presidenziali, stando alla quale l’art. 90 Cost. – prevedendo l’irresponsabilità del Presidente per gli atti funzionali – configurerebbe, in sostanza, un «regime globale di immunità» rispetto all’applicazione della legge penale, sostanziale e processuale, cui farebbe da corollario una generale esigenza di salvaguardia della riservatezza delle comunicazioni.
Tale ricostruzione – assimilando, in pratica, l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica alla «inviolabilità» del sovrano nei regimi monarchici – si scontrerebbe con il rilievo che, nello Stato democratico-costituzionale, le immunità non costituiscono privilegi, accordati «intuitu personae», ma valgono come garanzia della funzione esercitata nei confronti di condizionamenti esterni promananti da singoli magistrati. Ciò impedirebbe di ritenere che l’irresponsabilità del Presidente si estenda ai reati extrafunzionali: ipotesi, questa, contraddetta – oltre che dal dato letterale – da precisi argomenti di ordine storico e sistematico (ricavabili rispettivamente dai lavori dell’Assemblea costituente e dalla disciplina recata dalla legge n. 219 del 1989), e specificamente disattesa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 154 del 2004.
Le vicende relative alla legge n. 140 del 2003 e alla legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), le quali prevedevano espressamente la sospensione dei processi per i reati extrafunzionali del Presidente della Repubblica – leggi entrambe colpite da dichiarazioni di illegittimità costituzionale, rispettivamente con le sentenze n. 24 del 2004 e n. 262 del 2009 – avrebbero d’altronde dimostrato, in modo inequivoco, come tanto in sede parlamentare, quanto da parte dello stesso Presidente della Repubblica, si desse per scontato che l’improcedibilità per i suddetti reati non fosse desumibile dall’art. 90 Cost.
Il regime delle immunità costituzionali resterebbe, in ogni caso, strettamente connesso alla pertinente disciplina positiva, senza che l’area dell’irresponsabilità possa essere dilatata facendo leva sulla considerazione complessiva della posizione di un determinato organo nel sistema costituzionale. Nella specie, la circostanza che il Presidente della Repubblica sia il rappresentante dell’unità nazionale non potrebbe essere, dunque, fonte di ulteriori poteri, quale quello di esigere la distruzione delle intercettazioni di tutte le sue telefonate, anche se intrattenute con persone sottoposte a indagine penale.
Sotto altro profilo, sarebbe pacifico che, nell’ordinamento costituzionale italiano, ai fini della tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni, risulti assolutamente irrilevante il relativo contenuto, «quale che ne sia il mittente o il destinatario». Di conseguenza sarebbe altrettanto irrilevante, per le intercettazioni telefoniche, la distinzione tra atti funzionali e non. Ma dall’assunto non discenderebbe, come vorrebbe il ricorrente, che tutte le conversazioni alle quali prenda parte il Presidente della Repubblica, costituendo atti di funzione, godano dell’immunità, e cioè che il Presidente parli sempre e soltanto, anche nelle comunicazioni riservate, come Capo dello Stato. Al contrario, l’intercettazione occasionale – dunque del tutto involontaria e non evitabile – non integrerebbe, in ragione di tali caratteristiche, alcuna lesione delle prerogative presidenziali, quale che sia il contenuto del colloquio.
3.5.– La resistente rimarca, infine, come l’ipotetico accoglimento del ricorso determinerebbe conseguenze di particolare gravità, inconciliabili con le affermazioni delle già citate sentenze n. 390 del 2007, n. 113 e n. 114 del 2010. In particolare, una simile decisione renderebbe illecito «ex se» anche l’ascolto occasionale di una conversazione presidenziale nel contesto di un’intercettazione debitamente autorizzata; impedirebbe al magistrato penale di prendere cognizione del contenuto della comunicazione, anche al solo fine di apprezzare la responsabilità di un altro soggetto, non protetto da alcuna immunità; imporrebbe, infine, l’immediata distruzione delle intercettazioni, in violazione del diritto di difesa del terzo che avesse un interesse contrario alla distruzione. In una simile situazione, i magistrati sarebbero inevitabilmente indotti ad astenersi dal disporre intercettazioni a carico di tutti coloro che, ancorché sottoposti ad indagine penale, potrebbero avere titolo per comunicare direttamente con il Presidente della Repubblica, in ragione di attuali o pregressi rapporti: ciò, peraltro, in aperto contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.).
4.– In prossimità dell’udienza pubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria illustrativa, con la quale, anzitutto, ha contestato la fondatezza delle eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dalla Procura palermitana.
4.1.– Quanto all’eccezione di inammissibilità per «impossibilità giuridica del petitum», l’Avvocatura rileva come, nell’atto introduttivo del giudizio, non sia stato affatto ipotizzato che il pubblico ministero debba procedere alla distruzione delle intercettazioni in via diretta, senza passare attraverso il vaglio giurisdizionale. Il ricorso richiama, infatti, il decreto del Capo dello Stato del 16 luglio 2012, recante la determinazione di proporre il conflitto – decreto allegato al ricorso stesso e destinato, dunque, a «fa[re] corpo» con esso – nel quale si lamenta che il pubblico ministero non abbia immediatamente richiesto «al giudice» la distruzione del materiale. Nella motivazione del ricorso, inoltre, la disposizione applicabile alla fattispecie è individuata nell’art. 271 cod. proc. pen., che al comma 3 demanda al giudice, appunto, il compito di disporre la distruzione delle intercettazioni eseguite fuori dei casi previsti dalla legge. Di conseguenza, la formula sintetica utilizzata nelle conclusioni – la richiesta, cioè, di dichiarare che non spetta alla Procura di Palermo omettere l’immediata distruzione del materiale – andrebbe necessariamente intesa nel senso che non spetta alla Procura palermitana omettere quanto in suo potere per ottenere immediatamente dal giudice un provvedimento di distruzione.
Insussistente risulterebbe, di conseguenza, anche l’ulteriore motivo di inammissibilità, legato all’asserita contraddittorietà del petitum rispetto alle ragioni che lo sostengono, dovendo il petitum essere interpretato proprio alla luce di tali ragioni.
4.2.– Nel merito, l’Avvocatura dello Stato ribadisce come il divieto di disporre e utilizzare intercettazioni di comunicazioni del Presidente della Repubblica, ancorché indirette o casuali, discenda dal disposto dell’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 e risulti coerente con la garanzia di assoluta riservatezza di tutte le attività del Capo dello Stato, anche propedeutiche e preparatorie allo svolgimento dei suoi compiti, insita nel ruolo che la Costituzione gli assegna.
La medesima convinzione fu espressa del resto, già nel 1997, dal Ministro di grazia e giustizia in carica, nel rispondere a numerose interpellanze parlamentari relative al solo precedente sostanzialmente analogo al caso in esame, concernente l’intercettazione «indiretta» di un colloquio telefonico dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Nell’occasione, infatti, il Ministro aveva ipotizzato la sussistenza di un divieto di trascrizione e deposito della registrazione del colloquio, rilevando come la tutela della riservatezza dell’interlocutore occasionale, nel caso in cui si tratti del Capo dello Stato, risulti rafforzata, in ragione del fatto che la libertà di comunicazione e di corrispondenza costituisce «un connotato essenziale dell’esercizio delle funzioni» presidenziali. Il Ministro aveva sostenuto, inoltre, che l’inviolabilità delle comunicazioni del Presidente fosse desumibile, per l’appunto, dall’art. 7 della legge n. 219 del 1989, giacché, «se è previsto che per i reati di attentato alla Costituzione ed alto tradimento l’intercettazione possa essere disposta solo dopo la sospensione dalla carica, a maggior ragione deve prefigurarsi una tutela piena in rapporto ad ipotesi di reati comuni e, a fortiori, rispetto a qualsiasi fatto penalmente irrilevante».
4.3.– L’impossibilità, ampiamente sottolineata in dottrina, di delineare in termini rigidi i compiti del Presidente della Repubblica e di distinguere tra le diverse modalità di esercizio delle sue funzioni – si traducano esse in «atti tipici» o «in attività meramente propedeutiche e preparatorie» – confermerebbe, d’altro canto, che l’esigenza di salvaguardare la libertà e la segretezza delle comunicazioni del Capo dello Stato sussiste anche in confronto alle intercettazioni «indirette o casuali»: e ciò tanto più qualora, come nella fattispecie in esame, dette comunicazioni si siano tradotte in «un contatto assolutamente lecito».
Il Presidente della Repubblica è investito, in effetti, di funzioni che necessitano di una particolare riservatezza «nell’iter della loro preparazione»: basti pensare alle attività inerenti ai rapporti diplomatici (art. 87, ottavo comma, Cost.), ovvero al comando delle forze armate (art. 87, nono comma, Cost.), ovvero ancora a tutte quelle funzioni che, se pure non tassativamente individuabili, gli derivano dalla presidenza del Consiglio superiore della magistratura (art. 104, secondo comma, Cost.) o dalla rappresentanza dell’unità nazionale (art. 87, primo comma, Cost.). Con la conseguenza che, se si permettesse di divulgare il contenuto delle attività preparatorie, si metterebbero a rischio gli interessi – rilevantissimi – alla cui salvaguardia tali funzioni sono preordinate.
Al riguardo, occorrerebbe anche considerare che quella del Presidente della Repubblica è una carica monocratica, «la cui attività ufficiale può quindi essere più facilmente incisa attraverso iniziative giudiziarie che riguardino la persona fisica del titolare e le sue attività».
Nella specie, non verrebbe neppure in rilievo la distinzione tra atti funzionali ed extrafunzionali: ciò a prescindere dal fatto che le conversazioni telefoniche oggetto del conflitto rientrerebbero comunque tra gli atti funzionali, tenuto conto della qualità dei soggetti tra i quali sono intercorse e della sede nella quale sono state poste in essere (trattandosi di conversazioni tutte effettuate tramite il centralino del Quirinale).
4.4.– I risultati delle intercettazioni in questione sarebbero, di conseguenza, assolutamente inutilizzabili ai sensi del comma 1 dell’art. 271 cod. proc. pen., trattandosi di captazioni eseguite «fuori dei casi consentiti dalla legge». Infatti, il codice di procedura penale considera legittime le intercettazioni non già quando manchi un divieto di eseguirle, ma solo quando vi sia una norma che espressamente le consenta. Una simile previsione non potrebbe essere certamente rinvenuta, quanto al Presidente della Repubblica, nell’art. 7 della legge n. 219 del 1989. Detta disposizione, anzi, dopo aver regolato l’ipotesi dell’intercettazione «diretta», stabilisce che «in ogni caso» il Comitato parlamentare per i giudizi di accusa può autorizzare le intercettazioni solo dopo che il Presidente sia stato sospeso dalla carica. Da ciò si dedurrebbe che, «mentre la parte assertiva della prescrizione è espressamente dedicata alle sole intercettazioni dirette (consentendone, in determinati casi, lo svolgimento e l’utilizzazione), diversamente i limiti introdotti dalla stessa norma sono applicabili “in ogni caso”, quindi, anche nella diversa ipotesi di intercettazioni indirette».
Significativa sarebbe, altresì, la circostanza che l’art. 205, comma 3, cod. proc. pen., nel prevedere che possa essere disposta la comparizione in giudizio dei testimoni che rivestono alte cariche dello Stato allorché essa appaia indispensabile per eseguire un confronto, sottragga a tale disposizione il Presidente della Repubblica. Sarebbe, dunque, «del tutto anomalo consentire che la voce del Presidente, non sottoponibile al confronto con le modalità che la legge prescrive per la testimonianza dei testi, possa essere stata captata indirettamente o casualmente […] e successivamente utilizzata nel corso dell’attività investigativa».
4.5.– L’assoluta inutilizzabilità delle intercettazioni qui considerate imporrebbe di procedere alla loro distruzione immediata, senza alcuna valutazione circa la loro eventuale rilevanza processuale.
In senso contrario, non varrebbe far leva sulla “involontarietà” e sulla “inevitabilità iniziale” delle intercettazioni telefoniche che, disposte nei confronti di un terzo, solo accidentalmente coinvolgano il Presidente della Repubblica. In assenza di una norma che espressamente consenta la captazione dei colloqui presidenziali, infatti, l’attività di intercettazione avrebbe dovuto essere interrotta dalla Procura palermitana non appena accertata la qualità soggettiva dell’interlocutore. In ogni caso, se pure si ritenesse che la registrazione casuale dei colloqui non abbia determinato «ex se» una lesione delle prerogative presidenziali, tale lesione sarebbe senz’altro rinvenibile nella loro conservazione tra gli atti del procedimento e, soprattutto, nella pretesa di subordinarne la distruzione alla preventiva valutazione, in un’udienza camerale aperta al contraddittorio tra le parti, della eventuale rilevanza ai fini del processo, secondo quanto previsto dall’art. 268 cod. proc. pen.: procedura che avrebbe l’effetto di rendere conoscibile e divulgabile il contenuto delle conversazioni stesse. A smentire il contrario assunto della Procura palermitana, basterebbe por mente all’ipotesi in cui tali conversazioni abbiano ad oggetto delicate questioni di sicurezza o di politica estera o di difesa nazionale, le quali – ove fosse valida la tesi della controparte – sarebbero «esposte in modo del tutto casuale e, quindi, irrazionale al pubblico».
Nessun argomento a conforto della tesi dell’inapplicabilità dell’art. 271 cod. proc. pen. alle intercettazioni «indirette e casuali» del Presidente della Repubblica potrebbe essere tratto, inoltre, dalla sentenza n. 390 del 2007 della Corte costituzionale, in tema di intercettazioni di conversazioni dei membri del Parlamento – pure invocata dalla controparte – trattandosi di pronuncia attinente all’art. 6 della legge n. 140 del 2003: norma, questa, da ritenere inapplicabile al Capo dello Stato.
4.6.– Non sarebbe condivisibile neppure l’ulteriore assunto della Procura di Palermo, stando al quale la garanzia del contraddittorio risulterebbe indefettibile anche nell’ambito della procedura regolata dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. La sentenza della Corte costituzionale n. 463 del 1994 – richiamata a sostegno dell’assunto – attiene infatti, esclusivamente, all’ipotesi della distruzione delle intercettazioni a tutela della riservatezza, disposta in udienza camerale su istanza dei privati interessati ai sensi dell’art. 269, comma 2, cod. proc. pen.: fattispecie ben diversa da quella, qui in rilievo, della distruzione di intercettazioni eseguite in violazione di un divieto di legge (e, segnatamente, «di legge di attuazione costituzionale»).
Né, al fine di omologare le due ipotesi, gioverebbe fare appello all’esigenza di non disperdere una eventuale prova di non colpevolezza. La stessa Procura di Palermo ha ritenuto, infatti, che le intercettazioni oggetto del conflitto siano irrilevanti e che non costituiscano corpo di reato. Inoltre, la relativa documentazione non è stata riversata nel fascicolo relativo al nuovo procedimento n. 11719/12 – nell’ambito del quale è stato chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, del sen. Mancino – ma è stata lasciata nel fascicolo originario: circostanza, questa, che attesterebbe la totale irrilevanza dei colloqui anche ai fini della prova dell’innocenza degli imputati, secondo la valutazione effettuata dagli stessi magistrati della Procura.
4.7.– Puntualizzando le conclusioni già formulate nell’atto introduttivo del giudizio, il ricorrente chiede, quindi, che la Corte costituzionale dichiari «che non spetta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Palermo di omettere di interrompere l’effettuazione delle intercettazioni casuali del Presidente della Repubblica»; e che, comunque, non spetta ad essa «di omettere, una volta acquisite le predette intercettazioni, di richiederne al Giudice l’immediata distruzione né […] valutarne la (ir)rilevanza offrendole all’udienza stralcio di cui all’art. 268 c.p.p.».
5.– Anche la Procura della Repubblica di Palermo ha depositato una memoria illustrativa, con la quale ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso sotto due ulteriori profili.
5.1.– In primo luogo, il conflitto sarebbe stato sollevato a fronte del mero intento, espresso nella nota del Procuratore della Repubblica del 6 luglio 2012, di procedere alla distruzione delle intercettazioni «con l’osservanza delle formalità di legge». L’iniziativa presidenziale mirerebbe, in particolare, a contrastare la preconizzata scelta del rito camerale previsto dall’art. 268 cod. proc. pen. – ritenuta insita nel riferimento alle «formalità di legge» – in luogo di quella regolata dall’art. 271 cod. proc. pen., unica in assunto idonea a salvaguardare le prerogative del ricorrente. In questo modo, il ricorso verrebbe a focalizzarsi su una questione inerente all’interpretazione e all’applicazione delle regole processuali, censurando, in sostanza, un presunto errore in procedendo nell’esercizio della funzione giudiziaria: materia che – alla luce della giurisprudenza costituzionale – non potrebbe costituire oggetto di un conflitto di attribuzione.
In secondo luogo, il conflitto sarebbe stato sollevato prematuramente, non essendo una mera manifestazione d’intenti idonea a produrre alcuna lesione attuale e concreta di attribuzioni costituzionali. La menomazione denunciata potrebbe, in realtà, configurarsi solo in presenza di un atto del giudice – unico soggetto a ciò legittimato – che esprimesse in modo inequivoco la volontà di non procedere alla distruzione delle intercettazioni: prospettiva nella quale, peraltro, il ricorso dovrebbe essere proposto nei confronti dell’autorità giudiziaria giudicante, e non già di quella requirente.
5.2.– La resistente rimarca, per altro verso, come le attribuzioni costituzionali dei poteri dello Stato, rilevanti nell’ambito dei giudizi per conflitto, non siano configurate esclusivamente da norme costituzionali, ma anche da norme di rango inferiore che integrano i relativi parametri, fondando le competenze degli organi confliggenti. Di tale principio, del resto, avrebbe fatto applicazione anche il ricorrente, evocando a fondamento del ricorso, a fianco dell’art. 90 Cost., l’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989.
Sul versante della resistente Procura della Repubblica, la fattispecie oggetto del giudizio resterebbe regolata dall’art. 112 Cost.: non esisterebbe, però, una norma di rango ordinario che – coniugandosi con quella dell’art. 101, secondo comma, Cost. – attribuisca al pubblico ministero il potere di disporre in via diretta la distruzione delle intercettazioni, ancorché inutilizzabili (norma che risulterebbe oltretutto lesiva del principio del contraddittorio). Profilo per il quale il ricorso sarebbe – oltre che inammissibile «per impossibilità giuridica del petitum», secondo quanto già eccepito in sede di costituzione in giudizio – anche infondato nel merito.
5.3.– La correttezza dell’operato della Procura troverebbe, d’altra parte, una significativa conferma nelle risultanze del dibattito svoltosi in Senato il 7 marzo 1997, in relazione alle interpellanze concernenti l’analogo caso dell’intercettazione occasionale di una conversazione telefonica del Presidente Scalfaro. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, tale dibattito – pur facendo emergere delle «perplessità giuridiche», legate soprattutto all’avvenuta pubblicazione dei contenuti della conversazione su un quotidiano – non evidenziò affatto la convinzione che le norme vigenti fossero state violate dalla Procura della Repubblica che allora procedeva. Fatta eccezione per l’ex Presidente Cossiga (il quale sostenne che non fosse necessario l’intervento del legislatore per evitare il ripetersi di fatti analoghi), tutti gli altri interpellanti non avrebbero, infatti, mosso alcun «preciso appunto» alla Procura. A sua volta, il Ministro di grazia e giustizia del tempo – pur stigmatizzando l’accaduto «a livello di principi» – sottolineò con forza l’esigenza di un intervento normativo chiarificatore, escludendo che si fosse dato luogo, con il deposito degli atti secondo la procedura ordinaria, a macroscopiche violazioni di legge o ad interpretazioni abnormi da parte dei magistrati.
Tale precedente confermerebbe che nessuna norma di legge e nessuna prassi costituzionale vietavano e vietano l’intercettazione accidentale delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, tanto che l’interessato (on. Scalfaro) non sollevò, nella circostanza, alcun conflitto (al pari, d’altronde, dello stesso Presidente Napolitano, nelle due precedenti occasioni in cui sono state captate accidentalmente sue comunicazioni telefoniche).
5.4.– La difesa della resistente ribadisce poi che, per le ragioni già addotte nella memoria di costituzione, l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, sancita dall’art. 90 Cost., e la correlata impossibilità di ricorrere, in rapporto ad essi, agli ordinari strumenti investigativi, non possono essere in alcun modo estese agli atti extrafunzionali, neppure facendo leva sull’argumentum a fortiori.
Il carattere «pacificamente eccezionale» dell’immunità in parola ne imporrebbe, infatti, una interpretazione restrittiva, tale da escludere la praticabilità tanto dell’analogia iuris che dell’analogia legis: ciò, a maggior ragione, considerando che la ratio sottesa al riconoscimento dell’irresponsabilità per gli atti funzionali non sarebbe riscontrabile con riguardo ai comportamenti estranei all’esercizio della funzione. Solo la prima, infatti, sarebbe necessaria per garantire il libero svolgimento dei compiti istituzionali, connettendosi strettamente alla irresponsabilità politica del Capo dello Stato, che dell’immunità giuridica rappresenterebbe «allo stesso tempo il fondamento costitutivo ed il limite insuperabile».
Non potrebbe quindi essere accolta, in questa prospettiva, la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale «il perseguimento delle finalità costituzionali caratterizz[erebbe] l’attività, sia formalizzata sia non formalizzata, del Presidente della Repubblica», ponendola così indistintamente – in quanto connotata in senso funzionale – sotto il cono protettivo dell’art. 90 Cost. Tale tesi, nella misura in cui risulti volta a suffragare l’assunto che le conversazioni telefoniche del Capo dello Stato sarebbero sempre effettuate nell’esercizio delle funzioni presidenziali, ai sensi e per gli effetti dell’art. 90 Cost., risulterebbe, per giunta, inconferente ai fini del presente giudizio, non essendo mai stata ipotizzata dai magistrati di Palermo una eventuale responsabilità penale del Presidente.
La distinzione tra atti funzionali ed extrafunzionali, d’altra parte, verrebbe in rilievo solo quando ci si muova sul piano sostanziale della responsabilità da atto illecito; non anche quando si discuta delle garanzie del Capo dello Stato di fronte ad attività investigative – e, in particolare, ad intercettazioni telefoniche – aventi come bersaglio un terzo soggetto, nelle quali egli si trovi accidentalmente coinvolto.
Con riguardo a tale ipotesi, la disciplina costituzionale applicabile sarebbe determinata esclusivamente dalla «direzione delle indagini». Nella specie, il mezzo investigativo è stato disposto nei confronti di «un comune cittadino» (ancorché ex senatore ed ex ministro), con conseguente operatività della sola tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni offerta alla generalità dei consociati dall’art. 15 Cost.: conclusione che non muterebbe per il solo fatto che l’interlocutore dell’indagato si identifichi nel Capo dello Stato, analogamente a quanto già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 390 del 2007, n. 113 e n. 114 del 2010, in riferimento alle intercettazioni casuali di conversazioni di membri del Parlamento.
Tra l’immunità presidenziale riguardo alle intercettazioni telefoniche prevista dall’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 e quella riconosciuta ai parlamentari dall’art. 68 Cost., d’altronde, non vi sarebbe, sul piano degli obiettivi di tutela, la distinzione ipotizzata dall’Avvocatura dello Stato. Anche la seconda sarebbe, infatti, destinata a proteggere il libero esercizio della funzione (nella specie, quella parlamentare) e non già la mera «privacy» delle singole persone appartenenti all’istituzione.
L’impossibilità di assoggettare le intercettazioni occasionali al regime valevole per le intercettazioni dirette deriverebbe, inoltre, dalla differenza «strutturale», e non già meramente «giuridica», tra le due ipotesi, imponendosi, di conseguenza, anche in rapporto al Capo dello Stato. Nel caso delle intercettazioni casuali, infatti, la captazione dei colloqui del soggetto immune non consegue a una scelta volontaria degli organi inquirenti, con la conseguenza che «in essa non gioca alcun ruolo lo status, più o meno privilegiato, dell’interlocutore».
5.5.– Un «surplus di garanzia» per la riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, che implichi il divieto delle intercettazioni occasionali e l’inutilizzabilità assoluta dei risultati di quelle eseguite, non potrebbe essere desunto neppure dalla qualità delle funzioni assegnate dalla Costituzione al Capo dello Stato.
Una volta, infatti, che la garanzia venga collegata all’esercizio di funzioni costituzionali, non si comprenderebbe perché essa non debba caratterizzare anche lo «status» di altri organi, a cominciare dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai singoli ministri, i quali sarebbero dotati di poteri addirittura più importanti, «dal punto di vista operativo», di quelli del Capo dello Stato. L’eventuale dilatazione dell’immunità avrebbe, peraltro, l’effetto di amplificare enormemente le conseguenze pregiudizievoli per la giustizia penale già evidenziate dalla resistente nell’atto di costituzione in giudizio.
5.6.– La Procura di Palermo, infine, ritiene di dover ribadire come la natura casuale delle intercettazioni dei colloqui presidenziali che hanno originato il conflitto – peraltro riconosciuta dallo stesso ricorrente – non possa essere oggettivamente messa in discussione.
In aggiunta a quanto già evidenziato nella memoria di costituzione – in particolare, riguardo al numero «infinitesimale» delle telefonate intercorse tra l’indagato e il Presidente rispetto al totale di quelle intercettate – si mette in rilievo come la Procura si sia astenuta dal richiedere la proroga delle intercettazioni condotte riguardo ad alcune delle utenze in uso al sen. Mancino, sebbene già due colloqui con il Capo dello Stato fossero stati intercettati. Non ricorrerebbe inoltre, nella specie, alcuno degli “indici rivelatori” che – alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 390 del 2007, n. 113 e n. 114 del 2010, recepite anche dalla giurisprudenza ordinaria – potrebbero evidenziare un carattere mirato del controllo. Le informazioni disponibili circa la natura dei rapporti tra il sen. Mancino e il Presidente della Repubblica non lasciavano presagire che i colloqui tra loro sarebbero stati frequenti – come, in effetti, non sono stati – essendo da tempo il sen. Mancino privo di «qualsiasi carica pubblica». Nel contempo, mancava e manca qualunque elemento idoneo a suggerire il sospetto di un coinvolgimento del Presidente della Repubblica nei fatti oggetto di investigazione.
5.7.– Ciò posto, l’assunto del ricorrente, in base al quale le intercettazioni in questione dovrebbero essere immediatamente distrutte in quanto «assolutamente vietate», si scontrerebbe con la già rimarcata impossibilità logica che un fatto fortuito – derivato, cioè, da una catena causale non dominabile dal destinatario del precetto – costituisca oggetto di un divieto normativo. L’ordinamento potrebbe disciplinare, semmai, le conseguenze di una intercettazione casuale, in particolare sancendone l’inutilizzabilità: ma, a tal fine, occorrerebbe una previsione espressa, nella specie inesistente.
La resistente, dunque, avrebbe agito secondo diritto valutando la irrilevanza delle comunicazioni captate ed omettendone la distruzione, che spetterebbe esclusivamente al giudice disporre secondo quanto previsto dall’art. 269, comma 2, cod. proc. pen. Dal che dovrebbe conclusivamente discendere il rigetto del ricorso, sempreché non ne venga previamente riconosciuta l’inammissibilità.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente della Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, «per violazione degli articoli 90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne costituiscono attuazione» – segnatamente, l’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione), «anche con riferimento all’art. 271 del codice di procedura penale» – nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, in relazione all’attività di intercettazione telefonica, svolta riguardo alle utenze di persona diversa nell’ambito di un procedimento penale pendente a Palermo, nel corso della quale sono state captate conversazioni intrattenute dallo stesso Presidente della Repubblica.
2.– Giova preliminarmente riepilogare, nei suoi termini essenziali, la vicenda che ha dato origine al conflitto, quale emerge dalle deduzioni e dalle produzioni documentali delle parti.
Le intercettazioni per le quali si controverte sono state effettuate su utenze telefoniche in uso al senatore – non più in carica – Nicola Mancino, sottoposto ad indagini, assieme a numerose altre persone, nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08, concernente la cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia negli anni tra il 1992 e il 1994, in rapporto alla quale è stato ipotizzato il reato di violenza o minaccia aggravata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario.
Nel periodo compreso tra il 7 novembre 2011 e il 9 maggio 2012, in particolare, sono state intercettate sulle utenze in uso al sen. Mancino, in forza di due distinti decreti di autorizzazione (e di successive proroghe per il secondo tra essi), 9.295 telefonate, quattro delle quali, della complessiva durata di diciotto minuti, hanno avuto come interlocutore il Capo dello Stato: le prime due effettuate ad iniziativa della persona sottoposta alle indagini, le altre su chiamata del Presidente.
Alla luce delle risultanze investigative, la Procura di Palermo ha deciso di esercitare l’azione penale solo nei confronti di alcuni degli indagati e per alcune delle incolpazioni, e di proseguire le indagini quanto agli altri indagati ed alle residue ipotesi di reato, con riserva di ulteriori valutazioni. Il 1° giugno 2012, di conseguenza, è stata disposta la separazione del procedimento relativo ai soggetti per i quali si è stabilito di esercitare l’azione penale, tra i quali il sen. Mancino.
Nel fascicolo relativo al procedimento separato – che ha preso il n. 117919/02 e in relazione al quale è stata formulata richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, con conseguente fissazione dell’udienza preliminare – la Procura ha inserito le sole intercettazioni ritenute utili per l’instaurando giudizio, non comprendendovi i colloqui cui ha preso parte il Capo dello Stato. Pertanto la documentazione concernente tali colloqui, rimasta nel fascicolo del procedimento originario n. 11609/08, non ha sinora formato oggetto di deposito, idoneo a renderla conoscibile alle parti processuali.
Alla stregua di quanto dedotto nell’atto introduttivo del giudizio, la Presidenza della Repubblica ha appreso dell’avvenuta registrazione a seguito di un’intervista rilasciata al quotidiano «La Repubblica» dal sostituto Procuratore dott. Antonino Di Matteo, pubblicata il 22 giugno 2012. Nell’occasione, rispondendo a una domanda che introduceva il tema, l’intervistato aveva affermato che «negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni del Capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti», aggiungendo poi – in risposta all’ulteriore domanda se ciò preludesse alla loro distruzione – che la Procura palermitana avrebbe applicato «la legge in vigore»: «quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al [Giudice per le indagini preliminari] saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti».
Con nota del 27 giugno 2012, l’Avvocato generale dello Stato, su mandato della Presidenza, ha quindi chiesto al Procuratore della Repubblica di Palermo «una conferma o una smentita» di quanto sembrava emergere da tali dichiarazioni: ossia «che sarebbero state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti ma che la Procura di Palermo si [sarebbe riservata] di utilizzare».
In risposta all’interpello, il Procuratore della Repubblica, con nota del 6 luglio 2012 – allegando una missiva del dott. Di Matteo del giorno precedente – ha comunicato che la Procura di Palermo, «avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede[va] alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge».
Con successiva nota, diffusa da agenzie di stampa il 9 luglio 2012, il dott. Messineo ha ulteriormente affermato che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione»; aggiungendo che, «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti». Da ultimo, in una lettera diretta al quotidiano «La Repubblica», pubblicata l’11 luglio 2012, il Procuratore della Repubblica ha ribadito che «la procedura di distruzione delle intercettazioni ritenute non rilevanti» sarebbe stata «attivata nei modi e nei termini di legge».
3.– Ad avviso del ricorrente, la tesi espressa dalla Procura palermitana non sarebbe condivisibile, dovendosi ritenere, al contrario, che le intercettazioni, anche indirette o casuali, di conversazioni del Capo dello Stato siano radicalmente vietate dalla legge.
Tale divieto risulterebbe insito nella garanzia dell’irresponsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni (salvi i casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione), assicurata al Presidente della Repubblica dall’art. 90 Cost. in vista dell’espletamento degli altissimi compiti di cui è investito, e troverebbe conferma nell’interpretazione sistematica delle norme di legge ordinaria intese a dare attuazione a detta garanzia.
L’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 vieta infatti, in modo assoluto, di disporre intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente della Repubblica, se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica (nel qual caso, competente a disporle è solo il Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa). Il divieto è sancito in rapporto ai reati per i quali, in base all’art. 90 Cost., il Presidente può essere messo in stato di accusa, e con riguardo alle intercettazioni «dirette» delle sue comunicazioni. La preclusione dovrebbe ritenersi, tuttavia, logicamente estesa, per un verso, anche alle intercettazioni «indirette» o «casuali», egualmente idonee a ledere la sfera di immunità del Capo dello Stato, e, per altro verso, anche ai procedimenti aventi ad oggetto altre ipotesi di reato che coinvolgano il Presidente. A maggior ragione, poi, dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di conversazioni del Capo dello Stato occasionalmente intercettate nell’ambito di indagini concernenti reati addebitabili a diversi soggetti, come quelle che hanno originato l’odierno conflitto.
Alle intercettazioni indicate da ultimo non sarebbe applicabile neppure la disciplina dettata dall’art. 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), avuto riguardo alla captazione casuale di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento, non essendo la posizione del Capo dello Stato assimilabile a quella del parlamentare.
Di conseguenza, le registrazioni di cui si discute non potrebbero essere in alcun modo valutate, utilizzate o trascritte, e se ne dovrebbe piuttosto chiedere al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’art. 271 cod. proc. pen., in quanto eseguite «fuori dei casi consentiti dalla legge».
Su queste premesse, il ricorrente ritiene che la Procura della Repubblica di Palermo abbia menomato, sotto più profili, le proprie prerogative costituzionali, facendo un uso non corretto dei suoi poteri. Dette prerogative risulterebbero lese, in specie, dall’avvenuta registrazione dei colloqui; dalla permanenza della relativa documentazione tra gli atti del procedimento; dal fatto che ne sia stata valutata la rilevanza ai fini di una eventuale utilizzazione investigativa o processuale e, soprattutto, dal manifestato intento della Procura di attivare un’udienza secondo le modalità indicate dall’art. 268 cod. proc. pen., per ottenerne l’acquisizione o la distruzione: procedura che – anche in ragione dell’instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggraverebbe gli effetti lesivi delle precedenti condotte, rendendoli definitivi.
Con l’atto introduttivo del giudizio, il ricorrente ha chiesto, pertanto, alla Corte di dichiarare che non spetta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo «omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali di conversazioni del Presidente della Repubblica», delle quali si discute, né valutarne la «(ir)rilevanza», offrendole all’«udienza stralcio» disciplinata dall’art. 268 cod. proc. pen.
4.– Va confermata, anzitutto, l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 218 del 2012 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
Con riguardo all’aspetto soggettivo, la natura di potere dello Stato e la conseguente legittimazione del Presidente della Repubblica ad avvalersi dello strumento del conflitto a tutela delle proprie attribuzioni costituzionali sono pacifiche nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 200 del 2006 e n. 129 del 1981, ordinanza n. 354 del 2005). Si tratta, infatti, di organo titolare di un complesso di attribuzioni, non inquadrabili nella tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato ed esercitabili in posizione di piena indipendenza e autonomia, costituzionalmente garantita (ordinanza n. 150 del 1980).
Egualmente costante è la giurisprudenza della Corte nel riconoscere la natura di potere dello Stato al pubblico ministero. Gli organi inquirenti sono infatti investiti dell’attribuzione, essa pure costituzionalmente garantita, inerente all’esercizio obbligatorio dell’azione penale (art. 112 Cost.), cui si connette la titolarità diretta ed esclusiva delle indagini ad esso finalizzate (tra le molte, sentenze n. 88 e n. 87 del 2012, ordinanze n. 241 e n. 104 del 2011). A fronte del riparto di detta attribuzione fra i diversi uffici giudiziari territorialmente e funzionalmente competenti, ma, al tempo stesso, della organizzazione gerarchica interna ai singoli uffici, quello requirente si presenta come un potere “parzialmente diffuso”: legittimato ad agire e a resistere nei giudizi per conflitto di attribuzione è il capo dell’ufficio interessato – in particolare, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale – in quanto competente a dichiarare definitivamente, nell’assolvimento della ricordata funzione, la volontà del potere cui appartiene (ordinanza n. 60 del 1999).
Riguardo, poi, al profilo oggettivo, il ricorso è proposto a salvaguardia di prerogative del Presidente della Repubblica che si deducono insite nella garanzia dell’immunità prevista dall’art. 90 Cost., in correlazione alle altre norme costituzionali che definiscono il ruolo e le funzioni del Capo dello Stato (il richiamo all’art. 3 Cost. è puramente collaterale), nonché nelle disposizioni di legge ordinaria collegate a detta garanzia, a fronte di lesioni in assunto realizzate o prefigurate dalla Procura di Palermo nello svolgimento dei propri compiti.
5.– Risulta d’altra parte infondata l’eccezione di inammissibilità, formulata dalla difesa della Procura resistente nella propria memoria illustrativa, riguardo ad un preteso carattere “prematuro” del conflitto, che si assume volto a censurare una semplice “manifestazione d’intenti”, in carenza di una lesione attuale e concreta. Il riferimento concerne segnatamente l’intenzione della Procura palermitana – espressa nella nota del 6 luglio 2012, in risposta all’interpello dell’Avvocato generale dello Stato – di procedere alla distruzione delle intercettazioni di cui si discute «con l’osservanza delle formalità di legge»: formula che il ricorrente – anche alla luce di quanto affermato nella successiva nota del Procuratore della Repubblica del 9 luglio 2012, diffusa a mezzo di agenzie di stampa – considera evocativa della procedura disciplinata dall’art. 268, commi 4 e seguenti, cod. proc. pen.
Va rilevato, in via preliminare, che l’eccezione non copre nella loro interezza i contenuti del ricorso, il quale investe anche comportamenti già tenuti dalla Procura palermitana, come ad esempio la compiuta valutazione di rilevanza delle comunicazioni intercettate.
Quanto agli adempimenti non ancora posti in essere, costituisce in effetti affermazione ripetuta, nella giurisprudenza costituzionale, che la Corte, «come regolatrice dei conflitti, è chiamata a giudicare su conflitti non astratti e ipotetici, ma attuali e concreti» (sentenza n. 106 del 2009, ordinanza n. 404 del 2005). Ciò in applicazione del generale principio per cui non è consentito chiedere al giudice che sia accertato un proprio diritto (in questo caso: una attribuzione) se non quando quel diritto (quella attribuzione) è leso o minacciato. Proprio in tale prospettiva, peraltro, questa Corte ha ritenuto sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse a ricorrere, anche la sola minaccia di lesione, purché attuale e concreta, e non meramente congetturale. Il conflitto di attribuzione è inammissibile quando si verta in una situazione di contrasto solo ipotetica, ossia quando il conflitto venga proposto «senza che siano sorte in concreto contestazioni relative alla “delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”» (ordinanza n. 84 del 1978), non potendo la Corte essere adita «a scopo meramente consultivo»; tuttavia, ai fini dell’ammissibilità dei conflitti di attribuzione, è richiesto solo «l’interesse ad agire, la cui sussistenza è necessaria e sufficiente a conferire al conflitto gli indispensabili caratteri della concretezza e dell’attualità» (sentenze n. 379 del 1996 e n. 420 del 1995).
In quest’ordine d’idee, si è quindi ritenuto – avendo riguardo ai conflitti di attribuzione tra enti, ma con affermazione senz’altro estensibile ai conflitti interorganici – che costituisce atto idoneo ad innescare un conflitto «qualsiasi comportamento significante», dotato di rilevanza esterna, anche se preparatorio o non definitivo, che appaia comunque diretto «ad esprimere in modo chiaro ed inequivoco la pretesa di esercitare una data competenza, il cui svolgimento possa determinare una invasione nella altrui sfera di attribuzioni o, comunque, una menomazione altrettanto attuale della possibilità di esercizio della medesima» (tra le molte, sentenze n. 332 del 2011, n. 235 del 2007 e n. 382 del 2006).
Nel caso in esame, benché negli atti a firma del Procuratore della Repubblica di Palermo allegati al ricorso non vengano richiamate in modo espresso né la procedura di cui all’art. 268, commi 4 e seguenti, né quella di cui all’art. 269, comma 2, cod. proc. pen., risulta incontestabile – e le difese svolte dalla resistente nell’odierno giudizio ne costituiscono eloquente riprova – che, alla luce del modus operandi seguito dalla Procura, la distruzione delle intercettazioni dovrebbe passare attraverso le procedure suindicate, e non già tramite quella delineata dall’art. 271 cod. proc. pen., la cui applicazione è invece pretesa dal ricorrente (sul presupposto che si tratti di procedura “non partecipata”). La Procura fa conseguire, infatti, la “prognosi” di distruzione del materiale dall’avvenuta valutazione della sua irrilevanza ai fini del procedimento – valutazione destinata, per affermazione della Procura stessa, ad essere sottoposta alla verifica del giudice nel contraddittorio fra le parti, le quali potrebbero essere latrici di differenti apprezzamenti – e non già dalla inutilizzabilità dei colloqui intercettati, in quanto acquisiti contra legem.
Il comportamento della Procura, in conclusione, risulta inequivocamente espressivo della rivendicazione del potere-dovere di attivare la procedura di selezione prevista dall’art. 268, all’esito della quale soltanto potrebbe essere disposta, ai sensi dell’art. 269, comma 2, cod. proc. pen. – ma esclusivamente su istanza degli «interessati» (ossia, nella specie, dello stesso Presidente della Repubblica) e passando attraverso una ulteriore udienza camerale – la distruzione del materiale in questione «a tutela della riservatezza».
In tale contesto, appare evidente come non possa essere condiviso l’assunto della resistente, secondo il quale il Presidente della Repubblica dovrebbe attendere, prima di sollevare il conflitto, la decisione del giudice che eventualmente neghi la distruzione del materiale (e, di conseguenza, proporre il conflitto stesso contro l’autorità giudicante, anziché contro quella inquirente). Il vulnus paventato dal ricorrente non si connette, infatti, solo all’eventualità che, a seguito delle indicazioni delle parti private, il giudice vada in contrario avviso rispetto alla Procura sul punto della irrilevanza delle conversazioni e ne disponga, quindi, l’acquisizione in vista di una loro utilizzazione processuale. La lesione temuta – e che l’odierno conflitto mira a scongiurare – si connette anche, e prima di tutto, alla rivelazione del contenuto dei colloqui presidenziali ad ulteriori soggetti (e, in particolare, a soggetti privati, quali i difensori delle parti) che inevitabilmente deriverebbe dal ricorso alle procedure di cui agli artt. 268 e 269 cod. proc. pen., con il conseguente rischio di una loro generale propalazione. Per questo aspetto, la reazione successiva al provvedimento del giudice risulterebbe, nella prospettiva del ricorrente, chiaramente tardiva, essendosi la lesione ormai irreparabilmente prodotta.
6.– Parimenti infondata è l’altra eccezione di inammissibilità, essa pure formulata dalla resistente nella memoria illustrativa, in base alla quale il ricorrente si sarebbe impropriamente avvalso dello strumento del conflitto di attribuzione per censurare un mero errore in procedendo da parte dell’autorità giudiziaria – quello in ipotesi derivante dal (preconizzato) ricorso ad una certa procedura anziché ad un’altra, al fine di pervenire alla distruzione del materiale – ponendo, di conseguenza, una questione che attiene esclusivamente all’interpretazione e all’applicazione delle norme processuali.
A suffragio di tale eccezione, la difesa della Procura palermitana evoca la giurisprudenza di questa Corte in ordine ai limiti di ammissibilità dei conflitti di attribuzione nei confronti di atti giurisdizionali: giurisprudenza secondo la quale il conflitto non può essere utilizzato per sindacare semplicemente presunti errores in iudicando o in procedendo nell’esercizio della funzione giudiziaria, col risultato di trasformarlo in un improprio mezzo di impugnazione.
Al riguardo, va anzitutto osservato che nel presente caso non si discute di atti giurisdizionali, non venendo in considerazione alcun provvedimento del giudice, ma solo attività giudiziarie poste in essere dall’organo inquirente.
Ad ogni modo, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale richiamato dalla stessa Procura palermitana è nel senso che gli atti giurisdizionali sono suscettibili di essere posti a base di un conflitto di attribuzione, tanto interorganico che intersoggettivo, quando sia contestata radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale, ovvero quando sia messa in discussione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente, o, più in generale, si lamenti il superamento dei limiti, diversi dal generale vincolo (anche costituzionale) di soggezione del giudice alla legge, che detta funzione incontra nell’ordinamento a garanzia di altre attribuzioni costituzionali (in materia di conflitto tra poteri, sentenza n. 359 del 1999, ordinanze n. 285 del 2011, n. 334 e n. 284 del 2008; in materia di conflitto tra enti, sentenze n. 195 e n. 39 del 2007, n. 326 e n. 276 del 2003).
Nella specie, il ricorso del Presidente della Repubblica è volto propriamente a contestare la stessa esistenza nei confronti del ricorrente, in ragione delle sue prerogative costituzionali, del potere che la Procura riterrebbe invece competerle: quello, cioè, di intercettare i colloqui del Capo del Stato, almeno quando si tratti di captazioni «occasionali», e di utilizzare le conversazioni presidenziali così intercettate ai fini del procedimento (potere, quest’ultimo, la cui esistenza rappresenta, come già accennato, il presupposto logico della valutazione di «irrilevanza» delle conversazioni, operata dalla Procura, e della manifestata convinzione che la loro distruzione debba transitare attraverso la cosiddetta udienza stralcio, di cui all’art. 268 cod. proc. pen.).
Questa Corte, del resto, ha più volte ritenuto ammissibili conflitti di attribuzione promossi in relazione ad atti od omissioni del pubblico ministero strutturalmente analoghi, sotto il profilo in esame, a quelli che formano oggetto delle odierne censure (ad esempio, sentenze n. 88 e n. 87 del 2012, n. 106 del 2009; ordinanze n. 241 e n. 104 del 2011).
7.– Neppure ha fondamento l’ulteriore eccezione – prospettata dalla difesa della resistente nell’atto di costituzione in giudizio – di inammissibilità del ricorso «per impossibilità giuridica del petitum».
Deve, infatti, escludersi che la Presidenza della Repubblica abbia postulato un dovere della Procura di distruggere essa stessa, omisso medio, la documentazione delle intercettazioni di cui si discute: comportamento – secondo la resistente – «non esigibile» in base alla disciplina processuale vigente, posto che, tanto nell’ipotesi prevista dagli artt. 268, comma 6, e 269, comma 2, quanto in quella regolata dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen., la distruzione può essere disposta esclusivamente dal giudice.
In senso contrario va osservato che, per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del conflitto di attribuzione deve essere individuato sulla base di una lettura complessiva dell’atto di promovimento, la quale può bene valere a precisare o ad integrare la formale enunciazione del petitum (tra le molte, sentenze n. 334 del 2011, n. 223 del 2009, n. 286 del 2006 e n. 137 del 2001).
Nella specie – anche a prescindere dalle inequivoche puntualizzazioni successivamente fornite dall’Avvocatura dello Stato nella memoria illustrativa – appare in effetti evidente, alla luce del tenore complessivo del ricorso introduttivo, come la locuzione che figura nelle relative conclusioni («chiede che l’Ecc.ma Corte adita dichiari che non spetta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Palermo omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali del Presidente della Repubblica») assuma un carattere ellittico, non disconoscendo il ricorrente, in realtà, che la distruzione del materiale probatorio debba passare attraverso il vaglio del giudice. Depone in tal senso non solo l’esplicito richiamo, quale “parametro integrativo”, all’art. 271 cod. proc. pen. – il cui comma 3 prevede che la distruzione è disposta per ordine del giudice – ma anche la specifica affermazione, fatta a pagina 3 del ricorso, secondo cui il pubblico ministero dovrebbe immediatamente «chiedere al giudice» la distruzione delle intercettazioni delle conversazioni presidenziali, ancorché «indirette od occasionali» (affermazione che figura, peraltro, anche nel decreto del Presidente della Repubblica del 16 luglio 2012, recante la determinazione di proporre il conflitto e l’affidamento della difesa all’Avvocatura dello Stato: decreto richiamato nel ricorso e allo stesso allegato).
Riguardo poi alla richiesta che sia riconosciuto l’obbligo della Procura palermitana di procedere «immediatamente» alla distruzione del materiale acquisito, risulta chiaro, alla luce del tenore complessivo dell’atto di promovimento, come la scelta dell’avverbio non evochi affatto un ruolo diretto ed esclusivo del pubblico ministero nella procedura. Il termine vale piuttosto a significare, al fianco di una connotazione di urgenza dell’atto, come il ricorrente ritenga che la distruzione non debba essere preceduta da quegli adempimenti “intermedi” che la Procura palermitana intende compiere, cioè la cosiddetta «udienza stralcio» e, inoltre, la procedura camerale partecipata di cui all’art. 269 cod. proc. pen.
In definitiva il ricorrente – come confermato dall’Avvocatura dello Stato nella propria memoria – ha inteso dolersi del fatto che la resistente non abbia prontamente promosso la distruzione del materiale, facendone istanza al giudice.
Cade automaticamente, con ciò, anche la correlata e conclusiva eccezione di inammissibilità sollevata dalla Procura, inerente alla pretesa contraddizione tra il petitum e le ragioni addotte in suo sostegno, dovendo il primo essere identificato proprio alla luce delle seconde.
8.– Nel merito, il ricorso è fondato.
8.1.– Al fine di decidere il presente conflitto di attribuzione, non è sufficiente una mera esegesi testuale di disposizioni normative, costituzionali od ordinarie, ma è necessario far riferimento all’insieme dei principi costituzionali, da cui emergono la figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano.
È appena il caso di osservare, inoltre, che in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa. La Carta fondamentale contiene in sé principi e regole, che non soltanto si impongono sulle altre fonti e condizionano pertanto la legislazione ordinaria – determinandone la illegittimità in caso di contrasto – ma contribuiscono a conformare tale legislazione, mediante il dovere del giudice di attribuire ad ogni singola disposizione normativa il significato più aderente alle norme costituzionali, sollevando la questione di legittimità davanti a questa Corte solo quando sia impossibile, per insuperabili barriere testuali, individuare una interpretazione conforme (sentenza n. 356 del 1996). Naturalmente allo stesso principio deve ispirarsi il giudice delle leggi.
La conformità a Costituzione dell’interpretazione giudiziale non può peraltro limitarsi ad una comparazione testuale e meramente letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la norma costituzionale di riferimento. La Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela.
8.2.– Poste le premesse metodologiche di cui sopra, la ricostruzione del complesso delle attribuzioni del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano mette in rilievo che lo stesso è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche. Egli dispone pertanto di competenze che incidono su ognuno dei citati poteri, allo scopo di salvaguardare, ad un tempo, sia la loro separazione che il loro equilibrio. Tale singolare caratteristica della posizione del Presidente si riflette sulla natura delle sue attribuzioni, che non implicano il potere di adottare decisioni nel merito di specifiche materie, ma danno allo stesso gli strumenti per indurre gli altri poteri costituzionali a svolgere correttamente le proprie funzioni, da cui devono scaturire le relative decisioni di merito. La specificità della posizione del Capo dello Stato si fonda sulla descritta natura delle sue attribuzioni, che lo differenziano dagli altri organi costituzionali, senza incidere, tuttavia, sul principio di parità tra gli stessi.
Alla luce di quanto detto, il Presidente della Repubblica «rappresenta l’unità nazionale» (art. 87, primo comma, Cost.) non soltanto nel senso dell’unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, nel senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica. Si tratta di organo di moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri, in ipotesi tendenti ad esorbitanze o ad inerzia.
Tutti i poteri del Presidente della Repubblica hanno dunque lo scopo di consentire allo stesso di indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il loro funzionamento, oppure, in ipotesi di stasi o di blocco, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali. Tali sono, ad esempio, il potere di sciogliere le Camere, per consentire al corpo elettorale di indicare la soluzione politica di uno stato di crisi, che non permette la formazione di un Governo o incide in modo grave sulla rappresentatività del Parlamento; la nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri, per consentire l’operatività del vertice del potere esecutivo; l’assunzione, nella sua qualità di Presidente del Consiglio superiore della magistratura, di iniziative volte a garantire le condizioni esterne per un indipendente e coerente esercizio della funzione giurisdizionale.
8.3.– Per svolgere efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di “magistratura di influenza”, il Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche, indicare ai vari titolari di organi costituzionali i principi in base ai quali possono e devono essere ricercate soluzioni il più possibile condivise dei diversi problemi che via via si pongono.
È indispensabile, in questo quadro, che il Presidente affianchi continuamente ai propri poteri formali, che si estrinsecano nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il “potere di persuasione”, essenzialmente composto di attività informali, che possono precedere o seguire l’adozione, da parte propria o di altri organi costituzionali, di specifici provvedimenti, sia per valutare, in via preventiva, la loro opportunità istituzionale, sia per saggiarne, in via successiva, l’impatto sul sistema delle relazioni tra i poteri dello Stato. Le attività informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali.
Le suddette attività informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici, implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori. Le attività di raccordo e di influenza possono e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite. L’efficacia, e la stessa praticabilità, delle funzioni di raccordo e di persuasione, sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi. Non occorrono molte parole per dimostrare che un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche. La discrezione, e quindi la riservatezza, delle comunicazioni del Presidente della Repubblica sono pertanto coessenziali al suo ruolo nell’ordinamento costituzionale. Non solo le stesse non si pongono in contrasto con la generale eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma costituiscono modalità imprescindibili di esercizio della funzione di equilibrio costituzionale – derivanti direttamente dalla Costituzione e non da altre fonti normative – dal cui mantenimento dipende la concreta possibilità di tutelare gli stessi diritti fondamentali, che in quell’equilibrio trovano la loro garanzia generale e preliminare.
9.– Dalle considerazioni svolte consegue che il Presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte. Anche le funzioni che implicano decisioni molto incisive, che si concretizzano in solenni atti formali, come lo scioglimento anticipato delle assemblee legislative (art. 88 Cost.), presuppongono che il Presidente intrattenga, nel periodo che precede l’assunzione della decisione, intensi contatti con le forze politiche rappresentate in Parlamento e con altri soggetti, esponenti della società civile e delle istituzioni, allo scopo di valutare tutte le alternative costituzionalmente possibili, sia per consentire alla legislatura di giungere alla sua naturale scadenza, sia per troncare, con l’appello agli elettori, situazioni di stallo e di ingovernabilità. La propalazione del contenuto di tali colloqui, nel corso dei quali ciascuno degli interlocutori può esprimere apprezzamenti non definitivi e valutazioni di parte su persone e formazioni politiche, sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo, che dovrebbe sopportare le conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri.
Le stesse considerazioni è possibile fare a proposito dei contatti necessari per un efficace svolgimento del ruolo di Presidente del Consiglio superiore della magistratura, che non si riduce ai discorsi ufficiali in occasione delle sedute solenni di quest’organo o alla firma dei provvedimenti dallo stesso deliberati, ma implica la conoscenza di specifiche situazioni e particolari problemi, che attengono all’esercizio della giurisdizione a tutti i livelli, senza ovviamente alcuna interferenza con il merito degli orientamenti, processuali e sostanziali, dei giudici nell’esercizio delle loro funzioni.
Ancora va ricordato come il Capo dello Stato presieda il Consiglio supremo di difesa ed abbia il comando delle Forze armate, e come sia chiamato ad intrattenere, anche nelle vesti indicate, rapporti e comunicazioni del cui carattere riservato non occorre dare particolare dimostrazione.
Dagli esempi testé prospettati si può dedurre in quale misura, nel campo delle prerogative costituzionali, vengano in rilievo le esigenze intrinseche del sistema, che non sempre sono enunciate dalla Costituzione in norme esplicite, e che risultano peraltro del tutto evidenti, se si adotta un punto di vista sensibile alla tenuta dell’equilibrio tra i poteri. Questa Corte ha reiteratamente affermato che le prerogative degli organi costituzionali – in quanto derogatorie del principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione, posto alle origini della formazione dello Stato di diritto (sentenza n. 24 del 2004) – trovano fondamento nel dettato costituzionale, al quale il legislatore ordinario può dare solo stretta attuazione (sentenza n. 262 del 2009), senza aggiungere alcuna nuova deroga al diritto comune. Tale esigenza, peraltro, è soddisfatta anche quando quel fondamento, pur nell’assenza di una enunciazione formale ed espressa, emerga in modo univoco dal sistema costituzionale (sentenza n. 148 del 1983).
È evidente altresì che tutti gli organi costituzionali hanno necessità di disporre di una garanzia di riservatezza particolarmente intensa, in relazione alle rispettive comunicazioni inerenti ad attività informali, sul presupposto che tale garanzia – principio generale valevole per tutti i cittadini, ai sensi dell’art. 15 Cost. – assume contorni e finalità specifiche, se vengono in rilievo ulteriori interessi costituzionalmente meritevoli di protezione, quale l’efficace e libero svolgimento, ad esempio, dell’attività parlamentare e di governo.
Si inquadra in questa prospettiva la disposizione di cui all’art. 68, terzo comma, Cost., riguardante i membri delle due Camere, la quale stabilisce che non si possa ricorrere, nei confronti di tali soggetti, ad intercettazioni telefoniche o ad altri mezzi invasivi di ricerca della prova, se non a seguito di autorizzazione concessa dalla Camera competente. Specifiche limitazioni all’esercizio di poteri di indagine mediante atti invasivi, quali le intercettazioni telefoniche, sono previste da norme di rango costituzionale anche per i componenti del Governo (art. 10 della legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, recante « Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione»).
La posizione dei soggetti appena indicati e quella del Presidente della Repubblica divergono tuttavia per due distinti profili. In primo luogo, il Presidente possiede soltanto funzioni di raccordo e di equilibrio, che non implicano l’assunzione, nella sua quotidiana attività, di decisioni politiche – delle quali debba rispondere ai suoi elettori o a chi abbia accordato la fiducia – ma richiedono che ponga in collegamento tutti i titolari delle istituzioni di vertice, esercitando quei poteri di impulso, di persuasione e di moderazione, di cui si diceva prima, richiedenti necessariamente discrezione e riservatezza. Per altro verso, e non a caso, la Costituzione non prevede alcuno strumento per rimuovere la preclusione all’utilizzazione, nei confronti del Presidente, di mezzi di ricerca della prova invasivi, a differenza di quel che concerne i parlamentari ed i componenti del Governo, per i quali è possibile procedere a tali forme di controllo se la Camera competente, secondo le diverse discipline della materia, concede la prescritta autorizzazione.
Nel quadro normativo fa difetto, del resto, ogni riferimento ai soggetti istituzionali cui sarebbe possibile chiedere, da parte dell’autorità giudiziaria, una autorizzazione concernente il Presidente della Repubblica. L’assenza di una previsione non potrebbe essere superata in via interpretativa, neanche da parte di questa Corte, poiché manca in modo evidente una soluzione costituzionalmente obbligata. L’individuazione di un soggetto competente a rilasciare un’autorizzazione del genere potrebbe essere operata soltanto da una norma di rango costituzionale, non surrogabile da alcun altro tipo di fonte né, tanto meno, da una pronuncia del giudice costituzionale.
La mancata previsione di atti autorizzatori simili a quelli contemplati per i parlamentari ed i ministri, e la carenza inoltre di limitazioni esplicite per categorie di reati stabilite da norme costituzionali, non possono portare alla paradossale conseguenza che le comunicazioni del Presidente della Repubblica godano di una tutela inferiore a quella degli altri soggetti istituzionali menzionati, ma alla più coerente conclusione che il silenzio della Costituzione sul punto sia espressivo della inderogabilità – in linea di principio e con l’eccezione costituzionalmente necessaria di cui si dirà poco oltre – della riservatezza della sfera delle comunicazioni presidenziali.
Tale inderogabilità discende dalla posizione e dal ruolo del Capo dello Stato nel sistema costituzionale italiano e non può essere riferita ad una norma specifica ed esplicita, poiché non esiste una disposizione che individui un soggetto istituzionale competente ad autorizzare il superamento della prerogativa. Non si tratta quindi di una lacuna, ma, al contrario, della presupposizione logica, di natura giuridico-costituzionale, dell’intangibilità della sfera di comunicazioni del supremo garante dell’equilibrio tra i poteri dello Stato.
Da quanto sinora detto si deduce l’improponibilità di qualunque analogia, nella disciplina della prerogativa di riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato, sia in funzione estensiva che restrittiva, con le norme contenute nella legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), da considerare attuative – specie dopo la sentenza di questa Corte n. 24 del 2004 – di una previsione costituzionale riguardante soltanto i membri del Parlamento. È proprio dallo stesso art. 68 Cost., e non dalle norme di legge ordinaria che vi hanno dato attuazione, che si può invece muovere, sulla base di una logica argomentazione a fortiori, per dare un significato, nella direzione indicata, al silenzio della Costituzione in tema di intercettazione delle comunicazioni del Presidente della Repubblica.
10.– Non sarebbe, in effetti, rispondente ad un corretto metodo interpretativo della Costituzione trarre conclusioni negative sull’esistenza di una tutela generale della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica dall’assenza di una esplicita disposizione costituzionale in proposito.
Nessuno, ad esempio, potrebbe dubitare della sussistenza delle immunità riconosciute alle sedi degli organi costituzionali, sol perché non è prevista in Costituzione e rimane affidata esclusivamente all’efficacia dei regolamenti di tali organi, ove invece è sancita in modo esplicito. Questa Corte ha già chiarito che alle disposizioni contenute nella Costituzione, volte a salvaguardare l’assoluta indipendenza del Parlamento, «si aggiungono poi, svolgendone ed applicandone i principi, quelle dei regolamenti parlamentari», da cui «si suole trarre la regola della così detta “immunità della sede” (valevole anche per gli altri supremi organi dello Stato) in forza della quale nessuna estranea autorità potrebbe far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento ed ai suoi organi. Di guisa che, ove gli organi parlamentari non vi ottemperassero, sarebbe unicamente possibile provocare l’intervento di questa Corte, in sede di conflitto di attribuzione […]» (sentenza n. 231 del 1975). In definitiva, e per giurisprudenza risalente, la legge e i regolamenti degli organi costituzionali non possono creare nuove prerogative, ma possono tuttavia esprimere prerogative implicite alla particolare struttura ed alle specifiche funzioni dei medesimi organi.
La immunità delle sedi è legata all’esistenza stessa dello Stato di diritto democratico, che verrebbe posta certamente in pericolo dall’esercizio non contrastabile dei poteri repressivi, anche nei luoghi ove si esercitano le massime funzioni di rappresentanza e di garanzia. La violazione delle sedi degli organi costituzionali potrebbe avvenire solo in uno Stato autoritario di polizia, che ovviamente costituisce l’opposto dello Stato costituzionale delineato dalla Carta del 1948.
L’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre, lo è ancor più se oggetto della ricostruzione ermeneutica sono le disposizioni costituzionali, che contengono norme basate su principi fondamentali indispensabili per il regolare funzionamento delle istituzioni della Repubblica democratica. La natura derogatoria del principio di uguaglianza, propria delle norme che sanciscono le prerogative degli organi costituzionali, impone – come questa Corte ha costantemente affermato – una stretta interpretazione delle relative disposizioni. Sono pertanto escluse sia l’interpretazione estensiva che quella analogica, ma resta possibile ed anzi necessaria l’interpretazione sistematica, che consente una ricostruzione coerente dell’ordinamento costituzionale.
Non sarebbe ragionevole dire, d’altra parte, che l’immunità delle sedi costituisca un inaccettabile privilegio degli organi costituzionali, contrario all’art. 3 Cost., perché uguale immunità non è prevista per le abitazioni dei cittadini. Le norme regolamentari in discorso esplicitano una garanzia funzionale presente nella Costituzione, e per questa ragione sono con essa perfettamente compatibili.
Si consideri ancora che, una volta stabilita l’inviolabilità della sede degli organi costituzionali rispetto all’esercizio di poteri coercitivi dell’autorità giudiziaria o di polizia, sarebbe davvero irragionevole ammettere la possibilità di una intrusione sulle linee telefoniche in uso ai titolari degli organi stessi, per di più installate proprio nelle sedi protette da immunità. Se si rileva poi che, oltre alle intercettazioni telefoniche, sono possibili – in relazione a determinate fattispecie – anche intercettazioni ambientali, si dovrebbe assurdamente concludere che sia consentito collocare, previa autorizzazione del giudice, apparecchi trasmittenti nelle sedi delle Camere, del Governo, della Corte costituzionale, sol perché non esiste un esplicito divieto costituzionale di compiere tali atti investigativi.
Il paradosso legato ad una ricerca solo testuale delle prerogative potrebbe spingersi fino a conseguenze ancor più estreme. Norme di rango costituzionale pongono limiti espressi alla possibilità che i componenti delle Camere o del Governo siano assoggettati a provvedimenti coercitivi della libertà personale, oltre che a mezzi di indagine lesivi dell’inviolabilità delle comunicazioni e del domicilio (rispettivamente, art. 68 Cost. e art. 10 della legge cost. n. 1 del 1989). Nell’assenza di analoghe previsioni che lo riguardano, dovrebbe ritenersi, secondo il metodo qui disatteso, che il Presidente della Repubblica possa essere indiscriminatamente assoggettato a provvedimenti coercitivi – perfino eseguibili attraverso la restrizione in carcere – anche ad iniziativa della polizia giudiziaria. E ciò qualunque sia la natura del reato in ipotesi perseguito. L’inaccettabilità della conseguenza, com’è ovvio, invalida il metodo. Ed infatti non mancano, nell’ordinamento, norme sintomatiche dell’incoercibilità della libertà personale del Capo dello Stato. Si pensi ad esempio all’esclusione per quest’ultimo della possibilità di procedere nelle forme ordinarie (e dunque anche mediante l’eventuale accompagnamento coattivo) all’assunzione della testimonianza (art. 205, comma 3, cod. proc. pen., in relazione al comma 1 della stessa norma): lungi dal costituire una eccezione (in questo senso irragionevole) nell’ambito di una generalizzata possibilità di coercizione, la disposizione rappresenta piuttosto la regola applicativa, sul piano particolare, del più generale regime di tutela della funzione presidenziale.
11.– L’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. È opinione pacifica che l’immunità di cui alla citata norma costituzionale sia onnicomprensiva, copra cioè i settori penale, civile, amministrativo e politico. Tuttavia la perseguibilità del Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione rende necessario che, allo scopo di accertare così gravi illeciti penali, di rilevanza non solo personale, ma istituzionale, possano essere utilizzati anche mezzi di ricerca della prova particolarmente invasivi, come le intercettazioni telefoniche. Si tratta di una limitazione logica ed implicita alla statuizione costituzionale che assoggetta il Presidente della Repubblica alla giurisdizione penale – sia pure con forme e procedimenti peculiari – in vista dell’accertamento della sua responsabilità per il compimento di uno dei suddetti reati funzionali.
La ritenuta necessità di consentire l’esercizio di poteri investigativi particolarmente penetranti, come (per quanto qui interessa) le intercettazioni telefoniche, ha indotto il legislatore ordinario a dare stretta attuazione al disposto costituzionale, mediante l’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 219 del 1989. Tale disciplina attribuisce al Comitato parlamentare, di cui all’art. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), il potere di deliberare i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente della Repubblica, sempre dopo che la Corte costituzionale abbia sospeso lo stesso dalla carica: un’eccezione, stabilita con legge ordinaria, al generale divieto, desumibile dal sistema costituzionale, di intercettare le comunicazioni del Capo dello Stato. La norma eccezionale si contiene nei limiti strettamente necessari all’attuazione processuale dell’art. 90 Cost. – che costituisce, a sua volta, norma derogatoria – disponendo, per di più, che, finanche nell’ipotesi di indagini volte all’accertamento dei più gravi delitti contro le istituzioni della Repubblica previsti dall’ordinamento costituzionale, siano interdette agli investigatori intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente in carica.
Lo stesso argomento a fortiori, che consente di dare un significato coerente con il sistema al silenzio della Costituzione sulle garanzie di riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato, deve essere utilizzato per dedurre dalla rigorosa previsione dell’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 219 del 1989, la conclusione che la garanzia prevista perfino per le indagini concernenti i delitti più gravi sul piano istituzionale implica che, per tutte le altre fattispecie, non si possa ipotizzare un livello di tutela inferiore. Ciò, del resto, è esplicitamente riconosciuto anche da quella parte della dottrina che circoscrive nel modo più restrittivo le prerogative presidenziali. La stessa Procura della Repubblica di Palermo, odierna resistente, non contesta che sia inibita qualunque forma di intercettazione telefonica nei confronti del Presidente della Repubblica ed ha piuttosto incentrato le sue difese – come si vedrà poco più avanti – sull’asserita impossibilità di riferire tale divieto alle intercettazioni «casuali».
12.– Sulla base delle considerazioni sinora esposte, si deve affermare altresì che, al fine di determinare l’ampiezza della tutela della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, non assume alcuna rilevanza la distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali, giacché l’interesse costituzionalmente protetto non è la salvaguardia della persona del titolare della carica, ma l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, fondato sulla separazione e sull’integrazione dei poteri dello Stato.
Si deve inoltre sottolineare che tutta la discussione sulla distinzione tra i reati ascrivibili al Capo dello Stato, sviluppata anche nell’ambito del presente giudizio, risulta invece ad esso estranea, giacché nel procedimento penale da cui origina il conflitto non è mai emersa alcuna contestazione di natura penale nei confronti del Presidente.
13.– Ugualmente fuor di luogo sono tutte le discussioni sviluppate in questo giudizio sulla responsabilità penale del Presidente della Repubblica per reati extrafunzionali. È noto infatti come questa Corte abbia stabilito che «l’art. 90 della Costituzione sancisce la irresponsabilità del Presidente – salve le ipotesi estreme dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione – solo per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”». La medesima pronuncia ha concluso sul punto con chiarezza: «È dunque necessario tenere ferma la distinzione fra atti e dichiarazioni inerenti all’esercizio delle funzioni, e atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della carica» (sentenza n. 154 del 2004).
Allo scopo di fugare ogni ulteriore equivoco sul punto, va riaffermato che il Presidente, per eventuali reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini. Ciò che invece non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente.
In definitiva, nella materia su cui incide il presente conflitto si deve procedere tenendo conto del necessario bilanciamento tra le esigenze di giustizia e gli interessi supremi delle istituzioni, senza giungere al sacrificio né delle prime né dei secondi. Va ribadito peraltro, anche a questo proposito, che il tema della responsabilità penale del Presidente della Repubblica resta estraneo all’odierno giudizio.
Questa Corte deve fornire le precisazioni di cui sopra in ragione della trattazione di tale argomento negli atti difensivi delle parti, le quali – anche per giungere ad opposte conclusioni – hanno ritenuto di collegare il problema dell’ammissibilità delle intercettazioni nei confronti del Presidente della Repubblica a quello della sua soggezione alla giurisdizione penale, della quale, come appena ricordato, questa Corte ha da tempo affermato la sussistenza, e che oggi deve essere ribadita.
14.– Contrariamente a quanto sostiene la resistente, non assume neppure rilevanza – se non per il profilo che appresso si indicherà – la distinzione (tuttora oggetto di controversie nei casi concreti) tra intercettazioni dirette, indirette e casuali.
In via preliminare va ricordato come, secondo la giurisprudenza costituzionale formatasi a proposito delle indagini riguardanti parlamentari o membri del Governo, occorra distinguere tra controlli mirati all’ascolto delle comunicazioni del soggetto munito della prerogativa, e controlli casuali od occasionali, cioè intervenuti accidentalmente in forza dell’intercettazione disposta a carico di un soggetto non immune. Nella prima delle due categorie sono comprese anche le intercettazioni “indirette”, cioè quelle indagini che, pur non riguardando (a differenza delle intercettazioni “dirette”) le utenze in uso al soggetto immune, siano comunque mirate a captarne le comunicazioni, a causa del suo rapporto personale o professionale con la persona assoggettata al controllo (si vedano, in proposito, le sentenze n. 114 e n. 113 del 2010, n. 390 del 2007, nonché le ordinanze n. 171 del 2011 e n. 263 del 2010).
Nel caso in esame, l’occasionalità delle intercettazioni effettuate non è in contestazione fra le parti. Sia nell’atto introduttivo del giudizio che nella successiva memoria, lo stesso ricorrente muove, infatti, dall’esplicito presupposto che le captazioni dei colloqui presidenziali siano state operate accidentalmente, non prospettando, neppure in via di ipotesi, un intento surrettizio degli inquirenti di accedere alla sfera delle comunicazioni del Capo dello Stato tramite il monitoraggio delle utenze in uso all’indagato.
Tuttavia, anche aderendo alla concorde qualificazione operata dalle parti, ciò non comporta che le intercettazioni in questione debbano ritenersi consentite e suscettibili di utilizzazione processuale, sulla base dell’argomento che quanto è fortuito non può formare oggetto di divieto. Difatti, se il fondamento della tutela della riservatezza delle comunicazioni presidenziali non è l’espressione di una presunta – e inesistente – immunità del Presidente per i reati extrafunzionali, ma consiste nell’essenziale protezione delle attività informali di equilibrio e raccordo tra poteri dello Stato, ossia tra soggetti che svolgono funzioni, politiche o di garanzia, costituzionalmente rilevanti, allora si deve riconoscere che il livello di tutela non si abbassa per effetto della circostanza, non prevista dagli inquirenti e non conosciuta ovviamente dallo stesso Presidente, che l’intercettazione non riguardi una utenza in uso al Capo dello Stato, ma quella di un terzo destinatario di indagini giudiziarie. Si verificherebbe, secondo l’opposta opinione, la singolare situazione di una tutela costituzionale che degrada in seguito a circostanze casuali, imprevedibili anche da parte degli stessi inquirenti.
Semmai la distinzione di cui sopra potrebbe assumere rilevanza per valutare la responsabilità di chi dispone le intercettazioni, giacché diversa è la posizione di chi deliberatamente interferisce in modo illegittimo nella sfera di riservatezza di un organo costituzionale e di chi si trovi occasionalmente di fronte ad una conversazione captata nel corso di una attività di controllo legittimamente mirata verso un altro soggetto.
Se l’intercettazione è stata casuale, cioè non prevedibile né evitabile, il problema non è quello di affermare il suo divieto preventivo, che, in via generale, esiste, ma non è applicabile nella fattispecie – anche per le modalità tecniche della relativa esecuzione – proprio per la casualità e l’imprevedibilità della captazione (considerazione che priva, tra l’altro, della sua necessaria premessa logica la richiesta del ricorrente di dichiarare che non spettava agli inquirenti non interrompere la registrazione delle conversazioni). La funzione di tutela del divieto si trasferisce dalla fase anteriore all’intercettazione, in cui rileva la direzione impressa all’atto di indagine dall’autorità procedente, a quella posteriore, giacché si impone alle autorità che hanno disposto ed effettuato le captazioni l’obbligo di non aggravare il vulnus alla sfera di riservatezza delle comunicazioni presidenziali, adottando tutte le misure necessarie e utili per impedire la diffusione del contenuto delle intercettazioni.
Si tratta di conclusioni perfettamente compatibili con la logica dei divieti probatori nel processo penale, cui si connette la sanzione dell’inutilizzabilità della prova (art. 191 cod. proc. pen.). Tale sanzione processuale opera a garanzia dell’interesse presidiato dal divieto, a prescindere dalla responsabilità dell’inquirente per la violazione di regole procedurali nell’attività di acquisizione. Il carattere casuale di una captazione non consentita (si pensi all’episodico contatto, da parte di una persona legittimamente sottoposta ad intercettazione, con un soggetto tenuto al segreto professionale) non incide sulla necessità di tutela della riservatezza del relativo colloquio.
È chiaro dunque come, specie ai livelli di protezione assoluta che si sono riscontrati riguardo alle comunicazioni del Presidente della Repubblica, già la semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato. Se poi si arrivasse ad intraprendere iniziative processuali suscettibili di sfociare nella divulgazione dei contenuti delle stesse comunicazioni, la tutela costituzionale, di cui sinora si è trattato, sarebbe irrimediabilmente e totalmente compromessa. Dovere dei giudici – soggetti alla legge, e quindi, in primo luogo, alla Costituzione – è quello di evitare che ciò possa accadere e, quando ciò casualmente accada, di non portare ad ulteriori conseguenze la lesione involontariamente recata alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta.
15.– La soluzione del presente conflitto non può che fondarsi – in base a quanto detto sinora – sull’affermazione dell’obbligo per l’autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, che nel caso di specie risultano essere quattro, peraltro intrattenute mediante linee telefoniche del Palazzo del Quirinale.
Lo strumento processuale per giungere a tale risultato, costituzionalmente imposto, non può essere quello previsto dagli artt. 268 e 269 cod. proc. pen., giacché tali norme richiedono la fissazione di un’udienza camerale, con la partecipazione di tutte le parti del giudizio, i cui difensori, secondo quanto prevede il comma 6 del citato art. 268, «hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni», previamente depositati a tale fine. Anche la procedura di distruzione regolata dai commi 2 e 3 del citato art. 269 è incentrata, come questa Corte ha ribadito a suo tempo con la sentenza n. 463 del 1994, sull’adozione del rito camerale e dei connessi strumenti di garanzia del contraddittorio.
Un duplice ordine di motivi conduce ad escludere la legittimità del ricorso agli istituti processuali in questione.
In primo luogo, la cosiddetta «udienza di stralcio», di cui al sesto comma dell’art. 268 cod. proc. pen., è inconferente rispetto al caso che ha dato origine al conflitto, essendo strutturalmente destinata alla selezione dei colloqui che le parti giudicano rilevanti ai fini dell’accertamento dei fatti per cui è processo. Nel caso di specie nessuna valutazione di rilevanza è possibile, alla luce del riscontrato divieto di divulgare, ed a maggior ragione di utilizzare in chiave probatoria, riguardo ai fatti oggetto di investigazione, colloqui casualmente intercettati del Presidente della Repubblica. Quanto alla procedura partecipata di distruzione, essa riguarda per definizione conversazioni prive di rilevanza ma astrattamente utilizzabili, come risulta dalla clausola di esclusione inserita, riguardo alle intercettazioni delle quali sia vietata l’utilizzazione, in apertura del secondo comma dell’art. 269 cod. proc. pen.
È evidente d’altra parte, nella dimensione propria e prevalente delle tutele costituzionali, che l’adozione delle procedure indicate vanificherebbe totalmente e irrimediabilmente la garanzia della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica.
Esiste piuttosto un’altra norma processuale – cioè l’art. 271, comma 3, cod. proc. pen., invocato dal ricorrente – che prevede che il giudice disponga la distruzione della documentazione delle intercettazioni di cui è vietata l’utilizzazione ai sensi dei precedenti commi dello stesso articolo, in particolare e anzitutto perché «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge», salvo che essa costituisca corpo di reato. Per le ragioni fin qui illustrate, le intercettazioni delle conversazioni del Presidente della Repubblica ricadono in tale ampia previsione, ancorché effettuate in modo occasionale.
Quanto alla procedura da seguire, nella citata disposizione non sono contenuti rinvii ad altre norme del codice di rito, e manca in particolare il richiamo all’art. 127, che invece è operato nella contigua previsione dell’art. 269 cod. proc. pen. Dunque, la norma processuale in questione non impone la fissazione di una udienza camerale “partecipata”, e neppure la esclude.
La soluzione è coerente con l’eterogeneità delle fattispecie regolate dallo stesso art. 271 cod. proc. pen., consentendo di tener conto delle diverse ragioni che sono alla base delle singole ipotesi di inutilizzabilità. Questa può derivare, per un verso, dall’inosservanza di regole procedurali, che prescindono dalla qualità dei soggetti coinvolti e dal contenuto delle comunicazioni captate: tali, in particolare, le prescrizioni degli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, specificamente richiamate dal comma 1 dell’art. 271 cod. proc. pen., in materia di presupposti e modalità di esecuzione delle operazioni. Ma l’inutilizzabilità può connettersi anche a ragioni di ordine sostanziale, espressive di un’esigenza di tutela “rafforzata” di determinati colloqui in funzione di salvaguardia di valori e diritti di rilievo costituzionale che si affiancano al generale interesse alla segretezza delle comunicazioni (quali la libertà di religione, il diritto di difesa, la tutela della riservatezza su dati sensibili ed altro). È questo il caso, specificamente previsto dal successivo comma 2, delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni dei soggetti indicati dall’art. 200, comma 1, cod. proc. pen. (ministri di confessioni religiose, avvocati, investigatori privati, medici ed altro), allorché abbiano ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione. Ma è questo ovviamente anche il caso dell’intercettazione, benché casuale, di colloqui del Capo dello Stato, riconducibile, come detto, all’ipotesi delle intercettazioni «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge», cui è preliminare e distinto riferimento (come univocamente emerge dall’impiego della particella disgiuntiva «o») nel comma 1 dell’art. 271: previsione che si presta a svolgere un ruolo “di chiusura” della disciplina dell’inutilizzabilità, abbracciando fattispecie preclusive diverse e ulteriori rispetto a quelle dianzi indicate, ricavabili anche, e in primo luogo, dalla Costituzione.
A proposito delle regole da seguire ai fini della distruzione del materiale inutilizzabile, il trattamento delle due categorie di intercettazioni deve essere diverso. Le intercettazioni inutilizzabili per vizi di ordine procedurale attengono a comunicazioni di per sé non inconoscibili, e che avrebbero potuto essere legittimamente captate se fosse stata seguita la procedura corretta. La loro distruzione può pertanto seguire l’ordinaria procedura camerale, nel contraddittorio fra le parti. Nel caso invece si tratti di intercettazioni non utilizzabili per ragioni sostanziali, derivanti dalla violazione di una protezione “assoluta” del colloquio per la qualità degli interlocutori o per la pertinenza del suo oggetto, la medesima soluzione risulterebbe antitetica rispetto alla ratio della tutela. L’accesso delle altre parti del giudizio, con rischio concreto di divulgazione dei contenuti del colloquio anche al di fuori del processo, vanificherebbe l’obiettivo perseguito, sacrificando i principi e i diritti di rilievo costituzionale che si intende salvaguardare. Basti pensare alla conoscenza da parte dei terzi – o, peggio, alla diffusione mediatica – dei contenuti di una confessione resa ad un ministro del culto, ovvero all’ostensione al difensore della parte civile del colloquio riservato tra l’imputato e il suo difensore (possibile ove la procedura di cui all’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. fosse avviata dopo l’esercizio dell’azione penale).
Nelle ipotesi ora indicate – e dunque anche, a maggior ragione (stante il rango degli interessi coinvolti), in quella dell’intercettazione di colloqui presidenziali – deve ritenersi che i principi tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria processuale, peraltro non espressamente richiesta dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. Né gioverebbe richiamare, in senso contrario, la sentenza di questa Corte n. 173 del 2009, che ha stabilito la necessità dell’udienza camerale, nel contraddittorio delle parti, per procedere alla distruzione dei documenti, supporti o atti recanti dati illegalmente acquisiti inerenti a comunicazioni telefoniche o telematiche, ovvero ad informazioni illegalmente raccolte. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, si discuteva, nel caso che ha dato origine alla questione decisa con la suddetta pronuncia, di documenti che costituivano essi stessi corpo di reato, esplicitamente esclusi dalla previsione di distruzione di cui al comma 3 dell’art. 271 cod. proc. pen., palesemente inapplicabile dunque a quelle fattispecie.
16.– Le intercettazioni oggetto dell’odierno conflitto devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero. Tale controllo è garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed ordinarie fin qui citate.
Ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08;
dichiara che non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Gaetano SILVESTRI e Giuseppe FRIGO, Redattori
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 gennaio 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
Nessun commento:
Posta un commento