giovedì 16 luglio 2015

ADUNANZE PLENARIE: ribadito il principio giurisprudenziale secondo cui la normativa interna contraria alla CEDU va scrutinata dalla Corte Costituzionale, non potendo esser assimilata alla normativa comunitaria, e, come tale, disapplicata (Ad. Plen., ordinanza di rimessione alla CC 14 luglio 2015, n. 7).


ADUNANZE PLENARIE: 
ribadito il principio giurisprudenziale 
secondo cui la normativa interna 
contraria alla CEDU 
va scrutinata dalla Corte Costituzionale,
 non potendo esser assimilata alla normativa comunitaria, 
e, come tale, disapplicata
(Ad. Plen., 
ordinanza di rimessione alla CC 
14 luglio 2015, n. 7)



La questione di diritto della presente decisione riguarda (nuovamente ... v. traccia di amministrativo dell'ultimo concorso in magistratura) la natura giurisdizionale od amministrativa della decreto del Presidente della Repubblica su ricorso straordinario, e la consequenziale possibilità o meno di configurare l'efficacia del giudicato per i decreti del Presidente della Repubblica resi prima della svolta che ha ricostruito l'istituto "rimedio giurisdizionale" e non "amministrativo".
Da questa questione, la Plenaria ha preso l'abbrivio per una previa meritoria dissertazione sul sindacato della normativa interna contrastante con la CEDU e/o la giurisprudenza della Corte EDU, definitivamente "attribuito" alla Corte Costituzionale e non al singolo giudice amministrativo tramite il c.d. sindacato diffuso, come noto implicante la disapplicazione  del diritto interno contrastante con quello comunitario.


Q.L.C.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, visti gli artt. 134 Cost., 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della l. 111 marzo 1953 n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di costituzionalità dell’articolo 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo della legge 23 dicembre 2000, nl. 388 (“Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato- Legge finanziaria 2001”), nella parte in cui tale norma, sancendo la portata retroattiva dell’abrogazione dell’articolo 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n. 425, prevede che detta abrogazione possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute mediante decisioni definitive su ricorsi straordinari.



Massima

1. Questa Adunanza deve osservare che risulta acquisita nella giurisprudenza costituzionale la convinzione relativa alla non assimilabilità delle norme della Convenzione EDU alle nome comunitarie self executing ai fini dell’applicazione immediata nell'ordinamento interno. 
La Corte delle Leggi ha chiarito, infatti, come solo le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell'art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.
2. Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacché si è escluso che possa e venire in considerazione l'art. 11 Cost., «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente giudizio in quanto le prime, pur assolvendo alla funzione primaria di tutela e di valorizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, con connessa disapplicazione delle norme interne in eventuale contrasto.
3. L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il citato orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».
4. La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce, quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, pur con le caratteristiche significativamente peculiari, da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.
Si deve allora escludere che il dedotto contrasto della norma censurata con la normativa CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, possa legittimare il giudice a quo alla diretta disapplicazione della norma interna asseritamente non compatibile con la seconda.
5. Dando continuità all’indirizzo sostenuto recentemente ribadito da questa Adunanza Plenaria (ord. n. 2/2015), si deve allora concludere che, nonostante taluni orientamenti giurisprudenziali e dottrinari di segno contrario, risulta aderente al quadro normativo vigente l’assunto secondo cui le norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la CEDU, sono suscettibili unicamente di sindacato accentrato da parte della Corte costituzionale.
6. Le norme della CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono infatti rilevanza nell'ordinamento italiano quali norme interposte. Alla CEDU è quindi riconosciuta un'efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all'art. 117 co.1 Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Tale posizione non è mutata neanche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, all'art. 6, prevede l’adesione dell'Unione Europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non ha “comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la concezione delle norme interposte” (Corte cost. sentenza n. 80/2011).
Di conseguenza, il giudice del caso concreto, allorché si trovi a decidere di un contrasto tra la CEDU e una norma di legge interna, sarà tenuto a sollevare un'apposita questione di legittimità costituzionale.
Rimane salva l'interpretazione “conforme alla Convenzione”, e quindi conforme agli impegni internazionali assunti dall'Italia, delle norme interne. Tale interpretazione, anzi, si rende doverosa per il giudice che, prima di sollevare un'eventuale questione di legittimità, è tenuto ad interpretare la disposizione nazionale in modo conforme a Costituzione.
7.  Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione (vedi ancora Corte Cost., sentenza n. 348/2007). La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali, ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali.
L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta.
Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, 
8. Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione.
9. Con le sentenze nn. 9 e 10 del 2013 questa Adunanza, portando a compimento un discorso avviato con la precedete sentenza n. 18/2012, ha riconosciuto il carattere sostanzialmente giurisdizionale del rimedio straordinario e dell’ atto terminale della relativa procedura.
Un rilievo decisivo è stato all’uopo assegnato al disegno riformatore portato a compimento con la legge n. 69/2009 e con il codice del processo amministrativo.
Tale sviluppo normativo depone nel senso dell’assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale. Ne deriva il superamento della linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della natura amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialità tali da segnalare la contiguità alle pronunce del giudice amministrativo.
10. Assume rilievo decisivo, in particolare, lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità costituzionale.
Il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, è estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti.
La matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio è corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. n. 104/2010. 
Merita menzione, in particolare, l’art. 7, co. 8, che, nel quadro di una disciplina dedicata alla definizione del concetto e dell’estensione della giurisdizione amministrativa, limita la praticabilità del ricorso straordinario alle sole controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo e, quindi, ai campi nei quali, in ragione della consistenza della posizione soggettiva azionata o in funzione della materia di riferimento, il giudice amministrativo è dotato di giurisdizione. La 'giurisdizione' diventa quindi presupposto generale di ammissibilità del ricorso straordinario, non diversamente da quanto accade per il ricorso ordinario al giudice amministrativo. In tal guisa si sancisce l’attrazione del ricorso straordinario nel sistema della giurisdizione amministrativa di cui costituisce forma speciale e semplificata di esplicazione.
La rimozione della possibilità che il ricorso straordinario sia promosso in materie in cui il giudice amministrativo è privo di giurisdizione, rafforza, poi, il connotato dell’alternatività del rimedio, cancellando l’ipotesi di un ricorso straordinario concorrente, nelle materie estranee alla giurisdizione amministrativa, con quello giurisdizionale e, soprattutto, eliminando l’ostacolo che tale anomalia avrebbe rappresentato sulla strada della sostanziale giurisdizionalizzazione di siffatta tecnica di tutela.
11. Proprio la valorizzazione delle coordinate normative fin qui esaminate ha di recente indotto la Corte di Legittimità ad assegnare al decreto che definisce il ricorso straordinario la valenza di decisione costituente esercizio della giurisdizione riferibile, nel contenuto recato dal parere vincolante, al Consiglio di Stato, naturaliter sottoposta al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione ex artt. 111, co. 8, Cost., 362, comma 1, c.p.c. e 110 c.p.a. (Sez. Un. n. 23464/2012).
La circostanza ipotetica che il decreto presidenziale possa essere affetto da vizi propri del procedimento successivo all'adozione del parere, connessa alla struttura ancora composita del ricorso straordinario e radicata nelle origini storiche dell'istituto, non inficia né indebolisce l’essenza giurisdizionale della decisione che ha come unico sostrato motivazionale il parere vincolante reso dal Consiglio di Stato.
La tendenziale assimilazione del ricorso straordinario a un rimedio schiettamente giurisdizionale è stata ribadita dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 73/2014 ha ritenuto infondato il dubbio di legittimità costituzionale, sotto il profilo del difetto di delega, dell’articolo 7, co. 8, c.p.a. osservando che, per effetto di queste modifiche, “l’istituto ha perduto la propria connotazione puramente amministrativa e ha assunto la qualità di rimedio giustiziale amministrativo, con caratteristiche strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo”.
12. Le considerazioni svolte da questa Adunanza Plenaria e dalla giurisprudenza della Corte delle Leggi e della Corte di Legittimità sulla portata sostanziale delle modifiche apportate alla disciplina dell’istituto, e sulla conseguente riconducibilità a dette novità del superamento della connotazione amministrativa del rimedio, impediscono di ritenere che anche alle decisioni rese in precedenza possa essere riconosciuta una valenza giurisdizionale e, quindi, l’intangibilità propria della res iudicata. 
Si deve infatti convenire che non viene in rilievo una revisione interpretativo di portata retroattiva, ma una riforma sostanziale ontologicamente inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura giuridica di decreti presidenziali adottati in un contesto normativo in cui la decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione di statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora considerarsi espressione di 'funzione giurisdizionale' nel significato pregnante dell'art. 102 Cost., co. 1, e art. 103 Cost., co. 1.
13. A sostegno dell’assunto della portata non retroattiva della novella si pone, quindi, la decisiva considerazione che la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all’autorità giurisdizionale. Ne deriva l’assenza di detto requisito sostanziale per le decisioni adottate in un regime caratterizzato, prima dell’entrata in vigore dell’art. 69 della l. n. 69/2009, dalla concorrente paternità in capo all’autorità amministrativa, legittimata a esprimere, attraverso un aggravamento procedurale, un avviso contrario a quello sostenuto nell’apporto consultivo del Consiglio di Stato. Si deve soggiungere che non assume rilievo al circostanza concreta che, con riferimento al singolo ricorso, il parere del Consiglio di Stato non sia stato disatteso, in quanto la natura giurisdizionale, o non, di una procedura rimediale non può che essere valutata alla stregua dal dato astratto del paradigma normativo di riferimento. Paradigma che, prima delle riforme di cui si è dato conto, non attribuiva al giudice amministrativo il potere di decidere in via esclusiva l’esito della controversia.
14. Non giova agli appellanti l’insistito accento sul maggioritario indirizzo pretorio che ammette il rimedio dell’ottemperanza, ex art. 112 c.p.a., anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell’assetto normativo tradizionale. Si deve, al riguardo, convenire con l’amministrazione appellata nel senso che l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge.
Posto, infatti, che, nell’architettura dell’art. 112, co. 1, c.p.a., il giudizio di ottemperanza non è ammesso solo per le sentenze passate in giudicato (lett. a), c) e d), primo inciso), ma anche per le sentenze esecutive e per i provvedimenti esecutivi (lett. b), per i provvedimenti equiparati (lettera d) e per i lodi arbitrali (lett. e), si deve concludere che la questione dell’equiparazione della decisione su ricorso amministrativo extra ordinem a una sentenza passata in giudicato dal punto di vista della procedura di attuazione dello iussum - risolta in senso positivo dalla giurisprudenza prevalente alla stregua del principio processualistico tempus regit actum, sotteso all’art. 5 c.p.c. - non si ripercuote sul differente tema della sussistenza di una forza sostanziale del regolamento decisorio sussumibile nel concetto di giudicato e, quindi, tale da resistere al dispiegarsi dell’intervento legislativo. A tale ultimo quesito non può che rispondersi negativamente, in quanto l’intangibilità del decisum, alla stregua dei parametri normativi nazionali, presuppone una paternità esclusivamente giurisdizionale che nella specie era esclusa dallo schema normativo di riferimento ratione temporis operante.


Ordinanza per esteso

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 28 di A.P. del 2014, proposto da:

Giuseppe Severini, Luigi Maruotti, Carmine Volpe, Giampiero Paolo Cirillo, Luigi Carbone, Luciano Barra Caracciolo, Alessandro Botto, Rosanna De Nictolis e Marco Lipari, rappresentati e difesi dall'avv. Massimo Congedo, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi in Roma, Via Cosseria, n. 2;

contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale, domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 04104/2010, resa tra le parti, concernente diniego dell’applicazione dell’articolo art. 4, co. 9, l. n. 425/84 - trattamento economico superiore - ris. danni;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 luglio 2015 il Cons. Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati Pietro Quinto per delega dell’avvocato Massimo Congedo, e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello.;

1. Con la sentenza impugnata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio – sede di Roma - ha respinto il ricorso di primo grado, corredato da motivi aggiunti, proposto dagli odierni appellanti al fine di ottenere l’annullamento della nota del 3 febbraio 2003 con cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva respinto, previo riesame, le istanze di esecuzione di nove decisioni del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999 di accoglimento dei ricorsi straordinari finalizzati all’erogazione del trattamento economico spettante, a titolo di adeguamento stipendiale, ai sensi dell’articolo 4, comma 9, della legge 6 agosto 1984, n. 425.
Le decisioni assunte dal Capo dello Stato avevano affermato l’obbligo per l’Amministrazione di determinare i trattamenti economici dei ricorrenti ai sensi del citato art. 4, comma 9, cit., tenendo conto del superiore trattamento spettante ai colleghi collocati in ruolo in posizione successiva ai ricorrenti stessi.
In data 9 luglio 2000 la Presidenza del Consiglio aveva però negato l’ attribuzione, in favore degli interessati, del trattamento economico come sopra determinato, fornendo esecuzione solo parziale a quattro delle nove decisioni.
Gli odierni appellanti avevano allora proposto ricorso per l'esecuzione del giudicato. La sentenza di accoglimento del ricorso in executivis, pronunciata dal Consiglio di Stato, è stata tuttavia annullata dalla Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass. civ. Sez. Unite, 18 dicembre 2001, n. 15978).
A fronte di ulteriori istanze di esecuzione avanzate da parte degli stessi interessati, la Presidenza del Consiglio, con l’impugnata nota del 3 febbraio 2003 (resa in esito alla trasmissione, da parte della Segreteria Generale del Consiglio di Stato, degli schemi aggiornati dei rispettivi decreti individuali), aveva respinto le nuove richieste degli istanti, opponendo loro l’effetto preclusivo prodotto dall’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000.
Detta norma stabilisce, al penultimo e ultimo periodo, che “il nono comma dell'articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata. In ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti”.
Il Tribunale adito, con Ordinanza n. 6971 del 14 luglio 2004, peraltro, aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di siffatta disposizione, per contrasto con gli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 della Carta Fondamentale, nella parte in cui tale norma, esplicitando la portata retroattiva dell’abrogazione, avrebbe inciso in modo definitivamente sacrificativo sulle posizioni individuali già riconosciute mediante decisioni su ricorsi straordinari divenute definitive.
Con la sentenza n. 282 del 15 luglio 2005, la Consulta ha respinto la questione di costituzionalità, poggiando sull’assunto che la decisione amministrativa resa su ricorso straordinario non è dotata della forza di giudicato che costituisce limite invalicabile all’esplicazione, con efficacia retroattiva, del potere interpretativo del legislatore e garanzia dell’affidamento legittimo del ricorrente vittorioso circa l’intangibilità dell’assetto di interessi sancito nello jussum giurisdizionale.
Riassunto il giudizio innanzi al Tar, i ricorrenti, facendo leva sull’entrata in vigore dell’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69 e sull’articolo 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n.104, hanno sostenuto la tesi, sviluppata nei successivi motivi aggiunti, della piena “giurisdizionalizzazione” del rimedio straordinario. Hanno soggiunto che la finalità di revisione, perseguita dalla normativa de qua ai sensi della VI Disposizione transitoria della Costituzione, evidenzierebbe la naturale estensione ex tunc della portata effettuale dell’intervento riformatore alle decisioni rese in un torno di tempo anteriore.
Con la sentenza appellata i Primi Giudici, facendo leva sulla portata caducatoria sancita dal citato articolo 50 della legge n. 388/2000, hanno respinto il ricorso. Il Primo Giudice ha, in particolare, negato che, per effetto dell’entrata in vigore dello jus superveniens di cui all’art. 69 della legge 69/2009, il ricorso straordinario al Capo dello Stato sia divenuto un mezzo di tutela giurisdizionale e che, in ogni caso, tale modificazione legislativa possa interessare, alla stregua di una previsione legislativa con carattere di “interpretazione autentica”, anche le fattispecie definite in base all’assetto normativo anteriore.
Muovendo da tali premesse il Primo Giudice ha negato che le decisioni con le quali la pretesa economica dei ricorrenti aveva trovato accoglimento, in quanto decisioni “giurisdizionali” (e, conseguentemente, assistite da forza di giudicato), possano essere insensibili alla portata applicativa dell’art. 50, comma 4, della citata legge n. 388/2000.
Richiamate le argomentazioni svolte dalla Corte Costituzionale con la decisione n. 282/2005, il Tribunale ha sostenuto che il travolgimento degli effetti delle decisioni successive all’entrata in vigore del decreto legge n. 333/1992 colpisce anche gli atti con i quali il Capo dello Stato aveva deciso i ricorsi straordinari in senso favorevole agli odierni appellanti, restando da tale conseguenza immuni unicamente le “sentenze passate in giudicato”, ossia le «decisioni di autorità giurisdizionali», non già delle decisioni amministrative irrevocabili o definitive.
2. Avverso la sentenza di prime cure le parti ricorrenti propongono appello.
Con il primo motivo di censura si sostiene che la sentenza gravata sarebbe viziata ex art. 112 c.p.c., in ragione del mancato esame dei parametri di costituzionalità di cui agli artt. 3, 10, 11, 28, 97, 100 e 117 della Carta Fondamentale.
Il Tribunale di prima istanza ha parimenti errato nell’affermare che l’art. 69 della legge n. 69 del 2009 non avrebbe “giurisdizionalizzato” l’istituto e che, comunque – ove anche ciò fosse avvenuto- detta modifica non presenterebbe carattere retroattivo.
Con la seconda e la terza censura gli appellanti hanno criticato il capo della gravata decisione che ha negato la natura di rimedio giurisdizionale del ricorso straordinario
Con i motivi da 3.1. a 3.4 ci si è soffermati sulla natura interpretativa (e, perciò, retroattiva) delle disposizioni di cui al richiamato art. 69 della legge del 2009.
Con il quarto motivo di gravame si fa presente che, ove anche fosse stata negata la natura giurisdizionale del decreto decisorio del ricorso straordinario, l’art. 4 dell’art. 50 della legge n. 388 del 2000 - ove interpretato non senso di ritenerlo riferibile alle decisioni rese in sede di ricorso straordinario- avrebbe dovuto essere ritenuto in contrasto con la CEDU.
Con il quinto motivo sono stati riproposti i parametri di asserito conflitto della disposizione normativa suddetta non esaminati dalla Corte Costituzionale.
Con il sesto motivo è stata riproposta la domanda risarcitoria, da considerarsi anche autonoma rispetto al petitumprincipale.
Si è costituita la Presidenza del Consiglio dei Ministri per resistere alle pretese degli appellanti.
La parti hanno affidato al deposito di apposite memorie l’ulteriore illustrazione delle rispettive tesi difensive.
Con Ordinanza 4 novembre 2014, n. 5506 la IV Sezione di questo Consiglio ha rimesso al vaglio dell’Adunanza Plenaria la soluzione del quesito relativo alla portata retroattiva della riforma dell’istituto del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
All’udienza dell’ 8 luglio 2015 la causa è stata trattenuta per la decisione.
3. Il Collegio reputa che siano rilevanti e non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati con il prioritario e assorbente motivo di ricorso con cui denuncia il contrasto dell’articolo 50 comma 4, ultimi due periodi, della legge n. 388/2000, con gli articoli 6 e 13 della CEDU e, quindi, con l’articolo 117, comma 1, della Costituzione.
3.1. Si deve preliminarmente escludere la fondatezza dell’assunto, sostenuto dai ricorrenti, secondo cui il contrasto tra legislazione nazionale interna e normativa CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della prima.
Questa Adunanza deve osservare, in senso contrario a detta impostazione ermeneutica, che risulta acquisita nella giurisprudenza costituzionale (cfr., ex plurimis, sentenze nn. 348 e 349/2007 in materia espropriativa) la convinzione relativa alla non assimilabilità delle norme della Convenzione EDU alle nome comunitarie self executing ai fini dell’ applicazione immediata nell'ordinamento interno. La Corte delle Leggi ha chiarito, infatti, come solo le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell'art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.
Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacché si è escluso che possa e venire in considerazione l'art. 11 Cost., «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente giudizio in quanto le prime, pur assolvendo alla funzione primaria di tutela e di valorizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, con connessa disapplicazione delle norme interne in eventuale contrasto.
L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il citato orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».
Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale. Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è, infatti, entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce, quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, pur con le caratteristiche significativamente peculiari, da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.
Si deve allora escludere che il dedotto contrasto della norma censurata con la normativa CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, possa legittimare il giudice a quo alla diretta disapplicazione della norma interna asseritamente non compatibile con la seconda.
Va ribadita anche l'esclusione delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza della Consulta (vedi, ancora, sentenze nn. 348 e 349/2007). La citata disposizione costituzionale, con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme convenzionali, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005).
Dando continuità all’indirizzo sostenuto recentemente ribadito da questa Adunanza Plenaria (Ordinanza 4 marzo 2015, n. 2), si deve allora concludere che, nonostante taluni orientamenti giurisprudenziali e dottrinari di segno contrario, risulta aderente al quadro normativo vigente l’assunto secondo cui le norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la CEDU, sono suscettibili unicamente di sindacato accentrato da parte della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., sentenze nn. 348 e 349 del 2007; n. 39/2008; nn. 311 e 317 del 2009; nn. 138 e 187 del 2010; nn. 1, 80, 113, 236, 303, del 2011).
Le norme della CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono infatti rilevanza nell'ordinamento italiano quali norme interposte. Alla CEDU è quindi riconosciuta un'efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all'art. 117 co.1 Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Tale posizione non è mutata neanche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, all'art. 6, prevede l’adesione dell'Unione Europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non ha “comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la concezione delle norme interposte” (Corte cost. sentenza n. 80/2011).
Di conseguenza, il giudice del caso concreto, allorché si trovi a decidere di un contrasto tra la CEDU e una norma di legge interna, sarà tenuto a sollevare un'apposita questione di legittimità costituzionale.
Rimane salva l'interpretazione “conforme alla Convenzione”, e quindi conforme agli impegni internazionali assunti dall'Italia, delle norme interne. Tale interpretazione, anzi, si rende doverosa per il giudice che, prima di sollevare un'eventuale questione di legittimità, è tenuto ad interpretare la disposizione nazionale in modo conforme a costituzione (ex multis, Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239, punto 3 del considerato in diritto).
3.1.1. La struttura dell’articolo 117 Cost. si presenta, in definitiva, simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria. A prescindere dall'utilizzazione, per indicare tale tipo di norme, dell'espressione “fonti interposte”, ricorrente in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce della Corte Costituzionale (ex plurimis, cfr. sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta contestata l'idoneità a designare una categoria unitaria, si deve riconoscere che il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato.
La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47».
Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia.
3.1.2. Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione (vedi ancora Corte Cost., sentenza n. 348/2007). La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex mutis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali.
L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta.
Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.
3.1.3.Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione.
3.2 Applicando le coordinate ermeneutiche fin qui esposte al caso di specie si deve escludere la possibilità di disapplicare l'art. 50, comma 4, della legge n. 388/2000 per contrasto con la normativa CEDU, in quanto, ove sussistente, il conflitto metterebbe in luce un dubbio di costituzionalità per violazione dell’articolo 117, comma 1, Cost. Va poi osservato che l’intervento, nel corso del giudizio di primo grado, della sentenza n. 282/2005 della Corte Costituzionale, resa con esclusivo riferimento a parametri nazionali, non preclude la sollevazione di nuova questione di legittimità sulla scorta del diverso paradigma dell’articolo 117, comma 1, Cost., in funzione del rilievo delle norme interposte di derivazione europea come fonti di completamento e integrazione del precetto costituzionale.
4. Il Collegio ritiene che i dubbi di legittimità costituzionale sollevati in via gradata dagli appellanti, con riferimento all’articolo 117 Cost., siano rilevanti e non manifestamente infondati.
4.1. Sul piano della rilevanza è sufficiente rammentare che l’effetto preclusivo sancito dalla norma denunciata (articolo 50, comma 4, della legge n. 388/2000) costituisce l’unica ragione del diniego opposto dall’amministrazione alle rivendicazioni dei ricorrenti e il solo motivo a fondamento del decisum sfavorevole reso dai Primi Giudici.
4.2. Venendo al profilo della non manifesta infondatezza, il Collegio deve in primo luogo escludere che si possa accedere alla tesi, sostenuta in via poziore dagli appellanti, secondo cui anche le decisioni su ricorsi straordinari rese prima della riforma del 2009 esibirebbero carattere giurisdizionale e, quindi, sarebbero dotate di una forza resistente all’interveto caducatorio del legislatore.
4.2.1. Con le sentenze nn. 9 e 10 del 2013 questa Adunanza, portando a compimento un discorso avviato con la precedete sentenza n. 18/2012, ha riconosciuto il carattere sostanzialmente giurisdizionale del rimedio straordinario e dell’ atto terminale della relativa procedura.
Un rilievo decisivo è stato all’uopo assegnato al disegno riformatore portato a compimento con la legge n. 69/2009 e con il codice del processo amministrativo.
Assume rilievo, in prima battuta, l’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante “disposizioni per lo sviluppo economico, la competitività nonché in materia di processo civile”.
Il primo comma ha introdotto, sotto forma di periodo aggiunto al testo dell'art. 13, primo comma, alinea, del d.P.R. 1199/1971, una norma a tenore della quale il Consiglio di Stato, “se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87”.
Il secondo comma dell’art. 69 cit. ha disposto l'aggiunta al primo periodo del primo comma dell'art. 14 del medesimo d.P.R. n. 1199/1971 delle parole 'conforme al parere del Consiglio di Stato' e la soppressione del secondo periodo del primo comma dello stesso articolo, nonché l'abrogazione del secondo comma, in tal guisa eliminando la possibilità, originariamente contemplata, che il Ministero ratione materiae competente, nel formulare la proposta di decreto presidenziale, si discosti dal parere espresso dal Consiglio di Stato previa sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei Ministri.
L’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 ha, dal canto suo, stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (cfr., nel senso dell’inapplicabilità di detto jus superveniens ai ricorsi proposti in un torno di tempo anteriore all’entrata in vigore del codice, Cons. Stato, Ad gen., parere 22 febbraio 2011, n. 4520).
Tale sviluppo normativo di cui si è dato conto depone nel senso dell’assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale. Ne deriva il superamento della linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della natura amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialità tali da segnalare la contiguità alle pronunce del giudice amministrativo.
Assume rilievo decisivo, in particolare, lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità costituzionale.
Una volta acquisito che la paternità effettiva della decisione è da ricondurre all’apporto consultivo del Consiglio di Stato connotato da una suitas giurisdizionale e che, pertanto, il provvedimento finale è meramente dichiarativo di un giudizio formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo, si deve convenire che l’atto finale della procedura è esercizio della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere del Consiglio di Stato che, in posizione di terzietà e di indipendenza e nel rispetto delle regole del contraddittorio, opera una verifica di legittimità dell'atto impugnato (così Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464).
In definitiva il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, è estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti.
La matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio è corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Merita menzione, in particolare, l’articolo 7, comma 8, che, nel quadro di una disciplina dedicata alla definizione del concetto e dell’estensione della giurisdizione amministrativa, limita la praticabilità del ricorso straordinario alle sole controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo e, quindi, ai campi nei quali, in ragione della consistenza della posizione soggettiva azionata o in funzione della materia di riferimento, il giudice amministrativo è dotato di giurisdizione. La 'giurisdizione' diventa quindi presupposto generale di ammissibilità del ricorso straordinario, non diversamente da quanto accade per il ricorso ordinario al giudice amministrativo. In tal guisa si sancisce l’attrazione del ricorso straordinario nel sistema della giurisdizione amministrativa di cui costituisce forma speciale e semplificata di esplicazione.
La rimozione della possibilità che il ricorso straordinario sia promosso in materie in cui il giudice amministrativo è privo di giurisdizione, rafforza, poi, il connotato dell’alternatività del rimedio, cancellando l’ipotesi di un ricorso straordinario concorrente, nelle materie estranee alla giurisdizione amministrativa, con quello giurisdizionale e, soprattutto, eliminando l’ostacolo che tale anomalia avrebbe rappresentato sulla strada della sostanziale giurisdizionalizzazione di siffatta tecnica di tutela.
Proprio la valorizzazione delle coordinate normative fin qui esaminate ha di recente indotto la Corte di Legittimità ad assegnare al decreto che definisce il ricorso straordinario la valenza di decisione costituente esercizio della giurisdizione riferibile, nel contenuto recato dal parere vincolante, al Consiglio di Stato, naturalitersottoposta al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione ex artt. 111, comma 8, Cost., 362, comma 1, c.p.c. e 110 c.p.a. (Cass., sezioni unite, 19 dicembre 2012, n. 23464).
La Corte di Cassazione ha nell’occasione osservato che il riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, con il corollario dell’ammissibilità del sindacato della Corte di Cassazione sul rispetto dei limiti relativi alla giurisdizione, non contrasta con il disposto dell’articolo 125, comma 2, Cost., in materia di istituzione in ambito regionale di organi di giustizia amministrativa di primo grado, in quanto, anche a non considerare che la riserva elaborata dalla giurisprudenza costituzionale intende in realtà impedire l’attribuzione ai tribunali amministrativi regionali competenze giurisdizionali in unico grado' (Corte cost. n. 108 del 2009), in ogni caso la garanzia del doppio grado di giurisdizione è pienamente assicurata dalla circostanza che sono le stesse parti ad optare per il procedimento speciale che consente l'accesso per saltum al Consiglio di Stato.
La circostanza ipotetica che il decreto presidenziale possa essere affetto da vizi propri del procedimento successivo all'adozione del parere, connessa alla struttura ancora composita del ricorso straordinario e radicata nelle origini storiche dell'istituto, non inficia né indebolisce l’essenza giurisdizionale della decisione che ha come unico sostrato motivazionale il parere vincolante reso dal Consiglio di Stato.
La tendenziale assimilazione del ricorso straordinario a un rimedio schiettamente giurisdizionale è stata ribadita dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza 26 marzo 2014, n. 73, ha ritenuto infondato il dubbio di legittimità costituzionale, sotto il profilo del difetto di delega, dell’articolo 7, comma 8, del codice del processo amministrativo, osservando che, per effetto di queste modifiche, “l’istituto ha perduto la propria connotazione puramente amministrativa e ha assunto la qualità di rimedio giustiziale amministrativo, con caratteristiche strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo”.
4.2.2. Le considerazioni svolte da questa Adunanza Plenaria e dalla giurisprudenza della Corte delle Leggi e della Corte di Legittimità sulla portata sostanziale delle modifiche apportate alla disciplina dell’istituto, e sulla conseguente riconducibilità a dette novità del superamento della connotazione amministrativa del rimedio, impediscono di ritenere che anche alle decisioni rese in precedenza possa essere riconosciuta una valenza giurisdizionale e, quindi, l’intangibilità propria della res iudicata. Si deve infatti convenire che non viene in rilievo una revisione interpretativo di portata retroattiva, ma una riforma sostanziale ontologicamente inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura giuridica di decreti presidenziali adottati in un contesto normativo in cui la decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione di statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora considerarsi espressione di 'funzione giurisdizionale' nel significato pregnante dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1.
A sostegno dell’assunto della portata non retroattiva della novella si pone, quindi, la decisiva considerazione che la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all’autorità giurisdizionale. Ne deriva l’assenza di detto requisito sostanziale per le decisioni adottate in un regime caratterizzato, prima dell’entrata in vigore dell’articolo 69 della legge n. 69/2009, dalla concorrente paternità in capo all’autorità amministrativa, legittimata a esprimere, attraverso un aggravamento procedurale, un avviso contrario a quello sostenuto nell’apporto consultivo del Consiglio di Stato. Si deve soggiungere che non assume rilievo al circostanza concreta che, con riferimento al singolo ricorso, il parere del Consiglio di Stato non sia stato disatteso, in quanto la natura giurisdizionale, o non, di una procedura rimediale non può che essere valutata alla stregua dal dato astratto del paradigma normativo di riferimento. Paradigma che, prima delle riforme di cui si è dato conto, non attribuiva al giudice amministrativo il potere di decidere in via esclusiva l’esito della controversia.
4.2.3. Non giova agli appellanti l’insistito accento sul maggioritario indirizzo pretorio che ammette il rimedio dell’ottemperanza, ex articolo 112 c.p.a., anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell’assetto normativo tradizionale. Si deve, al riguardo, convenire con l’amministrazione appellata nel senso che l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge.
Posto, infatti, che, nell’architettura dell’articolo 112, comma 1, del codice del processo amministrativo, il giudizio di ottemperanza non è ammesso solo per le sentenze passate in giudicato (lettere a), c) e d), primo inciso), ma anche per le sentenze esecutive e per i provvedimenti esecutivi (lettera b), per i provvedimenti equiparati (lettera d) e per i lodi arbitrali (lettera e), si deve concludere che la questione dell’equiparazione della decisione su ricorso amministrativo extra ordinem a una sentenza passata in giudicato dal punto di vista della procedura di attuazione dello iussum - risolta in senso positivo dalla giurisprudenza prevalente alla stregua del principio processualistico tempus regit actum, sotteso all’articolo 5 del codice di procedura civile - non si ripercuote sul differente tema della sussistenza di una forza sostanziale del regolamento decisorio sussumibile nel concetto di giudicato e, quindi, tale da resistere al dispiegarsi dell’intervento legislativo. A tale ultimo quesito non può che rispondersi negativamente, in quanto l’intangibilità del decisum, alla stregua dei parametri normativi nazionali, presuppone una paternità esclusivamente giurisdizionale che nella specie era esclusa dallo schema normativo di riferimento ratione temporis operante.
4.3. Tali coordinate interpretative sono state poste a fondamento della sentenza n. 282/2005 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli ultimi due periodi del comma 4 dell’articolo 50 della legge n. 388/2000.
La disposizione censurata, in tema di trattamento economico dei magistrati, disciplina, con una norma di interpretazione autentica, la portata e la decorrenza dell’abrogazione del nono comma dell'art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, norma, quest’ultima, ai sensi della quale per il personale che avesse conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l’anzianità veniva determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo seguiva nel ruolo.
La disposizione oggetto del dubbio di legittimità costituzionale precisa, in primo luogo, che il citato nono comma dell’art. 4 si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, il quale, con l’art. 2, comma 4, aveva soppresso l’istituto dell’allineamento stipendiale; prevede inoltre che, per effetto di detta abrogazione con effetto retroattivo, perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati, dopo la data suindicata, difformemente dalla predetta interpretazione, e che, in ogni caso, non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti.
Il giudice a quo aveva denunciato questa norma nella parte in cui, esplicitando la portata retroattiva dell’abrogazione da essa contemplata, dispone la perdita degli effetti delle decisioni irrevocabili rese nel regime dell’alternatività dal Presidente della Repubblica adito con ricorso straordinario ed intervenute prima della sua entrata in vigore.
Con la sentenza n.282/2005 la Corte Costituzionale, dopo avere premesso che il suo esame si sarebbe limitato ai confini del thema decidendum individuato dall’ordinanza di remissione, ha ritenuto che la norma di interpretazione autentica di cui all’articolo 50, volta a riconoscere un’incompatibilità sistematica già realizzatasi, con riguardo all’istituto del riallineamento stipendiale, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, deve essere intesa, alla luce del dato letterale e dell’argomento costituzionale, nel senso di fare salve le e sentenze passate in giudicato, mentre non esiste alcuna preclusione che impedisca l’operatività dell’intervento legislativo ai danni delle decisioni adottate, nel regime dell’alternatività, con decreto del Presidente della Repubblica in sede di decisione sul ricorso straordinario.
La Corte ha osservato, sul punto, che “essendo il ricorso straordinario al Capo dello Stato un rimedio per assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede amministrativa, deve escludersi che la decisione che conclude questo procedimento amministrativo di secondo grado abbia la natura o gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale”. Di qui la conclusione secondo cui la disposta perdita di efficacia dei provvedimenti (tali dovendosi considerare i decreti del Presidente della Repubblica con cui vengono decisi i ricorsi straordinari) comunque adottati difformemente dalla interpretazione che vuole abrogato il nono comma dell’art. 4 della legge n. 425 del 1984 sin dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, non lede i parametri costituzionali invocati, in quanto la garanzia costituzionale da essi prevista si riferisce al diritto di agire nella sede giurisdizionale e non nella sede amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
5. Esclusa la praticabilità della via dell’interpretazione della norma in esame secondo un’ accezione compatibile con la salvaguardia delle precedenti decisioni rese in via definitiva su ricorsi straordinari, quest’ Adunanza reputa non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale che la lettura ora esposta pone con riferimento all’articolo 117, primo comma, Cost., alla luce dei parametri CEDU, non esaminati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 282/2005.
Il Collegio reputa infatti seri, alla luce dei parametri ricavabili dalla CEDU, e quindi alla stregua dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, i dubbi relativi all’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui detta norma, nell’unica interpretazione plausibile, produce il travolgimento di una decisione alternativa di giustizia che, pur non avendo carattere schiettamente giurisdizionale, risolve in modo definitivo e inoppugnabile una controversia.
5.1. Osserva, in via preliminare, questa Adunanza che la garanzia dell’affidamento legittimo del ricorrente vittorioso in merito all’intangibilità dell’assetto di interessi sancito della decisione favorevole viene tutelato, in ambito comunitario ed europeo, secondo un’accezione lata ed elastica del concetto di “giurisdizione”, che non attribuisce rilievo al profilo qualificatorio e al dato formale, ma valorizza la definitività della decisione e l’essenza giustiziale della funzione.
In questo quadro si iscrive la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che, a partire dal leading case di cui al parere della sezione V, 16 ottobre 1997, in cause c-69/96 e 79/96, ha considerato il Consiglio di Stato che esprime il parere in sede di ricorso straordinario una giurisdizione legittimata a sollevare questioni pregiudiziali di carattere interpretativo ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE (art. 267 del Trattato per il funzionamento dell’Unione Europea), mettendo l’accento, alla luce del principio generale del cd. “effetto utile”, sulla sussistenza di un organo permanente con funzioni giustiziali, sulla funzione di risoluzione di controversie in via imparziale e indipendente nonché sul carattere contenzioso della procedura e sulla definitività dell’esito della stessa.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha fornito, dal canto suo, un contributo decisivo alla piena equiparazione, sotto il profilo dell’assimilazione dei livelli di tutele, tra decisioni giurisdizionali e amministrative, rimarcando, a più riprese, che, ai sensi degli articoli 6 e 13 CEDU, le decisioni finali di giustizia, rese da un’Autorità che non fa parte dell’Ordine Giudiziario, ma che siano equiparate dal punto di vista procedurale e dell’efficacia a una decisione giudiziaria, devono essere passibili di attuazione coattiva in un sistema che prevede l’ esecuzione come seconda e indefettibile fase della lite definita ( “The execution must be riguaded as an integral part of trial”). Più in radice, siffatte statuizioni devono essere caratterizzate dall’intangibilità dell’assetto stabilito con l’atto decisorio, ai fini della salvaguardia dell’affidamento legittimo ingenerato (C.E.D.U. 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romosirov c. Ucraina; 19 marzo 1997, Hornsby c. Grecia).
In questo tessuto di garanzie, volto a limitare l’emanazione di norme retroattive, risultano vietate norme retroattive sfavorevoli che estendano l’applicabilità di una norma interpretativa a precedenti decisioni irrevocabili, ossia ad arret définitive et obligatoire (C.E.D.U., sez. IV, Zielinski c. Francia, 28 ottobre 1989; sez. IV, 10 novembre 2004, Lizarraga c. Spagna che ha escluso che una legge retroattiva possa incidere contra personam ed estinguere intangibile right).
5.2.Tale indirizzo giurisprudenziale induce a ritenere che l’ordinamento italiano, nella misura in cui ammette l’intervento di una legge provvedimento volta a vanificare decisioni definitive, anche se non stricto sensugiurisdizionali, si pone in sospetto contrasto con l’ordinamento convenzionale europeo che impone un superiore standard superiore di tutela, prevedendo, ai sensi degli articoli 6 e 13 della CEDU, come vivificati dall’interpretazione fornita dalla Corte Europea, l’assoluta intangibilità anche delle decisioni amministrative caratterizzate da una judicial review, come tali equated to a Court decision. Viene, quindi, in gioco il pacifico principio della prevalenza delle disposizioni CEDU che prevedono livelli superiore di protezione rispetto alle Costituzioni nazionali (Corte Cost. n. 311/2009), sulla scorta di principi vieppiù applicabili nell’ordinamento nazionale anche in epoca anteriore alla riforma dell’articolo 117 Cost. (vedi Corte Cost. sentenze nn. 348 e 349/2007 sull’incostituzionalità parziale dell’articolo 5 bis del decreto legge n. 333/1992 in materia espropriativa).
Dette coordinate ermeneutiche sono con evidenza riferibili anche alla decisione sul ricorso straordinario che, anche nella conformazione anteriore a quella plasmata dalla legge n. 69/2009, era caratterizzato, nelle materie affidate dalla giurisdizione amministrativa, “dall’irrevocabilità e immodificabilità della decisione e dalla sua insindacabilità da parte di ogni altra autorità amministrativa e giurisdizionale” (cfr., ex multis, Corte di Giustizia dell’Unione Europea 18 settembre 2003, C-292/01; 23 dicembre 2009, C-303/08).
Stante la pacifica integrazione dei canoni costituzionali, ai sensi dell’articolo 117, comma 1, Cost, con le norme CEDU quali nome interposte (nella specie gli articoli 6 e 13 del Trattato CEDU) risultano pertanto non manifestamente infondati i dubbi legittimità costituzionale dell’articolo 50, comma 4, ultimi due periodi, della legge n. 388/2000, nella parte in cui detta norma prevede la vanificazione degli effetti di una decisione definitiva di giustizia che, secondo i parametri convenzionali, va equiparata a una decisione giurisdizionale dal punto di vista dell’effettività e della pienezza della tutela oltre che dell’intangibilità dell’affidamento ragionevole e legittimo assicurato dall’esito del giudizio.
Posto, infatti, che la tutela delle posizioni dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi degli amministrati è assegnata dall'ordinamento positivo anche al ricorso straordinario in via alternativa, sono di dubbia compatibilità con la giurisprudenza CEDU, in punto di garanzia della piena tutela giurisdizionale e del giusto processo, le limitazioni legislative che pregiudicano l'effettività di tale rimedio vanificandone gli esiti definitivi.
6. La normativa in questione pone anche dubbi di compatibilità con gli articoli 3 e 97, Cost, in quanto, alla stregua delle coordinate interpretative tracciate dalla Consulta (vedi Corte Cost. 376/1995; 282/2005; 103/2007; 267/2007; 241/2008), con la legge provvedimento non è possibile esercitare un potere, atipico rispetto al novero dei poteri amministrativi tipizzati, diretto a incidere in via retroattiva e in senso sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili.
Più in generale la cancellazione degli effetti di singole decisioni ai danni dei ricorrenti vittoriosi rischia di arrecare un vulnus, non giustificato da idonee ragioni di interesse generale, al principio di eguaglianza e al canone di ragionevolezza.
7. Per quanto precede, si profilano non manifestamente infondati, oltre che rilevanti, i dubbi relativi alla legittimità costituzionale dell'art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui tale norma, esplicitando la portata retroattiva dell'abrogazione da essa contemplata, prevede che questa possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute mediante decisioni su ricorsi straordinari ormai divenute definitive, in sospetto conflitto con gli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione.
Va quindi disposta la sospensione del giudizio, con rimessione degli atti alla Consulta e riserva di ogni ulteriore decisione.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, visti gli artt. 134 Cost., 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della l. 111 marzo 1953 n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di costituzionalità dell’articolo 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo della legge 23 dicembre 2000, nl. 388 (“Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato- Legge finanziaria 2001”), nella parte in cui tale norma, sancendo la portata retroattiva dell’abrogazione dell’articolo 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n. 425, prevede che detta abrogazione possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute mediante decisioni definitive su ricorsi straordinari.
Dispone la sospensione del presente giudizio e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Ordina che a cura della Segreteria dell'Adunanza Plenaria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Resta riservata ogni ulteriore decisione.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2015 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Mario Luigi Torsello, Presidente
Goffredo Zaccardi, Presidente
Francesco Caringella, Consigliere, Estensore
Carlo Deodato, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere
Vittorio Stelo, Consigliere
Sandro Aureli, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Antonio Amicuzzi, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE






DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/07/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)


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