di Sabino Cassese
1. Uno dei maggiori giuristi europei del XX secolo
Uno
dei maggiori giuristi europei del XX secolo, Giannini non ha coltivato un solo campo,
spaziando dalla teoria del diritto al diritto costituzionale, al diritto
amministrativo, al diritto finanziario, a quello tributario. Egli è stato
convinto come pochi dell’unità del diritto. Ed ha anzi sostenuto che i cultori
di un solo ramo del diritto sono “giuristi di seconda serie”.
Giannini
ha sempre riconosciuto grande importanza al ruolo dei giuristi come analisti sociali
e come forza razionalizzatrice della società. Pochi come lui sono stati sicuri
della bontà del “dictum” schmittiano per cui “un popolo che non ha un ceto di
giuristi, non ha alcuna costituzione”1. Nello stesso tempo, aveva forte il
convincimento della importanza sociale dei dibattiti sull’organizzazione, per
cui questi sono diventati una discussione sulla politica e sulla società e non
possono essere lasciati ai soli tecnici dell’organizzazione. Donde il suo
continuo discorrere in pubblico, nei convegni, nelle riunioni politiche, nei dibattiti
giornalistici, dei temi dello Stato e della società.
Oscillante
continuamente tra storicismo e razionalismo, Giannini è stato innanzitutto un
realista. Ma un realista molto avvertito metodologicamente, consapevole delle
relazioni tra il “donné” e il “construit”, per cui la realtà è sempre legata al
nostro sistema concettuale, perché noi riflettiamo sia come le cose sono, sia i
nostri interessi e le nostre assunzioni sul modo in cui le cose sono.
Per
Giannini, quello del diritto amministrativo era un “difficilissimo mondo”,
“irto di distinzioni”. Per questo, cercava sempre il rovescio della medaglia e
disistimava i semplificatori.
Studioso
prestato alla politica, è stato progettista di molte nuove leggi, consulente ascoltato,
legislatore, ed ha aperto una nuova stagione di riforme amministrative. Nel suo
pessimismo ha trovato la forza di perseverare e di mantenere un’amara serenità.
2. Una vita tra lo studio e l’impegno civile
I
dati essenziali della sua vita sono i seguenti. Nato a Roma nel 1915, si laureò
ventunenne, lavorando sotto la guida di Santi Romano e di Guido Zanobini, ma in
continuo contatto con gli altri maestri della sua epoca (con il solo Cammeo –
come scrisse con rammarico molti anni dopo – ebbe esclusivamente un breve
incontro). Nel 1939 era già professore di ruolo, insegnando prima a Sassari,
poi a Perugia, a Pisa e, dal 1958, a Roma, dove è andato fuori ruolo nel 1985.
Ha tenuto insegnamenti non solo di diritto amministrativo, ma anche di diritto
costituzionale, di diritto ecclesiastico, di diritto finanziario e scienza
delle finanze, di teoria generale del diritto. E’ morto a Roma nel 2000.
Fu
allievo di Santi Romano, a sua volta pupillo di Vittorio Emanuele Orlando. Al primo
fu sempre molto legato, personalmente e idealmente. Si può dire, quindi, che
sia stato nel “mainstream” della cultura pubblicistica italiana. Ma – come
tutti i grandi giuristi, non ètato soltanto allievo di un altro giurista, è
anche stato allievo del suo secolo, che ha interpretato e criticato
magistralmente.
Ingegno
precocissimo, ha pubblicato ben due monografie, su temi importanti come l’interpretazione
e la discrezionalità, all’età di ventiquattro anni; alla stessa età ha
disegnato il programma della sua ricerca; ventiseienne discuteva con Capograssi
e Bobbio sull’interpretazione; appena trentenne era capo di gabinetto di Nenni
al Ministero per la costituente.
Autore
di non meno di seicento scritti, si è dedicato, in epoche varie della sua vita,
a quattro opere generali di diritto amministrativo, le “lezioni” del 1950,
quelle del 1960 –1964, il “corso” del 1965, il “diritto amministrativo” del
1970. In questa opere ha abbandonato, anzi superato la tradizionale distinzione
tra parte generale e parte speciale della materia, riuscendo a ridare unità ad
essa grazie alla inserzione della seconda nella prima, che ne risulta così
arricchita.
Sostenitore
dapprima della tesi del diritto amministrativo come sistema, è andato via via
attenuando e storicizzando questa idea di sistema. Autore della tesi – che ha
incontrato un grandissimo successo – del diritto amministrativo come conflitto
tra autorità e libertà, ha poi abbandonato questa ricostruzione, riconoscendo
che esso è ormai divenuto “corale”.
Oppositore
in un primo momento del privatismo portato nello studio del diritto pubblico,
si è poi convinto della larga penetrazione del diritto privato e dei suoi
moduli nel diritto amministrativo, ciò che richiedeva ai suoi cultori di
dotarsi della relativa strumentazione tecnica. Sempre critico della
pandettistica (ma con un atteggiamento critico crescente nel tempo), era
partito riconoscendo l’esistenza di dogmi atemporali per approdare alla tesi
che esistano soltanto invarianti, ovvero concetti che hanno maggior durata di
altri, ma pur sempre tratti dall’analisi del diritto positivo.
Formatosi
dapprima sugli autori della scuola tedesca – ma non i weimariani, la cui lettura
era sconsigliata da Santi Romano – fu uno dei primi a rivolgersi, per lo studio
giovanile sul potere discrezionale, alla cultura americana. Sempre in contatto
con i maggiori studiosi francesi (fu amico di Rivero, Vedel, Boulouis, Drago,
Braibant), fu particolarmente apprezzato ed ascoltato da spagnoli e
sud-americani. Fu attivo in quello che era allora un centro vivo di studi
giuridici e non giuridici dell’amministrazione, l’Istituto internazionale di
scienze amministrative.
Nel
1946, essendo egli iscritto al partito socialista, Pietro Nenni, ministro per
la costituente, lo volle suo capo di gabinetto. In tale veste svolse un lavoro
essenziale in preparazione della Costituzione. Presentò a Nenni Ugo Forti,
maestro napoletano, che venne incaricato di presiedere due commissioni sulla
organizzazione dello Stato. Fece tradurre e presentare al pubblico italiano
vecchie e nuove costituzioni italiane e straniere. Si valse di Demaria per una
commissione economica. Propugnò l’indagine sulla proprietà terriera e quella
sui monopoli, poi pubblicata in altra sede per le forti opposizioni che
incontrò.
Raccolse
intorno al Ministero il fior fiore della scienza giuridica. Elaborò e divulgò
idee, e attivò dibattiti intorno alla costituente. Se è vera la frase goethiana
per cui, per lasciare un segno nella storia, occorrono una buona testa e poter
profittare di una grande eredità, l’ingegno ben applicato e la fucina della
preparazione della nuova Italia costituivano ottime premesse.
Non
incluso tra i candidati all’Assemblea costituente, con grande rammarico suo e
di Costantino Mortati, collaborò all’Industria con Morandi nell’attività legislativa,
preparando in particolare il disegno di legge sui consigli di gestione. E
divenne suggeritore di Lelio Basso, attivo costituente.
Seguì
un periodo di disimpegno, quando gli entusiasmi iniziali scemarono e prevalse la
politica di potere; ma intraprese il mestiere di avvocato e non lasciò le vesti
di riformatore, specialmente in preparazione delle regioni (prima del 1970) e
in attuazione del trasferimento di funzioni ad esse. Fino a quando, nel 1979,
fu chiamato al governo come ministro per la funzione pubblica. Dal 1980, con
sua grande amarezza, uscì nuovamente di scena. Rimase sempre attivo, fino alla
morte, nella proposta e nella critica sui quotidiani, alla radio e alla
televisione, tentando anche, negli ultimi anni, con un manipolo di persone di cultura,
tra cui Federico Zeri, una sortita politica (battendosi nel 1990 per via
referendaria contro la partitocrazia e presentandosi alle elezioni politiche
del 1992). La sortita ebbe molta eco, ma fu un insuccesso.
3. Esploratore e geografo.
Giannini
ha contribuito a rinnovare molti campi di studio, esplorando terre sconosciute
o scarsamente note. A lui si devono le prime analisi e sistemazioni di
territori come il controllo del credito, l’impresa pubblica, gli interventi
speciali per le aree sottosviluppate, la tutela dell’ambiente, gli ordinamenti
sportivi, la protezione sociale, l’assetto della finanza pubblica, le decisioni
amministrative, il diritto cosmico, i rapporti tra futurologia e diritto, le
clausole costituzionali sul lavoro, i mercati comunali, le certezze pubbliche,
l’ordinamento della ricerca scientifica, l’organizzazione turistica.
È
stato scopritore inesausto di province inesplorate non solo per naturale
curiosità, ma anche per un più profondo motivo, che pose a programma della sua
prima prolusione, quella sassarese del 1940. Egli riteneva che la scienza del
diritto amministrativo, com’era coltivata dai suoi maestri, fosse rimasta
asfittica per deficienza nelle problematiche – come egli scrisse –; cioè perché
non aveva voluto aprire gli occhi sull’evoluzione del diritto positivo,
specialmente quella degli anni ’30. Di qui l’impulso ad andare a cercare norme,
istituti, procedure, a vagliarle, a raffrontare ad esse gli strumenti
concettuali, a verificare la forza di questi ultimi, a forgiare nuovi concetti.
Convinto
che occorresse “trarre il sistema dal reale” (ma egli stesso nel 1950 attribuiva
al suo maestro Romano il merito di aver usato il “metodo della diretta osservazione
dei fatti”), non si limitò all’esplorazione, ma fu anche geografo, perché
forgiò nuovi paradigmi. Dall’esame della giurisprudenza trasse la conclusione
che il potere discrezionale consistesse nella ponderazione di interessi
pubblici e privati, così ammettendo la multifinalità dello Stato. A lui si
devono – come già notato – le due formule del diritto amministrativo come
studio del conflitto autorità – libertà e dell’atto amministrativo come puntualizzazione
in un caso concreto dei rapporti autorità – libertà. Più tardi quella, meno incisiva
e insufficientemente sviluppata, della “coralità” del diritto amministrativo
(con questa egli voleva sottolineare il paradigma multipolare e non
antagonistico del “nuovo” diritto amministrativo).
Fu
autore della nozione di Stato pluriclasse, caratterizzato dal suffragio
universale e dagli istituti di protezione sociale. Applicò la teoria romaniana dell’ordinamento
a taluni settori, come quello del credito, parlando di “ordinamenti sezionali”,
di cui analizzò i profili costitutivi. Fu tra i primi a discernere, nella
congerie degli atti amministrativi, gli atti – provvedimento. Aprì la strada
alla riflessione sul pareggiamento del lavoro pubblico e di quello privato (che
darà successivamente anche frutti legislativi, anche se non tutti nella direzione
indicata da Giannini).
Di
altre nozioni, di uso corrente, ridefinì portata e dimensioni. Dette un più
rigoroso impianto alla nozione di ordinamento del suo maestro Romano,
individuandone i tre elementi costitutivi, organizzazione, pluri-soggettività e
normazione. Rivide concetti come quelli di autogoverno, autoamministrazione,
decentramento e autonomia, dandone una ridefinizione, che è oggi comunemente
accettata.
Ebbe
sempre presente l’idea della storicità del diritto e portò nella ricerca
giuridica un acuto interesse per la storia, sia quella delle “res gestae”, sia
quella delle idee, dedicandosi come pochi alla ricostruzione del passato di
istituti (come il Consiglio di Stato, gli interventi nelle aree
sottosviluppate, i mercati comunali, l’impiego pubblico), di persone (come
Cammeo o Zanobini), di idee (come l’idea di regione).
Fu
maestro ineguagliato nell’arte propria dei giuristi di distinguere,
classificare, ordinare, nonché in quella di problematizzare. Guardando sempre
con occhi nuovi una materia, era capace di farne vedere aspetti fin’allora
sconosciuti. Lo soccorsero, in quest’opera ricostruttiva, non solo
l’osservazione di realtà nuove e la piena padronanza degli strumenti
concettuali del giurista, ma anche la conoscenza delle tecniche delle altre
scienze sociali, che egli portava dentro all’analisi giuridica ogni volta che
era necessario, convinto che la scienza del diritto “trascrive in ordini
giuridici acquisizioni sociologiche” – come ebbe a scrivere –.
Un
segno di questa sua capacità di riannodare i fili spezzati della integrazione
delle scienze sociali si vede nella sua apertura ad altri lettori: scrisse su
“Società”, allora diretta da Carlo Muscetta e Gastone Manacorda, e su “Nord e
Sud”, diretta da Francesco Compagna.
Fu
tra i primi giuristi della generazione dei maestri a contribuire con i suoi
scritti a “Politica del diritto”, diretta da Stefano Rodotà. Collaborò al
Movimento Salvemini, specialmente sotto la spinta di Leopoldo Piccardi, che
aveva conosciuto da giovane nella biblioteca del Consiglio di Stato.
Grazie
agli studi giovanili, aveva una piena padronanza dei tradizionali “ferri del mestiere”.
Per la sua inclinazione alla filosofia (ma forse anche per l’insegnamento di
Santi Romano, maestro di rigore logico) aveva una forte attitudine
raziocinativa. L’esperienza al Ministero per la costituente e quella al
Ministero dell’industria gli avevano permesso di acquisire una conoscenza
diretta dei congegni amministrativi. Aveva perfezionato e aggiornato
quest’ultima con il modo particolarissimo di esercitare l’avvocatura, fornendo consulenza
anche su questioni minute ad enti locali, che si rivolgevano a lui proprio per l’attenzione
che prestava ad esse. L’abbondanza e varietà di letture gli consentivano di spaziare
su altri campi, dai quali amava trarre spunti per tornare al mestiere di
giurista ed arricchirlo.
Concorrevano
ad attrarre l’interesse del lettore la ricchezza del linguaggio e la qualità della
sua prosa, il modo fantasioso con il quale menzionava gli esempi più remoti, che
potevano apparire peregrini (ad esempio, evocando il volo di Bleriot sulla
Manica in una trattazione sulla sperimentazione scientifica7), sfruttando la
sua vasta cultura e le ampie letture, l’abilità di aprire sempre nuove
prospettive, l’inventiva, esercitata anche su temi che avrebbero suscitato il
rifiuto di altri giuristi (si pensi alle sue esplorazioni della tematica giuridica
del diritto cosmico, fatte in un’epoca nella quale l’esplorazione spaziale
aveva appena mosso i primi passi).
Non
conobbe il “labor limae”, ma non conobbe neppure riposo: la vita è stata per
lui il goethiano eterno rotolare di una pietra che ogni volta bisognava andare
a riprendere.
Ebbe,
in anni giovanili, molta innata dignità, unita a una amabile dolcezza (ma negli
anni della tarda maturità le amarezze e la solitudine ne cambiarono il
carattere, rendendolo persino irascibile). Fantasia aperta alla verità del
reale, quando si affacciò sulla scena precedette il suo tempo, e se lo trascinò
dietro. Ebbe avversari, molti per stupidità, altri per invidia, altri ancora
per mancanza di successo, pochi per differenza nel modo di pensare.
4. Un figlio della sua epoca.
Giannini
ha di gran lunga sopravanzato la sua epoca. Ma è stato, allo stesso tempo figlio
di essa. Proprio per questo ha confessato pubblicamente la sua particolare contraddittorietà.
Nessuno
come lui ha inserito nello studio del diritto riflessioni di carattere storico,
sociologico, politologico, di storia del pensiero. Pochi come lui sono stati
convinti della necessaria integrazione delle scienze sociali. Forse unico tra i
giuristi della sua generazione, ha sempre studiato anche il modo in cui sono
stati analizzati i diversi argomenti, convinto com’era che la vera scienza
riflette sempre anche su se stessa.
Eppure,
pur varcando continuamente i confini del giuridico in senso stretto, ogni volta
li segnava, per sottolineare le differenze e le distanze tra diritto e non
diritto. Si rifletteva in questo atteggiamento sia la antica preoccupazione,
risalente a Vittorio Emanuele Orlando, per la cosiddetta purezza del metodo
giuridico, sia la visione ottocentesca del riparto delle discipline.
Maestro
dell’antiformalismo quando dichiarava che occorresse “trarre il sistema dal reale”,
ne rimaneva, poi, prigioniero quando si dedicava alle grandi tassonomie, in cui
si rivelava la sua anima positivistica, la sua attitudine classificatoria. E
questa era accentuata da quell’idea di sistema di cui si è già detto. Un
sistema costruito con principi di materia e di settore, per poi passare a
principi di vertice, coincidenti con i principi generali del diritto.
Questa
concezione gerarchica, che isolava i singoli elementi dai loro contesti,
conduceva nuovamente alla posizione solitaria del giurista, lontano dalla
realtà e dall’integrazione con le altre scienze sociali.
Se
quest’idea di una scienza ben strutturata, ma, al fondo, statica, era temperata
in Giannini dalla peculiare attenzione per il diritto positivo e per la realtà
effettuale, l’altro “pregiudizio” ottocentesco, quello della dogmatica, ebbe in
Giannini – come s’è detto – una evoluzione particolare: partito come sostenitore
del metodo giuridico (su cui peraltro espresse sempre critiche, nel senso di
dire che esso non era un metodo, ma piuttosto un indirizzo o un programma) e
della dogmatica (come insieme di nozioni che prescindono dal dato positivo,
atemporali), si convertì più avanti alla tesi della necessaria storicità anche dell’apparato
concettuale generale del diritto e preferì parlare piuttosto di invarianti che
di dogmi.
5. “Ma tu pigia”: il riformatore.
Giannini
ha scritto, in un “cammeo” su Calamandrei, di averlo visitato nel periodo della
preparazione della Costituente per averne l’appoggio in vista della futura
Costituente. Di averlo poi trovato partecipe delle sue stesse preoccupazioni. E
di aver raggiunto con lui un’intesa per rimuovere con la persuasione i fantasmi
che si addensavano sulla Costituente. Calamandrei gli raccomandò: “ma tu
pigia”. E, dopo il successo del “referendum” gli disse soddisfatto: “vedi che
si è pigiato bene”.
In
tal senso, poche persone hanno “pigiato” per tutta la loro vita come Giannini.
A lui va fatta risalire la paternità di tanta parte della normativa del primo
cinquantennio repubblicano, dalla Costituzione alla disciplina delle regioni,
dalle norme sui beni culturali (anche se molte proposte furono tradite e i
risultati sperati non si videro).
Se
si percorrono i suoi scritti, si nota che il suo impegno critico e propositivo
è stato almeno pari a quello scientifico – ricostruttivo. Non c’è angolo del
diritto costituzionale e amministrativo sul quale non abbia espresso un
giudizio, valutato efficacia di norme e istituti, presentato proposte (con
particolare attenzione all’ordinamento dello Stato e alla giustizia
amministrativa). Questo monumento di giudizi e proposte ha spesso dato frutti concreti,
talora è stato dimenticato, frequentemente è stato attuato, ma anche tradito.
Giannini
stesso aspirò in tutta la vita ad un impegno più attivo, ma non cercando cariche,
bensì non sottraendosi ad esse quando gli venivano proposte, mèmore del detto
che esse non si sollecitano, ma non si rifiutano.
6. Il maestro.
Giannini
era convinto che da ogni generazione qualcosa passa ad un’altra generazione,
talora intatta, talora trasformandosi. Ebbe una scuola, se per questa
intendiamo un insieme di allievi, che furono tra loro troppo diversi per avere
un comune approccio al sapere. Conobbe la devozione dei discepoli e intorno a
lui volti giovanili furono luminosi come le molte luci di un candelabro. Aveva
un atteggiamento olimpico, goethiano; non dirigeva i suoi allievi e gli altri
numerosi giovani che accorrevano a lui, ma, conoscendo sommamente l’arte del
distinguere, trasformava i colloqui in una fitta trama di differenze, nella
quale l’interlocutore doveva orientarsi da solo.
Non
esercitò, invece, quell’altra arte dei maestri che è l’”ars nesciendi”, del non
sapere, del non poter dare un giudizio conclusivo, perché, per preparazione e
per natura, era piuttosto un “Besserwisser”, colui che sa sempre tutto meglio.
Pietro
Nenni, il 1 luglio 1946, terminata l’esperienza del Ministero per la
Costituente, scriveva a Giannini: “Nel prendere congedo da te esprimo il voto
che lo Stato repubblicano che sorge possa sempre contare sull’opera tua
nell’arduo compito che lo attende di formare una classe dirigente interamente
devota agli ideali della democrazia e dell’interesse della Nazione”. Giannini
ha adempiuto questo compito, in termini diversi da quelli auspicati dal “leader”
socialista, studiando ed educando.
Giannini
ha influenzato profondamente la sua epoca, sia come maestro universitario, sia
dialogando con l’opinione pubblica in un ambito più vasto, per il suo impegno
politico (questo limitato a due periodi brevi, il 1946 – 1947 e il 1979- 1980),
per l’attività giornalistica, la presenza nel dibattito pubblico. Ispiratore
della Costituzione, è stato in prima linea nella fase del “disgelo”
costituzionale, quando si trattò di attuare la carta. Ma ha aperto anche la
fase della critica della sua seconda parte, quella relativa all’organizzazione.
Nel
campo degli studi, ha aperto nuovi orizzonti, ampliato l’area delle analisi, moltiplicato
i punti di vista, invogliato ad usare tecniche nuove. Ha dato un colpo
definitivo al formalismo e al concettualismo. Ha indotto i giuristi ad usare
strumentari nuovi, quale quello della storia, per uscire dall’astrattismo. Ha
convinto i cultori del diritto ad abbandonare la netta separazione tra “jure
condito” e “jure condendo”.
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