Chissà che non esca domani al concorso per Funzionario del Comune di Roma (spes ultima dea)...
La "storica" sentenza in esame "fa ancora scuola" in
materia di ordinanze sindacali ex art. 54 co. 4
T.U.E.L.
Chissà che non esca davvero domani al concorso per Funzionario del Comune
di Roma...
Di seguito massima e sentenza per esteso.
MASSIMA
Sicurezza pubblica - Attribuzione al sindaco, quale ufficiale del Governo,
del potere di adottare provvedimenti finalizzati a prevenire ed eliminare gravi
pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, anche
fuori dai casi di contingibilità e urgenza - Omessa delimitazione della
discrezionalità amministrativa, con conseguente violazione delle riserve
relative di legge in materia di prestazioni personali o patrimoniali imposte ai
consociati e di organizzazione dei pubblici uffici allo scopo di assicurare
l'imparzialità della pubblica amministrazione - Lesione del principio di
uguaglianza dei cittadini davanti alla legge - Illegittimità costituzionale in
parte qua - Assorbimento delle altre censure.
E' costituzionalmente illegittimo, per violazione
degli artt. 3, primo comma, 23 e 97 Cost., l'art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali), come sostituito dall'art. 6 del decreto-legge 23 maggio
2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge
24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprende la locuzione «, anche»
prima delle parole «contingibili e urgenti». Tale disposizione - attribuendo
ai sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, le
quali, pur non potendo derogare a norme legislative o regolamentari vigenti,
si presentano come esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun
limite, se non quello finalistico - viola, da un lato, la riserva di legge
relativa di cui all'art. 23 Cost., in quanto non prevede una qualunque
delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello
dell'imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di
libertà dei consociati; dall'altro, viola l'ulteriore riserva di legge
relativa di cui all'art. 97 Cost., poiché la pubblica amministrazione può
soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a
quanto in via generale è previsto dalla legge; e viola, infine, anche l'art.
3, primo comma, Cost., giacché, in assenza di una valida base legislativa,
gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o
illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale
rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci. Sulla medesima
disposizione di legge v. la sentenza n. 196 del 2009. Sulla riserva di legge
di cui all'art. 23 Cost., v., tra le altre, le sentenze n. 105 del 2003 e n.
190 del 2007.
SENTENZA PER ESTESO
SENTENZA N. 115
ANNO 2011
Intestazione
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta
dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio
FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano
SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe
FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito
dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, promosso dal Tribunale
amministrativo regionale per il Veneto, nel procedimento vertente tra
l’associazione «Razzismo Stop» onlus e il Comune di Selvazzano Dentro ed
altri, con ordinanza del 22 marzo 2010, iscritta al n. 191 del registro
ordinanze 2010, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26,
prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti l’atto di costituzione della associazione
«Razzismo Stop» onlus, nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2011 il
Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi gli avvocati Francesco Caffarelli per
l’associazione «Razzismo Stop» onlus e l’avvocato dello Stato Gabriella
Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il
Veneto, con ordinanza del 22 marzo 2010, ha sollevato – in riferimento agli
artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17, 18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97, 113,
117 e 118 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), come sostituito
dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui consente che
il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotti provvedimenti a «contenuto
normativo ed efficacia a tempo indeterminato», al fine di prevenire e di
eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza urbana, anche fuori dai
casi di contingibilità e urgenza.
In particolare, la norma indicata sarebbe
illegittima «nella parte in cui ha inserito la congiunzione “anche” prima delle
parole “contingibili e urgenti”».
Nel giudizio principale è censurato un provvedimento
sindacale con il quale si è fatto divieto di «accattonaggio» in vaste zone
del territorio comunale, prevedendo, per i trasgressori, una sanzione
amministrativa pecuniaria, con possibilità di pagamento in misura ridotta
solo per le prime due violazioni accertate. Oggetto del divieto, in
particolare, è la richiesta di denaro in luoghi pubblici, effettuata «anche»
in forma petulante e molesta, di talché il provvedimento sindacale si
estende, secondo il rimettente, alle forme di mendicità non «invasiva o
molesta».
1.1. – Il giudizio a quo è stato introdotto dal
ricorso di una associazione onlus denominata «Razzismo Stop», che ha dedotto
molteplici vizi del provvedimento impugnato. Tale provvedimento sarebbe stato
deliberato, anzitutto, in violazione del principio di proporzionalità, nonché
dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 e dell’art. 3 della legge 7
agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e
di diritto di accesso ai documenti amministrativi). In particolare, non
risulterebbe allegato e documentato alcun grave pericolo per l’incolumità
pubblica e la sicurezza urbana, e non sussisterebbero quindi, nel caso
concreto, le necessarie condizioni di contingibilità e urgenza. L’atto
impugnato sarebbe illegittimo anche in forza della sua efficacia a tempo
indeterminato, incompatibile, appunto, con i limiti propri delle ordinanze
contingibili e urgenti.
Farebbero inoltre difetto, nella specie, i requisiti
di proporzionalità e coerenza, posto che almeno il divieto di mendicità «non
invasiva» contrasterebbe con le «statuizioni» della sentenza della Corte
costituzionale n. 519 del 1995 (dichiarativa della parziale illegittimità
dell’art. 670 del codice penale) e con le indicazioni recate dal decreto
ministeriale 5 agosto 2008 (deliberato dal Ministro dell’interno a norma del
comma 4-bis dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000), che si riferiscono solo
a forme di mendicità moleste, o attuate mediante lo sfruttamento di minori o
disabili.
La previsione della confisca del denaro versato in
violazione del divieto, a titolo di sanzione accessoria, avrebbe derogato
alle norme del codice civile in materia di donazione ed ai criteri di
proporzionalità e pari trattamento. Inoltre sarebbe illegittima, sempre
secondo l’associazione ricorrente, la deroga alle disposizioni ordinarie in
materia di ammissione al pagamento in misura ridotta per le infrazioni
amministrative (art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante
«Modifiche al sistema penale»).
1.2. – Il Comune interessato, secondo quanto
riferito dal Tribunale rimettente, si è costituito nel giudizio
amministrativo, chiedendo fosse dichiarata l’inammissibilità del ricorso.
L’eccezione è stata respinta dal giudice adito con provvedimento del 4 marzo
2010, mentre è stata accolta la domanda, proposta dalla ricorrente, per una
sospensione cautelare degli effetti del provvedimento impugnato.
1.3. – Il giudice a quo osserva preliminarmente, in
punto di rilevanza della questione, che sussiste la legittimazione al ricorso
dell’associazione «Razzismo Stop», la quale risulta da lungo tempo impegnata,
anche nello specifico ambito territoriale, in azioni mirate allo sviluppo dei
diritti umani e civili, della solidarietà nei confronti degli indigenti e
della integrazione in favore degli stranieri. La stessa associazione,
inoltre, è iscritta all’elenco ed al registro previsti rispettivamente dagli
artt. 5 e 6 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 (Attuazione della
direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica).
Il rimettente evidenzia, in particolare, che le
associazioni iscritte in un apposito elenco (approvato con decreto del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari
opportunità) sono legittimate ad agire, anche in assenza di specifiche
deleghe, nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano
individuabili in modo diretto e immediato le persone offese dal comportamento
discriminatorio. La ricorrente è poi iscritta nel registro, istituito presso
la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le pari
opportunità, delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo
della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di
trattamento, e che rispondono a determinate caratteristiche di stabilità ed
affidabilità.
La pertinenza del provvedimento impugnato al tema
della discriminazione su base razziale, nella prospettazione del rimettente,
deriva dal chiaro rapporto tra «accattonaggio», povertà ed esclusione
sociale, e dal rischio elevato che in tali condizioni si trovino persone
nomadi o migranti, appartenenti a gruppi etnici minoritari. D’altro canto –
prosegue il Tribunale – la legge sanziona anche la discriminazione esercitata
in forma indiretta, e cioè i casi nei quali «una disposizione, un criterio,
una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri
possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una
posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (art. 2, comma
1, lettera b, del d.lgs. n. 215 del 2003). Esattamente quel che accadrebbe
nella specie, ove un divieto, pure formalmente riferibile alla generalità dei
dimoranti nel territorio comunale interessato, avrebbe assunto specifico e
particolare rilievo per gli appartenenti a minoranze etniche ed a gruppi di
migranti.
Ciò premesso, il rimettente valuta che sussistano
l’interesse e la legittimazione ad agire della onlus «Razzismo Stop», posta
l’integrazione, nel caso concreto, dei criteri elaborati dalla stessa
giurisprudenza amministrativa (posizione dell’ente quale stabile punto di
riferimento del gruppo portatore dell’interesse pregiudicato, corrispondenza della
tutela di detto interesse alle finalità annoverate nello statuto della
formazione, collegamento specifico e non occasionale con l’ambito
territoriale interessato dalla lesione denunciata).
La natura fondamentale del diritto eventualmente
violato, e la previsione ad opera della legge di una specifica azione civile
contro gli atti discriminatori (art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286,
recante «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero»), non varrebbero
ad escludere, sotto un diverso profilo, l’ammissibilità del ricorso al
giudice amministrativo. Questi può infatti conoscere vizi dell’atto che
risultino pertinenti alla lesione di diritti fondamentali della persona (è
citata, tra l’altro, la sentenza della Corte costituzionale n. 140 del 2007).
Al tempo stesso, la disponibilità di un mezzo specifico di tutela contro i
fatti di discriminazione non potrebbe inibire il ricorso agli ordinari
strumenti di garanzia nei confronti della pubblica amministrazione.
1.4. – Il Tribunale amministrativo del Veneto
osserva, sempre in punto di rilevanza della questione, come le censure della
ricorrente siano prevalentemente costruite sulla carenza delle condizioni di
contingibilità ed urgenza per l’adozione del provvedimento impugnato. Il
Comune resistente, dal canto proprio, ha rivendicato la legittimazione del
sindaco ad emettere ordinanze ad efficacia non limitata nel tempo,
evidenziando il contenuto innovativo della disposizione applicata, che consente
ormai l’adozione di ordinanze «anche» contingibili e urgenti, e dunque non
solo di provvedimenti destinati a regolare situazioni transitorie od
eccezionali.
Il giudice a quo ritiene che, in ragione
dell’attuale sua formulazione, la norma censurata conferisca effettivamente
al sindaco, in assenza di elementi utili a delimitarne la discrezionalità, un
potere normativo vasto e indeterminato, idoneo ad esplicarsi in deroga alle
norme di legge ed all’assetto vigente delle competenze amministrative, semplicemente
in forza del dichiarato orientamento a fini di protezione della sicurezza
urbana. Proprio tale potere sarebbe stato esercitato nella specie, fuori da
concrete condizioni di contingibilità e urgenza, cosicché l’accoglimento
della questione sollevata esplicherebbe sicuri effetti sulla decisione del
ricorso.
1.5. – A parere del rimettente la portata della
norma oggetto di censura non sarebbe suscettibile di un’interpretazione
restrittiva, che valga a recuperarne la compatibilità con i parametri
costituzionali evocati.
Sarebbe inequivoco, in particolare, il significato
letterale e logico che alla norma deriva dall’inserimento della congiunzione
«anche», tale appunto da estendere la competenza sindacale a provvedimenti
non contingibili e urgenti. Detto inserimento non potrebbe d’altra parte
definirsi casuale o «involontario», dato che deriva dall’approvazione di uno
specifico emendamento del Governo nel corso dei lavori parlamentari per la
conversione del decreto-legge n. 92 del 2008.
La possibilità per il sindaco di adottare
provvedimenti efficaci a tempo indeterminato sull’intero territorio comunale
conferirebbe alle «nuove» ordinanze una marcata valenza normativa,
indipendentemente dalla formale persistenza dell’obbligo di motivazione, che
la legge del resto esclude per gli atti normativi e quelli a contenuto generale
(è citato il comma 2 dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990).
Non potrebbe d’altro canto condividersi
l’orientamento restrittivo che, muovendo dalla perdurante necessità di
osservanza dei principi generali dell’ordinamento, include tra detti principi
quello della tipicità e della conformità alla legge degli atti
amministrativi, della riserva di legge e della competenza. La soluzione,
nella sua attitudine ad escludere ogni iniziativa extra ordinem del sindaco,
«anche» per i casi di contingibilità e urgenza, finirebbe col sopprimere una
risorsa tradizionale e indispensabile allo scopo di fronteggiare gravi
pericoli che incombano sulla sicurezza dei cittadini e non siano governabili
mediante gli strumenti ordinari.
La Corte costituzionale, già chiamata a valutare in
diversa prospettiva la legittimità della norma censurata, avrebbe
riconosciuto la portata essenzialmente normativa dei nuovi poteri conferiti
al sindaco, là dove ha evidenziato la possibilità che questi emani anche
«provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di
incolumità pubblica e sicurezza urbana» (è citata la sentenza n. 196 del
2009).
Il rimettente ricorda come la stessa Corte,
pronunciando sulla norma concernente i poteri di ordinanza del prefetto (art.
2 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza»), abbia dapprima optato per una
sentenza interpretativa di rigetto, in base all’assunto che detta norma non
conferisse il potere di emanare provvedimenti ad efficacia illimitata nel
tempo (sentenza n. 8 del 1956). Qualche anno dopo, tuttavia, la Corte ha
constatato il perdurare della prassi prefettizia di adottare ordinanze a
carattere permanente, e per tale ragione si è determinata ad una
dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale della norma censurata
(sentenza n. 26 del 1961).
Il Tribunale assume che un fenomeno analogo
segnerebbe le «nuove» ordinanze sindacali, posto che numerosi provvedimenti
sono stati deliberati, in applicazione del comma 4 dell’art. 54, con il più
vario oggetto, spesso imponendo divieti od obblighi di tenere comportamenti
significativi sul piano religioso o su quello delle tradizioni etniche. Una
«interpretazione adeguatrice» risulterebbe quindi «impraticabile», a fronte
di una realtà che vede esercitare in modo incontrollato poteri di normazione,
secondo le opzioni politiche individuali dei sindaci, su materie inerenti ai
diritti ed alle libertà fondamentali.
1.6. – Nel merito, secondo il rimettente, la
disposizione oggetto di censura, interpretata come impone la presenza della
congiunzione «anche» prima delle parole «contingibili e urgenti»,
contrasterebbe con i principi costituzionali di legalità, tipicità e
delimitazione della discrezionalità, enucleabili dagli artt. 23, 97, 70, 76,
77 e 117 Cost. (sono citate, quali decisioni della Corte costituzionale che
avrebbero «chiaramente sancito» il rilievo costituzionale dei principi
richiamati, le sentenze n. 8 del 1956, n. 26 del 1961, n. 4 del 1977 e n. 201
del 1987).
Contingibilità e urgenza, infatti, dovrebbero
rappresentare «presupposto, condizione e limite» per una disciplina che
consenta il superamento, sia pure nell’ambito dei principi generali
dell’ordinamento, delle disposizioni vigenti in rapporto ad una determinata
materia, e che attribuisca un potere siffatto «in capo ad un organo
monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato». Per tale ragione,
le norme in materia di ordinanze dovrebbero assicurare indefettibilmente il
contenuto provvedimentale delle medesime, in rapporto all’obbligo di
motivazione e all’efficacia nel tempo.
Anche nel caso di provvedimenti a contenuto
normativo – prosegue il rimettente – non sarebbe consentita alcuna funzione
innovativa del diritto oggettivo, ma solo una funzione di deroga, in via
eccezionale e provvisoria, alle norme ordinarie. La disposizione censurata,
invece, avrebbe disegnato una vera e propria fonte normativa, libera nel
contenuto ed equiparata alla legge, così violando tutte le regole
costituzionali che riservano alle assemblee legislative il compito di emanare
atti aventi forza e valore di legge (artt. 23 e 97, nonché artt. 70, 76, 77 e
117 Cost.).
1.7. – Il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del
2000, a parere del giudice a quo, viola anche la riserva di legge ed il
principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative
(artt. 3, 23 e 97 Cost.).
L’art. 23 Cost., in particolare, stabilisce che le
prestazioni personali e patrimoniali sono imposte ai singoli in base alla
legge. Tale riserva è solo relativa, ma la giurisprudenza costituzionale
avrebbe da tempo chiarito come gli spazi discrezionali per la pubblica
amministrazione non possano estendersi all’oggetto della prestazione ed ai
criteri per identificarla (sono citate le sentenze n. 4 del 1957 e n. 447 del
1988).
La norma censurata, invece, avrebbe attribuito un
potere normativo sganciato dai presupposti fattuali della contingibilità ed
urgenza, dunque tendenzialmente illimitato e capace di incidere sulla libertà
dei singoli di tenere ogni comportamento che non sia vietato dalla legge. Una
indeterminatezza non ridotta, nella prospettazione del rimettente, dal
decreto ministeriale adottato (il 5 agosto 2008) a norma del comma 4-bis
dello stesso art. 54, dato che il provvedimento sarebbe a sua volta generico,
e privo di una chiara definizione del concetto di «sicurezza urbana».
A conferma della situazione descritta varrebbe,
ancora una volta, la casistica dei provvedimenti assunti in applicazione
della norma censurata: da casi di sovrapposizione con norme penali (come per
talune ordinanze che vietano la vendita di alcolici a minori infrasedicenni o
proibiscono la cessione di stupefacenti) a casi nei quali vengono incise
libertà fondamentali direttamente garantite da precetti costituzionali.
Assumerebbero particolare rilievo, in tale prospettiva, l’art. 13 Cost. in
materia di libertà personale, l’art. 16 Cost. sulla libertà di circolazione e
soggiorno, l’art. 17 Cost. sulla libertà di riunione, l’art. 41 Cost. in
materia di iniziativa economica (è fatto a questo proposito l’esempio di
ordinanze che fissano limiti minimi di reddito, ed obblighi di documentazione
circa la fonte, per ottenere iscrizioni anagrafiche). Anche la potestà
legislativa riservata alle Regioni sarebbe direttamente vulnerata (art. 117
Cost.).
1.8. – La possibilità, introdotta dalla norma
censurata, che l’esercizio di diritti fondamentali della persona venga
diversamente regolato sulla ristretta base territoriale dei singoli Comuni
comporta, secondo il Tribunale amministrativo del Veneto, un irragionevole
frazionamento, ed un regime di disuguaglianza incompatibile con l’art. 3
Cost. Sarebbero violati inoltre i principi di unità ed indivisibilità della
Repubblica (art. 5 Cost.), di legalità (art. 97 Cost.), di riparto delle
funzioni amministrative (art. 118 Cost.).
1.9. – A parere del rimettente la capacità
«invasiva» che il comma 4 dell’art. 54 conferisce ai provvedimenti sindacali
rispetto a materie riservate alle attribuzioni consiliari (come ad esempio il
regolamento di polizia urbana) comporta un’irragionevole alterazione del
riparto di competenze all’interno della stessa organizzazione comunale.
L’assunzione delle decisioni spettanti all’assemblea, che rappresenta la
generalità dei cittadini, da parte di un organo monocratico che nella specie
agisce quale ufficiale di Governo, «finisce per contraddire» la necessità di
pluralismo della quale sono espressione gli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e
49 Cost.
1.10. – Sarebbero violati infine, secondo il
Tribunale, gli artt. 24 e 113 Cost., in ragione della vastità e della
indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco, tali da rendere
eccessivamente difficoltosa la possibilità di un sindacato giurisdizionale
effettivo delle singole fattispecie.
2. – Con atto depositato il 20 luglio 2010, è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
La difesa statale, dopo aver riassunto le questioni
proposte dal rimettente, chiede che le stesse siano dichiarate inammissibili
o infondate.
2.1. – La norma censurata avrebbe potenziato gli
strumenti a disposizione del sindaco alla luce dell’esigenza di valorizzare
il ruolo degli enti locali anche in materia di sicurezza pubblica (è citata,
in proposito, la relazione al decreto-legge n. 92 del 2008).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 196 del
2009, avrebbe già rimarcato come la novella abbia introdotto, al fianco del
potere di provvedere in situazioni di contingibilità e urgenza, la
possibilità per i sindaci «di adottare provvedimenti di ordinaria
amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza
urbana». Lo stesso art. 54, d’altra parte, avrebbe fissato alcuni parametri
di contenimento e indirizzo del potere sindacale. Sarebbe infatti richiesta
una situazione di «pericolo, attuale o potenziale, di minaccia all’incolumità
pubblica e alla sicurezza urbana». Il pericolo, in tale contesto, dovrebbe
essere «grave», ed il provvedimento dovrebbe assicurare, per essere
legittimo, una «funzione risolutiva». Di tali condizioni l’ordinanza del
sindaco dovrebbe dare conto nella relativa motivazione, espressamente
richiesta dalla legge.
Proprio dall’obbligo di motivazione, secondo
l’Avvocatura generale, dovrebbe desumersi l’erroneità dell’assunto che
attribuisce la valenza di provvedimento normativo alle nuove ordinanze.
D’altro canto il dovere di osservanza dei principi generali dell’ordinamento
implicherebbe la necessaria applicazione dei criteri di proporzionalità e di
ragionevolezza, inteso quest’ultimo come elemento di coerenza interna del
provvedimento sindacale e di sua congruenza rispetto alla fattispecie da
regolare.
Una ulteriore definizione dell’ambito applicativo
della norma censurata è poi intervenuta, secondo la difesa statale, ad opera
del d.m. 5 agosto 2008, cui la giurisprudenza amministrativa avrebbe già
riconosciuto tale efficacia e la capacità di contemperare esigenze locali e
carattere unitario dell’ordinamento. Il decreto in particolare, con le
previsioni contenute nelle lettere da a) ad e) dell’art. 2, avrebbe
delimitato specifiche aree di intervento, tutte riconducibili all’attività di
prevenzione e repressione dei reati, di competenza esclusiva dello Stato (è
citata la sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2009). Lo stesso
decreto, inoltre, prescriverebbe che l’azione amministrativa «si eserciti nel
rispetto delle leggi vigenti», ponendo quindi un ulteriore e più stringente
limite, tale da escludere la funzione normativa delle ordinanze, e da
configurare le medesime quali strumenti per concrete prescrizioni a tutela
della vita associata.
L’indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco
sarebbe esclusa anche in forza della necessaria interlocuzione preventiva con
il prefetto, che varrebbe ad assicurare l’efficace coordinamento tra competenze
locali e competenze statali, ulteriormente favorito dalle possibilità di
intervento sostitutivo e di convocazione della conferenza prevista dal comma
5 dello stesso art. 54.
Tale ultima norma, in definitiva, avrebbe
semplicemente perfezionato l’inserimento dell’ente locale nel sistema
nazionale della sicurezza pubblica, senza alcuna violazione dei principi di
legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità.
3. – Con atto depositato il 15 giugno 2010, si è
costituita nel giudizio l’associazione onlus «Razzismo Stop», in persona del
Presidente in carica, costituito allo scopo procuratore speciale
dall’assemblea dei soci.
Secondo la parte privata, la norma censurata
dovrebbe essere dichiarata costituzionalmente illegittima.
3.1. – Il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del
2000, in effetti, avrebbe dato vita ad una fonte normativa «libera», di
valore equiparato a quello della legge, con conseguente violazione della
riserva di legge di cui agli artt. 23 e 97 Cost., e delle competenze
legislative che la Costituzione affida in via esclusiva alle assemblee
elettive dello Stato e delle Regioni (artt. 70, 76, 77 e 117 Cost.).
La giurisprudenza costituzionale avrebbe già
chiarito – si osserva – che solo situazioni straordinarie e temporanee
possono legittimare l’assunzione di poteri extra ordinem da parte delle
autorità amministrative. La norma censurata consentirebbe invece veri e
propri atti di normazione a carattere generale, come documentato dallo stesso
caso di specie (ove è stato introdotto a tempo indeterminato, mediante
ordinanza sindacale, un divieto di donazione). La legge non delimiterebbe, in
particolare, né l’oggetto né i margini discrezionali della potestà conferita
al sindaco, una volta reciso il legame con i presupposti fattuali della
contingibilità ed urgenza, ed una volta stabilito quale unico limite
contenutistico la necessaria osservanza dei principi generali
dell’ordinamento (senza che possano valere, in senso contrario, le generiche
indicazioni provenienti dal decreto ministeriale del 5 agosto 2008).
In questo contesto, oltre che i parametri espressivi
del principio di legalità (l’art. 23 e l’art. 97 Cost.), la parte costituita
evoca il principio di legalità sostanziale, argomentando come la riconosciuta
possibilità di introdurre precetti assistiti da una sanzione possa condurre
ad arbitrarie limitazioni delle libertà individuali (art. 3 Cost.).
3.2. – Al sindaco sarebbe stata riconosciuta
addirittura, secondo l’associazione «Razzismo Stop», la possibilità di sovrapporre
proprie arbitrarie prescrizioni alle norme penali e, comunque, alle regole di
garanzia dei diritti individuali. La norma censurata determinerebbe quindi
una violazione di competenze esclusive dello Stato, in contrasto con gli
artt. 13, 16, 17 e 41 Cost., nonché (quanto alle competenze legislative
regionali) con l’art. 117 Cost. Non sono legittimi – si osserva –
provvedimenti non legislativi che conculchino libertà individuali, fino a
disciplinare «a livello condominiale» una variabile conformazione di obblighi
e divieti.
Lo stesso inevitabile frazionamento delle fonti, con
regole di comportamento diverse su ristretta base territoriale, in violazione
del principio di pari garanzia delle libertà fondamentali, implicherebbe la
pratica impossibilità per i consociati di conoscere e rispettare le regole
vigenti in tutte le porzioni di territorio da loro attraversate. Di qui
l’asserita violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), di
«uguaglianza di cui all’art. 2» Cost., di unità ed indivisibilità della
Repubblica (art. 5 Cost.), di legalità (art. 97 Cost.), di riparto delle
funzioni amministrative (art. 118 Cost.).
3.3. – L’associazione costituita in giudizio
riprende anche le osservazioni del rimettente circa l’attrazione alla
competenza sindacale di scelte e provvedimenti che, per la loro natura
normativa, dovrebbero essere rimessi alla dialettica ed al pluralismo tipici
dell’assemblea comunale elettiva. Un’attrazione che, oltretutto, il sindaco
esercita in quanto ufficiale del Governo, sganciandosi finanche dal «mandato»
che gli deriva in esito alle elezioni municipali. Viene prospettata, di
conseguenza, una violazione degli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost.
3.4. – Da ultimo, la parte privata prospetta una
concomitante violazione degli artt. 24 e 113 Cost., posto che vastità ed
indeterminatezza dei poteri conferiti al sindaco sarebbero tali da rendere
eccessivamente difficoltoso l’esercizio di un sindacato giurisdizionale
effettivo delle singole fattispecie.
4. – In data 22 febbraio 2011, la stessa
associazione «Razzismo Stop» ha depositato una memoria, insistendo affinché
sia dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del
d.lgs. n. 267 del 2000, in riferimento agli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17,
18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97, 113, 117 e 118 Cost.
La memoria ribadisce gli argomenti già proposti con
l’atto di costituzione. Si aggiunge che l’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000
sarebbe illegittimo anche nella parte in cui attribuisce al Ministro
dell’interno il potere di regolamentare l’ambito applicativo dei nuovi poteri
sindacali, e dunque una funzione normativa non conforme all’ordinamento
costituzionale. Tra l’altro, il decreto ministeriale 5 agosto 2008 avrebbe
introdotto anche disposizioni innovative rispetto alla stessa previsione
censurata, così palesando ulteriori profili di illegittimità.
La correttezza delle ordinanze extra ordinem
legittimate dalla novella del 2008 non sarebbe assicurata, secondo la parte
privata, né dalla troppo generica prescrizione del rispetto dei principi
generali dell’ordinamento, né dalla necessaria interlocuzione del sindaco con
il prefetto. Tale interlocuzione non integra un rapporto di subordinazione
gerarchica tra il primo ed il secondo, né una immedesimazione organica tra il
sindaco e l’Amministrazione dell’interno. Tanto che – si osserva – la
giurisprudenza riferisce al Comune, e non allo Stato, la responsabilità
risarcitoria per danni derivati da ordinanze contingibili e urgenti (è citata
la sentenza del Consiglio di Stato n. 4529 del 2010).
5. – In data 1° marzo 2011 il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, ha depositato memoria, al fine di ribadire la richiesta d’una
pronuncia di inammissibilità e, comunque, di infondatezza delle questioni
sollevate.
La difesa statale assume, nell’occasione, che la
norma censurata, pur nella versione scaturita dal recente intervento di
riforma, avrebbe conservato sostanzialmente l’impianto originario. In
particolare, aumentando poteri già tipicamente riconosciuti al sindaco quale
ufficiale di Governo, la norma avrebbe implementato gli strumenti di raccordo
tra l’azione sindacale e l’attività del prefetto, cui la legge attribuisce
funzione di interlocuzione preventiva, di sostituzione e di stimolo. Sarebbe
dunque smentito l’assunto del rimettente circa l’ampiezza e
l’indeterminatezza dei provvedimenti oggi consentiti al sindaco.
La norma censurata – si ammette – configura una
nuova classe di provvedimenti «ordinari», non condizionati dalla
contingibilità e dall’urgenza. Tali provvedimenti, tuttavia, sarebbero
vincolati nel fine, dovrebbero rispettare i «principi fondamentali»
(espressi, secondo la memoria, dalle norme costituzionali, sovranazionali e
comunitarie), principi tra i quali sono comprese la proporzionalità e la
ragionevolezza, e infine richiederebbero adeguata motivazione (dal che
risulterebbe smentita la loro natura normativa). La discrezionalità
riconosciuta al sindaco sarebbe ulteriormente limitata, sempre a parere del Presidente
del Consiglio dei ministri, dalle definizioni e dalle prescrizioni contenute
nel decreto del Ministro dell’interno in data 5 agosto 2008.
La pertinenza della fonte alla materia della
sicurezza pubblica, ribadita dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
226 del 2010, varrebbe a documentare che i provvedimenti sindacali non
servono «a introdurre nuove discipline tendenzialmente generali, ma
contengono le misure concrete» volte ad assicurare «il risultato
dell’effettivo rispetto delle norme poste da altre fonti a tutela della vita
associata». Non solo, quindi, sarebbe confermata la compatibilità tra la
norma censurata e la previsione costituzionale di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera h), Cost., ma andrebbe «superato ogni dubbio di indeterminatezza»
della norma medesima.
Infine, e comunque, la piena sindacabilità delle
ordinanze in sede giurisdizionale, confermata dalla giurisprudenza già
pronunciatasi in materia, renderebbe inammissibili le questioni sollevate dal
Tribunale amministrativo veneto.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il
Veneto, con ordinanza del 22 marzo 2010, ha sollevato – in riferimento agli
artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17, 18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97, 113,
117 e 118 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), come sostituito
dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui consente che
il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotti provvedimenti a «contenuto
normativo ed efficacia a tempo indeterminato», al fine di prevenire e di
eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza urbana, anche fuori dai
casi di contingibilità e urgenza.
In particolare, la norma indicata sarebbe
illegittima «nella parte in cui ha inserito la congiunzione “anche” prima
delle parole “contingibili e urgenti”».
1.1. – La disposizione censurata violerebbe
anzitutto, ed in particolare, gli artt. 23, 70, 76, 77, 97 e 117 Cost., ove
sono espressi i principi costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione
della discrezionalità. In base ai principi citati, una disciplina che
consenta l’adozione di disposizioni derogatorie alle norme vigenti in
rapporto ad una determinata materia, e che attribuisca un potere siffatto «in
capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato»,
sarebbe legittima solo in quanto configuri una situazione di contingibilità
ed urgenza quale «presupposto, condizione e limite» per l’esercizio del
potere in questione.
Gli stessi parametri costituzionali sarebbero
violati anche perché la disposizione censurata, secondo il rimettente,
istituisce una vera e propria fonte normativa, libera nel contenuto ed
equiparata alla legge (in quanto idonea a derogare alla legge medesima), in
contrasto con le regole costituzionali che riservano alle assemblee
legislative il compito di emanare atti aventi forza e valore di legge.
Il Tribunale propone poi un’ulteriore questione con
riferimento agli artt. 3, 23 e 97 Cost., che pongono la riserva di legge ed
il principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative.
Infatti la norma censurata, rimuovendo i presupposti fattuali della
contingibilità ed urgenza, avrebbe conferito al sindaco un potere
discrezionale e tendenzialmente illimitato di conculcare la libertà dei
singoli di tenere ogni comportamento che non sia vietato dalla legge.
Ancora, il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267
del 2000 violerebbe gli artt. 13, 16, 17 e 41 Cost., ciascuno dei quali
espressivo di una riserva di legge a tutela di diritti e libertà fondamentali
della persona (in particolare, la libertà personale, la libertà di soggiorno
e circolazione, la libertà di riunione, la libertà in materia di iniziativa economica),
che la disposizione censurata renderebbe suscettibili di compressione per
effetto di provvedimenti non aventi rango di legge.
Una censura ulteriore è proposta dal rimettente in
relazione all’art. 117 Cost., perché il potere di normazione conferito dalla
disposizione censurata consentirebbe l’invasione degli ambiti di competenza
legislativa regionale.
Ancora, la norma in oggetto sarebbe illegittima in
ragione del suo contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., poiché implica che la
disciplina di identici comportamenti – anche quando espressivi dell’esercizio
di diritti fondamentali, e dunque necessariamente garantiti in modo uniforme
sull’intero territorio nazionale – venga irragionevolmente differenziata in
rapporto ad ambiti territoriali frazionati (fino al limite rappresentato dal
territorio ripartito di tutti i Comuni italiani). L’indicato frazionamento,
d’altra parte, comporrebbe una lesione dei principi di unità ed
indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), di legalità (art. 97 Cost.),
di riparto delle funzioni amministrative (art. 118 Cost.).
Il Tribunale rimettente prospetta poi un’ulteriore
violazione, relativamente agli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost., che
pongono il principio costituzionale del pluralismo, anche sotto il profilo
culturale, politico, religioso e scientifico: la norma censurata, infatti,
conferirebbe una potestà normativa, tendenzialmente libera se non
nell’orientamento finalistico, ad un organo monocratico che nella specie
opera quale ufficiale di Governo, derogando alle competenze ordinarie
dell’assemblea comunale elettiva, in materia tra l’altro di regolamento della
polizia urbana.
Infine, con il comma 4 del d.lgs. n. 267 del 2000,
si sarebbe determinata una violazione degli artt. 24 e 113 Cost., in ragione
della vastità ed indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco e della
conseguente ampia discrezionalità esercitabile dal sindaco medesimo, tale da
rendere eccessivamente difficoltosa la possibilità di un effettivo sindacato
giurisdizionale delle singole fattispecie.
2. – Preliminarmente, deve essere disattesa
l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa dello Stato, sulla
scorta del rilievo che le ordinanze oggetto del presente giudizio sarebbero
pienamente sindacabili in sede giurisdizionale, e che i vizi di legittimità
costituzionale denunciati dal rimettente costituirebbero in realtà vizi
dell’atto amministrativo, i quali ben potrebbero determinare, se accertati,
l’annullamento o la disapplicazione delle ordinanze stesse nelle sedi
giudiziarie competenti.
Il giudice a quo ha adottato un significato della
disposizione censurata, in base al quale non sarebbe rinvenibile, all’interno
della stessa, una configurazione di limiti specifici, che possano consentire
al giudice adito di valutare in concreto la legittimità degli atti impugnati.
Il rimettente è pervenuto a tale conclusione dopo
aver esplicitamente scartato possibili interpretazioni conformi a
Costituzione, che pure sono state proposte da una parte della dottrina.
L’atto amministrativo impugnato si presentava quindi, a parere del giudice
rimettente, non in contrasto con l’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del
2000 (nel nuovo testo introdotto nel 2008) e pertanto il ricorso contro lo
stesso avrebbe dovuto essere rigettato. Tuttavia lo stesso giudice, dubitando
della legittimità costituzionale della norma legislativa che è posta a
fondamento dell’atto, e denunciando una serie di presunti vizi riscontrati,
ha sollevato la questione oggetto del presente giudizio.
In definitiva, la rilevanza della questione nel
processo principale è motivata in modo plausibile.
3. – Nel merito, la questione è fondata.
3.1. – Occorre innanzitutto procedere ad una analisi
dell’enunciato normativo contenuto nella disposizione censurata.
Si deve notare, al riguardo, che nell’art. 54, comma
4, del d.lgs. n. 267 del 2000 è scritto: «Il sindaco, quale ufficiale del
Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti
nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e
di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la
sicurezza urbana».
Si può osservare agevolmente che la frase «anche
contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento» è
posta tra due virgole. Si deve trarre da ciò la conclusione che il
riferimento al rispetto dei soli principi generali dell’ordinamento riguarda
i provvedimenti contingibili e urgenti e non anche le ordinanze sindacali di
ordinaria amministrazione. L’estensione anche a tali atti del regime
giuridico proprio degli atti contingibili e urgenti avrebbe richiesto una
disposizione così formulata: «adotta con atto motivato provvedimenti, anche
contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento
[…]».
La dizione letterale della norma implica che non è
consentito alle ordinanze sindacali “ordinarie” – pur rivolte al fine di
fronteggiare «gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la
sicurezza urbana» – di derogare a norme legislative vigenti, come invece è
possibile nel caso di provvedimenti che si fondino sul presupposto
dell’urgenza e a condizione della temporaneità dei loro effetti. Questa Corte
ha infatti precisato, con giurisprudenza costante e consolidata, che deroghe
alla normativa primaria, da parte delle autorità amministrative munite di
potere di ordinanza, sono consentite solo se «temporalmente delimitate» (ex
plurimis, sentenze n. 127 del 1995, n. 418 del 1992, n. 32 del 1991, n. 617
del 1987, n. 8 del 1956) e, comunque, nei limiti della «concreta situazione
di fatto che si tratta di fronteggiare» (sentenza n. 4 del 1977).
Le ordinanze oggetto del presente scrutinio di
legittimità costituzionale non sono assimilabili a quelle contingibili e
urgenti, già valutate nelle pronunce appena richiamate. Esse consentono ai
sindaci «di adottare provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di
esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana» (sentenza n. 196 del 2009).
Sulla scorta del rilievo sopra illustrato, che cioè
la norma censurata, se correttamente interpretata, non conferisce ai sindaci
alcun potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione in deroga a
norme legislative o regolamentari vigenti, si deve concludere che non
sussistono i vizi di legittimità che sono stati denunciati sulla base del
contrario presupposto interpretativo.
4. – Le considerazioni che precedono non esauriscono
tuttavia l’intera problematica della conformità a Costituzione della norma
censurata. Quest’ultima attribuisce ai sindaci il potere di emanare ordinanze
di ordinaria amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme
legislative o regolamentari vigenti, si presentano come esercizio di una
discrezionalità praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico,
genericamente identificato dal legislatore nell’esigenza «di prevenire e di
eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza
urbana».
Questa Corte ha affermato, in più occasioni,
l’imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi
venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello
Stato di diritto. Tale principio non consente «l’assoluta indeterminatezza»
del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce
l’effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od
organo investito della funzione (sentenza n. 307 del 2003; in senso conforme,
ex plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del 1982). Non è sufficiente
che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un
valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel
contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur
elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa.
5. – Le ordinanze sindacali oggetto del presente
giudizio incidono, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e
sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato
territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità
amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di
fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici
importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai
soggetti considerati. La Costituzione italiana, ispirata ai principi
fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna
prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base
alla legge (art. 23).
La riserva di legge appena richiamata ha
indubbiamente carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità
amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie in tutti
gli ambiti non coperti dalle riserve di legge assolute, poste a presidio dei
diritti di libertà, contenute negli artt. 13 e seguenti della Costituzione.
Il carattere relativo della riserva de qua non relega tuttavia la legge sullo
sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli
atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un
prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un
principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei
contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale
di libertà dei cittadini.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante
sin dalle sue prime pronunce, l’espressione «in base alla legge», contenuta
nell’art. 23 Cost., si deve interpretare «in relazione col fine della
protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale
fondamentale principio costituzionale»; questo principio «implica che la
legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non
lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione»
(sentenza n. 4 del 1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi
recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa
di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessario che «la concreta entità della
prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi
che riguardano l’attività dell’amministrazione» (sentenza n. 190 del 2007).
È necessario ancora precisare che la formula
utilizzata dall’art. 23 Cost. «unifica nella previsione i due tipi di
prestazioni “imposte”» e «conserva a ciascuna di esse la sua autonomia»,
estendendosi naturalmente agli «obblighi coattivi di fare» (sentenza n. 290
del 1987). Si deve aggiungere che l’imposizione coattiva di obblighi di non
fare rientra ugualmente nel concetto di “prestazione”, in quanto, imponendo
l’omissione di un comportamento altrimenti riconducibile alla sfera del
legalmente lecito, è anch’essa restrittiva della libertà dei cittadini,
suscettibile di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto
legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento,
espressivo della sovranità popolare.
6. – Nella materia in esame è intervenuto il decreto
del Ministro dell’interno 5 agosto 2008 (Incolumità pubblica e sicurezza
urbana: definizione e ambiti di applicazione). In tale atto amministrativo a
carattere generale, l’incolumità pubblica è definita, nell’art. 1, come
«l’integrità fisica della popolazione», mentre la sicurezza urbana è
descritta come «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a
difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che
regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei
centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale». L’art. 2 indica
le situazioni e le condotte sulle quali il sindaco, nell’esercizio del potere
di ordinanza, può intervenire, «per prevenire e contrastare» le stesse.
Il decreto ministeriale sopra citato può assolvere
alla funzione di indirizzare l’azione del sindaco, che, in quanto ufficiale
del Governo, è sottoposto ad un vincolo gerarchico nei confronti del Ministro
dell’interno, come è confermato peraltro dallo stesso art. 54, comma 4,
secondo periodo, del d.lgs. n. 267 del 2000, che impone al sindaco l’obbligo
di comunicazione preventiva al prefetto dei provvedimenti adottati «anche ai
fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro
attuazione». Ai sensi dei commi 9 e 11 dello stesso articolo, il prefetto
dispone anche di poteri di vigilanza e sostitutivi nei confronti del sindaco,
per verificare il regolare svolgimento dei compiti a quest’ultimo affidati e
per rimediare alla sua eventuale inerzia.
La natura amministrativa del potere del Ministro,
esercitato con il decreto sopra citato, se assolve alla funzione di regolare
i rapporti tra autorità centrale e periferiche nella materia, non può
soddisfare la riserva di legge, in quanto si tratta di atto non idoneo a
circoscrivere la discrezionalità amministrativa nei rapporti con i cittadini.
Il decreto, infatti, si pone esso stesso come esercizio dell’indicata
discrezionalità, che viene pertanto limitata solo nei rapporti interni tra
Ministro e sindaco, quale ufficiale del Governo, senza trovare fondamento in
un atto avente forza di legge. Solo se le limitazioni e gli indirizzi
contenuti nel citato decreto ministeriale fossero stati inclusi in un atto di
valore legislativo, questa Corte avrebbe potuto valutare la loro idoneità a
circoscrivere la discrezionalità amministrativa dei sindaci. Nel caso di
specie, al contrario, le determinazioni definitorie, gli indirizzi e i campi
di intervento non potrebbero essere ritenuti limiti validi alla suddetta
discrezionalità, senza incorrere in un vizio logico di autoreferenzialità.
Si deve, in conclusione, ritenere che la norma
censurata, nel prevedere un potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali
del Governo, non limitato ai casi contingibili e urgenti – pur non
attribuendo agli stessi il potere di derogare, in via ordinaria e
temporalmente non definita, a norme primarie e secondarie vigenti – viola la
riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non prevede
una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un
ambito, quello della imposizione di comportamenti, che rientra nella generale
sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono tenuti, secondo un
principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi
di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge.
7. – Si deve rilevare altresì la violazione
dell’art. 97 Cost., che istituisce anch’esso una riserva di legge relativa,
allo scopo di assicurare l’imparzialità della pubblica amministrazione, la
quale può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative
ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge. Tale limite è
posto a garanzia dei cittadini, che trovano protezione, rispetto a possibili
discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere
concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. La stessa
norma di legge che adempie alla riserva può essere a sua volta assoggettata –
a garanzia del principio di eguaglianza, che si riflette nell’imparzialità
della pubblica amministrazione – a scrutinio di legittimità costituzionale.
La linea di continuità fin qui descritta è
interrotta nel caso oggetto del presente giudizio, poiché l’imparzialità
dell’amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a
fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza. L’assenza
di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente pertanto che
l’imparzialità dell’agire amministrativo trovi, in via generale e preventiva,
fondamento effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge.
Per le ragioni esposte, la norma censurata viola
anche l’art. 97, primo comma, della Costituzione.
8. – L’assenza di una valida base legislativa,
riscontrabile nel potere conferito ai sindaci dalla norma censurata, così
come incide negativamente sulla garanzia di imparzialità della pubblica
amministrazione, a fortiori lede il principio di eguaglianza dei cittadini
davanti alla legge, giacché gli stessi comportamenti potrebbero essere
ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del
territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci.
Non si tratta, in tali casi, di adattamenti o modulazioni di precetti
legislativi generali in vista di concrete situazioni locali, ma di vere e
proprie disparità di trattamento tra cittadini, incidenti sulla loro sfera
generale di libertà, che possono consistere in fattispecie nuove ed inedite,
liberamente configurabili dai sindaci, senza base legislativa, come la prassi
sinora realizzatasi ha ampiamente dimostrato.
Tale disparità di trattamento, se manca un punto di
riferimento normativo per valutarne la ragionevolezza, integra la violazione
dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto consente all’autorità
amministrativa – nella specie rappresentata dai sindaci – restrizioni diverse
e variegate, frutto di valutazioni molteplici, non riconducibili ad una
matrice legislativa unitaria.
Un giudizio sul rispetto del principio generale di
eguaglianza non è possibile se le eventuali differenti discipline di
comportamenti, uguali o assimilabili, dei cittadini, contenute nelle più
disparate ordinanze sindacali, non siano valutabili alla luce di un comune
parametro legislativo, che ponga le regole ed alla cui stregua si possa
verificare se le diversità di trattamento giuridico siano giustificate dalla
eterogeneità delle situazioni locali.
Per i motivi esposti, la norma censurata viola anche
l’art. 3, primo comma, della Costituzione.
9. – Si devono ritenere assorbite le altre censure
di legittimità costituzionale contenute nell’atto introduttivo del presente
giudizio.
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo
18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali), come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125,
nella parte in cui comprende la locuzione «, anche» prima delle parole
«contingibili e urgenti».
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 4 aprile 2011.
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