UNIVERSITA':
NO all'inglese, SI' all'italiano nelle lezioni universitarie
al Politecnico di Milano
(T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III,
23 maggio 2013, n. 1348)
Disciplina dell'insegnamento dell'italiano
Massima
E’ pacifico che le norme della Costituzione non contengono una diretta affermazione dell’ufficialità della lingua italiana, tuttavia tale carattere è chiaramente percepibile in via indiretta dall’art. 6 Cost. che prevede la tutela delle minoranze linguistiche rimettendone l’attuazione ad apposite norme.
E infatti, l’esigenza costituzionale di tutelare minoranze linguistiche, non predeterminate dalla carta costituzionale, sorge proprio in dipendenza del carattere ufficiale della lingua italiana, come lingua che caratterizza lo Stato italiano.
Anche disposizioni di legge costituzionale riconoscono l’italiano come lingua ufficiale dello Stato; si pensi all’art. 99 del Testo unico approvato con d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 – recante l’approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino Alto Adige – ove si prevede che “nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana che è la lingua ufficiale dello Stato”.
In tale senso è significativo che la legge 15 dicembre 1999, n. 482, diretta a introdurre “norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, esordisca all’art. 1 stabilendo che “la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano”, per poi precisare al comma successivo che “la Repubblica … valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana” e aggiungendo che la Repubblica “promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge”.
Non è dubitabile, come puntualmente rilevato dall’Avvocatura distrettuale, che la tutela delle minoranze linguistiche sia correlata alle specificità storiche e culturali di determinate parti del territorio della Repubblica, ma ciò non toglie che l’esigenza di tutelare talune minoranze, riconoscendone l’identità linguistica, sorga in dipendenza della dichiarata ufficialità della lingua italiana.
Ufficialità che non può tradursi in una vuota formula o in una mera dichiarazione di intenti, ma che assume valenza di principio cogente, immediatamente operativo, tanto che per la valorizzazione di determinate minoranze linguistiche si è resa necessaria l’adozione di una specifica disciplina correlata ad un precetto costituzionale.
Ovviamente ciò non significa che l’uso della lingua inglese previsto dal Senato accademico del Politecnico rientri nella tematica della tutela delle minoranze linguistiche, ma consente di evidenziare il carattere centrale che l’ordinamento attribuisce alla lingua italiana come espressione del patrimonio linguistico e culturale dello Stato.
Centralità riconosciuta dalla Corte Costituzionale, che, seppure in un giudizio relativo alla legittimità di alcune disposizioni del codice di procedura penale, ha affermato, con valore di principio, che la “Costituzione conferma per implicito che il nostro sistema riconosce l'italiano come unica lingua ufficiale, da usare obbligatoriamente, salvo le deroghe disposte a tutela dei gruppi linguistici minoritari, da parte dei pubblici uffici nell'esercizio delle loro attribuzioni” (cfr. Corte Cost. 20 gennaio 1982, n. 28).
Sempre la Corte Costituzionale ha chiarito la portata dell’ufficialità della lingua italiana, precisando che la consacrazione, nell'art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999, della lingua italiana quale «lingua ufficiale della Repubblica» non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l'uso delle lingue minoritarie, “evitando che esse possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da porre in posizione marginale la lingua ufficiale della Repubblica; e ciò anche al di là delle pur numerose disposizioni specifiche che affermano espressamente nei singoli settori il primato della lingua italiana” (cfr. Corte Cost. 22 maggio 2009, n. 159).
Ne deriva, in primo luogo, che il carattere ufficiale della lingua italiana ne determina il primato in ogni settore della vita dello Stato, anche al di là di specifiche disposizioni che di volta in volta la tutelano; inoltre, il primato della lingua italiana comporta che ad essa non possa essere attribuito all’interno dello Stato un ruolo subordinato rispetto ad altre lingue e ciò, se non è possibile, in base al quadro normativo richiamato, nel rapporto con le lingue minoritarie espressamente tutelate dall’ordinamento, a maggiore ragione non può verificarsi rispetto a lingue straniere che difettino di specifiche disposizioni di salvaguardia.
La centralità della lingua italiana è ribadita con specifico riferimento all’insegnamento, seppure sempre nel rapporto con le lingue minoritarie tutelate, proprio dalle disposizioni della legge 1999 n. 482, che pongono garanzie a salvaguardia dell’italiano.
Così, gli artt. 4 e 5 della legge n. 482 prevedono per le scuole materne, elementari e medie inferiori, accanto all’uso della lingua italiana anche l'uso della lingua della particolare minoranza per lo svolgimento delle attività educative, rimettendo alle istituzioni scolastiche la definizione delle modalità di svolgimento delle attività di insegnamento della lingua e delle tradizioni culturali delle comunità locali; allo stesso modo l’art. 6, con riferimento alle Università, attribuisce all’autonomia dei singoli Istituti l’assunzione di iniziative “compresa l'istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue” minoritarie, ricerca scientifica e attività culturali e formative a sostegno delle finalità poste dalla legge n. 482.
Ancora una volta il dato normativo conduce ad evidenziare che nelle situazioni in cui l’ordinamento prevede la tutela di specifiche lingue minoritarie, viene comunque preservato il primato della lingua italiana, che non può comunque assumere un ruolo subordinato o secondario.
Massima
1. L’imposizione della lingua inglese quale strumento di insegnamento e di apprendimento, contrasta sia con la libertà di insegnamento, garantita dall’art. 33 Cost., sia con il correlato diritto allo studio.
Esiste uno stretto rapporto tra l’esercizio della libertà di insegnamento garantito dalla Costituzione Repubblicana e l’utilizzabilità della lingua italiana.
Una volta chiarito che l’italiano non è tutelato quale mezzo di comunicazione orale o scritta, ma per l’insieme di valori culturali che sottende, è consequenziale rilevare che la piena esplicazione della libertà di insegnamento presuppone la possibilità di utilizzare l’italiano, nel senso che il docente che esercita in una istituzione pubblica deve poter scegliere di trasmettere le conoscenze nella lingua italiana.
Simmetricamente, il discente deve essere posto in condizione di avvalersi della lingua italiana per la formazione praticata in una Università italiana.
Queste corrispondenze sono negate dalle delibere impugnate, che, nei corsi di laurea magistrale e nei dottorati, obbligano i docenti ad insegnare in lingua inglese e gli studenti ad apprendere in lingua inglese.
Si badi, la lesione della libertà di insegnamento è ancora più evidente se si considera che, dall’anno accademico 2014 – 2015, il docente di un corso compreso nel biennio magistrale, se intende esercitare il diritto di insegnare in lingua italiana, deve spostare la propria attività didattica nel triennio di base, il che significa che deve abbandonare il corso già gestito e optare per uno diverso, compreso tra gli insegnamenti del triennio, atteso che le materie del biennio finale non sono intercambiabili con quelle del triennio, perché afferiscono alla preparazione specialistica.
Inoltre, ai fini della compatibilità del processo di internazionalizzazione con il principio del primato della lingua italiana e con la tutela della libertà di insegnamento, è centrale la circostanza che lo stesso insegnamento possa essere mantenuto in italiano dal medesimo docente, ma questo binomio non è consentito, perché il docente che decide di continuare ad insegnare in italiano deve spostarsi nel triennio di base, cambiando la materia insegnata, con conseguente violazione della libertà di insegnamento.
Questo non significa che ciascun docente abbia una sorta di “diritto al corso”, perché le esigenze organizzative, rimesse all’autonomia universitaria, possono condurre all’accorpamento di corsi, alla loro suddivisione, all’istituzione di nuovi corsi o alla soppressione di altri, con i conseguenti riflessi sulle materie insegnate dai docenti interessati. Piuttosto, sta ad indicare che il singolo docente non può essere sostituito nella gestione di un corso perché si rifiuta di insegnare in una particolare lingua straniera, atteso che in questo modo si comprime la sua libertà di insegnamento, che, alla luce del primato della lingua italiana, deve potersi esplicare in italiano nella misura in cui è esercitata in una Università pubblica italiana.
2. Quanto all'obiettivo dell'internazionalizzazione dei corso universitari, l’uso esclusivo della lingua inglese apre l’Ateneo ai paesi la cui cultura si connota per l’uso dell’inglese, ma non si tiene conto dell’ampio respiro sotteso all’esigenza di internazionalizzazione, che comporta un’apertura verso il pluralismo culturale, mantenendo la centralità della lingua italiana e non un’apertura selettiva, perché limitata ad una particolare lingua.
Non si vuole negare che, come è noto, l’uso della lingua inglese sia particolarmente diffuso, ma ciò non significa che l’uso obbligatorio ed esclusivo di questa lingua favorisca l’internazionalizzazione
dell’Ateneo, perché manca ogni correlazione tra l’uso dell’inglese e la possibilità di diffondere le conoscenze, la didattica, le modalità di insegnamento praticate dal Politecnico in relazione ai contenuti dei diversi corsi che compongono le lauree magistrali e i dottorati.
Del resto, ci si è già soffermati sul fatto che la marginalizzazione dell’italiano, che così si verifica, oltre a contrastare con il principio del primato della lingua italiana, contrasta anche con l’obiettivo dell’internazionalizzazione, perché l’esclusione dell’italiano dagli insegnamenti specialistici comporta che l’apertura verso l’estero sia unidirezionale, ossia diretta a favorire, con l’uso di una particolare lingua straniera, la diffusione delle conoscenze e dei valori che tipicamente in quella lingua si esprimono, dimenticando però che l’internazionalizzazione implica anche diffusione delle conoscenze e dei valori che, nei diversi insegnamenti, sono apportati dalla cultura italiana e che in italiano si manifestano.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
Il Tribunale Amministrativo Regionale per
la Lombardia
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1998 del 2012,
proposto da:
Adriana Angelotti, Anna Maria Antola, Anna Anzani, Sergio Arosio, Cesare Mario
Arturi, Francesco Augelli, Valeria Bacchelli, Arturo Baron, Francesco Basile,
Giovanni Baule, Eleonora Bersani, Serena Biella, Antonello Boatti, Pellegrino
Bonaretti, Marco Borsotti, Federica Boschetti, Maria Antonietta Breda, Maria
Agostina Cabiddu, Enrico Gianluca Caiani, Christian Campanella, Fabrizio Campi,
Paola Caputo, Edoardo Carminati, Aldo Castellano, Graziella Leyla Ciagà, Maria
Antonietta Clerici, Luigi Pietro Maria Colombo, Giancarlo Consonni, Emilia
Amabile Costa, Fiammetta Costa, Stefano Crespi Reghizzi, Giancarlo Cusimano,
Alessandro Dama, Lorenzo De Stefani, Anna Caterina Delera, Valentina Dessì,
Luca Maria Francesco Fabris, Maria Rita Ferrara, Alessandro Ferrari, Simone
Ferrari, Maria Fianchini, Mario Fosso, Marco Frontini, Gianluca Ghiringhelli,
Lorenzo Giacomini, Maria Cristina Gibelli, Elisabetta Ginelli, Giorgio Goggi,
Elena Granata, Francesco Ermanno Guida F, Franco Guzzetti, Valeria Maria
Iannilli, Maria Pompeiana Iarossi, Arturo Sergio Lanzani, Rita Maria Levi
Marinella, Andrea Lucchini, Marco Lucchini, Cesira Assunta Macchia, Luca Piero
Marescotti, Emilio Matricciani, Stefano Valdo Meille, Lorenzo Mezzalira, Marina
Molon, Laura Montedoro, Gianni Ottolini, David Palterer, Antonella Valeria
Penati, Gianfranco Pertot, Paolo Pileri, Silvia Luisa Pizzocaro, Marco Politi,
Gennaro Postiglione, Fulvia Anna Premoli, Maurizio Quadrio, Procopio Luigi
Quartapelle, Giuliana Ricci, Fabio Rinaldi, Roberto Rizzi, Michela Rossi,
Raffaele Scapellato, Aurora Scotti Aurora, Roberto Giacomo Sebastiano, Maria
Beatrice Servi, Francesco Siliato, Maria Cristina Tanzi, Fausto Carlo Testa,
Enrico Tironi, Maria Cristina Tonelli, Graziella Tonon, Raffaella Trocchianesi,
Michele Ugolini, Ada Varisco, Vincenzo Varoli, Stefania Varvaro, Massimo
Venturi Ferriolo, Daniele Vitale, Fabrizio Zanni, Salvatore Zingale, Luca
Alfredo Casimiro Bruchè, Alessandro Antonio Porta, rappresentati e difesi
dall'avv. Maria Agostina Cabiddu, con domicilio eletto presso Maria Agostina
Cabiddu in Milano, piazza Duse, 1;
contro
Politecnico di Milano, rappresentato e difeso ex lege
dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano, presso i cui Uffici
domicilia in Milano, via Freguglia, 1;
Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, rappresentato e
difeso ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato Milano, presso i cui
Uffici domicilia in Milano, via Freguglia, 1;
nei confronti di
Ministero dell'Economia e delle Finanze, Presidenza
del Consiglio dei Ministri;
per l'annullamento
della delibera, adottata dal Senato accademico del
Politecnico di Milano in data 21 maggio 2012,; delle delibere di approvazione
delle Linee strategiche di Ateneo 2012-2014;
delle prime azioni sull'internazionalizzazione
dell'Ateneo;
di tutti gli atti connessi.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di
Politecnico di Milano e di Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della
Ricerca;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Designato relatore nell'udienza pubblica del giorno 26
marzo 2013 il dott. Fabrizio Fornataro e uditi per le parti i difensori come
specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO
I ricorrenti impugnano gli atti indicati in epigrafe,
deducendone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto
diversi profili, chiedendone l’annullamento.
Si è costituito in giudizio il Politecnico di Milano,
eccependo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del ricorso avversario.
Le parti hanno prodotto memorie e documenti.
All’udienza del 26 marzo 2013 la causa è stata
trattenuta in decisione..
DIRITTO
1) Sul piano fattuale va osservato che:
- con deliberazione del 15 dicembre 2011, il Senato
accademico del Politecnico di Milano ha approvato le linee strategiche per il
biennio 2012 – 2014, prevedendo, tra l’altro, la configurazione di un Ateneo a
rilevanza internazionale, con aumento dell’internazionalizzazione del corpo docente
in modo da assicurare che entro il 2014 “almeno 100 insegnamenti siano tenuti
da docenti stranieri”. In tale contesto le linee guida hanno stabilito
l’attivazione a partire dall’anno 2014 delle lauree magistrali e dei dottorati
di ricerca “esclusivamente in inglese”, con conseguente sviluppo di un piano
integrato per la formazione dei docenti e il conseguente sostegno agli
studenti;
- con deliberazione datata 20 dicembre 2011, anche il
Consiglio di Amministrazione del Politecnico di Milano ha approvato le linee
strategiche per il biennio 2012 – 2014;
- con deliberazione del 23 gennaio 2012, il Senato
accademico ha deliberato le “prime azioni sull’internazionalizzazione
dell’Ateneo”, individuando alcune priorità per l’attuazione delle linee
strategiche 2012 - 2014, riferendosi all’identificazione dei fabbisogni
formativi per i docenti in ordine all’uso della lingua inglese nella didattica,
al fine di attivare i corrispondenti processi di formazione, nonché agli
interventi relativi al reclutamento dei docenti stranieri e, infine, alla
determinazione del livello minimo di conoscenza della lingua inglese che è
opportuno richiedere agli studenti, sia a livello di laurea magistrale, sia a
livello di dottorato di ricerca;
- in data 2 maggio 2012 numerosi docenti e ricercatori
del Politecnico hanno presentato un appello al Rettore e agli organi di governo
dell’Ateneo a difesa della libertà di insegnamento, chiedendo di non dare
seguito alle delibere recanti l’approvazione delle linee strategiche di Ateneo
per il biennio 2012 – 2014, di sospenderne l’efficacia e di disporne la revoca
nella parte in cui hanno imposto l’uso esclusivo della lingua inglese per
l’insegnamento dei corsi di laurea magistrali a partire dall’anno accademico
2014. Le ragioni poste a fondamento dell’appello possono essere così
sintetizzate: 1) l’uso esclusivo della lingua inglese per l’erogazione dei
corsi di laurea magistrale è in contrasto con il principio della libertà di
insegnamento posto dall’art. 33 Cost., perché comprime la libertà di scelta di
docenti e studenti e il pluralismo dell’offerta formativa; 2) le linee guida
introducono un criterio di discriminazione su base linguistica, in violazione
del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., con effetti sulle
carriere del personale docente e su quelle degli studenti; 3) le linee guida,
da un lato, contrastano con l’art. 271 del r.d. 1933, n. 1592, nella parte in
cui stabilisce che la lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e
degli esami in tutti gli stabilimenti universitari, dall’altro, stravolgono il
senso dell’art. 2, comma 2, della legge 240/2010 che, nel promuovere
l’internazionalizzazione dell’Università, mira a promuovere l’integrazione fra
le culture e non ad imporne una a scapito delle altre; 4) l’imposizione della
lingua inglese non si correla alla valorizzazione della qualità degli
insegnamenti impartiti.
- sempre in ordine ai contenuti delle linee guida
approvate dal Senato accademico il 15 dicembre 2011, sono stati presentati una
mozione della Scuola di architettura e società in data 3 maggio 2012, una
lettera redatta da un docente e datata 1° maggio 2012, un parere di alcuni
rappresentanti degli studenti formulato il 20 maggio 2012;
- in relazione al contenuto dei documenti appena
richiamati è stata indetta una riunione del Senato accademico il giorno 21
maggio 2012 (cfr. doc. 9 di parte resistente), articolatasi nell’illustrazione
dell’appello da parte di uno dei docenti firmatari, nell’esposizione della
posizione della Scuola di architettura e società ad opera di un altro docente e
nello svolgimento della discussione. Dal verbale della seduta del 21 maggio
2012, risulta che all’esito della discussione il Senato accademico ha approvato
a maggioranza la mozione centrata sull’adozione della lingua inglese per i
corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca.
2) Devono essere esaminate con precedenza le eccezioni
preliminari di rito sollevate dall’Avvocatura distrettuale.
2.1) Con la prima eccezione si deduce
l’inammissibilità del ricorso per tardività, in quanto le linee strategiche
approvate con la deliberazione del Senato accademico del 15 dicembre 2012 sono
state contestate solo mediante l’impugnazione della successiva deliberazione
del 21 maggio 2012, che però sarebbe priva di contenuto innovativo o anche solo
attuativo delle linee strategiche, essendosi limitata a ripercorrere le ragioni
della scelta già effettuata.
L’eccezione non può essere condivisa.
La difesa del Politecnico sostiene che la
deliberazione del 21 maggio 2012 sarebbe priva di reale autonomia, limitandosi
a confermare le linee strategiche già approvate, con conseguente tardività
della loro contestazione, perché articolata solo in sede di impugnazione della
deliberazione ora richiamata.
Si tratta di una impostazione che non tiene conto dei
contenuti della deliberazione del 21 maggio 2012 e delle ragioni sottese alla
sua adozione.
Sul punto va richiamata la distinzione, consolidata a
livello giurisprudenziale, tra atto di conferma e atto meramente confermativo,
con i conseguenti riflessi in punto di tempestività dell’impugnazione.
Sussiste un atto meramente confermativo (c.d. conferma
impropria) quando l’amministrazione, in esito ad una istanza di revoca di un
suo precedente provvedimento, si limiti a dichiararne l’esistenza, senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova ponderazione degli
interessi pubblici e privati implicati nella fattispecie.
Si ha, invece, conferma in senso proprio allorché
l’amministrazione, in luogo di limitarsi ad una constatazione dell’esistenza di
un precedente provvedimento, dia inizio a un vero e proprio procedimento di
riesame, esaminando nuovamente la situazione di fatto e di diritto.
In altri termini, in caso di mera conferma,
l’amministrazione si esime dal prendere posizione sulle questioni sollevate con
la nuova istanza, limitandosi ad un rifiuto pregiudiziale di riesame, con il
quale nega, anche implicitamente, l’esistenza delle condizioni per valutare il
merito dell’istanza stessa; insomma, l’amministrazione si limita a rilevare che
esiste un precedente provvedimento e che non vi sono ragioni per ritornare
sulle proprie decisioni.
Per queste sue caratteristiche, l’atto meramente
confermativo non riapre i termini per impugnare: esso non rappresenta, infatti,
un’autonoma determinazione dell’amministrazione, sia pure identica nel
contenuto alla precedente, ma solo la manifestazione della decisione
dell’amministrazione di non ritornare sulle scelte già effettuate.
Viceversa, la conferma in senso proprio integra una
nuova determinazione, mediante la quale l’amministrazione ribadisce la
disciplina già dettata rispetto ad una determinata fattispecie, così
confermandola, ma dopo avere aperto un nuovo procedimento amministrativo e in
forza di una specifica rivalutazione della situazione complessiva ed in particolare
degli interessi complessivamente implicati nella vicenda.
Ne consegue che la conferma in senso proprio integra
un atto nuovo, autonomamente lesivo della sfera giuridica dell'interessato,
anche se confermativo del primo provvedimento.
La distinzione tra conferma impropria e conferma in
senso proprio ha conseguenze pratiche importanti quanto all’ammissibilità del
ricorso giurisdizionale avverso il secondo atto, ove tale ricorso venga
proposto, come nella fattispecie in esame, dopo che è scaduto il termine per
impugnare il primo provvedimento.
Difatti, mentre la conferma propria, che assorbe e
sostituisce l’atto confermato, è sicuramente impugnabile nel termine di
decadenza, senza preclusione alcuna derivante dalla precedente determinazione
non impugnata, a diverse conclusioni deve pervenirsi quando si è in presenza di
un atto meramente confermativo.
Quest’ultimo, invero, a differenza della conferma non
assorbe il precedente, né lo sostituisce, con effetti ex tunc, nella disciplina
del rapporto.
Da ciò la conseguenza che la mancata tempestiva
impugnazione del primo provvedimento determina l’inammissibilità (per difetto
di interesse) del gravame avverso il secondo provvedimento: ciò si verifica, in
particolare, in tutti i casi in cui il privato non possa ottenere alcuna
utilità dall’annullamento giurisdizionale del secondo provvedimento, a causa
degli effetti ormai consolidatisi derivanti dal primo atto non impugnato.
Al contrario, la conferma propria, che assorbe e
sostituisce l'atto confermato, è sicuramente impugnabile nel termine di
decadenza, senza preclusioni derivanti dalla precedente determinazione non
impugnata (cfr. T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 11 maggio 2010, n. 1453; in
argomento si considerino anche T.A.R. Valle d'Aosta sez. I, 13 febbraio 2013,
n. 5; T.A.R. Roma Lazio, sez. II, 04 gennaio 2013, n. 41; T.A.R. Napoli
Campania, sez. IV, 12 dicembre 2012, n. 5099; Consiglio di Stato, sez. V, 03
ottobre 2012, n. 5196).
Applicando tali principi alla situazione in esame, il
Tribunale evidenzia che la deliberazione assunta dal Senato accademico in data
21 maggio 2012, trae origine da un appello proposto al Rettore da un gruppo di
docenti, diretto ad ottenere il riesame delle linee strategiche approvate con
la deliberazione del 15 dicembre 2011 nella parte in cui prescrivono l’adozione
della lingua inglese per i corsi di laurea magistrale e di dottorato di
ricerca.
Si tratta, quindi, di una determinazione che trae
impulso da uno specifico atto di iniziativa procedimentale e che ha dato luogo ad
uno specifico procedimento amministrativo di riesame delle linee strategiche,
seppure nella sola parte relativa all’introduzione dell’obbligatorietà
dell’utilizzo della lingua inglese.
Non solo, la deliberazione esplicita di prendere le
mosse, oltre che dall’appello al Rettore, anche da altri atti successivi
all’approvazione delle linee strategiche, quali una specifica mozione
presentata dalla Scuola di architettura e società, una lettera trasmessa da un
docente, nonché un parere di alcuni rappresentanti degli studenti in ordine
alla decisione di erogare in lingua inglese tutti gli insegnamenti delle lauree
magistrali.
Pertanto, la determinazione impugnata valorizza non
solo lo specifico atto di appello già richiamato, ma anche ulteriori atti di
impulso procedimentale, assunti a presupposti istruttori della nuova
deliberazione.
Del resto, il verbale della riunione del Senato
accademico del 21 maggio 2012 precisa come la nuova deliberazione sia stata
assunta all’esito di un’ampia discussione, consistita nell’illustrazione
dell’atto di appello e dei contenuti della mozione, nonché in un’articolata
discussione, in cui sono stati prospettati interessi antagonisti rispetto
all’obbligatorietà dell’uso della lingua inglese, correlati agli obiettivi
didattici perseguiti, ai contenuti degli insegnamenti, allo status giuridico
dei docenti e alla necessità di evitare misure che possano comportare
trattamenti discriminatori tra gli studenti.
Ne deriva che la deliberazione del 21 maggio 2012, pur
approvando la mozione sull’adozione della lingua inglese per i corsi di laurea
magistrale e di dottorato di ricerca, così confermando in parte qua le linee
strategiche 2012 - 2014 già approvate dal Senato accademico, si pone all’esito
di uno specifico procedimento di riesame, attivato in forza di specifici atti
di impulso espressivi di interessi differenti, che il Senato accademico ha
valutato per giungere a confermare l’adozione esclusiva della lingua inglese.
Ecco allora, che la deliberazione in esame, lungi
dall’integrare un atto meramente confermativo delle linee strategiche,
costituisce una conferma in senso proprio, che, per la parte trattata, assorbe
e sostituisce le linee strategiche già approvate.
Trattandosi di una conferma propria, la deliberazione
è autonomamente impugnabile, entro gli ordinari termini di decadenza, con
conseguente infondatezza dell’eccezione in esame.
2.2) Con la seconda eccezione di rito, la difesa del
Politecnico sostiene che la determinazione impugnata avrebbe natura meramente
programmatica e sarebbe priva di attitudine lesiva immediata, con conseguente
mancanza di un interesse concreto ed attuale al suo annullamento.
L’eccezione è infondata.
In linea generale va evidenziato che, secondo un
consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, il requisito
dell'attualità dell'interesse a ricorrere non sussiste allorché il pregiudizio
derivante dall'atto amministrativo sia meramente eventuale, ossia quando
l'emanazione del provvedimento non sia di per sé in grado di arrecare una
lesione nella sfera giuridica del soggetto che lo impugna, né sia certo che una
siffatta lesione comunque si realizzerà in un secondo tempo (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3365 che ribadisce Consiglio Stato, sez. IV,
19 giugno 2006, n. 3656; nonché in relazione agli atti di natura programmatica
Tar Campania, sez. III, 16 gennaio 2012 n. 197).
Nel caso di specie, la deliberazione impugnata dispone
in modo puntuale che, a partire dall’anno accademico 2014 – 2015, i corsi di
laurea magistrale e i dottorati di ricerca dovranno essere tenuti in lingua
inglese.
Si tratta di una previsione specifica, che determina
direttamente l’obbligo per i docenti dei corsi di laurea magistrale di
utilizzare la lingua inglese, sicché essa, pur inserendosi nel contesto di
linee strategiche di natura programmatica, da un lato, si rivolge a destinatari
immediatamente identificabili, dall’altro, assume un carattere immediatamente
cogente, che non richiede di per sé l’adozione di ulteriori atti.
Certo, l’introduzione di detto obbligo si collega,
secondo i contenuti delle linee strategiche, all’attivazione di strumenti di
formazione linguistica, che però non incidono sull’esistenza dell’obbligo
medesimo.
Ne deriva che la determinazione incide immediatamente
nella sfera giuridica dei ricorrenti, perché dà vita direttamente ad un obbligo
che incide sulle modalità di svolgimento dell’insegnamento.
Né è ipotizzabile una carenza di attualità
dell’interesse per il mero fatto che l’obbligo di utilizzare la lingua inglese
decorrerà dall’anno accademico 2014 – 2015, atteso che sussiste già la certezza
dell’incidenza dell’atto nella sfera giuridica dei ricorrenti, per effetto
dell’obbligatorietà dell’insegnamento in lingua inglese nei corsi di laurea
magistrale.
Del resto, come condivisibilmente dedotto dai
ricorrenti, l’introduzione dell’insegnamento in lingua inglese comporta la
necessità per i docenti di rielaborare la didattica complessiva in base alla
lingua da utilizzare, sia in relazione ai testi adottati, sia rispetto alla
struttura complessiva di ciascun corso, sia, infine, rispetto alla peculiare
competenza linguistica richiesta all’insegnate.
Si tratta di profili che incidono immediatamente sulla
posizione dei ricorrenti e che discendono direttamente dall’innovazione
introdotta dalle linee strategiche contestate, sicché è priva di fondamento la
tesi secondo la quale la deliberazione impugnata sarebbe priva di attuale
attitudine lesiva.
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza dell’eccezione
in esame.
3) Con il primo, il secondo, il terzo e il quarto dei
motivi proposti, che possono essere trattati congiuntamente perché strettamente
connessi sul piano logico e giuridico, i ricorrenti lamentano, in termini di
violazione di legge e di eccesso di potere, il contrasto dell’obbligatorietà
dell’insegnamento in lingua inglese con il principio di rilevanza
costituzionale dell’ufficialità della lingua italiana, quale lingua dello Stato
italiano, rilevando come tale uso obbligatorio ed esclusivo precluda il pieno
esercizio della libertà di insegnamento costituzionalmente garantita e del
diritto allo studio ad essa correlato.
Inoltre, si lamenta la violazione sia dell’art. 271
del r.d. del 31 agosto 1933 n. 159, nella parte in cui prevede che “la lingua
italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli
stabilimenti universitari”, sia dell’art. 2, comma 2, lett. l), della legge
2010 n. 240, nella parte in cui prevede il rafforzamento
dell’internazionalizzazione degli atenei, ma senza consentire che sia reso
obbligatorio l’uso di un’unica lingua straniera per i corsi di laurea
magistrale con esclusione della lingua italiana.
Infine, si deduce la violazione del principio, interno
e comunitario, di proporzionalità, perché le misure deliberate non sono
realmente funzionali all’internazionalizzazione del Politecnico e, comunque,
limitano in modo esorbitante tanto la libertà di insegnamento, cui si collega
lo status dei docenti universitari, quanto il diritto allo studio.
3.1) Per stabilire se sia legittima l’esclusività
dell’uso della lingua inglese nei corsi di laurea magistrale e nei dottorati di
ricerca, stabilita dal Senato accademico del Politecnico di Milano mediante i
provvedimenti impugnati, occorre analizzare quale sia il ruolo che
l’ordinamento riconosce alla lingua italiana, in generale e con particolare
riferimento all’insegnamento.
E’ pacifico che le norme della Costituzione non
contengono una diretta affermazione dell’ufficialità della lingua italiana,
tuttavia tale carattere è chiaramente percepibile in via indiretta dall’art. 6
Cost. che prevede la tutela delle minoranze linguistiche rimettendone
l’attuazione ad apposite norme.
E infatti, l’esigenza costituzionale di tutelare
minoranze linguistiche, non predeterminate dalla carta costituzionale, sorge
proprio in dipendenza del carattere ufficiale della lingua italiana, come
lingua che caratterizza lo Stato italiano.
Anche disposizioni di legge costituzionale riconoscono
l’italiano come lingua ufficiale dello Stato; si pensi all’art. 99 del Testo
unico approvato con d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 – recante l’approvazione del
testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il
Trentino Alto Adige – ove si prevede che “nella regione la lingua tedesca è
parificata a quella italiana che è la lingua ufficiale dello Stato”.
In tale senso è significativo che la legge 15 dicembre
1999, n. 482, diretta a introdurre “norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche”, esordisca all’art. 1 stabilendo che “la lingua
ufficiale della Repubblica è l'italiano”, per poi precisare al comma successivo
che “la Repubblica … valorizza il patrimonio linguistico e culturale della
lingua italiana” e aggiungendo che la Repubblica “promuove altresì la
valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge”.
Non è dubitabile, come puntualmente rilevato
dall’Avvocatura distrettuale, che la tutela delle minoranze linguistiche sia
correlata alle specificità storiche e culturali di determinate parti del
territorio della Repubblica, ma ciò non toglie che l’esigenza di tutelare
talune minoranze, riconoscendone l’identità linguistica, sorga in dipendenza
della dichiarata ufficialità della lingua italiana.
Ufficialità che non può tradursi in una vuota formula
o in una mera dichiarazione di intenti, ma che assume valenza di principio
cogente, immediatamente operativo, tanto che per la valorizzazione di
determinate minoranze linguistiche si è resa necessaria l’adozione di una
specifica disciplina correlata ad un precetto costituzionale.
Ovviamente ciò non significa che l’uso della lingua
inglese previsto dal Senato accademico del Politecnico rientri nella tematica
della tutela delle minoranze linguistiche, ma consente di evidenziare il
carattere centrale che l’ordinamento attribuisce alla lingua italiana come
espressione del patrimonio linguistico e culturale dello Stato.
Centralità riconosciuta dalla Corte Costituzionale,
che, seppure in un giudizio relativo alla legittimità di alcune disposizioni
del codice di procedura penale, ha affermato, con valore di principio, che la
“Costituzione conferma per implicito che il nostro sistema riconosce l'italiano
come unica lingua ufficiale, da usare obbligatoriamente, salvo le deroghe
disposte a tutela dei gruppi linguistici minoritari, da parte dei pubblici
uffici nell'esercizio delle loro attribuzioni” (cfr. Corte Cost. 20 gennaio
1982, n. 28).
Sempre la Corte Costituzionale ha chiarito la portata
dell’ufficialità della lingua italiana, precisando che la consacrazione,
nell'art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999, della lingua italiana quale
«lingua ufficiale della Repubblica» non ha evidentemente solo una funzione
formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse
disposizioni che prevedono l'uso delle lingue minoritarie, “evitando che esse
possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da
porre in posizione marginale la lingua ufficiale della Repubblica; e ciò anche
al di là delle pur numerose disposizioni specifiche che affermano espressamente
nei singoli settori il primato della lingua italiana” (cfr. Corte Cost. 22
maggio 2009, n. 159).
Ne deriva, in primo luogo, che il carattere ufficiale
della lingua italiana ne determina il primato in ogni settore della vita dello
Stato, anche al di là di specifiche disposizioni che di volta in volta la
tutelano; inoltre, il primato della lingua italiana comporta che ad essa non
possa essere attribuito all’interno dello Stato un ruolo subordinato rispetto
ad altre lingue e ciò, se non è possibile, in base al quadro normativo
richiamato, nel rapporto con le lingue minoritarie espressamente tutelate
dall’ordinamento, a maggiore ragione non può verificarsi rispetto a lingue
straniere che difettino di specifiche disposizioni di salvaguardia.
La centralità della lingua italiana è ribadita con
specifico riferimento all’insegnamento, seppure sempre nel rapporto con le
lingue minoritarie tutelate, proprio dalle disposizioni della legge 1999 n.
482, che pongono garanzie a salvaguardia dell’italiano.
Così, gli artt. 4 e 5 della legge n. 482 prevedono per
le scuole materne, elementari e medie inferiori, accanto all’uso della lingua
italiana anche l'uso della lingua della particolare minoranza per lo
svolgimento delle attività educative, rimettendo alle istituzioni scolastiche
la definizione delle modalità di svolgimento delle attività di insegnamento
della lingua e delle tradizioni culturali delle comunità locali; allo stesso
modo l’art. 6, con riferimento alle Università, attribuisce all’autonomia dei
singoli Istituti l’assunzione di iniziative “compresa l'istituzione di corsi di
lingua e cultura delle lingue” minoritarie, ricerca scientifica e attività
culturali e formative a sostegno delle finalità poste dalla legge n. 482.
Ancora una volta il dato normativo conduce ad
evidenziare che nelle situazioni in cui l’ordinamento prevede la tutela di
specifiche lingue minoritarie, viene comunque preservato il primato della
lingua italiana, che non può comunque assumere un ruolo subordinato o
secondario.
A maggior ragione, una volta chiarito che il principio
del primato della lingua italiana ha portata generale, come precisato dalla
Corte Costituzionale, sussiste la necessità di garantire che la lingua italiana
non subisca trattamenti deteriori anche quando il rapporto non sia con lingue
minoritarie tutelate, ma con lingue straniere rispetto alle quali non
sussistano specifiche norme di tutela.
A ben vedere, tale principio è esplicitato, per gli
insegnamenti erogati in ambito universitario, dall’art. 271 del R.D. 31 agosto
1933, n. 1592, recante l’approvazione del testo unico delle leggi
sull'istruzione superiore, ove si prevede che “la lingua italiana è la lingua
ufficiale dell'insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti
universitari”.
La disposizione ribadisce il primato della lingua
italiana nel contesto degli insegnamenti universitari, sicché in relazione ad
essi l’italiano non può assumere un ruolo subordinato o comunque secondario
rispetto all’uso di altre lingue.
L’Avvocatura distrettuale pone il problema della
compatibilità della norma appena richiamata con l’art. 2, comma 2, lett. l),
della legge 2010 n. 240, rilevando che, quand’anche non si ritenga che la
seconda disposizione abbia abrogato implicitamente la prima, nondimeno
quest’ultima non potrebbe operare qualora le Università decidessero, come nel
caso concreto, di rafforzare il profilo dell’internazionalizzazione, mediante
l’attivazione di corsi di studio in lingua straniera.
La tesi, pur se diffusamente argomentata, non può
essere condivisa.
Occorre muovere dal contenuto dell’art. 2, comma 2,
lett. l), della legge 2010 n. 240, ove si prevede che “…le università statali
modificano, altresì, i propri statuti in tema di articolazione interna, con
l'osservanza dei seguenti vincoli e criteri direttivi: … l) rafforzamento
dell'internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti
e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione
interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l'attivazione,
nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a
legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione
svolti in lingua straniera”.
La norma pone un criterio direttivo, che deve
orientare l’autonomia universitaria al fine di rafforzare il processo di
internazionalizzazione, consentendo alle istituzioni universitarie di istituire
insegnamenti, corsi di studio e forme di selezione svolti in lingua straniera.
Il rapporto tra la norma appena citata e l’art. 271
del R.D. 1931, n. 1592, non é strutturabile in termini di incompatibilità, con
conseguente abrogazione implicita della disposizione più remota, perché le due
norme hanno ambiti di operatività differenti.
In particolare, l’art. 271 sancisce il primato della
lingua italiana per gli insegnamenti universitari, mentre l’art. 2, comma 2,
lett. l), della legge 2010, n. 240, prevede la possibilità di introdurre dei
corsi in lingua straniera per incrementare la vocazione internazionale degli
istituti universitari.
Insomma, tra le due norme non ricorre un rapporto di
incompatibilità logica, né sussiste un’inconciliabilità tra i loro contenuti
precettivi, sicché non vi è spazio per configurare un’abrogazione tacita per
incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice
civile.
Ecco, allora, che il rapporto che intercorre tra le
due norme deve essere costruito tenendo conto del principio del primato della
lingua italiana, che, come già precisato, emerge indirettamente dalla carta
costituzionale ed è sancito direttamente da alcune leggi costituzionali, come
il Testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per
il Trentino Alto Adige.
Ne deriva che l’internazionalizzazione delle
Università deve essere compiuta rispettando il primato della lingua italiana,
da intendere secondo le precisazioni sviluppate dalla Corte Costituzionale
(cfr. (cfr. Corte Cost. 20 gennaio 1982, n. 28; Corte Cost. 22 maggio 2009, n.
159).
Proprio applicando i già richiamati criteri elaborati
dalla Corte, si deve ritenere che il processo di internazionalizzazione sia
compatibile con l’ordinamento nella misura in cui non collochi la lingua italiana
in posizione marginale rispetto ad altre lingue, facendole assumere un ruolo
subordinato nel contesto dell’insegnamento universitario.
Da ciò deriva che il rapporto tra l’art. 271 del R.D.
1933, n. 1592 e l’art. 2, comma 2, lett. l), della legge 2010 n. 240, non è
qualificabile in termini di deroga, nel senso che la seconda disposizione
legittima una deroga al principio sancito dalla prima, come pure prospettato
dall’Avvocatura, anche nel corso della discussione in pubblica udienza, perché
questa ricostruzione condurrebbe a porre in contrasto l’art. 2, comma 2, lett.
l), con il principio costituzionale del primato della lingua italiana.
Contrasto non insuperabile, perché l’art. 2, comma 2,
lett. l), si presta ad essere interpretato in modo coerente con il quadro
costituzionale e con le norme che, in applicazione dei principi costituzionali,
ribadiscono il primato della lingua italiana anche nell’insegnamento
universitario; circostanza questa che esime il Tribunale dal sollevare la
questione di legittimità costituzionale rispetto alla norma in esame, pure
prospettata dai ricorrenti, anche se in via subordinata.
Le due norme si prestano ad essere coordinate, in
termini di reciproca integrazione, perché il contenuto dell’art. 2, comma 2,
lett. l), nella parte in cui detta il criterio direttivo della realizzazione
del processo di internazionalizzazione non impone la necessaria collocazione
della lingua italiana in posizione subordinata rispetto a lingue straniere.
La disposizione si limita ad indicare delle azioni
strumentali al rafforzamento dell’internazionalizzazione, ma l’uso della
congiunzione “anche” rende evidente, in primo luogo, che si tratta di
un’indicazione non tassativa, in coerenza sia con l’autonomia ordinamentale
delle Università, sancita dall’art. 33 Cost., sia con la vocazione della norma
in esame, volta a porre criteri direttivi.
Tra le azioni è compresa anche la possibilità di
attivare, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali
disponibili a legislazione vigente, insegnamenti, corsi di studio e forme di
selezione svolti in lingua straniera.
L’utilizzo di simili strumenti non implica che l’uso
della lingua italiana debba necessariamente assumere un ruolo di secondo piano
o comunque marginale negli insegnamenti, perché di tratta di un risultato non
previsto dalla norma, né indispensabile per realizzare gli obiettivi che essa
pone.
Al contrario, fermo restando il primato della lingua
italiana, costituzionalmente imposto, si tratta di valorizzare nell’ottica
dell’internazionalizzazione anche l’uso di lingue straniere, da affiancare alla
lingua italiana, in modo da ampliare l’offerta formativa.
Spetta all’Università selezionare gli insegnamenti che
si prestano a tale processo, per la materia trattata, che di per sé presenta
una vocazione internazionale, o in considerazione delle origini e dello
sviluppo scientifico di una certa disciplina in una particolare lingua
straniera.
Insomma, l’uso della lingua straniera deve essere tale
da affiancare, in particolari materie, quello della lingua italiana, nei limiti
in cui sia necessario per favorire il processo di internazionalizzazione.
Del resto, la norma non limita all’uso di una lingua
straniera il processo di apertura verso l’estero, ma contempla misure
ulteriori, come la mobilità di docenti e di studenti, finalizzata a portare in
Italia le conoscenze di docenti stranieri e all’estero quelle di docenti
italiani e tale da consentire agli studenti italiani di svolgere all’estero una
parte del proprio percorso formativo.
Similmente, si prevede la possibilità di adottare
programmi integrati di studio, così da avvicinare il piano formativo delle
università italiane a quello realizzato da università estere e viceversa; nello
stesso senso vengono promosse le iniziative di cooperazione interuniversitaria
per attività di studio e di ricerca.
Insomma, la possibilità di tenere dei corsi di studio
in lingua straniera, facendo sostenere in tale lingua anche le prove di esame,
rappresenta solo uno degli strumenti diretti a favorire
l’internazionalizzazione e deve essere attuato, per esigenze sistematiche e di
compatibilità costituzionale, nel rispetto del primato della lingua italiana.
3.2) Si tratta ora di stabilire se le modalità con le
quali il Politecnico ha valorizzato l’uso delle lingue straniere nell’ottica
dell’internazionalizzazione sia coerente con il quadro normativo appena
esaminato.
L’analisi deve muovere da una considerazione di fatto:
dalla lettura della deliberazione del Senato accademico del 21 maggio 2012 e
delle linee strategiche contenute nella deliberazione del 15 dicembre 2011,
emerge con sicurezza che dall’anno accademico 2014 – 2015 i corsi di laurea
magistrale e i dottorati di ricerca tenuti presso il Politecnico di Milano –
che è un’istituzione universitaria pubblica, che eroga il servizio pubblico di
istruzione (tra le più recenti T.A.R. Abruzzo L'Aquila, sez. I, 19 dicembre
2012, n. 840) - dovranno essere attivati “esclusivamente in inglese” (cfr. doc.
4 e doc 9 di parte resistente), sicché non è dubitabile che gli atti impugnati
escludano per i corsi appena indicati l’utilizzabilità della lingua italiana,
tanto in fase di insegnamento, quanto in sede di esame.
L’assetto ora indicato non è compatibile con la
posizione che la lingua italiana ha nell’ordinamento, anche ai fini delle
modalità di erogazione dell’insegnamento universitario, secondo la normativa
costituzionale ed ordinaria.
In primo luogo, l’uso della lingua inglese è definito,
rispetto ai corsi di laurea magistrale e ai dottorati di ricerca, come un uso
esclusivo, sicché in questi ambiti è precluso l’utilizzo della lingua italiana,
tanto nella fase dell’insegnamento, quanto nel momento delle prove d’esame.
Si tratta di una soluzione che marginalizza l’uso
dell’italiano, perché la lingua straniera non si pone sullo stesso piano di
quella italiana, affiancandola, ma la sostituisce radicalmente.
Sostituzione non disposta in relazione a particolari e
specifici insegnamenti, ma indiscriminatamente, rispetto a tutti gli
insegnamenti che appartengono ai corsi di laurea magistrale, oltre che ai
dottorati di ricerca.
Insomma, il Senato accademico ha deciso di escludere
la lingua italiana dalla parte specialistica della preparazione, conservandola
solo per il triennio, nel quale, incontestatamente, si collocano gli
insegnamenti destinati a fornire un preparazione di base.
Non si tratta, come è ovvio, di realizzare
un’insussistente graduazione di “importanza“ tra gli insegnamenti del triennio
e quelli del biennio magistrale, ma di prendere atto della funzione
specializzante di quelli collocati nel biennio, al pari dei corsi relativi ai
dottorati di ricerca.
Ne consegue che la disciplina gravata contrasta con il
principio del primato della lingua italiana sia per l’ampiezza riconosciuta
all’impiego della lingua inglese, sia per la diversa incidenza riconosciuta
all’italiano e all’inglese rispetto alla formazione specialistica.
Sotto il primo profilo, va ribadito che l’uso
esclusivo dell’inglese è stato previsto per tutti i corsi di laurea magistrale,
seguendo una logica non selettiva, diretta cioè a predisporre l’utilizzabilità
della lingua inglese in ragione della specificità della materia, ma generalista,
perché riferita in modo indiscriminato a tutti i corsi magistrali e a tutti i
dottorati di ricerca.
Dal punto di vista in esame, la scelta del politecnico
si pone in una logica diametralmente opposta a quella sottesa al principio, di
rilevanza costituzionale, del primato della lingua italiana, perché rende la
lingua inglese alternativa a quella italiana.
Così facendo si persegue l’obiettivo
dell’internazionalizzazione eccedendo i mezzi consentiti a tale scopo, in
rapporto sia all’art. 271 del R.D. 1933 n. 1559, sia all’art. 2, comma 2, lett.
i), della legge 2010 n 240, perché l’apertura internazionale dell’Università
non si estende sino alla possibilità di sopprimere per interi corsi di laurea
l’uso della lingua italiana.
Tanto più il contrasto con il quadro normativo emerge
se si considera il secondo profilo, ossia che l’esclusione è stata disposta
rispetto ai corsi destinati alla specializzazione, come le lauree magistrali e
i dottorati di ricerca; in particolare, la lingua italiana è stata estromessa,
sempre in modo indiscriminato, dalla porzione di formazione più qualificante,
senza considerare che il primato che le è riconosciuto dall’ordinamento non è
fine a sé stesso, ma tende a garantire la conoscenza e la diffusione dei valori
che ispirano lo Stato italiano.
Vale precisare che ciò non esclude l’attivabilità di
corsi di laurea anche in lingua straniera, ma significa che il rispetto del
ruolo che l’ordinamento assegna alla lingua italiana impone che sia consentita
la scelta tra l’apprendimento in italiano o in lingua straniera, scelta non
consentita dai provvedimenti impugnati, che sono diretti a precludere l’uso
dell’italiano nelle lauree magistrali e nei dottorati, tanto ai fini
dell’insegnamento, quanto ai fini dell’apprendimento.
Le ultime considerazioni permettono di evidenziare –
come condivisibilmente censurato dai ricorrenti – che l’imposizione della
lingua inglese quale strumento di insegnamento e di apprendimento, contrasta
sia con la libertà di insegnamento, garantita dall’art. 33 Cost., sia con il
correlato diritto allo studio.
Esiste uno stretto rapporto tra l’esercizio della
libertà di insegnamento garantito dalla Costituzione Repubblicana e
l’utilizzabilità della lingua italiana.
Una volta chiarito che l’italiano non è tutelato quale
mezzo di comunicazione orale o scritta, ma per l’insieme di valori culturali
che sottende, è consequenziale rilevare che la piena esplicazione della libertà
di insegnamento presuppone la possibilità di utilizzare l’italiano, nel senso
che il docente che esercita in una istituzione pubblica deve poter scegliere di
trasmettere le conoscenze nella lingua italiana.
Simmetricamente, il discente deve essere posto in
condizione di avvalersi della lingua italiana per la formazione praticata in
una Università italiana.
Queste corrispondenze sono negate dalle delibere
impugnate, che, nei corsi di laurea magistrale e nei dottorati, obbligano i
docenti ad insegnare in lingua inglese e gli studenti ad apprendere in lingua
inglese.
Si badi, la lesione della libertà di insegnamento è
ancora più evidente se si considera che, dall’anno accademico 2014 – 2015, il
docente di un corso compreso nel biennio magistrale, se intende esercitare il
diritto di insegnare in lingua italiana, deve spostare la propria attività
didattica nel triennio di base, il che significa che deve abbandonare il corso
già gestito e optare per uno diverso, compreso tra gli insegnamenti del
triennio, atteso che le materie del biennio finale non sono intercambiabili con
quelle del triennio, perché afferiscono alla preparazione specialistica.
Sul punto la difesa del Politecnico sostiene che la
libertà di insegnamento sarebbe rispettata, perché ciascun docente del biennio
magistrale potrebbe decidere di continuare ad insegnare in italiano al
Politecnico, spostandosi nel triennio di base.
L’argomentazione non è condivisibile, perché coglie
solo una parte del fenomeno.
Come già evidenziato, ai fini della compatibilità del
processo di internazionalizzazione con il principio del primato della lingua
italiana e con la tutela della libertà di insegnamento, è centrale la
circostanza che lo stesso insegnamento possa essere mantenuto in italiano dal
medesimo docente, ma questo binomio non è consentito, perché il docente che
decide di continuare ad insegnare in italiano deve spostarsi nel triennio di
base, cambiando la materia insegnata, con conseguente violazione della libertà
di insegnamento.
Questo non significa che ciascun docente abbia una
sorta di “diritto al corso”, perché le esigenze organizzative, rimesse
all’autonomia universitaria, possono condurre all’accorpamento di corsi, alla
loro suddivisione, all’istituzione di nuovi corsi o alla soppressione di altri,
con i conseguenti riflessi sulle materie insegnate dai docenti interessati.
Piuttosto, sta ad indicare che il singolo docente non può essere sostituito
nella gestione di un corso perché si rifiuta di insegnare in una particolare
lingua straniera, atteso che in questo modo si comprime la sua libertà di
insegnamento, che, alla luce del primato della lingua italiana, deve potersi
esplicare in italiano nella misura in cui è esercitata in una Università
pubblica italiana.
Parimenti, è condivisibile la doglianza secondo la
quale le delibere impugnate non sono coerenti con l’obiettivo
dell’internazionalizzazione.
Sul punto la difesa del Politecnico sostiene che la
scelta effettuata sarebbe in linea con l’obiettivo indicato, perché la lingua
inglese é un “veicolo diffuso di comunicazione”.
L’argomentazione non è persuasiva.
Le linee strategiche prevedono l’utilizzazione della
sola lingua inglese, ma questo comporta un’apertura limitata alle sole culture
anglofone, secondo un criterio selettivo non coerente con la finalità
dell’internazionalizzazione.
Nulla esclude che per certi insegnamenti la logica
dell’internazionalizzazione possa condurre ad ampliare l’offerta formativa con
l’introduzione di corsi anche in lingua inglese, ma non vi sono ragioni
emergenti dagli atti impugnati per ritenere giustificata la gestione
esclusivamente in lingua inglese di tutti gli insegnamenti del biennio
magistrale e dei dottorati di ricerca.
A ben vedere, il problema in esame è stato sottoposto
al Senato accademico, perché dal verbale della seduta del 21 maggio 2012 emerge
la trattazione della questione dell’effettiva compatibilità di taluni
insegnamenti magistrali, come quelli di architettura, con l’uso della lingua
inglese.
Ciò nonostante è stata approvata la scelta di gestire
esclusivamente in inglese anche questi insegnamenti magistrali.
Il dato ora indicato evidenzia un profilo di
irragionevolezza degli atti impugnati – profilo censurato dai ricorrenti con i
motivi in esame – in quanto vi sono degli insegnamenti compresi nelle lauree
magistrali e nei dottorati, come diritto urbanistico, diritto amministrativo,
diritto dell’ambiente, che, pur riferendosi al panorama normativo e
giurisprudenziale dello Stato italiano, dovrebbero essere impartiti in lingua
inglese, così come in inglese dovrebbero essere sostenute le prove di esame.
In questo modo si addiviene ad un risultato incoerente
con la dichiarata finalità di favorire l’internazionalizzazione, perché anche
per gli insegnamenti che più si connotano per un intenso legame con la lingua e
la cultura italiana si impone l’uso della lingua inglese.
Non va dimenticato che l’apertura dell’Università al
panorama scientifico internazionale è un obiettivo complesso, come risulta
dalla pluralità di azioni previste dall’art. 2, comma 2, lett. l), della legge
2010 n. 240; obiettivo che non si traduce solo nell’arricchire la didattica
italiana con i valori di culture straniere, anche mediante l’istituzione di
determinati corsi in lingua straniera, ma comprende la possibilità che siano
conosciute all’estero le specificità della didattica italiana e ciò si
realizza, specie negli insegnamenti più permeati di cultura italiana, nel
conservare l’uso della lingua italiana, intesa non solo come mezzo di
comunicazione, ma come strumento di trasmissione di specifici valori culturali.
Analizzando il problema da questo punto di vista,
spicca in modo evidente l’illogicità della scelta di valorizzare in modo
assorbente l’uso della lingua inglese per tutti i corsi delle lauree magistrali
e per i dottorati, senza tenere conto della specificità dei diversi
insegnamenti, della possibilità di valorizzare altre lingue straniere e della
necessità di attuare l’apertura vero l’estero mantenendo il primato della
lingua italiana, secondo i principi emergenti dalla Costituzione.
L’Avvocatura distrettuale sostiene che la coerenza
delle delibere impugnate con il processo di internazionalizzazione emergerebbe
dai paragrafi 30 e 31 dell’allegato B del D.M. 23 dicembre 2010 n. 50, che,
secondo la tesi difensiva, consentirebbe l’attivazione di corsi in lingua
inglese nel senso voluto dal Senato accademico.
Neppure questa deduzione è condivisibile.
Il D.M. 23 dicembre 2010, n. 50, contiene la
definizione delle linee generali d'indirizzo della programmazione delle
Università per il triennio 2010 - 2012.
Il paragrafo 30 dell’Allegato B del D.M. stabilisce
che, dalla data di adozione del decreto e fino al completamento
dell'adeguamento degli ordinamenti didattici di tutti i propri corsi, le
Università non possono procedere alla istituzione di nuovi corsi di studio,
precisando che nuovi corsi di studio possono essere successivamente istituiti
secondo quanto previsto dal successivo paragrafo 32.
Il paragrafo 31 dispone che al fine di favorire la
razionalizzazione e “la internazionalizzazione delle attività didattiche, il
divieto di cui al punto § 30 non trova applicazione nei riguardi
dell'istituzione di corsi di studio finalizzata all'accorpamento di corsi già
presenti nel RAD (con contestuale cancellazione dal RAD degli stessi), ovvero
di corsi omologhi a corsi già presenti nel RAD da attivare nella medesima sede
didattica dei medesimi, che prevedano la erogazione delle attività didattiche
interamente in lingua straniera, anche in relazione alla stipula di convenzioni
con Atenei stranieri per il rilascio del doppio titolo o del titolo congiunto”.
La lettura integrale delle due disposizioni conduce ad
un risultato interpretativo diverso da quello prospettato dalla difesa del
Politecnico.
Invero, mentre la disposizione del paragrafo 30 vieta
l’istituzione di nuovi corsi di studio, l’art. 31, in via derogatoria, ne
consente l’attivazione quando si tratti di procedere all’accorpamento di corsi
preseesistenti, oppure se si tratti di attivare dei corsi in lingua straniera,
ma, in quest’ultimo caso, a condizione che si tratti di corsi omologhi ad altri
già presenti nel RAD e da attivare nella medesima sede didattica.
La norma, quindi, consente in via derogatoria la
istituzione di nuovi corsi in lingua straniera, ma a condizione che
corrispondano a dei corsi già esistenti in lingua italiana.
Così interpretata la disposizione è coerente con il
panorama normativo di riferimento, perché salvaguarda il primato della lingua
italiana, consentendo l’apertura verso l’estero mediante la possibilità di
seguire lo stesso corso anche in lingua straniera.
Insomma, i paragrafi 30 e 31 del D.M. n. 50/2010, se
letti nella loro interezza, non valgono a supportare le determinazioni
impugnate, ma piuttosto ne evidenziano l’illegittimità, perché con esse non
sono stati introdotti dei corsi in lingua straniera omologhi a corsi
preesistenti e gestiti in italiano, ma è stata prevista la radicale
sostituzione della lingua inglese a quella italiana nelle lauree magistrali e
nei dottorati di ricerca, senza garantire il primato della lingua italiana.
Le considerazioni sinora svolte conducono a ritenere
fondata anche la censura diretta a contestare il difetto di proporzionalità
delle misure adottate.
Come è noto, il principio di proporzionalità impone,
in estrema sintesi, che la misura adottata dall’amministrazione sia idonea a
realizzare l'obiettivo perseguito e non vada oltre quanto è necessario per
raggiungerlo (cfr. Corte giustizia U.E., grande sezione, 27 novembre 2012, n.
566, nonché Corte giustizia U.E., 6 dicembre 2005, C-453/03, C-11/04, C-12/04 e
C-194/04).
Insomma, la proporzionalità è rispettata quando
l’amministrazione, nell’esercizio dei poteri discrezionali di scelta della
misura da adottare per realizzare un determinato obiettivo, concentra
l’attenzione su quella che consente di raggiungere il risultato minimizzando il
sacrificio degli altri interessi compresi nella fattispecie.
Nel caso di specie i parametri indicati non risultano
rispettati.
L’obiettivo perseguito dal Politecnico è quello di
favorire l’internazionalizzazione dell’Ateneo, ma l’uso esclusivo della lingua
inglese per la parte specializzante dell’offerta didattica - biennio magistrale
e dottorati – non riflette l’obiettivo perseguito, perché esso non richiede una
scelta così radicale per essere raggiunto.
Come già evidenziato l’uso esclusivo della lingua
inglese apre l’Ateneo ai paesi la cui cultura si connota per l’uso
dell’inglese, ma non si tiene conto dell’ampio respiro sotteso all’esigenza di
internazionalizzazione, che comporta un’apertura verso il pluralismo culturale,
mantenendo la centralità della lingua italiana e non un’apertura selettiva,
perché limitata ad una particolare lingua.
Non si vuole negare che, come è noto, l’uso della
lingua inglese sia particolarmente diffuso, ma ciò non significa che l’uso
obbligatorio ed esclusivo di questa lingua favorisca l’internazionalizzazione
dell’Ateneo, perché manca ogni correlazione tra l’uso
dell’inglese e la possibilità di diffondere le conoscenze, la didattica, le
modalità di insegnamento praticate dal Politecnico in relazione ai contenuti
dei diversi corsi che compongono le lauree magistrali e i dottorati.
Del resto, ci si è già soffermati sul fatto che la
marginalizzazione dell’italiano, che così si verifica, oltre a contrastare con
il principio del primato della lingua italiana, contrasta anche con l’obiettivo
dell’internazionalizzazione, perché l’esclusione dell’italiano dagli
insegnamenti specialistici comporta che l’apertura verso l’estero sia
unidirezionale, ossia diretta a favorire, con l’uso di una particolare lingua
straniera, la diffusione delle conoscenze e dei valori che tipicamente in
quella lingua si esprimono, dimenticando però che l’internazionalizzazione
implica anche diffusione delle conoscenze e dei valori che, nei diversi
insegnamenti, sono apportati dalla cultura italiana e che in italiano si
manifestano.
Parallelamente, la prevista sostituzione della lingua
inglese alla lingua italiana per tutti gli insegnamenti del biennio magistrale
e per i dottorati di ricerca, incide in modo esorbitante sulla libertà di
insegnamento e sul diritto allo studio, che integrano degli interessi di
rilevanza costituzionale sicuramente compresi nella vicenda in esame.
Va ribadito, infatti, che l’innovazione approvata dal
Senato accademico obbliga i docenti, che in esercizio della loro libertà di insegnamento
intendono continuare la docenza nei corsi già gestiti del biennio magistrale,
ad insegnare necessariamente in lingua inglese, adattando a ciò i programmi, i
testi, la didattica, nonché acquisendo conoscenze della lingua inglese prima
non richieste.
Il punto è particolarmente rilevante, perché la
conoscenza della lingua inglese non implica di per sé la capacità di sviluppare
la didattica in inglese, in quanto è evidente che tale capacità richiede una
dimestichezza e una padronanza della lingua del tutto peculiare.
Allo stesso modo, gli studenti che intendono
completare presso il Politecnico la propria formazione, ivi frequentando anche
il biennio magistrale o dedicandosi al dottorato, dovranno necessariamente
abbandonare l’uso della lingua italiana.
In altre parole, gli interessi di cui sono portatori
insegnanti e studenti vengono sacrificati in una misura di gran lunga eccedente
quanto necessario per realizzare l’obiettivo dell’internazionalizzazione.
Obiettivo che, si ripete ancora una volta, non significa
piegare gli insegnamenti e la cultura scientifica praticati in una Università
pubblica italiana in favore di una particolare lingua straniera, per quanto
essa sia diffusa come mezzo di comunicazione tra persone di diversa
nazionalità, ma significa attivare strumenti che consentano agli studenti
stranieri di sperimentare e conoscere la didattica italiana e agli studenti
italiani di arricchire le proprie conoscenze con quelle che in ciascuna materia
sono sviluppate in paesi stranieri.
Tra le azioni utilizzabili vi è anche, ai sensi
dell’art. 2, comma 2, lett. l) , della legge 2010 n. 240, l’istituzione di
corsi in lingua straniera, ma ciò deve avvenire, da un lato, nel rispetto del
primato della lingua italiana, dall’altro, nel rispetto degli interessi di
docenti e studenti italiani, che devono poter scegliere la lingua in cui,
rispettivamente, insegnare ed apprendere, infine, garantendo un effettivo
pluralismo nella circolazione delle conoscenze scientifiche, che viene, invece,
offuscato quando si decide di valorizzare una sola lingua straniera per tutta
la parte didattica destinata alla formazione specialistica.
Ne deriva che le scelte compiute dal Senato accademico
con le delibere impugnate si rivelano sproporzionate, sia perché non
favoriscono l’internazionalizzazione dell’Ateneo, ma ne indirizzano la
didattica verso una particolare lingua e verso i valori culturali di cui quella
lingua è portatrice, sia perché comprimono in modo non necessario le libertà,
costituzionalmente riconosciute, di cui sono portatori tanto i docenti, quanto
gli studenti.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza delle censure
trattate, il cui carattere sostanziale consente di prescindere dall’esame delle
ulteriori doglianze articolate nel ricorso.
4) In definitiva, il ricorso è fondato e deve essere
accolto.
La particolare complessità delle questioni giuridiche
esaminate consente di ravvisare giusti motivi per compensare tra le parti le
spese della lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)
definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e
per l’effetto annulla la delibera adottata in data 21 maggio 2012 dal Senato
accademico del Politecnico di Milano nella parte in cui ha approvato la mozione
sull’adozione della lingua inglese per i corsi di laurea magistrale e di
dottorato di ricerca.
Compensa tra le parti le spese della lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del
giorno 26 marzo 2013 con l'intervento dei magistrati:
Adriano Leo, Presidente
Alberto Di Mario, Primo Referendario
Fabrizio Fornataro, Primo Referendario, Estensore
L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/05/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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