ADUNANZE PLENARIE & PROCESSO:
ottemperanza ed "astreintes"
(Ad. Plen., sentenza 25 giugno 2014, n. 15).
Principio di diritto
Nell’ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria.
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Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza
Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 14
di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
contro
Maria Antioca Flumene, Giovanna Flumene,
Pietro Piras, Giovanna Maria Piras, Antioco Piras, Domenica Piras;
sul ricorso numero di registro generale 15
di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
Caterina Flumene, Giovanna Maria Flumene,
Maria Leonarda Flumene, rappresentati e difesi dall'avv. Raffaele Porpora, con
domicilio eletto presso lo stesso, alla via della Giuliana, n. 74;
sul ricorso numero di registro generale 16
di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
Luisa Ruspi Solfanelli, rappresentato e
difeso dall'avv. Vincenzo Ussani D'Escobar, con domicilio eletto presso lo
stesso in Roma, alla via Colli della Farnesina, n. 110;
sul ricorso numero di registro generale 17
di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
Andrea Ravanolo;
sul ricorso numero di registro generale 18
di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
Vincenzo Perrelli, Margherita Perrelli,
Immacolata Perrelli, Carolina Perrelli, Rosa Perrelli;
per la riforma
quanto al ricorso n. 14 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma:
Sezione I n. 05341/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del decreto
della Corte d'Appello di Roma n.585/2009 - equa riparazione l.89/01 -
corresponsione somme
quanto al ricorso n. 15 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma:
Sezione I n. 05411/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del decreto
della Corte d'Appello di Roma n.590/2009 - equa riparazione l.89/01 -
corresponsione somme
quanto al ricorso n. 16 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma:
Sezione I n. 07619/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del
giudicato del decreto della Corte d'Appello di Roma n.53537/2006 - equa
riparazione l.89/01 - corresponsione somme
quanto al ricorso n. 17 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma:
Sezione I n. 07459/2013, resa tra le parti, concernente l’esecuzione del
decreto n. 5949/2011 della Corte di Appello di Roma - equa riparazione
l.89/2001
quanto al ricorso n. 18 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma:
Sezione I n. 07468/2013, resa tra le parti, concernente l’esecuzione del
decreto n. 5954/2011 della Corte di Appello di Roma - equa riparazione
l.89/2001
Visti i ricorsi in appello e i relativi
allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio
di Caterina Flumene, di Giovanna Maria Flumene, di Maria Leonarda Flumene e di
Luisa Ruspi Solfanelli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del
giorno 18 giugno 2014 il Cons. Francesco Caringella e uditi per le parti gli
avvocati D'Avanzo e Ussani D'Escobar;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto
quanto segue.
FATTO
1. Con gli appelli in epigrafe il
Ministero della Giustizia impugna le sentenze in epigrafe anche, o solo, nella
parte in cui è stata disposta la condanna dell'Amministrazione al pagamento di
somme di denaro a titolo di penalità di mora ex art. 114, comma 4, lett. e),
del codice del processo ammnistrativo, in ragione della mancata esecuzione dei
decreti della Corte di Appello di Roma di condanna alla corresponsione di un
indennizzo a titolo di equa riparazione per eccessiva durata del processo di
cui alla L. 24 marzo 2001 n. 89 (cd. Legge Pinto).
I gravami in esame sono affidati alla
deduzione della violazione dell'art. 114, comma 4, cod. proc. amm., dell'art. 6
par. i) della CEDU, dell'art. 117 della Costituzione, degli artt. 2 e 3, comma
7, della legge n. 89 del 2001.
I motivi di ricorso possono così essere
compendiati.
1.1. Con un primo motivo la difesa
erariale ha ricordato come un primo orientamento giurisprudenziale abbia
ritenuto doversi escludere l'ammissibilità dell'astreinte nel caso
in cui l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di
denaro, in quanto la penalità di mora costituisce un mezzo di coazione
indiretta sul debitore, utile in modo particolare quando si è in presenza di
obblighi di facere infungibili: di qui l’iniquità della
condanna dell'Amministrazione al pagamento di ulteriori somme di denaro, quando
l'obbligo di cui si chiede l'adempimento consiste, esso stesso,
nell'adempimento di un'obbligazione pecuniaria.
Il Tribunale di prime cure, con le
decisioni impugnate, avrebbe invece seguito l’orientamento per cui la naturale
"coercibilità" degli obblighi di fare dell'Amministrazione nel
giudizio amministrativo di ottemperanza e la collocazione della misura
sanzionatoria nell'ambito di tale giudizio non consentono, in linea di
principio, di escluderne la riferibilità anche alle sentenze di condanna
pecuniarie secondo il modello originario dell'astreinte, e non
secondo quello di cui all'art. 614 bis c.p.c. .
In coerenza, per il Ministero appellante:
- deve escludersi la possibilità di far
ricorso all'astreinte quando l'esecuzione del giudicato consista
nel pagamento di una somma dì denaro, che, come tale, è già assistito, a
termine del vigente ordinamento, per il caso di ritardo nel suo adempimento,
dall'obbligo accessorio degli interessi legali;
-- la somma dovuta a titolo di penalità
andrebbe indebitamente ad aggiungersi agli altri accessori determinando un
ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore della prestazione
principale e di quella accessoria;
-- l'interpretazione seguita dal primo
Giudice contraddirebbe la ratio della norma in questione
rinvenibile nella Relazione Governativa di accompagnamento al Codice ove si
sottolinea il sostanziale parallelismo con la nuova previsione dell'art. 614 bis c.p.c.
(introdotta dall'art. 49 comma 1, 1. 18 giugno 2009 n. 69) che fa riferimento a
“obblighi di fare infungibile o di non fare”;
-- la formulazione dell'art. 114, comma 4
lettera e) del cod. proc. amm. è identica a quella del nuovo art. 614-bis c.p.c.,
come introdotto dall'art. 49, comma 1, della L. 18 giugno 2009, n. 69, con
l’unica differenziazione relativa all'inciso "se non sussistono altre
ragioni ostative";
-- si finirebbe per offrire uno strumento
ulteriore di coercizione indiretta all'effettività della tutela (art. 1 cod.
proc. amm), la quale non è certo volta a garantire al ricorrente più di quanto
gli spetti secondo diritto;
-- l'istituto de quo si
attaglia propriamente a quelle situazioni nelle quali si tratta di porre in
essere un' attività amministrativa da svolgersi, per quanto possibile, nel
rispetto dell'ordine fisiologico delle competenze (si pensi all'adozione di una
deliberazione in materia urbanistica), in quanto contribuisce a prevenire
l'intervento del commissario ad acta: esigenza, questa, estranea
alla logica che ispira la disciplina degli adempimenti di prestazioni a
carattere pecuniario, sia sul piano fisiologico sia sul piano della patologia
derivante dal ritardo, il cui paradigma di riferimento si rinviene
essenzialmente nella disciplina civilistica degli interessi e del risarcimento
del danno;
1.2. Con un secondo ordine di motivi si
rileva, poi, che sarebbe del tutto illegittima la liquidazione automatica della
predetta misura dato che, l'art. 114, comma 4, lett e) cod. proc. amm.,
consente il riconoscimento della misura ivi prevista previa la verifica dei
presupposti cui il legislatore ha inteso subordinare la condanna anche al
pagamento di una somma di denaro ed in particolare: dell'effettiva inerzia
dell'Amministrazione nell'esecuzione della sentenza di equa riparazione, della
ragionevolezza dei tempi alla luce della giurisprudenza che si è pronunciata in
materia (da ultimo, Cass. n. 5924/2012; Cass., sez. unite n. 6312/2014) e delle
esigenze di bilancio.
Non si sarebbe potuto prescindere dal
vagliare puntualmente la condotta amministrativa ai fini dell'eventuale
riscontro di responsabilità.
2. Si sono costituite in giudizio le
controparti in epigrafe specificate.
3. Con l’Ordinanza 18 aprile 2014, n. 14,
la sezione quarta di questo Consiglio ha riunito gli appelli di cui in
epigrafe, in ragione della ricorrenza di profili di connessione oggettiva e
parzialmente soggettiva.
Con la stessa Ordinanza si è disposta la
rimessione dei ricorsi all’esame dell’Adunanza Plenaria in ragione dei contrasti
giurisprudenziali già registratisi in merito alle questioni relative:
a) alla natura ed all'ammissibilità in
generale dell'astreinte di cui all'art. 114, comma 4, lett. e) cod.
proc. amm. nel caso in cui l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di
una somma di denaro;
b) alla sua applicabilità, in particolare,
all’equa riparazione di cui alla c.d. legge Pinto, per l’indebita
“automaticità” della condanna dell’Amministrazione fatta in assenza della
previa verifica dei presupposti indicati dal c.p.a.
DIRITTO
1. E’ sottoposta al vaglio dell’Adunanza
Plenaria la quaestio iuris relativa all’ammissibilità della
comminatoria delle penalità di mora, di cui all'art. 114, comma 4, lett. e),
del codice del processo amministrativo, nel caso in cui il ricorso per
ottemperanza venga proposto in ragione della non esecuzione di una sentenza che
abbia imposto alla pubblica amministrazione il pagamento di una somma di
denaro.
Ai fini della soluzione del problema è
necessaria un’indagine sulla genesi e sulla fisionomia dell’istituto in esame.
2. L'art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a.
prevede che il giudice dell’ottemperanza, in caso di accoglimento del ricorso in
executivis, “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non
sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di
denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva,
ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione
costituisce titolo esecutivo”.
La norma, che costituisce una novità nel
processo amministrativo italiano, delinea una misura coercitiva indiretta a
carattere pecuniario, inquadrabile nell’ambito delle pene private o delle
sanzioni civili indirette, che mira a vincere la resistenza del debitore,
inducendolo ad adempiere all’ obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del
giudice (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).
La norma dà la stura, in definitiva, ad un
meccanismo automatico di irrogazione di penalità pecuniarie in vista
dell’assicurazione dei valori dell’effettività e della pienezza della tutela
giurisdizionale a fronte della mancata o non esatta o non tempestiva esecuzione
delle sentenze emesse nei confronti della pubblica amministrazione e, più in
generale, della parte risultata soccombente all’esito del giudizio di
cognizione.
Il modello della penalità di mora trova un
antecedente, nell’ambito del processo civile, nell’art. 614-bis (inserito
nel c.p.c. dall’art.49, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69), rubricato
“attuazione degli obblighi di fare infungibile o non fare”. La norma in analisi
dispone che “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia
manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta
dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni
ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna
costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni
violazione o inosservanza. (…)”. Al comma II viene precisato che “Il
giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto
del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno
quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.
3. Sia l’istituto previsto dal codice del
processo amministrativo sia quello contemplato dal codice di procedura civile
sono fortemente innovativi rispetto alla nostra tradizione processuale.
Il legislatore nazionale si è, infatti,
mostrato in passato restio all’abbandono dell’ispirazione
liberal-individualistica di matrice ottocentesca, manifestando diffidenza per
il recepimento dell’istituto delle misure coercitive indirette, ritenute una
forma di eccessiva ingerenza dello Stato delle libere scelte degli individui
anche in merito all’osservanza, in forma specifica o meno, di un comando
giudiziale.
Prima della riforma del 2009, dunque, la
possibilità che un provvedimento giurisdizionale di condanna fosse assistito da
una penalità di mora era prevista, in modo episodico, solo con riferimento a
fattispecie tassativamente individuate da norme speciali, insuscettibili di
applicazione analogica. Tra queste vanno ricordati l’art. 18, ultimo comma,
dello Statuto dei lavoratori, in base al quale il datore di lavoro, in caso di
illegittimo licenziamento, è tenuto al pagamento di una somma commisurata alle
retribuzioni dovute dal momento del licenziamento fino a quello dell’effettivo
reintegro; gli artt. 124, co. 2, e 131, co. 2, del codice della proprietà
industriale, che, in tema di brevetti, prevede l’adozione di una sanzione
pecuniaria in caso di violazione della misura inibitoria applicata nei
confronti dell’autore della violazione del diritto di proprietà industriale;
l’art. 156 della legge sul diritto d’autore, relativo alla protezione del
diritto d’autore, che prevede parimenti una sanzione pecuniaria in caso di
inosservanza della statuizione inibitoria; l’art. 8, co. 3, d. lgs. 9 ottobre
2002, n. 231, che, in tema di ritardato pagamento nelle transazioni commerciali,
contempla la possibilità di irrogare un’astreinte in caso di
mancato rispetto degli obblighi imposti dalla sentenza che abbia accertato
l’iniquità delle clausole contrattuali; l’art. 140, co. VII, del codice del
consumo, che ha previsto misure pecuniarie per il caso di inadempimento del
professionista a fronte di pronunce rese dal giudice civile su ricorsi proposti
dalle associazioni di tutela degli interessi collettivi in materia
consumeristica; l’art. 709-ter, co. 2, n. 4, cod. proc. civ., che, con riferimento
alle controversie relative all’esercizio della potestà genitoriale o alle
modalità dell’affidamento dei figli, prevede, a carico del genitore
inadempiente alle obbligazioni difacere, il pagamento di una
sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.
Con l’art. 614-bis cod. proc.
civ. e con l’art. 114, comma 4, lettera e, cod. proc. amm., il nostro
ordinamento, conferendo alla misura in esame un respiro generale, ha esibito,
quindi, una nuova sensibilità verso l’istituto delle sanzioni civili indirette,
dando seguito ai ripetuti moniti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,
secondo cui “il diritto ad un tribunale sarebbe fittizio se l’ordinamento
giuridico interno di uno Stato membro permettesse che una decisione giudiziale
definitiva e vincolante restasse inoperante a danno di una parte” (sent.
Hornsby c. Grecia, 13/03/1997, e Ventorio c. Italia, 17/05/2011).
Nell’adeguamento dell’ordinamento
nazionale al panorama degli ordinamenti più evoluti in subiecta materia il
legislatore ha seguito il modello francese delle cc. dd. “astreintes”,
costituenti misure coercitive indirette a carattere esclusivamente
patrimoniale, che mirano ad incentivare l’adeguamento del debitore ad ogni
sentenza di condanna, attraverso la previsione di una sanzione pecuniaria che
la parte inadempiente dovrà versare a favore del creditore vittorioso in
giudizio.
Il carattere essenzialmente sanzionatorio
della misura, prevista dall’ordinamento francese con riferimento ad ogni tipo
di sentenza di condanna, è dimostrato dal tenore della legge 5 luglio 1972,
ove, all’art. 6, si prevede specificamente che l’astreinte è “indépendante
des dommages-intérets”. La natura giuridica della misura coercitiva
indiretta francese, dunque, non è ispirata alla logica riparatoria che permea
la teoria generale della responsabilità civile, dovendosi configurare la sua
comminatoria alla stregua di una pena privata o, più precisamente, di una
sanzione civile indiretta. Trattasi, quindi, di una pena, e non di un
risarcimento, che vuole sanzionare la disobbedienza all’ordine del giudice, a
prescindere dalla sussistenza e dalla dimostrazione di un danno. E’ altresì
pacifica, nella stessa prospettiva, la cumulabilità della penalità con il danno
cagionato dall’inosservanza del precetto giudiziale, al pari della non
defalcabilità dell’ammontare della sanzione dall’importo dovuto a titolo di
riparazione.
Nel campo dei rapporti amministrativi la
legge 8 febbraio 1995 ha poi attribuito anche ai Tribunaux
Administratifs e alle Cours Administraves d’Appel il
potere, prima assegnato dal decreto 30 luglio 1963 al solo Conseil
d’Etat, di disporre l’astreinte a carico
dell’amministrazione inadempiente, anticipando al momento della pronuncia della
sentenza la possibilità di disporre il mezzo di coercizione indiretta e
introducendo un nuovo potere del giudice amministrativo, nei casi in cui
l’esecuzione del giudicato amministrativo comporti necessariamente l’emanazione
di un provvedimento dal contenuto determinato, di ordinare all’amministrazione l’adozione
dell’atto satisfattorio e, quando risulti opportuno, di fissare un termine per
l’esecuzione (si veda la disciplina oggi prevista dagli artt. L.911-4 e 911-5
del code de justice administrative).
Norme simili, pur se con modulazioni
diverse, sono presenti anche negli ordinamenti tedesco (c.d. Zwangsgeld)
e inglese (c.d. Contempt of Court).
Le Zwangsgeld, in particolare,
possono assistere esclusivamente provvedimenti di condanna a obblighi di fare
infungibili o di non fare (come negli ordinamenti rumeno, greco e sloveno) e
consistono in una condanna al pagamento di una somma di denaro (Zwangsgeld/Ordnungsgeld)
in favore dello Stato, con la possibilità di conversione in arresto (Zwangsgeld/Ordnungshaft) nel
caso in cui il debitore non disponga di un patrimonio capiente.
Il Contempt of Court, invece,
può, come avviene per le astreintes francesi, essere
pronunciato a fronte della violazione di ogni provvedimento dell’autorità
giudiziaria, a prescindere dal suo contenuto, e consiste in una sanzione pecuniaria
da versarsi allo Stato (in alternativa al sequestro di beni) o in una sanzione
detentiva (arrest for the contempt of the court), con facoltà di scelta
discrezionale per il giudice tra la misura patrimoniale e quella limitativa
della libertà personale.
3.1. Tutte le misure descritte sono
ispirate dalla medesima esigenza di offrire uno strumento di coazione
all’adempimento delle pronunce giurisdizionali.
La breve ricognizione comparatistica
effettuata, mettendo in luce l’eterogeneità delle opzioni abbracciate nei vari
ordinamenti circa l’ambito di applicazione delle penalità di mora, consente di
mettere in chiaro che la scelta attuata dall’art. 614-bis c.p.c.,
al pari di alcuni degli altri ordinamenti passati in rassegna, di limitare l’astreinte al
solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un
fare infungibile, non deriva da un limite concettuale insito nella ratio o
nella struttura ontologica dell’istituto ma è il frutto di un’opzione
discrezionale del legislatore.
4. Si deve, a questo punto, segnalare che
la penalità di mora disciplinata dall’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a. si
distingue in modo significativo da quella prevista per il processo civile.
I profili differenziali rispetto
all’omologo istituto di cui all’art. 614 bis c.p.c. sono,
infatti, molteplici e di rilevante importanza:
a) mentre la sanzione di cui al 614-bis c.p.c.
è adottata con la sentenza di cognizione che definisce il giudizio di merito,
la penalità è irrogata dal Giudice Amministrativo, in sede di ottemperanza, con
la sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell’obbligo di
contegno imposto dal comando giudiziale;
b) di conseguenza, nel processo civile la
sanzione è ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la commina si atteggia
a condanna condizionata (o in futuro) al
fatto eventuale dell’inadempimento del precetto giudiziario nel termine
all’uopo contestualmente fissato; al contrario, nel processo amministrativo l’astreinte,
salva diversa valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in
quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio d’ottemperanza di cui agli
artt. 112 e seguenti c.p.a., ha già accertato l’inadempimento del debitore;
c) le astreintes disciplinate
dal codice del processo amministrativo presentano, almeno sul piano formale,
una portata applicativa più ampia rispetto a quelle previste nel processo
civile, in quanto non si è riprodotto nell’art. 114, co. 4, lett. e, c.p.a., il
limite della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli
obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile;
d) la norma del codice del processo
amministrativo non richiama i parametri di quantificazione dell’ammontare della
somma fissati dall’art. 614 bis c.p.c.;
e) il codice del processo amministrativo
prevede, accanto al requisito positivo dell’inesecuzione della sentenza e al
limite negativo della manifesta iniquità, l’ulteriore presupposto negativo
consistente nella ricorrenza di “ragioni ostative”.
4.1 La questione dell’applicabilità delle astreintes nel
caso in cui sia chiesta, nell’ambito di un giudizio di ottemperanza,
l’esecuzione di un titolo giudiziario avente ad oggetto somme di danaro, trae
origine dalla terza delle differenze delineate.
Per il processo amministrativo, infatti,
manca una previsione esplicita che limiti la riferibilità delle penalità di
mora al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare
o un fare infungibile. Nasce quindi il problema relativo alla possibilità di
richiedere l’applicazione delle penalità anche nel caso dell’ottemperanza a
sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario.
5. Mentre la dottrina è in gran parte
favorevole ad una lettura estensiva della norma de qua, la
giurisprudenza amministrativa ha manifestato significative divisioni sulla
questione rimessa all’Adunanza Plenaria.
5.1. L’opinione prevalente ammette
l’applicazione delle penalità di mora anche per le sentenze di condanna
pecuniaria (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 29
gennaio 2014, n. 462, Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3781; Cons.
Stato, sez. V, sent., 19 giugno 2013, n. ri 3339, 3340, 3341 e 3342; Cons.
Stato, sez. III, 30 maggio 2013, n. 2933; C.g.a.r.s., 30 aprile 2013, n. 424;
Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2012, n. 3272; Cons. Stato, sez. V, 14 maggio
2012, n. 2744; Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011 n. 6688; Cons. di Stato,
Sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4216; C.g.a.r.s., 22 gennaio 2013, n. 26; Cons.
Stato sez. VI, 6 agosto 2012, n. 4523, Cons. Stato sez. VI, 4 settembre 2012,
n. 4685).
Deporrebbero a favore di tale opzione
ermeneutica (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462) le
seguenti argomentazioni:
a) il tenore letterale della disposizione,
che, a differenza dell’art. 614-bis cod. proc. civ., non pone “alcuna
distinzione per tipologie di condanne rispetto al potere del giudice di
disporre, su istanza di parte, la condanna dell'amministrazione inadempiente al
pagamento della penalità di mora” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 29
gennaio 2014, n. 462), con una scelta che “appare coerente con il rilievo
che il rimedio dell’ottemperanza, grazie al potere sostitutivo esercitabile,
nell’alveo di una giurisdizione di merito, dal giudice in via diretta o
mediante la nomina di un commissario ad acta, non conosce, in linea di
principio, l’ostacolo della non surrogabilità degli atti necessari al fine di
assicurare l’esecuzione
in re del precetto giudiziario” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre
2011, n. 6688);
b) la peculiare natura giuridica della
penalità di mora ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., che, in
virtù della sua diretta derivazione dal modello francese delle cc. dd. “astreintes”,
“assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non
mira a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della sentenza ma
vuole sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il
debitore all’adempimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n.
6688), integrando un strumento “di pressione nei confronti della p.a., inteso
ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi
discendenti dal decisum giudiziale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29
gennaio 2014, n. 462);
c) il rilievo secondo cui la matrice
sanzionatoria della misura, idonea a confutare il rischio di duplicazione
risarcitoria, è confermata dalla considerazione da parte dell’art. 614-bis,
comma 2, cod. proc. civ., sempre nell’ottica dell’aderenza al modello francese,
della misura del danno quantificato e prevedibile come “solo uno dei
parametri di commisurazione in quanto prende in considerazione anche altri
profili, estranei alla logica riparatoria, quali il valore della controversia,
la natura della prestazione e ogni altra circostanza utile, tra cui si può
annoverare il profitto tratto dal creditore per effetto del suo inadempimento”
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).
5.2 L’opposto orientamento dà risposta
negativa alla questione (cfr. di recente Cons. Stato, Sez. IV, 13 giugno 2013
n. 3293; Cons. Stato, Sez. III, 06 dicembre 2013, n. 5819) sulla scorta delle
seguenti argomentazioni:
a) la considerazione per la quale la
funzione della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza sarebbe quella di
“incentivare l'esecuzione di condanne di fare o non fare infungibile prima
dell'intervento del commissario ad acta, il quale comporta normalmente maggiori
oneri per l'Amministrazione, oltre che maggiore dispendio di tempo per il
privato”, di modo che “ove il giudizio di ottemperanza sia prescelto
dalla parte per l'esecuzione di sentenza di condanna pecuniaria del giudice
ordinario, la tesi favorevole all'ammissibilità dell'applicazione
dell'astreinte finirebbe per consentire una tutela diversificata dello stesso
credito a seconda del giudice dinanzi al quale si agisca atteso che il
creditore pecuniario della p.a. nel giudizio di ottemperanza potrebbe ottenere
maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di
esecuzione civile solo in base ad un'opzione puramente potestativa” (cfr.
Cons. di Stato, Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);
b) la valorizzazione dell’iniquità della
condanna al pagamento di una somma di danaro laddove l'obbligo oggetto di
domanda giudiziale sia esso stesso di natura pecuniaria, di talché sarebbe già
assistito, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio
degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe
ulteriormente ad aggiungersi, con le conseguenze della “duplicazione
ingiustificata di misure volte a ridurre l'entità del pregiudizio derivante
all'interessato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell'esecuzione del
giudicato, nonché dell’ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore
della prestazione principale e di quella accessoria” (cfr. Cons. Stato,
Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);
c) l’impossibilità di cumulare un modello
di esecuzione surrogatoria con uno di carattere compulsorio, dal momento che il
sistema nazionale di esecuzione amministrativa della decisione, connotato da
caratteri di estrema incisività e pervasività, porrebbe già a presidio delle
ragioni debitorie dell’amministrazione “la doppia garanzia sul piano
patrimoniale del riconoscimento degli accessori del credito e su quello coercitivo
generale dell’intervento del Commissario ad acta” (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, ord. 18 aprile 2014, n. 2004).
6. L’Adunanza Plenaria ritiene di aderire
all’orientamento prevalente che ammette l’operatività dell’istituto per tutte
le decisioni di condanna adottate dal Giudice Amministrativo ex art. 112
c.p.a., ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni pecuniarie.
6.1. A sostegno dell’opzione estensiva si
pone, innanzitutto, un argomento di diritto comparato.
Si deve considerare, infatti, che il sistema
francese, modello sul quale sono stati coniati gli istituti nazionali che
prevedono l’irrogazione della penalità di mora, è connotato da un’indiscussa
funzione sanzionatoria, essendo teleologicamente orientato a costituire una
pena per la disobbedienza alla statuizione giudiziaria, e non un risarcimento
per il pregiudizio sofferto a causa di tale inottemperanza.
Il modello transalpino, quindi, in
aderenza al favor espresso dalla giurisprudenza della CEDU
verso la massima estensione, anche in executivis, dell’effettività
delle decisioni giurisdizionali, dimostra che il rimedio compulsorio in esame
può operare anche per le condanne pecuniarie, in quanto non conosce limiti
strutturali in ragione della natura della condotta imposta dallo iussum
iudicis.
Si conferma, in questo modo, che la
delimitazione dell’ambito oggettivo di operatività della misura è frutto di una
scelta di politica legislativa e non un limite concettuale derivante dalla
fisionomia dell’istituto.
6.2. L’argomento di diritto comparato si
salda con l’argomento letterale.
L’analisi del dato testuale dell’art. 114,
comma 4, lettera e), cod. proc. amm., chiarisce, infatti, che, in sede di
codificazione del processo amministrativo, il legislatore ha esercitato la sua
discrezionalità, in sede di adattamento della conformazione dell’istituto alle
peculiarità del processo amministrativo, nel senso di estendere il raggio
d’azione delle penalità di mora a tutte le decisioni di condanna. La norma in
analisi non ha, infatti, riprodotto il limite, stabilito della legge di rito
civile nel titolo dell’art. 614-bis, della riferibilità del
meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un
non fare o un fare infungibile.
Si deve aggiungere che la norma in esame
non solo non contiene un rinvio esplicito all’art. 614-bis, ma
neanche richiama implicitamente il modello processual-civilistico.
Decisiva risulta la constatazione che
l’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., modifica l’impianto normativo
del rito civile prevedendo l’ulteriore limite negativo rappresentato
dall’insussistenza di “ragioni ostative”.
Significativa appare, in questa direzione,
anche la considerazione che nel giudizio civile l’astreinte è
comminata dalla sentenza di cognizione con riguardo al fatto ipotetico del
futuro inadempimento, mentre nel processo amministrativo la penalità di mora è
applicata dal giudice dell’esecuzione a fronte del già inverato presupposto
della trasgressione del dovere comportamentale imposto dalla sentenza che ha definito
il giudizio.
Non può, dunque, essere attribuito un
rilievo decisivo ai lavori preparatori, in quanto il riferimento, operato dalla
Relazione governativa di accompagnamento, alla riproduzione dell’art. 614-bis cod.
proc. civ., va inteso come richiamo della fisionomia dell’istituto e non come
recepimento della sua disciplina puntuale.
In definitiva, a fronte dell’ampia
formulazione dell’art. 114, co. IV, lett. e, cod. proc. amm., un’operazione
interpretativa che intendesse colmare una lacuna che non c’è attraverso il
richiamo dei limiti previsti dalla diversa norma del processo civile, si
tradurrebbe in un’inammissibile analogia in malam partem volta
ad assottigliare lo spettro delle tutele predisposte dal codice del processo
amministrativo nel quadro di un potenziamento complessivo del giudizio di
ottemperanza.
6.3. Occorre mettere l’accento, a questo
punto, sull’ argomento sistematico.
La diversità delle scelte abbracciate dal
legislatore per il processo civile e per quello amministrativo si giustifica in
ragione della diversa architettura delle tecniche di esecuzione in cui si cala
e va letto il rimedio in esame.
Nel processo civile, stante la distinzione
tra sentenze eseguibili in forma specifica e pronunce non attuabili in
re, la previsione della penalità di mora per le sole pronunce non
eseguibili in modo forzato mira a introdurre una tecnica di coercizione
indiretta che colmi l’assenza di una forma di esecuzione diretta. Detto
altrimenti, nel sistema processual-civilistico, con l’innesto della sanzione in
parola il legislatore ha inteso porre rimedio all’anomalia insita
nell’esistenza di sentenze di condanna senza esecuzione, dando
la stura ad una tecnica compulsoria che supplisce alla mancanza di una tecnica
surrogatoria.
Nel processo amministrativo, per converso,
la norma si cala in un archetipo processuale in cui, grazie alle peculiarità
del giudizio di ottemperanza, caratterizzato dalla nomina di un commissario ad
acta con poteri sostitutivi, tutte le prestazioni sono surrogabili,
senza che sia dato distinguere a seconda della natura delle condotte imposte.
La penalità di mora, in questo diverso humus processuale,
assumendo una più marcata matrice sanzionatoria che completa la veste di
strumento di coazione indiretta, si atteggia a tecnica compulsoria che si
affianca, in termini di completamento e cumulo, alla tecnica surrogatoria che
permea il giudizio d’ottemperanza.
Detta fisionomia impedisce di distinguere
a seconda della natura della condotta ordinata dal giudice, posto che anche per
le condotte di facere o non facere, al pari di
quelle aventi ad oggetto un dare (pecuniario o no), vige il requisito della
surrogabilità/fungibilità della prestazione e, quindi, l’esigenza di prevedere
un rimedio compulsivo volto ad integrare quello surrogatorio.
6.4. Le considerazioni esposte sono
suffragate anche dall’argomento costituzionale.
6.4.1. Non può ravvisarsi, in primo luogo,
la paventata disparità collegata all’opzione potestativa, esercitabile da parte
del creditore, attraverso la scelta, in sostituzione del rimedio
dell’esecuzione forzata civile - priva dello strumento della penalità di mora
per le sentenze di condanna pecuniaria –, dell’ottemperanza amministrativa,
rafforzata dalla comminatoria delle astreintes.
Il riscontro di profili di disparità dev’essere,
infatti, effettuato tenendo conto dei soggetti di diritto e non delle tecniche
di tutela dagli stessi praticabili.
Ne deriva che la possibilità, per un
creditore pecuniario della pubblica amministrazione, di utilizzare, in coerenza
con una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e di questo
Consiglio, due diversi meccanismi di esecuzione, lungi dal porre in essere una
disparità di trattamento, per la quale difetterebbe il referente soggettivo
discriminato, evidenzia un arricchimento del bagaglio delle tutele
normativamente garantite in attuazione dell’art. 24 Cost. in una con i canoni
europei e comunitari richiamati dall’art. 1 c.p.a.
6.4.2. Non può neanche ravvisarsi, sotto
altra e complementare angolazione, una discriminazione ai danni del debitore
pubblico, per essere lo stesso soggetto, diversamente dal debitore privato, a
tecniche di esecuzione diversificate e più incisive.
Tale differenziazione è il precipitato
logico e ragionevole della peculiare condizione in cui versa il soggetto pubblico
destinatario di un comando giudiziale.
La pregnanza dei canoni costituzionali di
imparzialità, buona amministrazione e legalità che informano l’azione dei
soggetti pubblici, qualificano in termini di maggior gravità l’inosservanza, da
parte di tali soggetti, del precetto giudiziale, in guisa da giustificare la
previsione di tecniche di esecuzione più penetranti, tra le quali si iscrive il
meccanismo delle penalità di mora.
In questo quadro va rimarcato che la
previsione di cui all’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., si inserisce
armonicamente in una struttura del giudizio di ottemperanza complessivamente
caratterizzata, proprio per la specialità del debitore, da un potere di
intervento del giudice particolarmente intenso, come testimoniato dall’assenza
del limite dell’infungibilità della prestazione, dalla previsione di una
giurisdizione di merito e dall’adozione di un modello surrogatorio di tutela
esecutiva.
6.5. La tesi esposta non è, infine,
scalfita dall’argomento equitativo su cui fanno leva i fautori
della tesi restrittiva, richiamando il rischio di duplicazione di risarcimenti,
con correlativa locupletazione del creditore e depauperamento del debitore.
L’argomento è inficiato dal rilievo che la
penalità di mora, come fin qui osservato, assolve ad una funzione
coercitivo-sanzionatoria e non, o quanto meno non principalmente, ad una
funzione riparatoria, come dimostrato, tra l’altro, dalle caratteristiche dei
modelli di diritto comparato e dalla circostanza che nell’articolo 614 bis c.p.c.
la misura del danno è solo uno di parametri di quantificazione dell’importo
della sanzione.
Trattandosi di una pena, e non di un
risarcimento, non viene in rilievo un’inammissibile doppia riparazione di un
unico danno ma l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela
risarcitoria. E’, in definitiva, insito nella diversa funzione della misura, da
un lato, che a tale sanzione, diversamente da quanto accade per i punitive
damages, si possa accedere anche in mancanza del danno o della sua
dimostrazione; e, dall’altro, che al danno da inesecuzione della decisione, da
risarcire comunque in via integrale ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., si
possa aggiungere una pena che il legislatore, pur se implicitamente, ha inteso
destinare al creditore insoddisfatto.
Si deve soggiungere che la locupletazione
lamentata, frutto della decisione legislativa di disporre un trasferimento
sanzionatorio di ricchezza, ulteriore rispetto al danno, dall’autore della
condotta inadempitiva alla vittima del comportamento antigiuridico, si verifica
in modo identico anche per sentenze aventi un oggetto non pecuniario, per le
quali parimenti il legislatore, pur se non attraverso meccanismi automatici
propri degli accessori del credito pecuniario (rivalutazione e interessi),
prevede l’azionabilità del diritto al risarcimento dell’intero danno da
inesecuzione del giudicato (art. 112, comma 3, cit), in aggiunta alla
possibilità di fare leva sul meccanismo delle penalità di mora.
Anche sotto questo punto di vista, quindi,
le sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario non pongono problemi specifici
e non presentano caratteristiche diverse rispetto alle altre pronunce di
condanna.
Va soggiunto che la funzione deterrente e
general-preventiva delle penalità di mora verrebbe frustrata dalla mancata
erogazione della tutela in analisi ove vi sia già stato o possa essere
assicurato un integrale risarcimento.
6.5.1. Si deve, infine, osservare che la
considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari
dell’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive,
costituiscono fattori da valutare non ai fini di un’astratta inammissibilità
della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica
concreta della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura
nonché al momento dell’esercizio del potere discrezionale di graduazione
dell’importo.
Non va sottaciuto che l’art. 114, comma 4,
lett. e, c.p.a., proprio in considerazione della specialità, in questo caso
favorevole, del debitore pubblico - con specifico riferimento alle difficoltà
nell’adempimento collegate a vincoli normativi e di bilancio, allo stato della
finanza pubblica e alla rilevanza di specifici interessi pubblici- ha aggiunto
al limite negativo della manifesta iniquità, previsto nel codice di rito
civile, quello, del tutto autonomo, della sussistenza di altre ragioni
ostative.
Ferma restando l’assenza di preclusioni
astratte sul piano dell’ammissibilità, spetterà allora al giudice
dell’ottemperanza, dotato di un ampio potere discrezionale sia in sede di
scrutinio delle ricordate esimenti che in sede di determinazione dell’ammontare
della sanzione, verificare se le circostanza addotte dal debitore pubblico
assumano rilievo al fine di negare la sanzione o di mitigarne l’importo.
7. L’Adunanza Plenaria afferma pertanto il
seguente principio di diritto: “Nell’ambito del giudizio di ottemperanza la
comminatoria delle penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del
codice del processo amministrativo, è ammissibile per tutte le decisioni di
condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto
prestazioni di natura pecuniaria”. .
8. Ciò affermato l’Adunanza Plenaria, ai
sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., restituisce gli atti alla Sezione quarta
di questo Consiglio per le ulteriori pronunce di rito, sul merito della
controversia e sulle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
affermato il principio di diritto di cui
in motivazione, restituisce gli atti alla Sezione quarta per ogni ulteriore
statuizione di rito, nel merito della controversia e sulle spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di
consiglio del giorno 18 giugno 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere,
Estensore
Maurizio Meschino, Consigliere
Carlo Deodato, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
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IL PRESIDENTE
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L'ESTENSORE
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IL SEGRETARIO
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/06/2014
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione
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