"Così parlò Berlinguer"
dell'austerità
al Convegno degli intellettuali
- Roma, 1977 -
"Da che cosa è nata, da che cosa nasce
l’esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di
trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e
dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si
traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l’avvio?
Questa
esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a
quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al
tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io
ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.
L’austerità
non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per
superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la
ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il
modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e
dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l’austerità
è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un
sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale,
di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero,
l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del
consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e
significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e
pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si
accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica
portata.
Ecco, in
base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera
dell’austerità?
L’austerità
è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento
spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per
avviare il cambiamento. Cosi concepita l’austerità diventa arma di lotta
moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale
esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione
possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata,
sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di
ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi
dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle
esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta
che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei
modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del
vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i
suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che
nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per
una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità.
Ma
l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano
l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica,
di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure
come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso
risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della
società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come
mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi
mortificate, disperse, sprecate.
Abbiamo
richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche,
certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una
politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che
l’evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e
rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si
vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati
dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non
tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di
inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita
mondiale.
Assai
vario e complesso è, certo, questo moto. Grandi sono le differenze storiche,
economiche, sociali, culturali, politiche, che esistono tanto all’interno di
quel che suole chiamarsi il Terzo mondo, quanto nei suoi rapporti esterni. In
particolare, negli ultimi tempi si è venuta precisando una tendenza verso
alleanze tra i gruppi dominanti dei paesi capitalisticamente più sviluppati e
quelli di certi paesi in via di sviluppo, alleanze che operano a danno di altri
paesi più poveri e più deboli, e contro ogni movimento popolare e progressista.
Non sono stati e non sono solo i Kissinger, ma anche gli Yamani (avrete visto
le recenti dichiarazioni) che hanno perseguito e perseguono una politica di
ostilità contro gli Stati e contro le forze politiche che si battono per il
rinnovamento del proprio paese, comprese le forze avanzate del movimento
operaio dell’occidente.
Ma mentre
dobbiamo saper cogliere queste differenze all’interno del Terzo mondo, e
tenerne conto, non dobbiamo mai perdere di vista il significato generale del
moto grandioso di cui sono stati e sono protagonisti quei popoli: un moto che
cambia la rotta della storia mondiale, che sconvolge via via tutti gli
equilibri esistiti ed esistenti, e non soltanto quelli relativi ai rapporti di forza
su scala mondiale, ma anche gli equilibri all’interno dei singoli paesi
capitalistici. È questo moto, o almeno è principalmente questo moto, che,
operando nel profondo, fa esplodere le contraddizioni di una intera fase dello
sviluppo capitalistico post-bellico, e determina in singoli paesi condizioni di
crisi di gravità mai raggiunta. E se può accadere, come ci è dato di
constatare, che all’interno del mondo capitalistico alcune economie più forti
possono trarre profitto dalla crisi e consolidare la propria posizione di
dominio, per altri paesi economicamente più deboli, come l’Italia, la crisi
diventa ormai un rotolare più o meno lento verso il precipizio.
Sullo
sfondo di questa acuita conflittualità tra i paesi e i gruppi capitalistici,
mal celata da fragili solidarietà, avanzano processi di disgregazione e di
decadenza che, mentre rendono sempre più insopportabili le condizioni di
esistenza di grandi masse popolari, minacciano le basi stesse, non solo
dell’economia, ma della nostra stessa civiltà e del suo sviluppo.
Non è
necessario descrivere i mille segni in cui si manifesta questa tendenza che
ferisce e mortifica così profondamente anche la vita della cultura. Quel che
deve essere chiaro a chiunque voglia intendere le ragioni ed i fini della
nostra politica, sia all’interno del nostro paese, sia nei rapporti con forze
progressiste di altri paesi, è che essa si può tutta ricondurre allo sforzo di
mobilitazione e di ricerca per bloccare questa tendenza e per rovesciarla.
Viviamo,
io credo, in uno di quei momenti nei quali – come afferma il Manifesto dei
comunisti – per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia «una
trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla
rovina comune delle classi in lotta»; e cioè alla decadenza di una civiltà,
alla rovina di un paese.
Ma una
trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo
se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione
dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per
l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali:
aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di
questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di
uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di
sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è
fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse,
di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità,
di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte
di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la
battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di
base.
Una
politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso
l’indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice
sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica
di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può,
deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare
giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita
in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità,
per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo
stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per
grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni,
crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un
ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.
Proprio
perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la
politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata,
dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E
se possiamo ammettere – dobbiamo ammettere, anzi – che vi sono state e vi sono
a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche
del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle
forze che dirigono il governo del paese.
Non
voglio qui esaminare i vari provvedimenti di politica economica attuati o in
preparazione da parte del governo, ne ricordare il nostro atteggiamento su di
essi. Sono note le posizioni, a volte favorevoli a volte critiche, assunte dal
nostro partito sui diversi aspetti della politica economica governativa. Del
resto, proprio in questa sala, come sapete, nostri autorevoli compagni qualche
giorno fa hanno fatto il punto – in un positivo confronto
con esponenti di altri partiti, con illustri economisti e alla presenza, anche,
dei rappresentanti del governo – sul quadro economico complessivo e sugli
interventi da compiere da parte del governo e dei partiti.
Voglio
invece ribadire una critica di ordine generale che noi comunisti continuiamo a
fare, non possiamo non continuare a fare, all’azione del governo. La politica
di austerità è tuttora viziata, infatti, da carenze di vigore, di coraggio e di
respiro. Ad esempio: non si è saputo ancora suscitare il necessario movimento
di opinione e di massa contro gli sprechi. Contro gli sprechi in senso diretto,
che sono ancora enormi (si pensi all’energia o all’organizzazione sanitaria) e
contro gli sprechi in senso indiretto e lato, come quelli che derivano dal
lassismo nelle aziende, nelle scuole e nella pubblica amministrazione; o come
quelli, qui denunciati con particolare rigore dai professori Carapezza, Nebbia,
Maldonado e da altri, derivanti da imprevidenze, di cui avvertiamo oggi tutto
il peso, e da errori enormi compiuti nella politica del suolo, del territorio,
dell’ambiente; o dalla trascuratezza nel campo della ricerca. C’è tutta
un’azione amplissima contro gli sprechi e per il risparmio in ogni campo che
avrebbe bisogno dello stimolo, della direzione, dell’iniziativa continua di un
governo che sapesse davvero esprimere l’autorevolezza politica e morale oggi
indispensabile.
Non è un
caso, certo, che tutto ciò sia mancato o sia stato carente, giacché un’azione
simile non si organizza solo con la propaganda, che pure va fatta, e non la si
fa abbastanza, ma richiede che siano individuati e colpiti precisi interessi
costituiti, una gran parte dei quali sta alla base del mantenimento del sistema
di potere della Democrazia cristiana.
Ma è
evidente, soprattutto pesa assai negativamente, l’angustia di prospettive che
caratterizza la politica di austerità chiesta e fatta finora dal governo. Sta
qui il punto di massima differenziazione tra noi e gli esponenti governativi e
i gruppi economici dominanti. In costoro, al fondo, vi è uno stato d’animo di
resa, cioè qualcosa che sta agli antipodi di ciò che occorrerebbe per ottenere
l’adesione convinta del popolo a certi sacrifici necessari. Il paese avrebbe
bisogno, per compiere uno sforzo adeguato, di veder chiaro davanti a sé, o
quanto meno di vedere chiari alcuni elementi fondamentali di una prospettiva
nuova. E invece gli esponenti delle vecchie classi dominanti e molti uomini del
governo, quando arrivano a tanto, non sanno andare più in là dell’obiettivo di
riportare l’Italia sugli stessi binari su cui procedeva lo sviluppo economico
prima della crisi.
Come se
quelle vie e quei modi dello sviluppo possano rappresentare ancor oggi un
ideale di società da perseguire, e come se, soprattutto, la crisi di questi
anni e di oggi non fosse esattamente la crisi di quel modello di società (crisi
in atto non solo in Italia, ma anche, in forme sia pure diverse, in altre
nazioni europee). È molto chiara per noi la ragione di queste carenze di
vigore, di coraggio, di respiro e di prospettiva nella politica di austerità di
cui prima ho parlato. In tali carenze noi vediamo l’evidenza di un processo
storico che è segnato dal declino irrimediabile della funzione dirigente della
borghesia e dalla conferma che tale funzione dirigente già comincia a passare
al movimento operaio, alle forze popolari unite: naturalmente a una classe
operaia, a masse popolari, che dimostrino la maturità necessaria per
presentarsi a provare al paese intero di essere una forza che democraticamente
guida l’intera società alla salvezza e alla rinascita. Ciò richiede che nelle
file stesse del movimento operaio, e nelle sue organizzazioni economiche e
politiche, si eserciti più ampiamente e più responsabilmente uno spirito
autocritico che porti al superamento di quegli atteggiamenti negativi e
fuorvianti, o di subalternità o di estremismo, che pesano in misura ancora non
trascurabile e che nel concreto, poi, ostacolano la soluzione positiva di
problemi di bruciante attualità, quali il risanamento economico, produttivo,
finanziario della società e dello Stato.
Per
impegnarci in un progetto di rinnovamento della società, e per fare la proposta
di mettersi al lavoro per definirlo, non potevamo attendere che, prima,
maturassero nei partiti le condizioni per un nostro ingresso nel governo.
Questa esigenza, lo ribadiamo, rimane più che mai aperta. Ma intanto e subito
noi abbiamo il dovere di prendere le opportune iniziative, che rispondono a non
rinviabili necessità di lotta del movimento operaio e a non procrastinabili
interessi generali del paese, anche nell’ambito dell’attuale quadro politico,
che, pur con tutte le sue insufficienze, è un quadro profondamente influenzato
dagli effetti positivi dell’avanzata popolare e comunista di questi anni, in particolare
di quella del 20 giugno.
La
proposta del progetto nasce anche da una esigenza interna al movimento operaio:
quella di evitare che non si comprendano bene le ragioni oggettive, l’obbligo
di una politica di austerità, oppure che si corra il rischio di adagiarsi nella
quotidianità, di assuefarsi al piatto tran-tran del giorno per giorno. Ma nasce
soprattutto da una esigenza generale, di tutta la nazione, di avere finalmente
un orizzonte diverso e dei concreti punti di riferimento.
La fase
attuale della nostra vita nazionale è certo gravida di rischi, ma essa offre a
noi tutti la grande occasione per un rinnovamento. Questa occasione non può
essere perduta: essa è la più grande, forse, – sia detto senza retorica, – che
si presenti al popolo italiano e alle sue più serie forze politiche da quando è
nata la nostra repubblica democratica.
Sta qui una peculiarità italiana, di
questo nostro paese dissestato, disordinato, si, ma vivo, carico di energie,
forte di un grande spirito democratico; di questa nostra Italia che è forse la
nazione nella quale la crisi è più grave che in altre zone del mondo
capitalistico (e non soltanto in senso economico, ma anche in quello politico,
di minaccia alle istituzioni democratiche), e nella quale, però, sono anche
maggiori che in molti altri paesi le possibilità per lavorare dentro la crisi
stessa, per farla diventare mezzo per un cambiamento generale della società.
La nostra
iniziativa non è dunque un atto di propaganda o di esibizione del nostro
partito. Vuole essere un atto di fiducia; vuole essere, ancora una volta, un
atto di unità, cioè un contributo che sollecita quello di altri partiti per
avviare un lavoro e chiamare ad un impegno comuni, che coinvolgano tutte le
forze democratiche e popolari.
Anche per
questo suo carattere e intento unitario, il nostro progetto non vuole essere,
non deve essere, io credo, un programma di transizione a una società
socialista: più modestamente, e concretamente, esso deve proporsi di delineare
uno sviluppo dell’economia e della società le cui caratteristiche e modi nuovi
di funzionamento possano raccogliere l’adesione e il consenso anche di quegli
italiani che, pur non essendo di idee comuniste o socialiste, avvertono
acutamente la necessità di liberare se stessi e la nazione dalle ingiustizie,
dalle storture, dalle assurdità, dalle lacerazioni a cui ci porta, ormai,
l’attuale assetto della società.
Ma chi
sente questo assillo e ha questa aspirazione sincera non può non riconoscere
che, per uscire sicuramente dalle sabbie mobili in cui rischia di essere
inghiottita l’odierna società, è indispensabile introdurre in essa alcuni
elementi, valori, criteri propri dell’ideale socialista.
Quando
poniamo l’obiettivo di una programmazione dello sviluppo che abbia come fine la
elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e sociale, non come mero individuo
contrapposto ai suoi simili; quando poniamo l’obiettivo del superamento di
modelli di consumo e di comportamento ispirati a un esasperato individualismo;
quando poniamo l’obiettivo di andare oltre l’appagamento di esigenze materiali
artificiosamente indotte, e anche oltre il soddisfacimento, negli attuali modi
irrazionali, costosi, alienanti e, per giunta, socialmente discriminatori, di
bisogni pur essenziali; quando poniamo l’obiettivo della piena uguaglianza e
dell’effettiva liberazione della donna, che è oggi uno dei più grandi temi
della vita nazionale, e non solo di essa; quando poniamo l’obiettivo di una
partecipazione dei lavoratori e dei cittadini al controllo delle aziende,
dell’economia, dello Stato; quando poniamo l’obiettivo di una solidarietà e di
una cooperazione internazionale, che porti a una ridistribuzione della
ricchezza su scala mondiale; quando poniamo obiettivi di tal genere, che cos
‘altro facciamo se non proporre forme di vita e rapporti fra gli uomini e fra
gli Stati più solidali, più sociali, più umani, e dunque tali che escono dal
quadro e dalla logica del capitalismo?
E
tuttavia questi criteri, questi valori, questi obiettivi, che indubbiamente
sono propri del socialismo, riflettono un’aspirazione che non è esclusivamente
della classe operaia e dei partiti operai, dei comunisti e dei socialisti, ma
esprimono un’esigenza che oggi può venire – e anzi, viene già – anche da
cittadini e strati di popolo e lavoratori di altre matrici ideali, di altri
orientamenti politici, in primo luogo di matrice e ispirazione cristiana; è
un’esigenza che può venire, e che viene in misura crescente, da aree sociali
ben più ampie, che vanno ben al di là della classe operaia. La ragione
principale per cui consideriamo la crisi come un’occasione, sta nel fatto che
obiettivi di trasformazione e di rinnovamento come quelli che ho ricordato
possono essere non solo compatibili, ma debbono e possono essere organicamente
compresi dentro una politica di austerità, che è la premessa indispensabile per
superare la crisi, ma andando avanti, non tornando al passato. Infatti, mi pare
sia evidente che quegli obiettivi contribuiscono a configurare un assetto
sociale e una politica economica e finanziaria organicamente diretti proprio
contro gli sprechi, i privilegi, i parassitismi, la dissipazione delle risorse:
realizzano, cioè, quello che dovrebbe costituire l’essenza di ciò che, per
natura e definizione è una vera politica di austerità.
Anzi, si
potrebbe osservare che come spesso, nelle società decadenti, sono andati, vanno
insieme e imperano le ingiustizie e lo scialo, così nelle società in ascesa
vanno insieme la giustizia e la parsimonia.
Naturalmente,
questa convinzione non ci fa dimenticare, ma anzi ci impegna ad affrontare
nella loro concretezza, i problemi immediati, le scelte da compiere, le
priorità da imporre in ogni campo della politica economica, finanziaria,
fiscale, dell’istruzione, allo scopo di prevenire i rischi di tracolli
improvvisi, di bruschi arretramenti e di garantire, invece, che, passo a passo,
si avanzi verso traguardi di efficienza e di giustizia, di produttività e di
socialità. La ricerca dei nessi che devono legare i provvedimenti immediati
all’avvio di questa linea di rinnovamento sarà certamente uno dei cimenti più
impegnativi di tutti noi e di quanti vorranno contribuire e partecipare
all’elaborazione compiuta di un progetto, che corrisponda alle caratteristiche
ed alle esigenze che abbiamo cercato di delineare a grandi tratti.
Il nostro
proposito è di arrivare nel giro di pochi mesi all’elaborazione di un testo che
rappresenti una prima base di dibattito e di confronto, ma è anche di
stimolare, prima e dopo la pubblicazione di tale testo, un vasto e continuo
impegno d’iniziativa e di lotta. Anche e proprio perché sentiamo tutta la
difficoltà di questa impresa, ma insieme anche la sua necessità e la sua forza
di suggestione, ci siamo rivolti a voi, ci rivolgiamo a tutte le forze
intellettuali affinché siano protagoniste – come ha detto Tortorella esponendo
questo tema in un modo giusto ed efficace – e di proposte ed iniziative volte a
ridare vitalità, a rinnovare le istituzioni culturali (a cominciare dalla
scuola, dall’università e dai centri di ricerca) e, al tempo stesso, affinché
diano il loro apporto alla elaborazione delle scelte complessive, e non solo di
quelle di settore, che devono essere alla base del progetto.
Un
appello, un invito cosi diretto ed esplicito alla cultura italiana ha oggi una
sua ben precisa ragione: infatti, da un lato, come sappiamo, le forze
intellettuali hanno oggi in Italia, come del resto hanno in quasi tutti i paesi
capitalistici più sviluppati, un peso sociale quale non avevano mai avuto nel
passato, e hanno anche, in Italia, in larghissima misura, un orientamento
politico democratico e di sinistra; ma accanto a tale dato positivo (Giulio
Einaudi ha messo bene in luce questa contraddizione) vi è quello, negativo,
della condizione di crisi, di decadimento, di mortificazione in cui sono state
precipitate le nostre istituzioni culturali dopo trent’anni di potere
democratico-cristiano e di sviluppo sociale distorto e squilibrato. Ed è
evidente che nessuna opera di salvezza e di rinnovamento generale del paese può
andare avanti senza superare questa crisi, senza sciogliere questa
contraddizione: senza, vorrei dire, una crescita del sapere e dell’amore per il
sapere, senza un rinnovamento degli strumenti del sapere, affinché la
produzione di cultura, e quindi le istituzioni culturali, siano artefici
anch’esse del risanamento e del rinnovamento di tutta la società.
II modo
in cui poniamo oggi la funzione della cultura per la trasformazione del paese
corrisponde a una tradizione, a una peculiarità del Partito comunista italiano,
come partito della classe operaia, come partito democratico e nazionale, come
grande organismo che è esso stesso produttore di cultura. Noi ci siamo battuti
sempre e ci battiamo per il progresso e l’espansione della vita culturale. Ma
in questo nostro impegno dobbiamo sempre guardarci da interventi che possano,
nella benché minima misura, ledere l’autonomia della ricerca teorica, delle
attività culturali, della creazione artistica, giacché queste hanno come
condizione vitale di sviluppo non quella di obbedire a un partito, a uno Stato,
a un’ideologia, ma quella di poter dispiegarsi in pienezza di libertà e di
spirito critico. Tale impostazione, che è parte della più generale visione che
noi abbiamo dei rapporti tra democrazia e socialismo, si distingue da quella di
alcuni partiti al potere in paesi socialisti; atteggiamenti e comportamenti del
potere politico quali quelli di cui si ha notizia (per esempio in Cecoslovacchia
dove siamo di fronte addirittura ad atti di tipo repressivo), sono per noi
inaccettabili in linea di principio. Interpretando questa posizione generale
del partito alcuni nostri compagni intellettuali hanno preso l’iniziativa di
una dichiarazione pubblica, che noi consideriamo giusta ed opportuna. Fa parte
irrinunciabile del nostro patrimonio una concezione che riconosce l’essere
compito del partito comunista, degli altri partiti democratici e dei pubblici
poteri, in quanto siano orientati anch’essi in senso democratico, da un lato la
creazione del clima politico morale e dall’altro lato, l’attuazione delle
condizioni materiali, pratiche, organizzative che consentano il positivo e
libero sviluppo della ricerca, della iniziativa e del dibattito culturale. Ma
non è compito né dei partiti, né dello Stato esigere obbedienze, far prevalere
concezioni del mondo, limitare in qualsiasi modo le libertà intellettuali.
Ed io,
cari compagni ed amici – non senza prima ringraziare tutti voi e in modo del
tutto particolare il compagno Argan, che è venuto a rappresentare la città di
Roma e la nuova amministrazione popolare romana – voglio concludere il mio
intervento proprio con la tranquilla conferma di questa nostra impostazione: da
essa non dobbiamo discostarci mai".
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