giovedì 24 luglio 2014

SOCIETA' PUBBLICHE: il Consiglio di Stato ritiene giusto estendere la normativa sulle quote di genere anche alle società pubbliche a "controllo congiunto" (Cons. St., Sez. I, parere 16 luglio 2014, n. 594).




SOCIETA' PUBBLICHE: 
il Consiglio di Stato estendere
 la normativa sulle quote di genere 
 anche alle società pubbliche 
a "controllo congiunto"
 (Cons. St., Sez. I, parere 16 luglio 2014, n. 594).



Breve commento

Al di là dei tecnicismi, quello che colpisce è la motivazione che ha portato il Consiglio di Stato ad interpretare estensivaente la normativa sulle quote di genere anche alle società pubbliche a "controllo congiunto" (due o più P.A. detengono il controllo): non è l'equità, sorella dell'imparzialità, ma l'efficienza, "figlia" del buon andamento di cui all'art. 97 Cost.
In altre parole le donne hanno diritto a veder garantita una percentuale minima di posti negli organi direttivi  delle società in esame perché, quando non discriminate, sono efficenti tanto quanto (se non di più) degli uomini.
 

Parere per esteso

Consiglio di Stato


Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 16 aprile 2014

NUMERO AFFARE 00594/2014
OGGETTO:
Presidenza del consiglio dei ministri - Dipartimento per le pari opportunità.

quesito relativo all’applicazione dell’articolo 3 della legge 12 luglio 2011, n. 120 e dell’articolo 1 del d.P.R. 30 novembre 2012, n. 251 in materia di quote di genere alle società in cui nessuna pubblica amministrazione ha da sola il controllo e alle c.d. società miste;
LA SEZIONE
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 2084 in data 10/03/2014 con la quale la Presidenza del consiglio dei ministri - Dipartimento per le pari opportunità ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Francesco Bellomo;

PREMESSO:
Ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 251/2012, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità vigila sul rispetto della normativa in materia di quote di genere negli organi di Amministrazione e di controllo delle società pubbliche.
Nell’ambito di tale attività il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dovuto affrontare un problema relativo all’applicazione dell’articolo 3 della legge 12 luglio 2011, n. 120 e dell’articolo 1 del d.P.R. 30 novembre 2012, n. 251, sulla cui esatta interpretazione chiede il parere del Consiglio di Stato.
L’art. 1 della legge n. 120/2011 introduce norme sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. Il successivo art. 3 prevede che le stesse norme si applicano anche “alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati”, demandando a un regolamento l’attuazione di detta previsione.
L’art. 1 del regolamento, adottato con il d.P.R. n. 251/2012, “detta i termini e le modalità di attuazione della disciplina concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate ai sensi dell’articolo 2359, primo e secondo comma, del codice civile, dalle pubbliche amministrazioni indicate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ad esclusione delle società con azioni quotate”.
Il primo comma dell’articolo 2359 c.c. stabilisce che “Sono considerate società controllate:
1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”.
Il secondo comma dell’articolo estende la nozione di controllo di cui ai n. 1) e 2) a quello esercitato in via indiretta, cioè computando i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta.
Non è chiaro se in tale disciplina normativa rientrino anche le società, a capitale pubblico o misto, in cui il controllo ai sensi dell’articolo 2359 c.c. non è esercitato da una singola pubblica amministrazione.
La possibilità di ricondurre tali situazioni alla nozione di «controllo societario» riposerebbe sulla figura del c.d. «controllo congiunto», che si può manifestare qualora siano presenti accordi o realizzati comportamenti tra i partecipanti al capitale sociale, finalizzati a concordare la gestione della società, oppure anche sulla mera titolarità alla mano pubblica – anche se frazionata – della maggioranza del capitale sociale.
Il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri sostiene la soluzione positiva, argomentando dalla ratio della disciplina sull’equilibrio di genere, introdotta come azione positiva per correggere uno storico deficit del sistema di amministrazione delle società italiane. L’intervento si è concentrato sulle società quotate e su quelle pubbliche, in ragione dell’interesse pubblico sotteso alla disciplina in questione, che la riconduce ai valori espressi dagli articoli 3, comma 2 e 51 della Costituzione.
In particolare da quest’ultima disposizione, come attuata dall’art. 6 d.lgs. 267/2000, deriverebbe che, quantomeno per le società dipendenti del Comune e della Provincia, l’equilibrio di genere sia un preciso obbligo. Per il principio di ragionevolezza, tale obbligo dovrebbe estendersi a tutte le pubbliche amministrazioni con poteri di nomina degli organi di enti, aziende e società.
Pertanto sarebbe ragionevole seguire un’interpretazione che superi il dato letterale, affermando l’applicabilità della normativa in esame a tutte le società il cui capitale sociale sia a maggioranza pubblica, potendosi comunque intendere esse come longa manus dell’amministrazione.
CONSIDERATO:
La questione sottoposta al Consiglio di Stato riguarda la possibilità di un’interpretazione estensiva della legge n. 120/2011 e del dPR n. 251/2012, volta a farvi ricadere le società pubbliche in cui nessuna pubblica amministrazione ha da sola il controllo e le società miste.
Occorre chiarire che le due situazioni possono essere equiparate nella misura in cui il controllo sia nelle mani di più soggetti pubblici insieme, differenziandosi per la circostanza che nella prima vi siano soltanto soci pubblici, nella seconda vi siano anche soci privati.
Il tema ermeneutico verte sulla portata del rinvio che l’art. 3 della legge n. 120/2011 opera all’art. 2359 c.c., nel senso che, qualora si ritenesse che tale rinvio non dia luogo ad una recezione passiva del concetto civilistico, si potrebbe estendere il riferimento al controllo da parte di una singola società – quindi di una singola pubblica amministrazione – a quello realizzato dal settore pubblico nel suo complesso. Il fondamento di tale interpretazione esegetica dovrebbe essere rinvenuto nella ratio della previsione dell’equilibrio di genere per le società controllate da pubbliche amministrazioni.
Occorre comprendere il significato dell’istituto.
La tesi tradizionale si concentra sul fondamento politico e sulla garanzia della pari rappresentanza negli organismi di decisione pubblica, muovendo dall’art. 3, comma 2 Cost., secondo cui “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tipico esempio è quello di una legge che garantisca la presenza di entrambi i sessi nelle competizioni elettorali.
Inteso in questo senso, il principio delle pari opportunità è entrato in conflitto con il principio di uguaglianza formale: nella sentenza n. 422 del 1995 della Corte costituzionale, facendo leva sulla vecchia formulazione dell’art. 51, comma 1 Cost., meramente esecutiva dell’art. 3, comma 1 Cost. in materia di accesso alle cariche elettive o ai pubblici uffici, si è affermato che «ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato», giungendo così alla declaratoria di incostituzionalità della disposizione di legge secondo cui, nei Comuni con popolazione inferiore ai 15000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato – nella composizione delle liste dei candidati alle elezioni dei consigli comunali – in misura superiore ai due terzi.
Al di là della controversa natura di tale disposizione – norma antidiscriminatoria o norma promozionale – è certo, infatti, che la stessa si proponeva di rendere effettivo il diritto di elettorato passivo, assicurando a ciascun sesso – quindi anche a quello di fatto svantaggiato – la concreta chance di essere adeguatamente rappresentato nell’organo elettivo.
Attesa la rigidità del principio di parità di trattamento in materia elettorale, siffatta disposizione è stata bocciata. Pertanto, con legge cost. n. 1 del 2003, all’art. 51, comma 1 è stato aggiunto il periodo secondo cui “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Da allora il principio dell’equilibrio di genere nell’accesso a cariche pubbliche si è consolidato.
L’art. 117, comma 7 Cost., introdotto dalla legge cost. n. 3 del 2001, stabilisce che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
La legge 23 novembre 2012, n. 215 ha dettato “Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni”.
L’art. 23 della Carta europea dei diritti fondamentali stabilisce che “La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. La Carta è applicabile solo nelle materie di interesse dell’Unione, ma il riconoscimento della possibilità di alterare la parità di trattamento in favore di un genere è indicativo della crescente valorizzazione dei profili sostanziali nell’affrontare il tema delle pari opportunità.
Il dibattito si è quindi spostato sull’ammissibilità di misure legislative atte a garantire la parità non di chances, ma di risultati, come le cd. quote rosa.
La giurisprudenza costituzionale tende a non riconoscere la legittimità di una riserva di genere nell’attribuzione dei seggi elettorali.
Infatti, nella sentenza n. 4 del 2010, la Corte costituzionale dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale della legge elettorale della Regione Campania n. 4/2009, che prevede la cd. “preferenza di genere”, ossia la possibilità di esprimere una seconda preferenza purché ad un candidato di genere diverso dal primo, pena l’annullamento della seconda preferenza, affermando che «Si tratta di una facoltà aggiuntiva […] introducendo […] una norma riequilibratrice volta ad ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva. Tale risultato non sarebbe, in ogni caso, effetto della legge, ma delle libere scelte degli elettori, cui si attribuisce uno specifico strumento utilizzabile a loro discrezione». Poiché la nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone, non viola gli articoli 3, 48 e 51 della Costituzione. Ciò lascia intendere chiaramente come meccanismi coattivi volti a garantire la presenza numerica di un genere non siano considerati costituzionalmente compatibili.
Tale assunto, tuttavia, oltre ad essere criticato da una parte della dottrina, non è applicabile al di fuori della materia elettorale.
È il caso, tra l’altro, delle cariche negli organi societari, di cui all’art. 1 della legge n. 120/2011, che conviene riportare:
1. Dopo il comma 1-bis dell’articolo 147-ter del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, è inserito il seguente:
«1-ter. Lo statuto prevede, inoltre, che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti. Tale criterio di riparto si applica per tre mandati consecutivi. Qualora la composizione del consiglio di amministrazione risultante dall’elezione non rispetti il criterio di riparto previsto dal presente comma, la Consob diffida la società interessata affinché si adegui a tale criterio entro il termine massimo di quattro mesi dalla diffida. In caso di inottemperanza alla diffida, la Consob applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 100.000 a euro 1.000.000, secondo criteri e modalità stabiliti con proprio regolamento e fissa un nuovo termine di tre mesi ad adempiere. In caso di ulteriore inottemperanza rispetto a tale nuova diffida, i componenti eletti decadono dalla carica. Lo statuto provvede a disciplinare le modalità di formazione delle liste ed i casi di sostituzione in corso di mandato al fine di garantire il rispetto del criterio di riparto previsto dal presente comma. La Consob statuisce in ordine alla violazione, all’applicazione ed al rispetto delle disposizioni in materia di quota di genere, anche con riferimento alla fase istruttoria e alle procedure da adottare, in base a proprio regolamento da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni recate dal presente comma. Le disposizioni del presente comma si applicano anche alle società organizzate secondo il sistema monistico».
2. Dopo il comma 1 dell’articolo 147-quater del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, è aggiunto il seguente: «1-bis. Qualora il consiglio di gestione sia costituito da un numero di componenti non inferiore a tre, ad esso si applicano le disposizioni dell’articolo 147-ter, comma 1-ter».
3. All’articolo 148 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: a) dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. L’atto costitutivo della società stabilisce, inoltre, che il riparto dei membri di cui al comma 1 sia effettuato in modo che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei membri effettivi del collegio sindacale. Tale criterio di riparto si applica per tre mandati consecutivi. Qualora la composizione del collegio sindacale risultante dall’elezione non rispetti il criterio di riparto previsto dal presente comma, la Consob diffida la società interessata affinché si adegui a tale criterio entro il termine massimo di quattro mesi dalla diffida. In caso di inottemperanza alla diffida, la Consob applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 200.000 e fissa un nuovo termine di tre mesi ad adempiere. In caso di ulteriore inottemperanza rispetto a tale nuova diffida, i componenti eletti decadono dalla carica. La Consob statuisce in ordine alla violazione, all’applicazione ed al rispetto delle disposizioni in materia di quota di genere, anche con riferimento alla fase istruttoria e alle procedure da adottare, in base a proprio regolamento da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni recate dal presente comma»; b) al comma 4-bis, dopo le parole: «ai commi» è inserita la seguente: «1-bis».”.
Nella disposizioni citate si scorge chiaramente come l’equilibrio sia stato perseguito in modo pieno, ossia come garanzia di adeguata rappresentanza di ciascun genere nella composizione degli organi societari, fissando una quota minima pari a 1/3.
Così inteso, l’equilibrio di genere costituisce espressione della cd. democrazia partecipativa e, ancor prima della dignità della persona, che non può essere esclusa dal circuito dei poteri – pubblici o privati – sulla base dell’appartenenza a un genere.
Il richiamo al fondamento politico dell’istituto, tuttavia, non è in grado di risolvere le ambiguità della legge, perché non ha un fondamento gnoseologico irresistibile, in grado di prevalere nella contrapposizione con altri valori dello Stato di diritto, come, nella materia in esame, quello di cui all’art. 41, comma 1 Cost.
Occorre, allora, guardare al fondamento economico dell’equilibrio di genere.
Un tentativo in tal senso è stato già operato in tempi recenti dalla giurisprudenza amministrativa, di cui è emblematica la sentenza TAR Lazio n. 6673/11:
«L’obiettivo funzionale dell’equilibrio di genere, oltre a rispondere primariamente allo scopo dell’attuazione del principio dell’eguaglianza sostanziale (attraverso la rimozione di ostacoli oggettivi alla parità di condizioni per l’accesso alle cariche pubbliche da parte di uomini e donne), si colora sempre più di una ulteriore e nuova caratterizzazione teleologica, connessa all’acquisita consapevolezza della strumentalità della equilibrata rappresentanza dei generi, nella composizione di tali organismi, rispetto ai fini del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa. Soltanto l’equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica, garantisce l’acquisizione al modus operandi dell’ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere. Organi squilibrati nella rappresentanza di genere, in altre parole, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale (il che risulta persino più grave in organi i cui componenti non siano eletti direttamente, ma nominati), risultano anche potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato. L’equilibrio di genere, come parametro conformativo di legittimità sostanziale dell’azione amministrativa, nato nell’ottica dell’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale fra i sessi, viene così ad acquistare una ulteriore dimensione funzionale, collocandosi nell’ambito degli strumenti attuativi dei principi di cui all’art. 97 Cost.: dove l’equilibrata partecipazione di uomini e donne (col diverso patrimonio di umanità, sensibilità, approccio culturale e professionale che caratterizza i due generi) ai meccanismi decisionali e operativi di organismi esecutivi o di vertice diventa nuovo strumento di garanzia di funzionalità, maggiore produttività, ottimale perseguimento degli obiettivi, trasparenza ed imparzialità dell’azione pubblica. L’assunto trova ulteriore conferma nella pienezza della formula adottata dal codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/06) che all’art. 1 comma 4, come modificato dal d.lgs. n. 5/2010 di attuazione della direttiva comunitaria 2006/54/CE, stabilisce che l’obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi e di regolamenti, ma anche nell’adozione di atti amministrativi e in tutte le attività politiche ed amministrative».
L’idea di collegare l’equilibrio di genere al principio di buon andamento, nella sua accezione economica, deve essere approfondita, essendo indimostrato che:
- i due generi siano caratterizzati da un diverso patrimonio di umanità, sensibilità, approccio culturale e professionale, tanto più se vengono considerati in una dimensione puramente astratta, avulsa cioè dalle molteplici variabili – genetiche, educative, ambientali – in grado di influenzare la formazione dell’individuo;
- la dialettica tra generi diversi porti di per sé a risultati migliori di quelli conseguibili dal singolo genere (quale che esso sia), a prescindere dal settore in cui operano.
A compromettere l’impostazione in esame è, dunque, l’assenza di base scientifica. L’indeterminato richiamo a differenze antropologiche tra i sessi, non giustifica la conclusione che la pari rappresentanza di essi sia in sé una misura di efficienza.
Già il pensiero liberale classico aveva intuito quale fosse l’impostazione corretta: «Nello stato presente dei costumi, delle opinioni e delle istituzioni umane vediamo le donne chiamate a portare la corona; ma per una singolare contraddizione in nessun paese si consentirebbe a contarle fra i cittadini attivi, come se la sana politica non dovesse tendere costantemente ad accrescere il numero dei veri cittadini, o come se fosse assolutamente impossibile per una donna di essere di una qualche utilità per la cosa pubblica. Sulla base di un pregiudizio che non permette nemmeno il dubbio a questo proposito siamo dunque spinti ad escludere dal numero dei cittadini attivi almeno la metà della popolazione totale» (Einmanuel–Joseph Sieyès, 1789).
Nella dottrina illuministica, la discriminazione verso il genere femminile nella vita civile rappresenta una diseconomia, perché comporta la rinuncia a metà delle risorse disponibili.
L’analisi storica della civiltà occidentale, specie quella italiana, dimostra una palese sproporzione tra i due generi della presenza nei centri di potere (di qualsiasi tipo, politico, economico, militare, sociale, artistico, culturale). Nella tradizione del pensiero classico, reiterata fino all’età contemporanea, ciò è dovuto alle differenze biologiche tra i sessi.
Ad esempio, nei lavori dell’Assemblea Costituente, a proposito della formulazione dell’art. 51 Cost., che non conteneva un’esplicita garanzia circa l’accesso delle donne alla magistratura (l’art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.”) si sostenne che «nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento» (on. Cappi), che «soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare» (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che «non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile» (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone: «Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni». Pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare.
Sorge spontanea la domanda su cosa abbia giustificato un’evoluzione così rapida negli ultimi anni.
La rimozione delle disuguaglianze formali, imposta dai principi democratici, non basta a spiegare il fenomeno. Il principio di uguaglianza opera tra situazioni accostabili. Quando rispetto ad una certa situazione il sesso, come qualsiasi altra condizione o qualità personale, determina una divergenza, è possibile nei limiti della ragionevolezza prevedere discipline differenziate. L’idea sottesa ai divieti di accesso delle donne a determinati impieghi pubblici, come la magistratura o le carriere militari, era nella diversa funzionalità dell’individuo rispetto ad una certa funzione pubblica. Mentre è lampante che questa giustificazione non regge rispetto alla magistratura, può essere plausibile per le carriere militari. La rapida evoluzione degli ultimi anni è attribuibile ai cambiamenti della struttura reale e al progresso delle conoscenze scientifiche che hanno attenuato la differenza, rendendo la differenziazione irragionevole.
La rimozione della disparità appare legata al verificarsi di un fenomeno di cui l’equilibrio di genere – come il principio di sussidiarietà orizzontale – rappresenta la soluzione: il sovraccarico dei compiti.
La società è diventata esponenzialmente più complessa e al contempo più esigente, generando la necessità di incrementare le capacità di regolazione del mondo.
Il primo dato è l’aumento della popolazione umana, che va considerato unitariamente alla globalizzazione e al progresso di grandi aree (Cina, India), che ha comportato un enorme aumento della domanda di beni e servizi, che rende necessario il reclutamento di nuove risorse per aumentare la produzione in modo da farvi fronte; poi il progresso tecnologico, che comporta un incremento esponenziale dei rischi per lo stesso genere umano; infine una serie di dinamiche a livello sociale e politico. Ad esempio la specializzazione degli apparati militari e l’abolizione della leva obbligatoria hanno creato la necessità di attingere per la formazione dei contingenti alla forza femminile. In riferimento alla magistratura, se è vero che il divieto di accesso alle donne è caduto per un’ovvia esigenza di rispetto del principio di uguaglianza, non si può ignorare che mantenere l’accesso limitato al genere maschile avrebbe significato dimezzare la base di selezione, in un’epoca in cui il settore giustizia era in forte espansione.
L’equilibrio di genere rappresenta, dunque, la soluzione di un problema economico, afferente alla migliore distribuzione delle risorse umane. È l’efficienza, più che l’equità, a suggerire un maggiore coinvolgimento del genere femminile nei processi di produzione dei beni, sia pubblici che privati.
Le impostazioni fondate sulle scienze sociali – politica ed economia – non sono però sufficienti a superare il relativismo insito nell’equilibrio di genere, che deve confrontarsi con altri valori rilevanti quali quelli della libertà individuale e del primato del merito.
La competizione, quale tecnica di selezione dei migliori appare allo stato delle conoscenze lo strumento più preciso per definire i rapporti tra individui.
La imperfezione e insufficienza delle regole poste per la competizione, e fra esse in particolare la libertà di scelta dell’imprenditore, non hanno consentito il raggiungimento del risultato del massimo utile individuale e collettivo, non hanno consentito cioè di soddisfare al meglio la totalità degli interessi. Il sistema non ha raggiunto quindi il livello di efficienza richiesto. La ratio della garanzia dell’equilibrio di genere è quindi fondata sull’esigenza fondamentale dell’efficienza del sistema.
Quanto più ci si allontani nei criteri di selezione dal modello concorsuale, tanto più possono essere necessari interventi normativi volti a creare pari condizioni tra gli individui.
Inquadrata in questa cornice, la normativa sulle società quotate e sulle società non quotate sotto il controllo delle pubbliche amministrazioni è suscettibile di interpretazione estensiva, essendo evidente che l’intento del legislatore è quello di assicurare l’equilibrata presenza dei generi nella governance degli enti il cui ruolo nel mercato è maggiormente significativo. È, dunque, la tutela dell’interesse generale del massimo utile individuale e collettivo (e non dell’interesse pubblico) la ratio dell’azione positiva, nella consapevolezza che gli operatori macroeconomici – società private quotate e società pubbliche – operano in modo più efficiente quando, in difetto di meccanismi spontanei di selezione nell’insieme del genere umano, entrambe le sue componenti siano rappresentate. Da questo punto di vista la circostanza che il controllo pubblico operi singolarmente o in modo congiunto è irrilevante.
Per affermare l’ammissibilità di una esegesi volta ad estendere la portata delle disposizioni in esame occorre, però, un elemento ulteriore, ossia che il testo lo consenta.
Nel rinviare all’art. 2359 c.c. per definire la nozione di controllo, l’art. 3 della legge n. 120/2011 postula che al concetto di società si sostituisca quello di pubblica amministrazione. Sul piano letterale non ci sono ostacoli a intendere il riferimento alle «pubbliche amministrazioni» (“… alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati”) come comprensivo di tutti i soggetti pubblici titolari del capitale sociale, laddove suscettibili di unitaria considerazione. Infatti, anche quando a detenere il controllo non è un ente pubblico da solo, ma una pluralità di enti pubblici complessivamente considerati, il controllo è nelle mani di «pubbliche amministrazioni».
Peraltro la nozione di controllo congiunto deve ritenersi accolta nel nostro ordinamento a seguito dell’adozione delle nuove direttive (sia pure non ancora trasposte) in materia di appalti, precisamente la Direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e la Direttiva 2014/25/UE del 26 febbraio 2014, sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e servizi postali.
Si prevede espressamente, infatti, la possibilità del controllo analogo esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice congiuntamente con altre amministrazioni aggiudicatrici, specificandosi che, ai fini del controllo congiunto, sono necessarie tutte le seguenti condizioni:
a. gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti;
b. tali amministrazioni aggiudicatrici sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della persona giuridica controllata;
c. la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici controllanti.
Ovviamente, la nozione pubblicistica di controllo congiunto va calata all’interno della fattispecie civilistica di controllo societario, affinché possa dirsi integrato il controllo sulla società da parte di una pluralità di soggetti pubblici, ciascuno dei quali non si trovi in alcuna delle situazioni contemplate dall’art. 2359 c.c.
Più precisamente, il controllo societario ex art. 2359 può ritenersi unitariamente realizzato da più amministrazioni pubbliche quando:
1. gli organi decisionali della società controllata sono composti da rappresentanti delle pubbliche amministrazioni. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni partecipanti;
2. le pubbliche amministrazioni congiuntamente – grazie ad accordi tra loro o a comportamenti paralleli – dispongono della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (controllo di diritto), ovvero di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (controllo di fatto), oppure esercitano congiuntamente sulla società un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali con esse;
3. la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni controllanti.
Non è invece sufficiente la mera titolarità pubblica della maggioranza di capitale, essendo tale elemento, da solo considerato, estraneo all’art. 2359 c.c., che riguarda le due ipotesi del «socio sovrano» e del «socio tiranno», in cui chi esercita il controllo è il dominus della società. Concetto che certo non può dirsi integrato allorquando le pubbliche amministrazioni, pur avendo la maggioranza del capitale, agiscano separatamente.
Conclusivamente, nel caso di controllo congiunto, alla società controllata, a prescindere dal fatto che sia partecipata o meno da privati, si applicano l’articolo 3 della legge 12 luglio 2011, n. 120 e l’articolo 1 del D.P.R. 30 novembre 2012, n. 251.

P.Q.M.
esprime il parere di cui in motivazione.







L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE

Francesco Bellomo
Giuseppe Barbagallo













IL SEGRETARIO
Gabriella Allegrini

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