PROCESSO:
non sempre il Consiglio di Stato
permette l'abuso
dei "giusti motivi per compensare"
le spese legali
(Cons. St., Sez. III,
sentenza 14 luglio 2014, n. 3682).
Massima
1. Il Collegio ritiene di seguire l’orientamento secondo cui, anche se nel processo amministrativo il giudice ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali ovvero per escluderla, con il solo limite che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio, tale discrezionalità è sindacabile in sede di appello nei limiti in cui la statuizione sulle spese possa ritenersi illogica o errata, alla stregua dell’eventuale motivazione adottata, ovvero tenendo conto da un lato, in punto di diritto, del principio in base al quale, di regola, le spese seguono la soccombenza e dall’altro, in punto di fatto, della vicenda e delle circostanze emergenti dal giudizio; i “giusti motivi”, in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio in deroga al criterio generale della soccombenza, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., richiamato dall’art. 26 c.p.a., anche se non puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione.
2. Nel caso in esame, occorre considerare che per la definizione del procedimento di acquisto della cittadinanza, l’art. 3 del d.P.R. 362/1994 prevede un termine di settecentotrenta giorni (cioè due anni, senza considerare i bisestili), mentre dalla presentazione della domanda di cittadinanza alla data della camera di consiglio del giudizio di primo grado erano trascorsi inutilmente circa tre anni e nove mesi.
3. Ciò posto, sembra evidente che la rilevante mole di lavoro gravante sugli uffici competenti – in quanto postulata dal TAR come fatto notorio, ma non supportata da alcuna considerazione dell’Amministrazione in ordine all’entità, alla natura transitoria della sproporzione tra mezzi impiegabili e risultati attesi, agli interventi per porvi rimedio, o all’esperimento di forme di comunicazione ed informazione all’istante sullo stato del procedimento – non possa ritenersi elemento di per sé sufficiente a giustificare il comportamento dell’Amministrazione; tanto più che, anche a seguito dell’iniziativa giudiziaria, è mancata qualsiasi sollecitazione della conclusione del procedimento.
Altrimenti, l’inerzia dell’Amministrazione finirebbe per essere, almeno ai fini della condanna alle spese processuali, sempre e comunque giustificata; è giusta pertanto la condanna della P.A. alle spese del doppio grado di giudizio.
Sentenza per esteso
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale
1606 del 2014, proposto da:
S. M., rappresentato e difeso dall'avv. Luciano Birocco, domiciliato presso il Consiglio di Stato, Segreteria della III Sezione, in Roma, piazza Capo di Ferro 13;
S. M., rappresentato e difeso dall'avv. Luciano Birocco, domiciliato presso il Consiglio di Stato, Segreteria della III Sezione, in Roma, piazza Capo di Ferro 13;
contro
U.T.G. - Prefettura di Macerata, Ministero
dell'Interno, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello
Stato, anche domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. LAZIO –
ROMA, SEZIONE II QUATER, n. 09831/2013, resa tra le parti, concernente silenzio
serbato dall'amministrazione sull'istanza per la concessione della cittadinanza
italiana - pronuncia sulle spese di giudizio;
Visti il ricorso in appello e i relativi
allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio
di U.T.G. - Prefettura di Macerata e Ministero dell'Interno;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del
giorno 15 maggio 2014 il Cons. Pierfrancesco Ungari e udito per la parte
resistente l’avvocato dello Stato C. Aiello;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto
quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il TAR del Lazio, con la sentenza
appellata (II-quater, n. 9831/2013), ha accolto il ricorso dell’appellante,
cittadino pakistano, dichiarando l’obbligo della Prefettura – U.T.G. di
Macerata di concludere con un provvedimento espresso il procedimento di
concessione della cittadinanza italiana attivato ex art. 9, comma 1, lettera
f), della legge 91/1992.
2. L’appello proposto dallo straniero
concerne la compensazione delle spese di lite, disposta dal TAR in dichiarata
applicazione degli artt. 92 c.p.c. e 26, comma 1, cod. proc. amm., senza che,
lamenta l’appellante, siano state indicate o comunque siano desumibili dalla
motivazione gravi ed eccezionali ragioni idonee a consentire la deroga al
principio della soccombenza, non apparendo tale (ma, anzi, contraddetta dal
rilievo secondo cui “nonostante la formale costituzione in giudizio,
l’Amministrazione non ha prodotto contributi documentali utili al fine di poter
giustificare il mancato completamento dell’istruttoria”, posto alla base
dell’accoglimento del ricorso) l’unica giustificazione della compensazione,
riferita alla “rilevante mole di lavoro che grava sulle Amministrazioni
competenti in ragione dell’elevato numero di procedimenti avviati al fine di ottenere
il rilascio della cittadinanza italiana”.
3. Il Ministero dell’interno, anche in
questo grado, si è costituito in giudizio con memoria meramente formale.
4. L’appello merita di essere accolto.
Il Collegio ritiene di seguire
l’orientamento secondo cui, anche se nel processo amministrativo il giudice ha
ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo,
dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali
ovvero per escluderla, con il solo limite che non può condannare alle spese la
parte risultata vittoriosa in giudizio, tale discrezionalità è sindacabile in
sede di appello nei limiti in cui la statuizione sulle spese possa ritenersi
illogica o errata, alla stregua dell’eventuale motivazione adottata, ovvero
tenendo conto da un lato, in punto di diritto, del principio in base al quale,
di regola, le spese seguono la soccombenza e dall’altro, in punto di fatto,
della vicenda e delle circostanze emergenti dal giudizio; i “giusti motivi”, in
base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle
spese del giudizio in deroga al criterio generale della soccombenza, ai sensi
dell’art. 92 c.p.c., richiamato dall’art. 26 cod. proc. amm., anche se non
puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto
della decisione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, VI, 5 dicembre 2013, n. 5789;
III, 9 maggio 2013, n. 2508).
Nel caso in esame, occorre considerare che
per la definizione del procedimento di acquisto della cittadinanza, l’art. 3
del d.P.R. 362/1994 prevede un termine di settecentotrenta giorni (cioè due
anni, senza considerare i bisestili), mentre dalla presentazione della domanda
di cittadinanza alla data della camera di consiglio del giudizio di primo grado
erano trascorsi inutilmente circa tre anni e nove mesi.
Ciò posto, sembra evidente che la
rilevante mole di lavoro gravante sugli uffici competenti – in quanto postulata
dal TAR come fatto notorio, ma non supportata da alcuna considerazione
dell’Amministrazione in ordine all’entità, alla natura transitoria della
sproporzione tra mezzi impiegabili e risultati attesi, agli interventi per
porvi rimedio, o all’esperimento di forme di comunicazione ed informazione
all’istante sullo stato del procedimento – non possa ritenersi elemento di per
sé sufficiente a giustificare il comportamento dell’Amministrazione; tanto più
che, anche a seguito dell’iniziativa giudiziaria, è mancata qualsiasi
sollecitazione della conclusione del procedimento.
Altrimenti, l’inerzia dell’Amministrazione
finirebbe per essere, almeno ai fini della condanna alle spese processuali,
sempre e comunque giustificata.
5. Il Collegio ritiene pertanto di
condannare l’Amministrazione costituita al pagamento delle spese del doppio
grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello,
come in epigrafe proposto, lo accoglie e, l'effetto, in riforma parziale della
sentenza di primo grado, condanna il Ministero dell’interno al pagamento in
favore dell’appellante, e per esso del procuratore dichiaratosi antistatario,
della somma di euro 2.000,00 (duemila/00), oltre agli accessori di legge, per
le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di
consiglio del giorno 15 maggio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Romeo, Presidente
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Hadrian Simonetti, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Pierfrancesco Ungari, Consigliere,
Estensore
|
||
|
||
L'ESTENSORE
|
IL PRESIDENTE
|
|
|
||
|
||
|
||
|
||
|
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/07/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3,
cod. proc. amm.)
Nessun commento:
Posta un commento