SOCIETA' PUBBLICHE:
il Consiglio di Stato estendere
la normativa sulle quote di genere
anche alle società pubbliche
a "controllo congiunto"
(Cons. St., Sez. I, parere 16 luglio 2014, n. 594).
Breve commento
Al di là dei tecnicismi, quello che colpisce è la motivazione che ha portato il Consiglio di Stato ad interpretare estensivaente la normativa sulle quote di genere anche alle società pubbliche a "controllo congiunto" (due o più P.A. detengono il controllo): non è l'equità, sorella dell'imparzialità, ma l'efficienza, "figlia" del buon andamento di cui all'art. 97 Cost.
In altre parole le donne hanno diritto a veder garantita una percentuale minima di posti negli organi direttivi delle società in esame perché, quando non discriminate, sono efficenti tanto quanto (se non di più) degli uomini.
Parere per esteso
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 16 aprile 2014
NUMERO AFFARE 00594/2014
OGGETTO:
Presidenza del consiglio dei ministri - Dipartimento
per le pari opportunità.
quesito relativo all’applicazione dell’articolo 3
della legge 12 luglio 2011, n. 120 e dell’articolo 1 del d.P.R. 30 novembre
2012, n. 251 in materia di quote di genere alle società in cui nessuna pubblica
amministrazione ha da sola il controllo e alle c.d. società miste;
LA SEZIONE
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n.
2084 in data 10/03/2014 con la quale la Presidenza del consiglio dei ministri -
Dipartimento per le pari opportunità ha chiesto il parere del Consiglio di
Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere
Francesco Bellomo;
PREMESSO:
Ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 251/2012, il
Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari
opportunità vigila sul rispetto della normativa in materia di quote di genere
negli organi di Amministrazione e di controllo delle società pubbliche.
Nell’ambito di tale attività il Dipartimento per le
pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dovuto
affrontare un problema relativo all’applicazione dell’articolo 3 della legge 12
luglio 2011, n. 120 e dell’articolo 1 del d.P.R. 30 novembre 2012, n. 251,
sulla cui esatta interpretazione chiede il parere del Consiglio di Stato.
L’art. 1 della legge n. 120/2011 introduce norme sulla
parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società
quotate in mercati regolamentati. Il successivo art. 3 prevede che le stesse
norme si applicano anche “alle società, costituite in Italia, controllate da
pubbliche amministrazioni ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo,
del codice civile, non quotate in mercati regolamentati”, demandando a un
regolamento l’attuazione di detta previsione.
L’art. 1 del regolamento, adottato con il d.P.R. n.
251/2012, “detta i termini e le modalità di attuazione della disciplina
concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo
nelle società, costituite in Italia, controllate ai sensi dell’articolo 2359,
primo e secondo comma, del codice civile, dalle pubbliche amministrazioni
indicate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, ad esclusione delle società con azioni quotate”.
Il primo comma dell’articolo 2359 c.c. stabilisce che
“Sono considerate società controllate:
1) le società in cui un'altra società dispone della
maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti
sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di
un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”.
Il secondo comma dell’articolo estende la nozione di
controllo di cui ai n. 1) e 2) a quello esercitato in via indiretta, cioè
computando i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a
persona interposta.
Non è chiaro se in tale disciplina normativa rientrino
anche le società, a capitale pubblico o misto, in cui il controllo ai sensi
dell’articolo 2359 c.c. non è esercitato da una singola pubblica
amministrazione.
La possibilità di ricondurre tali situazioni alla
nozione di «controllo societario» riposerebbe sulla figura del c.d. «controllo
congiunto», che si può manifestare qualora siano presenti accordi o realizzati
comportamenti tra i partecipanti al capitale sociale, finalizzati a concordare
la gestione della società, oppure anche sulla mera titolarità alla mano
pubblica – anche se frazionata – della maggioranza del capitale sociale.
Il Dipartimento per le pari opportunità della
Presidenza del Consiglio dei Ministri sostiene la soluzione positiva,
argomentando dalla ratio della disciplina sull’equilibrio di genere,
introdotta come azione positiva per correggere uno storico deficit del sistema
di amministrazione delle società italiane. L’intervento si è concentrato sulle
società quotate e su quelle pubbliche, in ragione dell’interesse pubblico
sotteso alla disciplina in questione, che la riconduce ai valori espressi dagli
articoli 3, comma 2 e 51 della Costituzione.
In particolare da quest’ultima disposizione, come
attuata dall’art. 6 d.lgs. 267/2000, deriverebbe che, quantomeno per le società
dipendenti del Comune e della Provincia, l’equilibrio di genere sia un preciso
obbligo. Per il principio di ragionevolezza, tale obbligo dovrebbe estendersi a
tutte le pubbliche amministrazioni con poteri di nomina degli organi di enti,
aziende e società.
Pertanto sarebbe ragionevole seguire
un’interpretazione che superi il dato letterale, affermando l’applicabilità
della normativa in esame a tutte le società il cui capitale sociale sia a
maggioranza pubblica, potendosi comunque intendere esse come longa manus
dell’amministrazione.
CONSIDERATO:
La questione sottoposta al Consiglio di Stato riguarda
la possibilità di un’interpretazione estensiva della legge n. 120/2011 e del
dPR n. 251/2012, volta a farvi ricadere le società pubbliche in cui nessuna
pubblica amministrazione ha da sola il controllo e le società miste.
Occorre chiarire che le due situazioni possono essere
equiparate nella misura in cui il controllo sia nelle mani di più soggetti
pubblici insieme, differenziandosi per la circostanza che nella prima vi siano
soltanto soci pubblici, nella seconda vi siano anche soci privati.
Il tema ermeneutico verte sulla portata del rinvio che
l’art. 3 della legge n. 120/2011 opera all’art. 2359 c.c., nel senso che,
qualora si ritenesse che tale rinvio non dia luogo ad una recezione passiva del
concetto civilistico, si potrebbe estendere il riferimento al controllo da parte
di una singola società – quindi di una singola pubblica amministrazione – a
quello realizzato dal settore pubblico nel suo complesso. Il fondamento di tale
interpretazione esegetica dovrebbe essere rinvenuto nella ratio della
previsione dell’equilibrio di genere per le società controllate da pubbliche
amministrazioni.
Occorre comprendere il significato dell’istituto.
La tesi tradizionale si concentra sul fondamento
politico e sulla garanzia della pari rappresentanza negli organismi di
decisione pubblica, muovendo dall’art. 3, comma 2 Cost., secondo cui “È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Tipico esempio è quello di una legge che garantisca la presenza di entrambi i
sessi nelle competizioni elettorali.
Inteso in questo senso, il principio delle pari
opportunità è entrato in conflitto con il principio di uguaglianza formale:
nella sentenza n. 422 del 1995 della Corte costituzionale, facendo leva sulla
vecchia formulazione dell’art. 51, comma 1 Cost., meramente esecutiva dell’art.
3, comma 1 Cost. in materia di accesso alle cariche elettive o ai pubblici
uffici, si è affermato che «ogni differenziazione in ragione del sesso non può
che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini
il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri,
appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato», giungendo così alla
declaratoria di incostituzionalità della disposizione di legge secondo cui, nei
Comuni con popolazione inferiore ai 15000 abitanti, nessuno dei due sessi può
essere rappresentato – nella composizione delle liste dei candidati alle
elezioni dei consigli comunali – in misura superiore ai due terzi.
Al di là della controversa natura di tale disposizione
– norma antidiscriminatoria o norma promozionale – è certo, infatti, che la
stessa si proponeva di rendere effettivo il diritto di elettorato passivo,
assicurando a ciascun sesso – quindi anche a quello di fatto svantaggiato – la
concreta chance di essere adeguatamente rappresentato nell’organo elettivo.
Attesa la rigidità del principio di parità di
trattamento in materia elettorale, siffatta disposizione è stata bocciata.
Pertanto, con legge cost. n. 1 del 2003, all’art. 51, comma 1 è stato aggiunto
il periodo secondo cui “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le
pari opportunità tra donne e uomini”.
Da allora il principio dell’equilibrio di genere
nell’accesso a cariche pubbliche si è consolidato.
L’art. 117, comma 7 Cost., introdotto dalla legge
cost. n. 3 del 2001, stabilisce che “Le leggi regionali rimuovono ogni
ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita
sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e
uomini alle cariche elettive”.
La legge 23 novembre 2012, n. 215 ha dettato “Disposizioni
per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e
nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in
materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso
nelle pubbliche amministrazioni”.
L’art. 23 della Carta europea dei diritti fondamentali
stabilisce che “La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti
i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il
principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che
prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. La
Carta è applicabile solo nelle materie di interesse dell’Unione, ma il
riconoscimento della possibilità di alterare la parità di trattamento in favore
di un genere è indicativo della crescente valorizzazione dei profili
sostanziali nell’affrontare il tema delle pari opportunità.
Il dibattito si è quindi spostato sull’ammissibilità
di misure legislative atte a garantire la parità non di chances, ma di
risultati, come le cd. quote rosa.
La giurisprudenza costituzionale tende a non
riconoscere la legittimità di una riserva di genere nell’attribuzione dei seggi
elettorali.
Infatti, nella sentenza n. 4 del 2010, la Corte
costituzionale dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale
della legge elettorale della Regione Campania n. 4/2009, che prevede la cd.
“preferenza di genere”, ossia la possibilità di esprimere una seconda
preferenza purché ad un candidato di genere diverso dal primo, pena
l’annullamento della seconda preferenza, affermando che «Si tratta di una
facoltà aggiuntiva […] introducendo […] una norma riequilibratrice volta ad
ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva.
Tale risultato non sarebbe, in ogni caso, effetto della legge, ma delle libere
scelte degli elettori, cui si attribuisce uno specifico strumento utilizzabile
a loro discrezione». Poiché la nuova regola rende maggiormente possibile il
riequilibrio, ma non lo impone, non viola gli articoli 3, 48 e 51 della
Costituzione. Ciò lascia intendere chiaramente come meccanismi coattivi volti a
garantire la presenza numerica di un genere non siano considerati
costituzionalmente compatibili.
Tale assunto, tuttavia, oltre ad essere criticato da
una parte della dottrina, non è applicabile al di fuori della materia
elettorale.
È il caso, tra l’altro, delle cariche negli organi
societari, di cui all’art. 1 della legge n. 120/2011, che conviene riportare:
“1. Dopo il comma 1-bis dell’articolo 147-ter del
testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di
cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni,
è inserito il seguente:
«1-ter. Lo statuto prevede, inoltre, che il riparto degli
amministratori da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri
l’equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un
terzo degli amministratori eletti. Tale criterio di riparto si applica per tre
mandati consecutivi. Qualora la composizione del consiglio di amministrazione
risultante dall’elezione non rispetti il criterio di riparto previsto dal
presente comma, la Consob diffida la società interessata affinché si adegui a
tale criterio entro il termine massimo di quattro mesi dalla diffida. In caso
di inottemperanza alla diffida, la Consob applica una sanzione amministrativa
pecuniaria da euro 100.000 a euro 1.000.000, secondo criteri e modalità
stabiliti con proprio regolamento e fissa un nuovo termine di tre mesi ad
adempiere. In caso di ulteriore inottemperanza rispetto a tale nuova diffida, i
componenti eletti decadono dalla carica. Lo statuto provvede a disciplinare le
modalità di formazione delle liste ed i casi di sostituzione in corso di
mandato al fine di garantire il rispetto del criterio di riparto previsto dal
presente comma. La Consob statuisce in ordine alla violazione, all’applicazione
ed al rispetto delle disposizioni in materia di quota di genere, anche con
riferimento alla fase istruttoria e alle procedure da adottare, in base a
proprio regolamento da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore
delle disposizioni recate dal presente comma. Le disposizioni del presente
comma si applicano anche alle società organizzate secondo il sistema monistico».
2. Dopo il comma 1 dell’articolo 147-quater del testo
unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive
modificazioni, è aggiunto il seguente: «1-bis. Qualora il consiglio di gestione
sia costituito da un numero di componenti non inferiore a tre, ad esso si
applicano le disposizioni dell’articolo 147-ter, comma 1-ter».
3. All’articolo 148 del testo unico di cui al decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, sono apportate
le seguenti modificazioni: a) dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis.
L’atto costitutivo della società stabilisce, inoltre, che il riparto dei membri
di cui al comma 1 sia effettuato in modo che il genere meno rappresentato
ottenga almeno un terzo dei membri effettivi del collegio sindacale. Tale
criterio di riparto si applica per tre mandati consecutivi. Qualora la
composizione del collegio sindacale risultante dall’elezione non rispetti il
criterio di riparto previsto dal presente comma, la Consob diffida la società interessata
affinché si adegui a tale criterio entro il termine massimo di quattro mesi
dalla diffida. In caso di inottemperanza alla diffida, la Consob applica una
sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 200.000 e fissa un
nuovo termine di tre mesi ad adempiere. In caso di ulteriore inottemperanza
rispetto a tale nuova diffida, i componenti eletti decadono dalla carica. La
Consob statuisce in ordine alla violazione, all’applicazione ed al rispetto
delle disposizioni in materia di quota di genere, anche con riferimento alla
fase istruttoria e alle procedure da adottare, in base a proprio regolamento da
adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni
recate dal presente comma»; b) al comma 4-bis, dopo le parole: «ai commi» è
inserita la seguente: «1-bis».”.
Nella disposizioni citate si scorge chiaramente come
l’equilibrio sia stato perseguito in modo pieno, ossia come garanzia di
adeguata rappresentanza di ciascun genere nella composizione degli organi
societari, fissando una quota minima pari a 1/3.
Così inteso, l’equilibrio di genere costituisce
espressione della cd. democrazia partecipativa e, ancor prima della dignità
della persona, che non può essere esclusa dal circuito dei poteri – pubblici o
privati – sulla base dell’appartenenza a un genere.
Il richiamo al fondamento politico dell’istituto,
tuttavia, non è in grado di risolvere le ambiguità della legge, perché non ha
un fondamento gnoseologico irresistibile, in grado di prevalere nella
contrapposizione con altri valori dello Stato di diritto, come, nella materia
in esame, quello di cui all’art. 41, comma 1 Cost.
Occorre, allora, guardare al fondamento economico
dell’equilibrio di genere.
Un tentativo in tal senso è stato già operato in tempi
recenti dalla giurisprudenza amministrativa, di cui è emblematica la sentenza
TAR Lazio n. 6673/11:
«L’obiettivo funzionale dell’equilibrio di genere,
oltre a rispondere primariamente allo scopo dell’attuazione del principio
dell’eguaglianza sostanziale (attraverso la rimozione di ostacoli oggettivi
alla parità di condizioni per l’accesso alle cariche pubbliche da parte di
uomini e donne), si colora sempre più di una ulteriore e nuova
caratterizzazione teleologica, connessa all’acquisita consapevolezza della
strumentalità della equilibrata rappresentanza dei generi, nella composizione
di tali organismi, rispetto ai fini del buon andamento e dell’imparzialità
dell’azione amministrativa. Soltanto l’equilibrata rappresentanza di entrambi i
sessi in seno agli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata
caratterizzazione politica, garantisce l’acquisizione al modus operandi
dell’ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel
patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che
assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della
diversità del genere. Organi squilibrati nella rappresentanza di genere, in
altre parole, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica
dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale (il che
risulta persino più grave in organi i cui componenti non siano eletti
direttamente, ma nominati), risultano anche potenzialmente carenti sul piano
della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non
adeguatamente rappresentato. L’equilibrio di genere, come parametro
conformativo di legittimità sostanziale dell’azione amministrativa, nato
nell’ottica dell’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale fra i
sessi, viene così ad acquistare una ulteriore dimensione funzionale,
collocandosi nell’ambito degli strumenti attuativi dei principi di cui all’art.
97 Cost.: dove l’equilibrata partecipazione di uomini e donne (col diverso
patrimonio di umanità, sensibilità, approccio culturale e professionale che
caratterizza i due generi) ai meccanismi decisionali e operativi di organismi
esecutivi o di vertice diventa nuovo strumento di garanzia di funzionalità,
maggiore produttività, ottimale perseguimento degli obiettivi, trasparenza ed
imparzialità dell’azione pubblica. L’assunto trova ulteriore conferma nella
pienezza della formula adottata dal codice delle pari opportunità (d.lgs.
198/06) che all’art. 1 comma 4, come modificato dal d.lgs. n. 5/2010 di
attuazione della direttiva comunitaria 2006/54/CE, stabilisce che l’obiettivo
della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere
tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera
di tutti gli attori, di leggi e di regolamenti, ma anche nell’adozione di atti
amministrativi e in tutte le attività politiche ed amministrative».
L’idea di collegare l’equilibrio di genere al
principio di buon andamento, nella sua accezione economica, deve essere
approfondita, essendo indimostrato che:
- i due generi siano caratterizzati da un diverso
patrimonio di umanità, sensibilità, approccio culturale e professionale, tanto
più se vengono considerati in una dimensione puramente astratta, avulsa cioè
dalle molteplici variabili – genetiche, educative, ambientali – in grado di
influenzare la formazione dell’individuo;
- la dialettica tra generi diversi porti di per sé a
risultati migliori di quelli conseguibili dal singolo genere (quale che esso
sia), a prescindere dal settore in cui operano.
A compromettere l’impostazione in esame è, dunque,
l’assenza di base scientifica. L’indeterminato richiamo a differenze
antropologiche tra i sessi, non giustifica la conclusione che la pari
rappresentanza di essi sia in sé una misura di efficienza.
Già il pensiero liberale classico aveva intuito quale
fosse l’impostazione corretta: «Nello stato presente dei costumi, delle
opinioni e delle istituzioni umane vediamo le donne chiamate a portare la
corona; ma per una singolare contraddizione in nessun paese si consentirebbe a
contarle fra i cittadini attivi, come se la sana politica non dovesse tendere
costantemente ad accrescere il numero dei veri cittadini, o come se fosse
assolutamente impossibile per una donna di essere di una qualche utilità per la
cosa pubblica. Sulla base di un pregiudizio che non permette nemmeno il dubbio
a questo proposito siamo dunque spinti ad escludere dal numero dei cittadini
attivi almeno la metà della popolazione totale» (Einmanuel–Joseph Sieyès,
1789).
Nella dottrina illuministica, la discriminazione verso
il genere femminile nella vita civile rappresenta una diseconomia, perché
comporta la rinuncia a metà delle risorse disponibili.
L’analisi storica della civiltà occidentale, specie
quella italiana, dimostra una palese sproporzione tra i due generi della
presenza nei centri di potere (di qualsiasi tipo, politico, economico,
militare, sociale, artistico, culturale). Nella tradizione del pensiero
classico, reiterata fino all’età contemporanea, ciò è dovuto alle differenze
biologiche tra i sessi.
Ad esempio, nei lavori dell’Assemblea Costituente, a
proposito della formulazione dell’art. 51 Cost., che non conteneva un’esplicita
garanzia circa l’accesso delle donne alla magistratura (l’art. 8
dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle
funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso
maschile ed iscritto al P.N.F.”) si sostenne che «nella donna prevale il
sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il
raziocinio sul sentimento» (on. Cappi), che «soprattutto per i motivi
addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la
donna non può giudicare» (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare
che «non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi
specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche
dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati
periodi della vita femminile» (on. Molè). Più articolate furono le
dichiarazioni dell’onorevole Leone: «Si ritiene che la partecipazione
illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da
ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire
le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non
può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna
arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini
possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per
tradizione a queste funzioni». Pertanto alle donne poteva essere consentito
giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita
la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il
più possibile conforme alla coscienza popolare.
Sorge spontanea la domanda su cosa abbia giustificato
un’evoluzione così rapida negli ultimi anni.
La rimozione delle disuguaglianze formali, imposta dai
principi democratici, non basta a spiegare il fenomeno. Il principio di
uguaglianza opera tra situazioni accostabili. Quando rispetto ad una certa
situazione il sesso, come qualsiasi altra condizione o qualità personale,
determina una divergenza, è possibile nei limiti della ragionevolezza prevedere
discipline differenziate. L’idea sottesa ai divieti di accesso delle donne a
determinati impieghi pubblici, come la magistratura o le carriere militari, era
nella diversa funzionalità dell’individuo rispetto ad una certa funzione
pubblica. Mentre è lampante che questa giustificazione non regge rispetto alla
magistratura, può essere plausibile per le carriere militari. La rapida
evoluzione degli ultimi anni è attribuibile ai cambiamenti della struttura
reale e al progresso delle conoscenze scientifiche che hanno attenuato la
differenza, rendendo la differenziazione irragionevole.
La rimozione della disparità appare legata al
verificarsi di un fenomeno di cui l’equilibrio di genere – come il principio di
sussidiarietà orizzontale – rappresenta la soluzione: il sovraccarico dei
compiti.
La società è diventata esponenzialmente più complessa
e al contempo più esigente, generando la necessità di incrementare le capacità
di regolazione del mondo.
Il primo dato è l’aumento della popolazione umana, che
va considerato unitariamente alla globalizzazione e al progresso di grandi aree
(Cina, India), che ha comportato un enorme aumento della domanda di beni e
servizi, che rende necessario il reclutamento di nuove risorse per aumentare la
produzione in modo da farvi fronte; poi il progresso tecnologico, che comporta
un incremento esponenziale dei rischi per lo stesso genere umano; infine una
serie di dinamiche a livello sociale e politico. Ad esempio la specializzazione
degli apparati militari e l’abolizione della leva obbligatoria hanno creato la
necessità di attingere per la formazione dei contingenti alla forza femminile.
In riferimento alla magistratura, se è vero che il divieto di accesso alle
donne è caduto per un’ovvia esigenza di rispetto del principio di uguaglianza,
non si può ignorare che mantenere l’accesso limitato al genere maschile avrebbe
significato dimezzare la base di selezione, in un’epoca in cui il settore
giustizia era in forte espansione.
L’equilibrio di genere rappresenta, dunque, la
soluzione di un problema economico, afferente alla migliore distribuzione delle
risorse umane. È l’efficienza, più che l’equità, a suggerire un maggiore
coinvolgimento del genere femminile nei processi di produzione dei beni, sia
pubblici che privati.
Le impostazioni fondate sulle scienze sociali –
politica ed economia – non sono però sufficienti a superare il relativismo
insito nell’equilibrio di genere, che deve confrontarsi con altri valori
rilevanti quali quelli della libertà individuale e del primato del merito.
La competizione, quale tecnica di selezione dei
migliori appare allo stato delle conoscenze lo strumento più preciso per
definire i rapporti tra individui.
La imperfezione e insufficienza delle regole poste per
la competizione, e fra esse in particolare la libertà di scelta
dell’imprenditore, non hanno consentito il raggiungimento del risultato del
massimo utile individuale e collettivo, non hanno consentito cioè di soddisfare
al meglio la totalità degli interessi. Il sistema non ha raggiunto quindi il
livello di efficienza richiesto. La ratio della garanzia dell’equilibrio
di genere è quindi fondata sull’esigenza fondamentale dell’efficienza del
sistema.
Quanto più ci si allontani nei criteri di selezione
dal modello concorsuale, tanto più possono essere necessari interventi
normativi volti a creare pari condizioni tra gli individui.
Inquadrata in questa cornice, la normativa sulle
società quotate e sulle società non quotate sotto il controllo delle pubbliche
amministrazioni è suscettibile di interpretazione estensiva, essendo evidente
che l’intento del legislatore è quello di assicurare l’equilibrata presenza dei
generi nella governance degli enti il cui ruolo nel mercato è
maggiormente significativo. È, dunque, la tutela dell’interesse generale del
massimo utile individuale e collettivo (e non dell’interesse pubblico) la ratio
dell’azione positiva, nella consapevolezza che gli operatori macroeconomici –
società private quotate e società pubbliche – operano in modo più efficiente
quando, in difetto di meccanismi spontanei di selezione nell’insieme del genere
umano, entrambe le sue componenti siano rappresentate. Da questo punto di vista
la circostanza che il controllo pubblico operi singolarmente o in modo
congiunto è irrilevante.
Per affermare l’ammissibilità di una esegesi volta ad
estendere la portata delle disposizioni in esame occorre, però, un elemento
ulteriore, ossia che il testo lo consenta.
Nel rinviare all’art. 2359 c.c. per definire la
nozione di controllo, l’art. 3 della legge n. 120/2011 postula che al concetto
di società si sostituisca quello di pubblica amministrazione. Sul piano
letterale non ci sono ostacoli a intendere il riferimento alle «pubbliche
amministrazioni» (“… alle società, costituite in Italia, controllate da
pubbliche amministrazioni ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo,
del codice civile, non quotate in mercati regolamentati”) come comprensivo di
tutti i soggetti pubblici titolari del capitale sociale, laddove suscettibili
di unitaria considerazione. Infatti, anche quando a detenere il controllo non è
un ente pubblico da solo, ma una pluralità di enti pubblici complessivamente
considerati, il controllo è nelle mani di «pubbliche amministrazioni».
Peraltro la nozione di controllo congiunto deve
ritenersi accolta nel nostro ordinamento a seguito dell’adozione delle nuove
direttive (sia pure non ancora trasposte) in materia di appalti, precisamente
la Direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e la
Direttiva 2014/25/UE del 26 febbraio 2014, sulle procedure d’appalto degli enti
erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e servizi
postali.
Si prevede espressamente, infatti, la possibilità del
controllo analogo esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice congiuntamente
con altre amministrazioni aggiudicatrici, specificandosi che, ai fini del
controllo congiunto, sono necessarie tutte le seguenti condizioni:
a. gli organi decisionali della persona giuridica
controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni
aggiudicatrici partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie
o tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti;
b. tali amministrazioni aggiudicatrici sono in grado
di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici
e sulle decisioni significative della persona giuridica controllata;
c. la persona giuridica controllata non persegue
interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici controllanti.
Ovviamente, la nozione pubblicistica di controllo congiunto
va calata all’interno della fattispecie civilistica di controllo societario,
affinché possa dirsi integrato il controllo sulla società da parte di una
pluralità di soggetti pubblici, ciascuno dei quali non si trovi in alcuna delle
situazioni contemplate dall’art. 2359 c.c.
Più precisamente, il controllo societario ex art. 2359
può ritenersi unitariamente realizzato da più amministrazioni pubbliche quando:
1. gli organi decisionali della società controllata
sono composti da rappresentanti delle pubbliche amministrazioni. Singoli
rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni
partecipanti;
2. le pubbliche amministrazioni congiuntamente –
grazie ad accordi tra loro o a comportamenti paralleli – dispongono della
maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (controllo di
diritto), ovvero di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante
nell’assemblea ordinaria (controllo di fatto), oppure esercitano congiuntamente
sulla società un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli
contrattuali con esse;
3. la persona giuridica controllata non persegue
interessi contrari a quelli delle amministrazioni controllanti.
Non è invece sufficiente la mera titolarità pubblica
della maggioranza di capitale, essendo tale elemento, da solo considerato,
estraneo all’art. 2359 c.c., che riguarda le due ipotesi del «socio sovrano» e
del «socio tiranno», in cui chi esercita il controllo è il dominus della
società. Concetto che certo non può dirsi integrato allorquando le pubbliche
amministrazioni, pur avendo la maggioranza del capitale, agiscano
separatamente.
Conclusivamente, nel caso di controllo congiunto, alla
società controllata, a prescindere dal fatto che sia partecipata o meno da
privati, si applicano l’articolo 3 della legge 12 luglio 2011, n. 120 e
l’articolo 1 del D.P.R. 30 novembre 2012, n. 251.
P.Q.M.
esprime il parere di cui in motivazione.
L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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Francesco Bellomo
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Giuseppe Barbagallo
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IL SEGRETARIO
Gabriella Allegrini
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