mercoledì 16 ottobre 2013

CULTURA: "II Processo di Kafka" (Capitolo VII).



CULTURA: 
"II Processo di Kafka"
 (Capitolo VII).


Non sei un Avvocato se non hai letto il "Processo di Kafka".
Io sono esentato perché amministrativista. Lo stesso vale per i civilisti...
Per i penalisti è condicio sine qua non". 
Bisognerebbe portarlo all'Esame di Stato. Insieme ad Azzeccagarbugli di Manzoni.
A parte gli scherzi... 
Grande romanzo e grande capitolo il VII!
FF


Capitolo VII: L'Avvocato


Una mattina d'inverno - fuori cadeva la neve nella luce fosca - K. sedeva nel suo ufficio, già stanchissimo malgrado fosse ancora presto. Per difendersi almeno dagli impiegati aveva dato disposizione all'usciere di non lasciarne entrare nessuno, perché era occupato con un lavoro importante. Ma invece di lavorare si rigirava sulla sua poltrona, spostava adagio alcuni oggetti sul tavolo, poi però, senza rendersene conto, abbandonò tutto il braccio disteso sul piano del tavolo e rimase seduto immobile, a capo chino.

Il pensiero del processo non lo lasciava più. Spesso aveva riflettuto se non sarebbe stato bene stendere per iscritto una difesa e farla pervenire al tribunale. Voleva farla precedere da un sunto della sua vita e spiegare, per ogni avvenimento di una certa importanza, per quali motivi si era comportato così, se questo comportamento, secondo il suo giudizio attuale, era da condannare o da approvare e quali motivi poteva addurre nell'uno o nell'altro caso. I vantaggi di un tale documento sulla semplice difesa ad opera dell'avvocato, nemmeno lui irreprensibile, erano indubbi. K. non sapeva nulla delle iniziative prese dall'avvocato; comunque non dovevano essere molte, era già un mese che non lo aveva più convocato, e negli incontri precedenti K. non aveva avuto mai l'impressione che quell'uomo potesse ottenere molto per lui. Soprattutto non lo aveva quasi mai interrogato. Eppure c'era tanto da chiedere. Chiedere era la cosa più importante. K. aveva la sensazione che avrebbe potuto porre lui stesso tutte le domande necessarie. L'avvocato invece, anziché fare domande, parlava lui o gli stava muto di fronte, si sporgeva un poco, probabilmente a causa dell'udito debole, sopra la scrivania, si tirava una ciocca in mezzo alla barba e teneva gli occhi bassi sul tappeto, magari proprio nel punto dove K. era stato sdraiato con Leni. Ogni tanto dava a K. qualche vano ammonimento, come se ne danno ai bambini. Discorsi tanto inutili quanto noiosi, che K. non intendeva pagare un soldo al momento della parcella. Quando l'avvocato credeva di averlo demoralizzato abbastanza, ricominciava di solito a fargli un po' di coraggio. Di processi simili, raccontava allora, ne aveva già vinti parecchi, in tutto o in parte. Processi che, se anche in realtà non erano difficili come quello, si presentavano ancora più disperati. Un elenco di quei processi ce l'aveva lì nel cassetto - e diede un colpetto su uno dei cassetti del tavolo -, purtroppo i documenti non li poteva mostrare, erano segreti di ufficio. Tuttavia, la grande esperienza acquisita in tutti quei processi tornava ora, com'era ovvio, a profitto di K. Si era naturalmente messo subito al lavoro, e la prima istanza era già quasi pronta. Era importantissima, perché la prima impressione data dalla difesa era spesso determinante per l'andamento di tutto il processo. Purtroppo però, e di questo lui doveva avvertire K., a volte succedeva che le prime istanze inoltrate al tribunale non venivano lette. Venivano semplicemente messe agli atti e si faceva notare che per il momento l'interrogatorio e l'osservazione dell'imputato erano più importanti di qualsiasi scritto. Se l'istante si ostinava, si aggiungeva che prima della decisione, non appena raccolte tutte le prove, naturalmente quelle pertinenti, tutti gli atti, quindi anche quella prima istanza, sarebbero stati esaminati. Purtroppo anche questo il più delle volte non era vero, la prima istanza di solito finiva fuori posto o andava definitivamente smarrita, e anche se veniva conservata sino alla fine, non la leggeva quasi nessuno, ma questo l'avvocato l'aveva solo sentito dire. Tutto ciò era molto spiacevole, ma non del tutto ingiustificato. K. non doveva dimenticare che il procedimento non era pubblico, poteva diventare pubblico se il tribunale lo riteneva necessario, ma la legge non prescrive la pubblicità. Pertanto anche i documenti del tribunale, soprattutto l'atto di accusa, non sono accessibili né all'imputato né alla difesa, quindi in generale non si sa o almeno non esattamente, contro che cosa deve indirizzarsi la prima istanza, e questa perciò può contenere solo per caso qualcosa che abbia importanza per la causa. Istanze veramente pertinenti e probatorie si possono elaborare solo in seguito, quando nel corso degli interrogatori dell'imputato emergono con maggiore chiarezza i singoli capi di accusa e la loro motivazione o sia possibile indovinarli. Stando così le cose, la difesa viene naturalmente a trovarsi in una posizione molto sfavorevole e difficile. Ma anche questo è intenzionale. La difesa, infatti, non è propriamente consentita dalla legge ma solo tollerata, ed è persino controverso se il relativo articolo di legge lasci desumere almeno che questa tolleranza sia contemplata. Perciò, a rigore, non ci sono avvocati riconosciuti dal tribunale, tutti quelli che si presentano come avvocati davanti a questo tribunale in fondo non sono che mestieranti. Questo naturalmente nuoce alla dignità dell'intera categoria, e se mai K. fosse entrato un giorno nelle cancellerie del tribunale, avrebbe potuto dare un'occhiata, tanto per avere visto anche questa, alla stanza degli avvocati. Probabilmente si sarebbe spaventato al vedere la compagnia radunata là dentro. Già lo stanzino stretto e basso loro assegnato indica il disprezzo del tribunale per quella gente. Riceve luce solo da un finestrino posto così in alto che se uno vuole guardare fuori, dove del resto il fumo di un camino messo proprio lì davanti gli entra nel naso e gli annerisce la faccia, deve prima cercare un collega che lo prenda sulle spalle. Nel pavimento di questo stanzino - tanto per dare un altro esempio dello stato in cui si trova - c'è ormai da più di un anno un buco, non così grande che possa caderci dentro un uomo ma abbastanza perché uno ci sprofondi con tutta la gamba. La stanza degli avvocati si trova al secondo solaio; se quindi uno ci sprofonda dentro, la gamba penzola giù al primo solaio, e precisamente nel corridoio dove aspettano gl'imputati. Non è esagerato dire che nell'ambiente degli avvocati queste condizioni sono definite scandalose. Reclami all'amministrazione non hanno il minimo effetto, anzi, agli avvocati è severissimamente vietato di far cambiare qualsiasi cosa nella stanza a proprie spese. Ma anche questo modo di trattare gli avvocati ha la sua ragione. Si vuole eliminare la difesa, tutto deve essere lasciato all'imputato stesso. Non è un cattivo punto di vista, in fondo, ma niente sarebbe più sbagliato del dedurne che in questo tribunale gli avvocati sono inutili per gl'imputati. Al contrario, in nessun altro tribunale sono altrettanto necessari. Il processo infatti è di solito segreto non soltanto per il pubblico ma anche per l'imputato. Naturalmente solo fin dove è possibile, ma è possibile in misura molto ampia. Nemmeno l'imputato infatti ha accesso ai documenti giudiziari, e dagli interrogatori è molto difficile risalire ai documenti su cui si basano, specie però per l'imputato, che è confuso e ha mille preoccupazioni che lo distraggono. E qui interviene la difesa. Di solito ai difensori non è consentito essere presenti agli interrogatori, quindi, dopo gli interrogatori, anzi, possibilmente ancora sulla porta della sala delle udienze, devono cercare di sapere dall'imputato come è andato l'interrogatorio per ricavare da queste relazioni, spesso già molto sbiadite, quanto può essere utile alla difesa. Ma l'essenziale non è questo perché così non si riesce a sapere molto, anche se naturalmente, qui come altrove, una persona capace riesce a saperne più di altri. Essenziali restano comunque le relazioni personali dell'avvocato, in esse sta il valore principale della difesa. Ora, K. ha già desunto dalle sue esperienze personali che l'organizzazione giudiziaria, ai livelli più bassi, non si può dire perfetta, conta impiegati negligenti e corruttibili, il che apre delle falle nel rigido apparato del tribunale. Qui s'infiltra la maggior parte degli avvocati, qui si corrompe e si spia, ci sono stati persino casi, almeno nei primi tempi, di furto di documenti. È innegabile che in questo modo si possono conseguire alcuni risultati temporanei sorprendentemente favorevoli per l'imputato, di cui questi piccoli avvocati si vantano in giro adescando nuovi clienti, ma che per l'ulteriore sviluppo del processo non significano niente o niente di nuovo. Valgono veramente, invece, solo le leali relazioni personali, e precisamente con gli alti funzionari, col che s'intende naturalmente solo gli alti funzionari di grado inferiore. Solo così si può influire sullo sviluppo del processo, in un primo tempo forse in modo impercettibile, ma poi con sempre maggiore evidenza. Solo pochi avvocati naturalmente riuscivano in questo, e qui la scelta di K. era caduta bene. Forse solo uno o due altri avvocati avrebbero potuto vantare conoscenze come quelle del dottor Huld. Questi però neanche badano a chi frequenta la stanza degli avvocati, e non hanno niente a che fare con loro. Tanto più stretto però è il loro legame con i funzionari del tribunale. Non era nemmeno sempre necessario che il dottor Huld si recasse in tribunale, aspettasse nelle anticamere che i giudici istruttori si facessero magari vedere e, a seconda del loro umore, ottenesse un successo il più delle volte apparente o anche nemmeno questo. No, K. lo aveva visto da sé, i funzionari, anche molto alti, vengono da soli, danno volentieri informazioni chiare o almeno facilmente interpretabili, discutono le successive fasi dei processi, in alcuni casi si lasciano persino convincere e accettano di buon grado l'opinione altrui. Però non ci si doveva fidare troppo di loro sotto quest'ultimo aspetto, per quanto formulino con risolutezza la loro nuova presa di posizione favorevole alla difesa, poi magari vanno difilato nella loro segreteria e rilasciano per il giorno seguente un rapporto conclusivo di contenuto totalmente opposto e forse ancora molto più severo per l'imputato di quanto fosse la loro prima intenzione, a cui sostenevano di avere completamente rinunciato. Contro questo naturalmente non ci si poteva difendere, perché quello che loro hanno detto a quattr'occhi è appunto detto solo a quattr'occhi e non ammette conseguenze di carattere pubblico, anche se la difesa non dovesse avere altri motivi per conservarsi il favore di quei signori. D'altra parte è anche vero che quei signori non si mettono certo in contatto con la difesa, ovviamente con una difesa competente, solo per spirito umanitario o per sentimenti di amicizia, ma piuttosto perché, sotto un certo aspetto, ne dipendono anche loro. Proprio qui risulta evidente l'aspetto negativo di un'organizzazione giudiziaria che fin dagli inizi opta per il segreto, ai funzionari manca il contatto con la popolazione, per i processi comuni, di media complessità, sono bene preparati, sono processi che filano via da sé su un loro binario, basta una spinta ogni tanto, ma di fronte ai casi più semplici, come pure a quelli particolarmente difficili, spesso non sanno da che parte voltarsi, chiusi forzatamente nella loro legge, sempre, giorno e notte, non hanno una giusta comprensione dei rapporti umani, e in questi casi ne risentono pesantemente. Allora vengono dall'avvocato a chiedere consiglio, e dietro di loro viene un usciere che porta gli atti di solito tanto segreti. Davanti a questa finestra si sarebbero potuti incontrare molti di quei signori, dai quali uno meno se la sarebbe aspettata, intenti a guardare in strada sconsolati, mentre l'avvocato studiava al tavolo gli atti per poter dare loro un buon consiglio. Del resto erano proprio quelle le occasioni in cui si poteva vedere con quale rara serietà quei signori prendevano la loro professione e quanto si disperavano di fronte ad ostacoli che, per loro natura, non erano in grado di superare. Sarebbe stato far loro un torto considerare facile la loro posizione. La gerarchia, i gradi del tribunale erano infiniti, sfuggivano persino alla comprensione degli addetti. Ma il procedimento davanti alla corte era in generale segreto anche per i funzionari di livello inferiore, che non potevano quindi mai seguire compiutamente nel loro ulteriore sviluppo le pratiche di cui si occupavano, la causa compare quindi nel loro campo visivo, spesso senza che sappiano da dove viene, e prosegue senza che sappiano verso dove. A questi funzionari sfugge quindi l'insegnamento che si può trarre dalla studio delle singole fasi del processo, della sentenza finale e delle sue motivazioni. Essi possono occuparsi solo di quella parte del processo che la legge assegna loro, e di ciò che segue, dunque del risultato del loro lavoro, sanno di solito meno dei difensori, che invece di regola rimangono a contatto con l'imputato fin quasi alla fine del processo. Anche in questo senso possono dunque apprendere dalla difesa molti elementi preziosi. Se non perdeva di vista tutto questo, K. non doveva meravigliarsi dell'irritabilità dei funzionari che talvolta trapela nei confronti degli imputati dai loro modi offensivi - ognuno ne ha fatto l'esperienza. Tutti i funzionari sono irritati, anche quando paiono tranquilli. Naturalmente a soffrirne di più sono i piccoli avvocati. Si racconta per esempio la storia seguente, che ha tutta l'aria di essere vera. Un anziano funzionario, un brav'uomo, tranquillo, aveva studiato per un giorno e una notte ininterrottamente - questi funzionari sono di uno zelo ineguagliabile - una causa difficile resa ancora più intricata dalle istanze dell'avvocato. Verso il mattino, dunque, dopo ventiquattr'ore di lavoro probabilmente non molto proficuo, andò alla porta d'ingresso, si mise lì in agguato e scaraventò giù dalle scale ogni avvocato che volesse entrare. Gli avvocati si riunirono sul pianerottolo da basso per decidere sul da farsi; da una parte non hanno un diritto vero e proprio di entrare, quindi non possono agire legalmente contro il funzionario e devono anche guardarsi, come già si è detto, dall'inimicarsi tutti gli altri funzionari. Ma, dall'altra, ogni giorno che non trascorrono in tribunale è un giorno perso e dunque tenevano molto ad entrare. Alla fine si misero d'accordo che avrebbero cercato di stancare l'anziano signore. Veniva mandato su di volta in volta un avvocato che saliva di corsa la scala e poi, opponendo più resistenza che poteva, comunque passiva, si lasciava buttare giù, dove veniva raccolto dai colleghi. Andò avanti così per circa un'ora, poi l'anziano signore, già sfinito del resto dal lavoro notturno, si stancò davvero e tornò nel suo ufficio. Quelli di sotto dapprima non volevano proprio crederci e mandarono su uno a guardare dietro la porta se ci fosse via libera. Solo allora entrarono e non osarono probabilmente neppure fiatare. Perché gli avvocati - e anche il più piccolo può farsi almeno in parte un'idea della situazione - sono ben lungi dal pensare d'introdurre o imporre qualsiasi miglioria in tribunale, mentre quasi tutti gli imputati, cosa molto significativa, anche gente molto semplice, non appena ha inizio il processo cominciano subito a escogitare proposte di miglioramenti, sprecando spesso tempo ed energie che potrebbero impiegare molto meglio diversamente. La sola cosa giusta era rassegnarsi alla situazione esistente. Se anche fosse stato possibile migliorare alcuni dettagli - ma era pretesa assurda - tutt'al più si sarebbe ottenuto qualcosa per i casi futuri, ma si sarebbe arrecato un danno enorme a se stessi risvegliando la particolare attenzione dei funzionari, sempre vendicativi. Mai risvegliare l'attenzione! Mantenersi tranquilli, per quanto possa non andare a genio. Cercare di rendersi conto che questo grosso organismo giuridico resta per così dire in stato di perenne precarietà, e che se uno di propria iniziativa modifica qualcosa sul proprio posto, si scava il terreno sotto i piedi e può finire con il cadere, mentre il grosso organismo si procura facilmente un sostituto altrove - poiché tutto è collegato - per il piccolo disturbo e rimane immutato, quando non ne esca, cosa persino probabile, ancora più chiuso, più vigile, più severo, più malvagio. Si lasci dunque fare all'avvocato, invece di disturbarlo. I rimproveri non servono a molto, soprattutto se non si riesce a farne capire i motivi in tutta la loro importanza, ma bisognava pur dire quanto K. avesse nuociuto alla sua causa con il suo comportamento nei confronti del direttore della cancelleria. Questo personaggio influente era ormai da cancellare dalla lista di coloro presso i quali si sarebbe potuto tentare qualcosa a favore di K. Faceva finta, con evidente intenzione, di non sentire nemmeno i più fuggevoli accenni al processo. In certe cose i funzionari sono proprio dei bambini. Spesso possono offendersi per cose del tutto innocenti - ma il comportamento di K. non era purtroppo tale - a tal punto che smettono di parlare persino con i migliori amici, si voltano dall'altra parte quando li incontrano e li osteggiano non appena possono. Ma poi, d'un tratto, e, cosa sorprendente, senza un motivo particolare, si lasciano indurre a ridere da un piccolo scherzo qualunque, che si azzarda solo perché pare non esserci più speranza, ed eccoli riconciliati. Trattare con loro è insieme facile e difficile, regole in proposito non ce ne sono quasi. A volte c'è da meravigliarsi che una singola vita di media durata possa bastare ad apprendere quanto occorre per lavorare in questo campo con qualche successo. Arrivano, è vero, momenti brutti, come capita a tutti, quando pare che siano andati a buon fine solo processi fin dall'inizio destinati a risolversi bene, il che sarebbe avvenuto comunque, anche senza il nostro concorso, mentre tutti gli altri sono andati perduti malgrado lo starci appresso, il darsi da fare e tutti quei piccoli, apparenti successi di cui ci eravamo tanto rallegrati. Allora uno perde ogni sicurezza, e di fronte a certe domande non osa nemmeno più negare che è stato proprio il suo intervento a mettere su una strada sbagliata molti processi di per sé bene avviati. Anche questa, certo, è una forma di fiducia in sé, ma è l'unica che poi rimane. A queste crisi - perché solo di crisi si tratta e non d'altro - gli avvocati sono particolarmente esposti quando un processo che hanno condotto abbastanza avanti e in modo soddisfacente gli viene tolto di mano. È sicuramente il peggio che possa capitare a un avvocato. Non è l'imputato che gli sottrae il processo, questo non succede mai, un imputato, una volta preso un certo avvocato, deve tenerselo, succeda quel che succeda. Come potrebbe poi farcela da solo, una volta che ha chiesto aiuto? Questo non succede dunque mai, talvolta succede invece che il processo prenda una strada su cui l'avvocato non può più seguirlo. All'avvocato vengono semplicemente sottratti e il processo e l'imputato e tutto; allora non possono più niente nemmeno le migliori relazioni con i funzionari, perché loro stessi non sanno nulla. Il processo è per l'appunto entrato in una fase in cui non è più consentito prestare aiuto, in cui di esso si occupano corti inaccessibili, dove nemmeno l'imputato è più raggiungibile dall'avvocato. Poi un giorno uno arriva a casa e si trova sul tavolo tutte le istanze che con ogni cura e le migliori speranze ha preparato per questa causa, sono state respinte perché non è consentito trasferirle alla nuova fase processuale, sono pezzi di carta di nessun valore. Con ciò il processo non è necessariamente già perduto, assolutamente no, o almeno non sussiste alcuna ragione precisa che lo lasci supporre, semplicemente non si sa più niente del processo, né più niente se ne verrà a sapere. Ora, per fortuna, casi del genere sono eccezioni, e se anche il processo di K. dovesse essere uno di questi casi, per il momento era comunque ancora ben lontano da quella fase. C'era però ancora ampia occasione di lavoro per gli avvocati, e K. poteva stare sicuro che sarebbe stata sfruttata. L'istanza, come già detto, non era stata ancora presentata, ma non c'era fretta, erano molto più importanti i colloqui preliminari con funzionari autorevoli, e quelli c'erano già stati. Con esito vario, bisogna ammetterlo francamente. Era molto meglio per il momento non rivelare dettagli, avrebbero potuto solo influenzare negativamente K., che ne sarebbe uscito o troppo speranzoso o troppo angosciato, bastava dire questo, che alcuni si erano pronunciati molto favorevolmente e si erano mostrati anche molto disponibili, altri invece si erano espressi meno favorevolmente, ma non avevano assolutamente rifiutato il loro appoggio. Nel complesso il risultato era dunque molto soddisfacente, solo non bisognava trarne particolari conclusioni, perché tutte le trattative preliminari incominciano in modo simile, e solo gli sviluppi successivi ne rivelano la validità. Comunque, niente era ancora perduto, e se si fosse anche riusciti, malgrado tutto, a ottenere il favore del direttore - già ci si era mossi in tal senso - allora tutta la faccenda sarebbe stata, come dicono i chirurghi, una bella ferita e si poteva aspettare il seguito con fiducia.
In questi discorsi e altri simili l'avvocato era inesauribile. Si ripetevano a ogni visita. Ogni volta c'erano dei progressi, ma mai era dato conoscere la natura di questi progressi. Si lavorava sempre alla prima istanza, che però non era mai pronta, e questo alla visita successiva veniva per lo più presentato come un gran vantaggio, perché quell'ultimo periodo, cosa che nessuno avrebbe potuto prevedere, sarebbe stato molto sfavorevole alla presentazione. Se talvolta, sfinito da quei discorsi, K. osservava che, pur tenendo conto di tutte le difficoltà, le cose procedevano con gran lentezza, gli si obiettava che non andavano affatto avanti con lentezza ma che comunque si sarebbe molto più in là se K. si fosse rivolto per tempo all'avvocato. Purtroppo però aveva trascurato di farlo, e questa trascuratezza avrebbe portato altri inconvenienti, non solo di tempo.
L'unica benefica interruzione di queste visite era Leni, che riusciva sempre a fare in modo di portare il tè all'avvocato quando K. era presente. Allora si metteva dietro a K., faceva finta di guardare l'avvocato che, curvo sulla tazza con una specie di avidità, versava il tè e lo beveva, e lasciava che K. le prendesse la mano di nascosto. C'erano un silenzio assoluto. L'avvocato beveva, K. stringeva la mano di Leni, e Leni si arrischiava talvolta ad accarezzare delicatamente i capelli di K. «Sei ancora qui», chiedeva l'avvocato quando aveva finito. «Volevo portare via le tazze», diceva Leni, c'era ancora un'ultima stretta delle mani, l'avvocato si asciugava la bocca e ricominciava con rinnovata energia a indottrinare K.
A che cosa mirava l'avvocato, al conforto o alla disperazione? K. non lo sapeva, comunque di una cosa era convinto, che la sua difesa non era in buone mani. Poteva anche essere tutto giusto quello che l'avvocato diceva, anche se era trasparente che faceva di tutto per mettersi in primo piano e probabilmente non aveva mai condotto un processo così importante come a suo parere era quello di K. Ma restavano sospette quelle relazioni personali con i funzionari che egli tornava sempre a vantare. Dovevano essere sfruttate a esclusivo vantaggio di K.? L'avvocato non dimenticava mai di osservare che si trattava di funzionari di basso grado, quindi di funzionari in posizione subordinata per il cui avanzamento certe svolte dei processi potevano essere importanti. Si servivano forse dell'avvocato per provocare queste svolte, ovviamente sempre sfavorevoli all'imputato? Forse non lo facevano in tutti i processi, certo, questo era improbabile, dovevano ben esserci altri processi nel cui decorso essi ricambiavano i favori dell'avvocato, perché anche loro dovevano avere tutto l'interesse a mantenere intatta la sua reputazione. Ma se le cose stavano davvero così, in che modo sarebbero intervenuti nel processo di K. che, come spiegava l'avvocato, era un processo molto difficile, e quindi importante e aveva richiamato fin dall'inizio grande attenzione in tribunale? Non potevano esserci molti dubbi su quello che avrebbero fatto. Dei segni si potevano già vedere nel fatto che la prima istanza non era ancora stata inoltrata, sebbene il processo durasse già da mesi e che tutto, a quanto affermava l'avvocato, era ancora agli inizi, cosa che naturalmente otteneva lo scopo di mantenere l'imputato in uno stato di torpore e di perplessità, per poi sorprenderlo d'improvviso con la sentenza o almeno con la notificazione che l'istruttoria, chiusasi a suo sfavore, era stata inoltrata alle autorità superiori.
Era assolutamente necessario che K. intervenisse personalmente. Proprio in condizioni di grande stanchezza, come in quel mattino d'inverno, quando tutto gli passava svogliatamente per la testa, quella convinzione s'impose. Il disprezzo che aveva avuto prima per il processo non valeva più. Se fosse stato solo al mondo avrebbe potuto benissimo non tenere in alcun conto il processo, d'altra parte era anche chiaro che in quel caso il processo non ci sarebbe stato. Ma ormai lo zio lo aveva trascinato dall'avvocato, s'imponevano considerazioni famigliari; la sua posizione non era del tutto indipendente dal corso del processo, lui stesso aveva imprudentemente fatto cenno al processo di fronte a conoscenti, con una certa inspiegabile soddisfazione, altri ne erano venuti a conoscenza per vie sconosciute, il suo rapporto con la signorina Bürstner sembrava seguire le oscillazioni del processo - insomma, non poteva più scegliere se accettare o ricusare il processo, ci stava dentro e doveva difendersi. Se era stanco, tanto peggio.
Per il momento, tuttavia non c'era motivo di preoccuparsi eccessivamente. Era stato capace di farsi una posizione di rilievo in banca in un tempo relativamente breve e di conservare questa posizione riconosciuto da tutti, ora doveva solo applicare al processo le capacità che evidentemente possedeva, e non c'era dubbio che tutto sarebbe finito bene. Prima di tutto, se si voleva ottenere qualcosa, era necessario eliminare fin dall'inizio ogni pensiero di una possibile colpa. Non c'era nessuna colpa. Il processo era solo un grosso affare, come già ne aveva conclusi tanti a vantaggio della banca, un affare entro il quale, come di regola, erano in agguato diversi pericoli, da cui appunto bisognava difendersi. Ma a questo scopo non era consentito giocare con pensieri di chissà quale colpa, bensì concentrarsi il più possibile sul pensiero del proprio vantaggio. Da questo punto di vista era anche inevitabile revocare subito, meglio se quella sera stessa, il mandato all'avvocato. Stando alle parole di quest'ultimo, era una cosa inaudita, forse molto offensiva, ma K. non poteva tollerare che nel processo i suoi sforzi incontrassero ostacoli, frapposti magari proprio dal suo avvocato. Ma una volta tolto di mezzo l'avvocato, si doveva inoltrare subito l'istanza, e se possibile premere ogni giorno perché fosse presa in considerazione. A questo scopo K. non si sarebbe certo dovuto contentare di stare seduto come gli altri nel corridoio, con il cappello sotto la panca. Bisognava che lui stesso o le donne o altri messi assillassero i funzionari giorno dopo giorno e li costringessero, invece di stare a guardare in corridoio attraverso le grate, a sedersi al loro tavolo e studiare l'istanza di K. Mai abbandonare questi sforzi, bisognava organizzare e sorvegliare ogni cosa, il tribunale doveva imbattersi una buona volta in un imputato capace di tutelare i propri diritti.
Ma quantunque K. confidasse di poter portare avanti il suo progetto, la difficoltà di redigere l'istanza era schiacciante. Prima, forse ancora una settimana prima, al pensiero che un giorno si sarebbe trovato nella necessità di stendere lui stesso una tale istanza aveva provato solo vergogna, ma che questo sarebbe magari stato anche difficile, proprio non l'avrebbe immaginato. Ricordava che una volta, precisamente una mattina in cui era oberato dal lavoro, aveva d'un tratto spinto da parte tutto e aveva preso il blocco degli appunti per provare ad abbozzare lo schema di un'istanza e metterlo magari a disposizione di quell'imbranato del suo avvocato, e che proprio in quel momento si era aperta la porta della direzione ed era entrato il vicedirettore con una gran risata. Era stato molto imbarazzante per K., sebbene naturalmente il vicedirettore non avesse riso dell'istanza, di cui non sapeva niente, ma di una storiella di borsa che aveva appena ascoltata, una storiella che per essere capita richiedeva un disegno, che ora il vicedirettore, chino sul tavolo di K., con la matita tolta di mano a K., eseguiva sul blocco destinato all'istanza.
Oggi K. non provava più vergogna, l'istanza doveva essere fatta. Se non trovava il tempo in ufficio, cosa molto probabile, doveva lavorarci le notti in casa. Non bastassero neanche le notti, avrebbe dovuto prendere un permesso. Tutto pur di non fermarsi a mezza strada, questa era la sciocchezza più grande non solo negli affari, ma sempre e dappertutto. L'istanza richiedeva certo un lavoro quasi interminabile. Non c'era bisogno che uno fosse di carattere molto apprensivo per potersi facilmente convincere che era impossibile portare a termine l'istanza. Non per pigrizia o per astuzia, che potevano essere impedimenti a terminarla solo per l'avvocato, ma perché, essendo sconosciuta l'accusa e le sue possibili estensioni, si rendeva necessario rievocare l'intera sua vita, in ogni sua minima azione e avvenimento, esporla e riesaminarla da ogni suo lato. E che lavoro triste, per giunta! Forse sarebbe stato adatto una volta andato in pensione, a occupare la mente tornata infantile e ad aiutarlo a far passare le lunghe giornate. Ma adesso che K. aveva bisogno di concentrare i suoi pensieri sul lavoro, che le ore gli sfuggivano via, poiché era ancora in piena ascesa e già costituiva una minaccia per il vicedirettore, e che voleva godersi come ogni giovane le sere e le notti già così brevi, adesso gli toccava redigere questa istanza. Di nuovo le sue riflessioni finivano in lamenti. Quasi senza volerlo, solo per farla finita, cercò con il dito il pulsante del campanello elettrico, che era collegato con l'anticamera. Mentre lo premeva guardò l'orologio. Erano le undici, aveva perso due ore, un tempo lungo e prezioso, in fantasticherie e naturalmente era più stanco di prima. Comunque non era tempo perso, aveva preso decisioni che potevano rivelarsi valide. Gli uscieri, oltre a varia posta, portarono le carte da visita di due signori che aspettavano K. già da un pezzo. Erano clienti importanti della banca, che certo non si sarebbe dovuto in alcun caso fare aspettare. Perché venivano in un momento così inopportuno, e perché, sembravano a loro volta chiedere i due signori dietro la porta chiusa, K. per solito così diligente, dedicava a faccende private le migliori ore d'ufficio? Stanco di quanto avvenuto prima e in stanca attesa del seguito, K. si alzò in piedi per ricevere il primo.
Era un uomo piccolo, vivace, un industriale che K. conosceva bene. Si scusò di avere disturbato K. nel suo importante lavoro e K. si scusò a sua volta di avere fatto tanto aspettare l'industriale. Ma già queste scuse K. le espresse in modo così meccanico e in tono così falso, che l'industriale, se non fosse stato tutto preso dal suo problema d'affari, avrebbe dovuto notarlo. Invece tirò fuori in tutta fretta, da tutte le tasche, conti e tabelle, li sciorinò davanti a K., chiarì diverse voci, corresse un piccolo errore di calcolo che gli era caduto sotto gli occhi persino in quel rapido esame, ricordò a K. un affare analogo concluso con lui circa un anno prima, fece presente di sfuggita che questa volta un'altra banca era disposta a grandi sacrifici per aggiudicarsi quell'affare, e infine tacque per sentire a quel punto il parere di K. All'inizio K. aveva veramente seguito bene il discorso dell'industriale, l'idea di quell'importante affare aveva fatto presa su di lui, ma purtroppo non a lungo, si era presto distratto dall'ascolto, poi per un po' aveva assentito con il capo solo alle esclamazioni più forti dell'industriale, infine aveva smesso anche questo e si era limitato a guardare quella testa calva, china sulle carte e a chiedersi quando l'industriale si sarebbe deciso ad accorgersi che tutto il suo discorso era inutile. Quando poi quello tacque, K. dapprima credette davvero che l'altro lo facesse solo per consentirgli di confessare che lui non era in grado di ascoltarlo. Ma fu con rammarico che dallo sguardo teso dell'industriale, visibilmente pronto a ogni sua replica, capì che il discorso di affari doveva continuare. Chinò quindi la testa come di fronte a un ordine e si mise a far scorrere lentamente la matita avanti e indietro sui fogli, qua e là si fermava e fissava una cifra. L'industriale immaginò che avesse delle obiezioni, forse le cifre non erano veramente sicure, forse non erano determinanti, a ogni buon conto l'industriale coprì le carte con la mano e, facendosi addosso a K., ricominciò a illustrargli nelle sue linee generali l'affare. «È difficile», disse K. stringendo le labbra, e poiché l'unica cosa che poteva afferrare, le carte, erano coperte, si abbandonò contro il bracciolo. Si limitò persino ad alzare debolmente lo sguardo quando la porta della direzione si aprì e, non del tutto distinto, come dietro un velo di garza, comparve il vicedirettore. K. non stette a pensarci tanto su, ma fu attento solo all'effetto immediato, che gli piacque molto. Subito, infatti, l'industriale balzò su dalla poltrona e corse incontro al vicedirettore, ma K. l'avrebbe voluto dieci volte più scattante perché temeva che il vicedirettore sparisse di nuovo. Timore inutile, i due uomini s'incontrarono, si porsero la mano e si diressero insieme alla scrivania di K. L'industriale lamentò di avere trovato così scarso interesse per quell'affare nel procuratore, e indicava K. che sotto lo sguardo del vicedirettore tornò a chinarsi sulle carte. Quando poi i due si appoggiarono alla scrivania, e l'industriale si dispose ad accattivarsi il vicedirettore, a K. parve che al di sopra della sua testa, due uomini, di cui nella sua immaginazione esagerava la statura, decidessero di lui. Adagio, rigirando cautamente gli occhi in su, cercò di capire quello che succedeva lì sopra, prese dalla scrivania, senza guardare, una delle carte, la posò sul palmo della mano e, alzandosi in piedi lui stesso, la sollevò a poco a poco verso i due uomini. Non pensava a niente di preciso, ma agiva con la sensazione che così avrebbe dovuto comportarsi quando avesse finalmente terminato di stendere la grande istanza che doveva scagionarlo completamente. Il vicedirettore, che prendeva parte con grande interesse alla conversazione, rivolse uno sguardo fugace alla carta, non diede nemmeno una scorsa al suo contenuto, perché quello che era importante per il procuratore non lo era per lui, la prese dalla mano di K., disse: «Grazie, so già tutto», e la rimise tranquillo sulla scrivania. K. lo guardò di traverso, amareggiato. Ma il vicedirettore non ci fece caso o, se ci fece caso, la cosa lo mise di buonumore, rise forte più volte, con una pronta risposta mise l'industriale in evidente imbarazzo, da cui però lo trasse subito facendo un'obiezione a se stesso, e finalmente lo invitò a passare nel suo ufficio dove avrebbero potuto concludere la faccenda. «È un affare molto importante», disse all'industriale, «me ne rendo conto benissimo. E il signor procuratore» - ma persino questa frase l'aveva rivolta solo all'industriale -«sarà certo lieto se glielo togliamo. La cosa richiede che vi si rifletta con tranquillità. Lui oggi sembra invece oberato di lavoro, e inoltre c'è gente in anticamera che lo aspetta da ore». K. aveva sufficiente controllo giusto per ignorare il vicedirettore e rivolgere solo all'industriale un suo sorriso gentile ma rigido, non intervenne altrimenti, un po' chino in avanti, si appoggiò con entrambe le mani alla scrivania, come un commesso dietro al banco e rimase a guardare i due uomini che continuando a parlare raccolsero le carte dal tavolo e scomparvero nella direzione. Sulla porta l'industriale si volse e disse che ancora non si congedava, che anzi avrebbe naturalmente messo al corrente il signor procuratore sull'esito del colloquio, e che aveva ancora da dirgli una piccola cosa.
Finalmente K. era solo. Non ci pensò nemmeno a far passare un altro cliente, e fu solo confusamente conscio di quanto era piacevole che la gente di fuori credesse che lui fosse ancora in trattative con l'industriale e che per questo motivo nessuno, nemmeno l'usciere, potesse entrare da lui. Andò alla finestra, sedette sul davanzale reggendosi alla maniglia con la mano e guardò fuori nella piazza. La neve continuava a cadere, il tempo non si era ancora schiarito.
Rimase così a lungo, senza sapere bene che cosa lo preoccupasse, solo di tanto in tanto dava un'occhiata spaventata al di sopra della spalla verso l'anticamera, dove per sbaglio gli era sembrato di sentire un rumore. Ma visto che non veniva nessuno si calmò, andò al lavabo, si lavò con acqua fredda e tornò a sedere alla finestra con la testa più sgombra. La decisione di prendere in mano lui stesso la propria difesa, gli si presentava ora più grave di quanto avesse supposto agli inizi. Finché aveva addossato la difesa all'avvocato, era stato in fondo poco toccato dal processo, l'aveva osservato da lontano senza essere mai direttamente raggiungibile, aveva potuto andare a vedere quando voleva a che punto stavano le sue cose, ma aveva anche potuto, quando voleva, ritirare la testa. Adesso invece, se avesse condotto lui stesso la propria difesa, si doveva esporre completamente - almeno per il momento - al tribunale, il che avrebbe certo avuto come risultato, più tardi, la sua liberazione completa e definitiva, ma per arrivarci doveva correre a ogni modo rischi molto più grossi che in precedenza. Se anche avesse voluto dubitarne, sarebbe dovuto bastare l'incontro odierno con il vicedirettore e l'industriale a convincerlo del contrario. Non era forse rimasto lì, tutto stordito già dalla sola decisione di difendersi da solo? Ma che cosa sarebbe successo in seguito? Che giorni lo aspettavano! Avrebbe trovato la strada che attraverso tutto questo conducesse a buon fine? Una difesa scrupolosa - ogni altra difesa non aveva senso -, una difesa scrupolosa non avrebbe comportato anche la necessità di tagliarsi fuori il più presto possibile da tutto il resto? Ce l'avrebbe fatta? E come sarebbe riuscito ad attuare il suo progetto stando in banca? Non si trattava solo dell'istanza, per la quale sarebbe forse bastato un permesso, sebbene chiedere un permesso proprio ora sarebbe stato molto arrischiato, si trattava nientemeno di un intero processo, la cui durata era imprevedibile. Che intralcio era sorto improvvisamente nella carriera di K.!
E adesso avrebbe dovuto lavorare per la banca? Diede uno sguardo alla scrivania. Adesso avrebbe dovuto far passare dei clienti e discutere con loro? Mentre il suo processo era in corso, mentre lassù nel solaio i funzionari del tribunale studiavano gli atti di questo processo, curare gli affari della banca? Tutto questo non aveva l'aspetto di una tortura che, riconosciuta dal tribunale, faceva parte del processo e l'accompagnava? E in banca, nel giudicare il suo lavoro, avrebbero forse tenuto in considerazione la sua particolare situazione? Nessuno l'avrebbe mai fatto. Il suo processo non era del tutto ignoto, anche se non era ancora del tutto chiaro chi ne fosse al corrente e fino a che punto. C'era da sperare che la voce non fosse ancora giunta fino al vicedirettore, altrimenti si sarebbe già visto chiaramente con quale mancanza di solidarietà e umanità se ne sarebbe servito ai danni di K. E il direttore? Certo, era ben disposto verso K., e probabilmente, non appena avesse saputo del processo, avrebbe cercato di facilitare K. per quanto stava in lui, ma sicuramente non sarebbe riuscito a imporsi, perché, adesso che il contrappeso finora rappresentato da K. incominciava a indebolirsi, subiva sempre più l'influsso del vicedirettore, che inoltre sfruttava la salute malferma del direttore per rafforzare il proprio potere. Che cosa poteva quindi sperare K.? Forse con queste sue riflessioni logorava la propria resistenza, ma era pur necessario non illudere se stesso e vederci chiaro per quanto al momento era possibile.
Senza un motivo particolare, solo per non dovere al momento ancora tornare alla scrivania, aprì la finestra. Non fu facile, dovette girare la maniglia con le due mani. Dalla finestra, per tutta la sua larghezza e altezza, entrò allora nella stanza la nebbia mista a fumo riempiendola di un leggero odore di bruciato. Sospinse dentro anche qualche fiocco di neve. «Brutto autunno», disse alle spalle di K. l'industriale, veniva dall'ufficio del vicedirettore ed era entrato inavvertito nella stanza. K. annuì e guardò inquieto la cartella dell'industriale, da cui questi avrebbe certamente tirato fuori le carte per comunicare a K. del risultato delle trattative con il vicedirettore. Ma l'industriale seguì lo sguardo di K., diede un colpetto alla cartella e, senza aprirla, disse: «Lei vuol sapere come è andata. Ho già quasi il contratto in tasca. Uomo affascinante, il suo vicedirettore, ma piuttosto pericoloso». Rise e strinse la mano di K. cercando di far ridere anche lui. Ma a K. sembrava sospetto che l'industriale non volesse mostrargli le carte, e non trovava niente da ridere nella osservazione dell'industriale. «Signor procuratore», disse l'industriale, «lei soffre il tempo, vero? Ha un'aria così depressa». «Sì», disse K. portando la mano alla tempia, «mal di testa, preoccupazioni in famiglia». «Proprio così», disse l'industriale, che era un tipo frettoloso, incapace di ascoltare con calma, «ognuno ha la sua croce». Senza volere, K. aveva fatto un passo verso la porta, come per accompagnare fuori l'industriale, questi però disse: «Avrei ancora da dirle una piccola cosa, signor procuratore. Temo molto che in una giornata come questa potrei infastidirla, ma negli ultimi tempi sono stato da lei già due volte e mi sono sempre dimenticato di parlargliene. Ma se rimando ancora, è probabile che perderebbe ogni scopo. Sarebbe un peccato, perché, in fondo, quanto ho da dirle forse non è inutile». Prima che K. avesse il tempo di rispondere, l'industriale gli si avvicinò, gli diede un leggero tocco sul petto con la nocca e disse piano: «Lei ha un processo, vero?». K. si ritrasse ed esclamò subito: «Gliel'ha detto il vicedirettore!». «Oh no», disse l'industriale, «come potrebbe saperlo il vicedirettore?». «E lei?» chiese K. già molto più calmo. «Ogni tanto vengo a sapere qualcosa del tribunale», disse l'industriale, «ed è proprio a questo proposito che le volevo parlare». «Ma quanta gente ha a che fare con il tribunale!», disse K. a testa bassa e condusse l'industriale alla scrivania. Si sedettero di nuovo come prima e l'industriale disse: «Purtroppo non è molto quello che posso dirle. Ma in queste faccende non si deve trascurare la minima cosa. Inoltre mi preme aiutarla in qualche modo, anche se il mio aiuto dovesse essere modesto. Siamo stati finora buoni amici d'affari, no? E allora». K. voleva scusarsi per come si era comportato durante il precedente colloquio, ma l'industriale non ammetteva interruzioni, spinse su la cartella sotto l'ascella per far capire che aveva fretta, e proseguì: «Ho saputo del suo processo da un certo Titorelli. È un pittore, Titorelli è solo il nome d'arte, il nome vero nemmeno lo conosco. Sono anni che di tanto in tanto viene nel mio ufficio e mi porta dei quadretti, e io in cambio - è quasi un mendicante - gli do una specie di elemosina. Del resto quei quadri sono graziosi, paesaggi di brughiera e roba del genere. Questi commerci andavano avanti lisci - tutti e due ci avevamo fatto l'abitudine-. Ma a un certo punto le visite si fecero troppo frequenti, io glielo feci notare, ci mettemmo a discutere, a me interessava sapere come faceva a mantenersi soltanto con la pittura, e appresi con mio grande stupore che la sua fonte principale di guadagno erano i ritratti. Lavorava per il tribunale, mi ha detto. "Quale tribunale?", chiesi io. E allora lui mi raccontò del tribunale. Lei può immaginare meglio di chiunque altro con quale stupore ascoltai quei racconti. Da allora, a ogni sua visita vengo a sapere qualche novità del tribunale e così, a poco a poco, mi sto facendo una certa idea della cosa. Ma Titorelli è un chiacchierone, e spesso devo tenerlo lontano, non solo perché sicuramente racconta anche bugie ma soprattutto perché un uomo d'affari come me, che quasi crolla sotto le preoccupazioni del proprio lavoro, non può occuparsi oltre un tanto di cose estranee. Ma questo sia detto per inciso. Forse - ho pensato adesso - Titorelli può esserle di qualche aiuto, conosce molti giudici, e anche se lui personalmente non deve essere molto influente, è in grado di darle dei consigli su come avvicinare diverse persone che contano. E quand'anche questi consigli non dovessero essere di per sé decisivi, a mio parere in mano a lei potrebbero essere molto utili. Del resto, lei è quasi un avvocato. Lo dico sempre io: il procuratore K. è quasi un avvocato. Oh, per il suo processo non mi preoccupo. Ma allora, ci vuole andare da Titorelli? Con una mia raccomandazione farà sicuramente quanto sta in lui. Penso davvero che dovrebbe andarci. Non per forza oggi, naturalmente, un giorno, quando capita. D'altra parte - questo glielo voglio dire - lei non è assolutamente tenuto ad andare da Titorelli solo perché io le do questo consiglio. No, se crede di poter fare a meno di Titorelli, è senz'altro meglio lasciarlo fuori. Forse lei ha già un piano ben preciso, e Titorelli potrebbe essere d'impiccio. No, se così è, non ci vada in nessun caso. Certo ci vuole una bella forza a farsi dare consigli da un soggetto simile. Beh, faccia un po' lei. Eccole la lettera di raccomandazione, e questo è l'indirizzo».
Deluso, K. prese la lettera e la mise in tasca. Anche nel più fortunato dei casi, il vantaggio che la raccomandazione poteva procurargli era incomparabilmente più piccolo del danno dovuto al fatto che l'industriale sapeva del suo processo e che il pittore ne diffondeva la notizia. Riuscì a malapena a dire due parole di ringraziamento all'industriale che si era già avviato alla porta. «Ci andrò», disse sulla porta congedandosi dall'industriale, «oppure, visto che ora ho molto da fare, gli scriverò che mi faccia la cortesia di venire lui un giorno da me in ufficio». «Ero certo», disse l'industriale, «che lei avrebbe trovato la soluzione migliore. Pensavo però che avrebbe preferito evitare di far venire in banca gente come questo Titorelli per parlare qui del processo. Non è nemmeno sempre opportuno lasciare lettere in mano a gente simile. Ma lei ha certamente pensato a tutto e conosce il da farsi». K. annuì e accompagnò l'industriale per l'anticamera. Ma, a dispetto della calma apparente, era molto spaventato di sé: aveva detto che avrebbe scritto a Titorelli in realtà solo per dimostrare in qualche modo all'industriale che sapeva apprezzare la sua raccomandazione e che considerava subito la possibilità di incontrarsi con Titorelli, ma se avesse considerato utile l'appoggio di Titorelli non avrebbe però esitato a scrivergli davvero. Ma dei pericoli che la cosa avrebbe potuto comportare si era reso conto solo in seguito all'osservazione dell'industriale. Poteva dunque già fidarsi così poco del proprio buon senso? Se aveva potuto, con una lettera esplicita, invitare in banca un tipo così ambiguo, quando solo una porta lo separava dal vicedirettore, per chiedergli consigli a proposito del suo processo, non era allora possibile, anzi del tutto probabile, che non vedesse anche altri pericoli o vi si cacciasse dentro? Non sempre aveva vicino qualcuno a metterlo in guardia. E proprio adesso che gli toccava scendere in campo con tutte le sue energie dovevano insorgere dubbi a lui finora sconosciuti sulla sua accortezza! Le difficoltà che avvertiva nel disbrigo del lavoro d'ufficio, si sarebbero presentate adesso anche nel processo? Ora, veramente, non capiva più come avesse potuto pensare di scrivere a Titorelli e invitarlo a venire in banca.
Stava ancora scuotendo il capo a queste riflessioni, quando gli si accostò l'usciere e gli fece notare tre signori che sedevano su una panca in anticamera. Aspettavano già da un pezzo di essere ricevuti da K. Adesso che l'usciere parlava con K. si erano alzati, e ognuno cercava di sfruttare una buona occasione per avvicinarsi a K. per primo. Poiché la banca si era fatta così pochi scrupoli nel far loro perdere tempo in anticamera, nemmeno loro volevano farsi più scrupoli. «Signor procuratore», stava già dicendo uno. Ma K. si era fatto portare il cappotto dall'usciere e, mentre lo indossava aiutato dall'usciere, disse a tutti e tre: «Scusatemi signori, al momento purtroppo non ho tempo di ricevervi. Vi prego vivamente di scusarmi, ma ho una commissione urgente da sbrigare e devo andare via subito. Del resto, avete visto voi stessi quanto a lungo sono stato trattenuto. Avreste la cortesia di ripassare domani o un altro giorno? O vogliamo forse discutere i vostri problemi per telefono? O forse volete dirmi brevemente adesso di che cosa si tratta e io vi risponderò dettagliatamente per iscritto. La cosa migliore però sarebbe che voi ripassiate uno di questi giorni». Alle proposte di K. i tre, che dunque avevano aspettato del tutto inutilmente, rimasero così sbalorditi che si guardarono senza parola. «Allora siamo d'accordo?», chiese K. voltatosi verso l'usciere che ora gli porgeva anche il cappello. Dalla porta aperta della stanza di K. si vide che fuori la neve scendeva molto più fitta. K. alzò dunque il bavero del cappotto e lo abbottonò fin sotto il mento.
Proprio in quel momento, dalla stanza accanto uscì il vicedirettore, guardò sorridendo K. che con il cappotto addosso parlava con tre signori e chiese: «Se ne sta andando, signor procuratore?». «Sì», rispose K. raddrizzandosi, «ho una commissione da fare». Ma il vicedirettore si era già rivolto ai signori. «E i signori?», chiese. «Mi pare che aspettino da molto tempo». «Ci siamo già messi d'accordo», disse K. Ma ora i signori non si trattennero più, circondarono K. e dichiararono che non avrebbero aspettato per ore se le loro non fossero state questioni importanti e non avessero dovuto essere discusse subito, esaurientemente e a quattr'occhi. Il vicedirettore stette un momento ad ascoltare, osservò anche K., che teneva in mano il cappello e lo spolverava qua e là, poi disse: «Signori, c'è una soluzione molto semplice. Se vi contentate di me, m'incarico io volentieri delle trattative al posto del signor procuratore. Le vostre questioni esigono naturalmente che se ne discuta subito. Siamo uomini d'affari come voi e sappiamo valutare il tempo degli uomini d'affari. Volete entrare qui?». E aprì la porta che conduceva all'anticamera del suo ufficio.
Com'era abile il vicedirettore ad appropriarsi di tutto ciò a cui ora K. era costretto a rinunciare! Ma K. non stava per caso facendo più rinunce di quanto fosse strettamente necessario? Mentre stava correndo da un pittore sconosciuto con speranze vaghe e, doveva ammetterlo, molto scarse, il suo prestigio subiva un danno irreparabile. Sarebbe stato probabilmente molto meglio togliersi di nuovo il cappotto e riconquistarsi almeno il favore dei due signori che stavano senz'altro ancora aspettando nella stanza accanto. K. avrebbe forse anche fatto un tentativo se non avesse scorto nella sua stanza il vicedirettore che cercava qualcosa nello scaffale, quasi fosse stato il proprio. Quando K., irritato, si avvicinò alla porta, l'altro esclamò: «Ah, non se n'è ancora andato!». Volse verso di lui la faccia, le cui rughe fitte e tese denotavano piuttosto energia che vecchiaia, e si rimise subito a cercare. «Sto cercando la copia di un contratto», disse, «che, stando al rappresentante della ditta, deve trovarsi qui da lei. Non mi aiuterebbe a cercare?». K. fece un passo, ma il vicedirettore disse: «Grazie, ho già trovato», e con un grosso plico, che sicuramente non conteneva solo la copia di contratto ma anche molto altro, ritornò nella sua stanza.
«Per il momento non posso tenergli testa», si disse K., «ma quando le mie difficoltà personali saranno state risolte, giuro che sarà il primo a cui la farò vedere, e brutta anche». Un po' calmato da questi pensieri, K. incaricò l'usciere, che già da un pezzo gli teneva aperta la porta del corridoio, di comunicare eventualmente al direttore che era uscito per una commissione e lasciò la banca quasi felice di potersi dedicare per qualche tempo solo alla sua faccenda.
Andò subito dal pittore, che abitava in una periferia del tutto opposta a quella in cui si trovavano le cancellerie del tribunale. Era una zona ancora più povera, le case ancora più scure, i vicoli pieni d'immondizie trascinate lentamente dalla neve che si scioglieva. Nella casa in cui abitava il pittore era aperta solo un'anta del grosso portone, ma sotto l'altra il muro era sfondato e dal buco, proprio quando K. si avvicinò, venne fuori un liquame schifoso, giallo, fumante, davanti al quale alcuni ratti scapparono a rifugiarsi nel vicino canale. Sotto, vicino alla scala, c'era un bambino piccolo sdraiato bocconi per terra che piangeva, ma lo si sentiva appena perché il frastuono dell'officina di uno stagnaio, dall'altra parte dell'androne, sovrastava ogni altro rumore. La porta dell'officina era aperta, tre lavoranti stavano a semicerchio intorno a un pezzo su cui battevano con i martelli. Una grande lastra di latta stagnata appesa alla parete gettava una luce pallida che, insinuandosi fra due lavoranti, andava a rischiarare le facce e i grembiuli. A tutto questo K. rivolse solo uno sguardo fuggevole, voleva sbrigarsela il più in fretta possibile, sondare il pittore con un paio di domande e tornarsene subito in banca. Se qui avesse ottenuto anche il minimo risultato, il suo lavoro in banca ne avrebbe tratto vantaggio già quel giorno stesso. Al terzo piano dovette rallentare il passo, era senza fiato, sia le scale che i piani erano di un'altezza spropositata, e il pittore doveva abitare su in una soffitta. L'aria era molto pesante, le scale non avevano un vano, erano strette e chiuse da entrambi i lati da muri, in cui qua e là, quasi in cima, si aprivano delle piccole finestre. Proprio quando K. si fermò un istante, corsero fuori da un appartamento alcune bambine e, ridendo, salirono svelte su per le scale. K. le seguì lentamente, raggiunse una delle bambine che aveva inciampato ed era rimasta indietro, e mentre salivano a fianco a fianco le chiese: «Abita qui un certo pittore Titorelli?». La bambina, che non doveva avere neanche tredici anni, un po' gobba, gli diede per risposta una gomitata e levò su di lui uno sguardo obliquo. Né l'età né il difetto fisico avevano potuto impedire che fosse già guasta. Non sorrise nemmeno, anzi guardò K. con uno sguardo serio, duro, di sfida. K. fece come se non avesse notato il suo contegno, e chiese: «Conosci il pittore Titorelli?». Lei annuì e chiese a sua volta: «Che cosa vuole da lui?». A K. parve opportuno informarsi in fretta un po' meglio su Titorelli: «Voglio farmi fare un ritratto da lui», disse. «Il ritratto?», chiese lei, spalancò la bocca, diede un colpetto a K. con la mano come se questi avesse detto una cosa stranissima o sconveniente, alzò con le due mani la gonnellina già molto corta, e corse più in fretta che poteva a raggiungere le altre bambine, le cui grida si perdevano indistinte su in alto. Ma alla svolta successiva della scala K. ritrovò tutte le bambine. Era chiaro che la gobba aveva riferito l'intenzione di K. e lo stavano aspettando. Stavano in piedi ai due lati della scala, schiacciandosi contro i muri per lasciar passare più agevolmente K. in mezzo a loro, e si lisciavano i grembiuli con la mano. Tutte le facce, come anche il loro disporsi a spalliera, esprimevano un misto d'innocenza infantile e di abiezione. In cima, a capofila delle bambine, che ora si serravano ridendo dietro a K., c'era la gobba e assunse la guida. K. lo dovette a lei se trovò subito la via giusta. Avrebbe continuato infatti a salire dritto, ma lei gli mostrò che per andare da Titorelli doveva prendere una diramazione della scala. La scala che portava da lui era particolarmente stretta, lunghissima, senza svolte, visibile in tutta la sua lunghezza, e in cima terminava direttamente davanti alla porta di Titorelli. Questa porta, che a differenza del resto della scala era relativamente bene illuminata da un piccolo lucernario che le si apriva obliquamente sopra, era costituita di tavole di legno non intonacate, su cui era stato dipinto a larghe pennellate di rosso il nome Titorelli. K. con il suo seguito non era ancora a metà della scala quando, evidentemente per via del rumore di tanti passi, la porta in cima venne socchiusa e nello spiraglio apparve un uomo che pareva vestito solo di una camicia da notte. «Oh!», esclamò quando vide arrivare tutta quella gente, e scomparve. La gobba batté le mani per la gioia e le altre bambine si pigiarono dietro a K. per farlo avanzare più in fretta.
Ma non erano ancora arrivati in cima, quando il pittore spalancò la porta e con un profondo inchino invitò K. a entrare. Le bambine invece le cacciò via, non ne volle fare entrare neanche una, per quanto supplicassero e per quanto tentassero d'infilarsi dentro contro la sua volontà se non con il suo permesso. Solo la gobba riuscì a sgattaiolare sotto il suo braccio teso, ma il pittore la rincorse, l'afferrò per le gonne, se la fece ruotare intorno e la depose davanti alla porta fra le altre bambine che, mentre il pittore aveva abbandonato il suo posto, non avevano osato varcare la soglia. K. non sapeva cosa pensare di ciò che succedeva, aveva l'aria di essere stato tutto concordato amichevolmente. Le bambine sulla porta allungarono il collo, una dietro l'altra lanciavano al pittore alcune parole in tono scherzoso, che K. non capiva, e rideva anche il pittore, mentre la gobba quasi volava nelle sue mani. Poi chiuse la porta, fece un altro inchino a K., gli porse la mano e si presentò dicendo: «Pittore Titorelli». K. indicò la porta, dietro cui le bambine continuavano a bisbigliare, e disse: «Sembra che lei qui sia molto benvoluto». «Ah, quelle monelle», disse il pittore, tentando invano di allacciarsi la camicia al collo. Quanto al resto era scalzo e aveva indosso solo un paio di calzoni di tela, larghi, giallicci, sostenuti da una cintura la cui lunga estremità sbatteva libera qua e là. «Quelle monelle sono una vera piaga per me», continuò lasciando perdere la camicia, il cui ultimo bottone adesso si era staccato, andò a prendere una seggiola e invitò K. a sedere. «Una volta ho fatto il ritratto a una di loro - oggi non è nemmeno qui -, e da allora tutte mi perseguitano. Se io sono in casa, possono entrare solo con il mio permesso, ma se sono via, ce n'è qui sempre almeno una. Si sono fatte fare una chiave della mia porta che si prestano a vicenda. Uno non s'immagina quant'è seccante. Arrivo per esempio a casa con una signora a cui voglio fare il ritratto, apro la porta con la mia chiave e magari ci trovo la gobba lì al tavolino che si dipinge le labbra di rosso con il pennello, mentre le sorelline, a cui deve badare, se ne vanno in giro per la stanza e sporcano in tutti gli angoli. Oppure rincaso di sera tardi, com'è successo ieri - la prego pertanto di scusare il mio stato e il disordine nella stanza -, rincaso dunque di sera tardi e faccio per entrare nel letto, quando mi sento pizzicare alla gamba, guardo sotto il letto e tiro fuori un'altra di quelle monelle. Perché poi mi stanno così addosso, non lo so, che io non faccia niente per attirarle l'avrà notato poc'anzi lei stesso. È ovvio che sono disturbato anche nel mio lavoro. Se non mi avessero messo a disposizione gratuitamente questo studio avrei traslocato già da un pezzo». Giusto in quel momento si sentì una vocina, dolce e timorosa, chiamare: «Titorelli, possiamo già venire?». «No», rispose il pittore. «Nemmeno io sola?». «No, nemmeno», disse il pittore, andò alla porta e la chiuse a chiave.
Intanto K. si era guardato intorno nella stanza, a lui non sarebbe mai venuto in mente di chiamare studio quella squallida stanzetta. Più di due grandi passi per lungo e per traverso non si potevano fare. Tutto, pavimento, pareti e soffitto, era di legno, fra le tavole si vedevano sottili fessure. Di fronte a K., contro la parete, c'era il letto su cui erano ammucchiate coperte di ogni colore. In mezzo alla stanza, su un cavalletto, c'era un quadro coperto con una camicia le cui maniche penzolavano fino a terra. Dietro a K. c'era la finestra da cui, nella nebbia, non si riusciva a vedere oltre il tetto coperto di neve della casa vicina. Il girare della chiave nella toppa ricordò a K. che intendeva venire via presto. Perciò trasse di tasca la lettera dell'industriale, la porse al pittore e disse: «Ho saputo di lei da questo signore, un suo conoscente, e sono venuto qui per suo consiglio». Il pittore diede una scorsa alla lettera e la gettò sul letto. Se l'industriale non gli avesse parlato di Titorelli come di un suo conoscente, come di un poveraccio che doveva contare sulle sue elemosine per vivere, si sarebbe davvero potuto credere che Titorelli non conoscesse l'industriale o che almeno non riuscisse a ricordarsene. Per giunta il pittore chiese: «Vuole comprare dei quadri o farsi fare il ritratto?». K. guardò stupito il pittore. Ma cosa c'era dunque scritto nella lettera? K. aveva dato per scontato che nella lettera l'industriale avesse informato il pittore che K. voleva soltanto avere qualche notizia relativa al suo processo. Era certo stato precipitoso e sconsiderato a correre lì subito! Ma ora doveva in qualche modo dare una risposta al pittore e, con uno sguardo al cavalletto, disse: «Sta lavorando a un quadro?». «Sì», disse il pittore buttando sul letto, appresso alla lettera, la camicia che ricopriva il cavalletto. «È un ritratto. Un bel lavoro, ma non ancora del tutto finito». Fu una fortunata coincidenza, l'opportunità di parlare del tribunale venne addirittura offerta a K., perché era palesemente il ritratto di un giudice. Colpiva, anzi, la somiglianza con il ritratto nello studio dell'avvocato. Qui era rappresentato un giudice del tutto diverso, è vero, un uomo grosso, con una gran barba folta e nera, che di lato arrivava su a coprire le guance, inoltre quello era dipinto a olio, mentre questo a pastelli, con mano debole e incerta. Ma tutto il resto era simile, anche qui infatti il giudice era in procinto di alzarsi minaccioso dal suo trono, di cui stringeva i braccioli. «È proprio un giudice», stava subito per dire K., ma per il momento si trattenne e si avvicinò al quadro quasi volesse studiarlo nei particolari. Non riuscì a spiegarsi una grande figura campata a metà dello schienale del trono e chiese chiarimento al pittore. Le mancava ancora qualche ritocco, si decise a rispondere il pittore, prese un pastello dal tavolino e ripassò un poco i contorni della figura, senza renderla con questo più intelligibile a K. «È la Giustizia», disse infine il pittore. «Ah già, ora la riconosco», disse K., «qui c'è la benda intorno agli occhi e qui c'è la bilancia. Ma non ha le ali ai piedi e non sta correndo?». «Eh già», disse il pittore, «ho dovuto dipingerla così su commissione, in realtà è la Giustizia e la Vittoria insieme». «Non è un'unione riuscita», disse K. sorridendo, «la Giustizia deve stare ferma, altrimenti la bilancia dondola, e non può esserci una sentenza giusta». «Sto alle richieste del mio committente», disse il pittore. «Certo, certo», disse K., che con la sua osservazione non aveva avuto intenzione di offendere nessuno. «Lei ha dipinto la figura come realmente sta sul trono». «No», disse il pittore, «non ho mai visto né la figura né il trono, è tutta un'invenzione, ma ho avuto precise indicazioni su quello che dovevo dipingere». «Come?», chiese K. apposta, come se non capisse bene il pittore, «non è un giudice quello seduto sul seggio?». «Sì», disse il pittore, «ma non è un giudice di alto grado e non è mai stato seduto su un trono così». «Eppure si fa dipingere in un atteggiamento così solenne? Lo si direbbe un presidente di tribunale». «Già, sono dei vanitosi quei signori», disse il pittore. «Ma sono autorizzati dai loro superiori a farsi ritrarre così. A ognuno viene esattamente prescritto come può farsi ritrarre. Solo che, purtroppo, da questo quadro non si possono giudicare i particolari della veste e del seggio, i pastelli non sono adatti per questi soggetti». «Sì», disse K., «è strano che sia dipinto a pastelli». «Così ha voluto il giudice», disse il pittore, «è destinato a una signora». Alla vista del quadro sembrava gli fosse venuta voglia di lavorare, rimboccò le maniche della camicia, prese in mano dei pastelli, e K. osservò come, sotto la punta tremolante dei pastelli, intorno alla testa del giudice si formasse un'ombreggiatura rossastra che sfumava irradiandosi verso il margine. A poco a poco, questo gioco d'ombra venne a circondare la testa come un ornamento o il segno di un'alta onorificenza. Ma intorno alla figura della Giustizia lo sfondo rimase chiaro tranne un'impercettibile sfumatura, in questo chiarore la figura pareva acquistare un risalto particolare, non ricordava più la dea della Giustizia ma nemmeno quella della Vittoria, ora somigliava piuttosto alla dea della Caccia. Il lavoro del pittore attraeva K. più di quanto lui non volesse; ma infine si rimproverò di essere rimasto lì tutto quel tempo senza avere combinato niente per la sua causa. «Come si chiama questo giudice?», chiese a un tratto. «Questo non posso dirlo», rispose il pittore, era tutto chino sul quadro, e ignorava palesemente l'ospite che pure aveva prima accolto con tanto riguardo. K. pensò si trattasse di un improvviso malumore e s'irritò di doverci perdere del tempo. «Lei non è un confidente del tribunale?», chiese. Subito il pittore depose i pastelli, si drizzò, si fregò le mani e guardò K. sorridendo. «Sempre tirarla fuori subito la verità», disse, «lei vuol sapere qualcosa del tribunale, come del resto è scritto nella sua lettera di raccomandazione, e si è messo prima a parlare dei miei quadri per conquistarmi. Ma non me la prendo, lei non poteva certo sapere che con me era fuori luogo. La prego!», disse, parando seccamente un tentato intervento di K. Poi continuò: «Del resto, lei ha detto una cosa esatta, sono un confidente del tribunale». Fece una pausa, come per lasciare il tempo a K. di accettare questo fatto. Dietro la porta adesso si sentirono di nuovo le bambine. Si accalcavano probabilmente intorno al buco della serratura, magari attraverso le fessure si riusciva a vedere nella stanza. K. non tentò neanche di trovare scuse per non sviare il pittore dal suo discorso, ma non voleva nemmeno che il pittore si desse troppa importanza rendendosi così in certo modo inavvicinabile, per cui chiese: «È una carica ufficialmente riconosciuta?». «No», disse il pittore secco, come se gli fosse venuta a mancare la parola. Ma K. non voleva che quello ammutolisse, e disse: «Beh, spesso queste cariche non riconosciute sono più importanti di quelle riconosciute». «È proprio il mio caso», disse il pittore, e annuì corrugando la fronte. «Ieri ho parlato del suo caso con l'industriale, mi ha chiesto se non volevo aiutarla, gli ho risposto: "Certo, che passi pure da me", e ora sono lieto di vederla così presto. Pare che la causa le stia molto a cuore, e questo, ovviamente, non mi stupisce. Non vorrebbe intanto togliersi il cappotto?». Sebbene K. avesse intenzione di trattenersi pochissimo, l'invito del pittore gli fu comunque molto gradito. L'aria nella stanza si era fatta sempre più opprimente, aveva già guardato più volte una stufetta di ferro in un angolo, sicuramente spenta, l'afa nella stanza non si spiegava. Mentre lui si toglieva il cappotto e sbottonava anche la giacca, il pittore disse, come per scusarsi: «Io ho bisogno di caldo. Si sta molto bene qui, no? Da questo punto di vista, la stanza è in un'ottima posizione». K. non replicò, ma in realtà non era il caldo a dargli fastidio, quanto piuttosto l'aria viziata, che quasi impediva di respirare, era certo un pezzo che la stanza non veniva aerata. Questo disagio aumentò quando il pittore lo invitò a sedersi sul letto, mentre lui si sedeva davanti al cavalletto, sull'unica seggiola della stanza. Sembrava inoltre che il pittore non capisse perché K. era rimasto sul bordo del letto, anzi, lo invitò a mettersi comodo e, visto che K. esitava, andò lui a spingerlo bene dentro le coperte e i cuscini. Poi ritornò alla sua seggiola e finalmente formulò la prima domanda concreta, che fece dimenticare a K. tutto il resto. «Lei è innocente?», chiese. «Sì», disse K. Fu addirittura con gioia che diede risposta a questa domanda, soprattutto perché quella risposta era diretta a un privato, e non comportava quindi nessuna responsabilità. Nessuno gli aveva ancora rivolto una domanda così esplicita. Per assaporare questa gioia, aggiunse: «Sono del tutto innocente». «Ah», disse il pittore, chinò il capo e parve riflettere. D'un tratto risollevò il capo e disse: «Se lei è innocente, allora la causa è molto semplice». Lo sguardo di K. si rabbuiò, questo presunto confidente del tribunale parlava con l'ingenuità di un bambino. «La mia innocenza non semplifica la causa», disse K. Malgrado tutto gli veniva fatto di sorridere e scosse lentamente la testa. «Bisogna tener conto di tutte le sottigliezze in cui il tribunale si perde. Alla fine, però, da qualche parte, dove prima non c'era stato proprio niente, tira fuori una grossa colpa». «Certo, certo», disse il pittore come se K. disturbasse inutilmente il suo ragionamento. «Ma lei è davvero innocente?». «Ma sì», disse K. «Questo è l'essenziale», disse il pittore. Le obiezioni non avevano presa su di lui ma, nonostante la sua risolutezza, non era chiaro se parlasse così per convinzione o solo per indifferenza. K., che voleva appurarlo subito, disse: «Lei conosce il tribunale certo meglio di me, io non ne so molto più di quanto ho sentito dire, però da gente molto diversa. Su una cosa tuttavia sono tutti d'accordo, che le accuse non vengono formulate con leggerezza e che il tribunale, una volta che le formula, è fermamente convinto della colpa dell'imputato ed è difficile smuoverlo da questa convinzione». «Difficile?», chiese il pittore, levando brusco una mano in aria. «Mai si lascia smuovere, il tribunale. Se dipingessi qui, su questa tela, tutti i giudici uno accanto all'altro e davanti a questa tela lei si difendesse, avrebbe più successo che davanti al tribunale vero». «Sì», disse K. fra sé, e dimenticò che aveva voluto solo sondare il pittore.
Dietro alla porta, una bambina ricominciò a chiamare: «Titorelli, se ne va via presto quello?». «Zitte!», gridò il pittore verso la porta, «non lo vedete che sto parlando con il signore?». Ma la bambina non si diede per vinta, e chiese ancora: «Gli farai il ritratto?». E poiché il pittore non rispondeva, aggiunse: «Non farlo, per favore, è così brutto». Seguì un'esplosione indistinta di voci che approvavano. Il pittore balzò alla porta, ne aprì uno spiraglio - si videro le mani giunte, delle bambine protese in gesto di supplica - e disse: «Se non state zitte, vi butto giù tutte dalle scale. Sedetevi qui sui gradini e state un po' tranquille». A quanto pare non ubbidirono subito, perché dovette nuovamente intimare: «Giù sui gradini!». Solo allora vi fu silenzio.
«Mi scusi», disse il pittore ritornando da K. Questi non si era neppure voltato verso la porta, aveva lasciato decidere al pittore se e come volesse proteggerlo. Non si mosse neanche ora che il pittore si chinò verso di lui e, per non essere sentito fuori, gli mormorò all'orecchio: «Anche queste bambine sono del tribunale». «Come?», chiese K., ritraendo di lato la testa e guardando il pittore. Ma questi tornò a sedersi sulla sua seggiola e disse, metà per scherzo e metà come spiegazione: «Tutto è del tribunale». «Non me ne sono ancora accorto», disse K. asciutto, l'osservazione generica del pittore aveva tolto quanto c'era d'inquietante nell'accenno alle bambine. Tuttavia K. stette a guardare per un po' la porta, dietro la quale ora le bambine sedevano tranquille sui gradini. Solo una aveva infilato un filo di paglia in una fessura tra le tavole e lo muoveva adagio, su e giù.
«Pare che lei non si sia ancora fatto un'idea del tribunale», disse il pittore, aveva divaricato le gambe e batteva sul pavimento con la punta dei piedi. «Ma visto che è innocente, nemmeno ne avrà bisogno. Sarò io a cavarla fuori». «Come farà?», chiese K. «Lei stesso poco fa mi ha detto che il tribunale è del tutto inaccessibile ad argomenti probatori». «Inaccessibile solo ad argomenti sollevati dinnanzi al tribunale», disse il pittore alzando l'indice, come se K. non avesse afferrato una sottile distinzione. «Diverso è però il suo atteggiamento verso i tentativi fatti in tal senso alle spalle del tribunale pubblico, per esempio nelle camere di consiglio, nei corridoi, o anche qui, nel mio studio». Quello che ora diceva il pittore non sembrava più a K. tanto incredibile, anzi concordava benissimo con quanto K. aveva sentito dire da altra gente. Lasciava persino sperare bene. Se era davvero così facile manovrare i giudici per mezzo di relazioni personali, come aveva fatto credere l'avvocato, allora le relazioni del pittore con questi giudici vanitosi erano particolarmente importanti, e non le si doveva assolutamente sottovalutare. E allora il pittore s'inseriva benissimo in quel giro di aiutanti che K. a poco a poco si stava creando attorno. Una volta, in banca, erano state elogiate le sue capacità organizzative, qui, dov'era lasciato completamente a se stesso, si presentava una buona occasione per metterle alla prova fino in fondo. Il pittore osservò l'effetto prodotto su K. dalla sua spiegazione e disse poi con una certa apprensione: «Non si è accorto che parlo quasi come un giurista? Lo stare in continuo contatto con quei signori del tribunale ha questo effetto su di me. Ne ho il mio bel tornaconto, certo, ma va in parte a discapito della spinta creativa». «Com'è entrato in rapporto la prima volta con i giudici?», chiese K., voleva guadagnarsi la fiducia del pittore prima di prenderlo senz'altro al proprio servizio. «È stato semplicissimo», disse il pittore, «è un rapporto ereditato. Già mio padre era pittore giudiziario. È una carica che si trasmette sempre per eredità. Gente nuova non serve qui. Per dipingere i vari gradi della gerarchia, infatti, sono state fissate regole tanto varie, complesse e soprattutto segrete, che non ne è assolutamente possibile la conoscenza al di fuori di determinate famiglie. Là in quel cassetto, ad esempio, ho gli appunti di mio padre che non faccio vedere a nessuno. Ma solo chi li conosce è in grado di ritrarre i giudici. Se anche li perdessi, mi rimarrebbero ancora tante di quelle regole che io solo tengo a mente, che nessuno potrebbe contendermi la carica. Si sa che ogni giudice vuole essere ritratto come venivano ritratti i grandi giudici di un tempo, e solo io so farlo». «È invidiabile», disse K. che pensava alla sua posizione in banca. «Lei è dunque in una posizione inamovibile?». «Sì, inamovibile», disse alzando orgoglioso le spalle. «Per questo ogni tanto posso aiutare un pover'uomo che ha un processo». «E come fa?», chiese K., come se non fosse lui quello che il pittore aveva appena chiamato un pover'uomo. Ma il pittore non si lasciò sviare, e disse: «Nel caso suo per esempio, visto che è del tutto innocente, agirei così». Quel continuo tornare sulla sua innocenza incominciava a infastidire K. A volte gli pareva che, così facendo, il pittore ponesse l'esito favorevole del processo a premessa del suo aiuto, che così ovviamente diventava superfluo. Malgrado questi dubbi K. si controllò e non interruppe il pittore. All'aiuto del pittore non voleva rinunciare, su questo punto era deciso, né gli sembrava che questo aiuto fosse più incerto di quello dell'avvocato. K. lo preferiva anzi di gran lunga, perché veniva offerto con maggiore ingenuità e franchezza.
Il pittore aveva tirato la seggiola più vicino al letto e proseguì abbassando la voce: «Ho dimenticato di chiederle, in primo luogo, che specie di assoluzione desidera. Ci sono tre possibilità, l'assoluzione vera, l'assoluzione apparente e il rinvio. L'assoluzione vera è naturalmente la cosa migliore, solo che su questo tipo di soluzione non ho la minima influenza. A mio parere non esiste una singola persona che abbia influenza sull'assoluzione vera. Pare che qui decida solo l'innocenza dell'imputato. Poiché lei è innocente, potrebbe davvero fare affidamento solo sulla sua innocenza. Ma allora non ha bisogno di me né di qualsiasi altro aiuto».
Questa esposizione così ordinata dapprima sconcertò K., che poi però disse a voce bassa come il pittore: «Credo che lei si contraddica». «E come?», chiese paziente il pittore e si appoggiò indietro sorridendo. Questo sorriso destò in K. la sensazione che ora stava per scoprire le contraddizioni non nelle parole del pittore ma nello stesso modo di procedere del tribunale. Tuttavia non si tirò indietro e disse: «Lei prima ha osservato che il tribunale è inaccessibile ad argomenti probatori, poi ha limitato questo al tribunale pubblico, e adesso dice addirittura che davanti al tribunale l'innocente non ha bisogno di aiuti. E qui c'è già una contraddizione. Ma lei prima ha anche detto che è possibile influenzare personalmente i giudici, invece ora nega che l'assoluzione vera, come lei la chiama, si possa mai ottenere mediante un'influenza personale. E qui è la seconda contraddizione». «Sono contraddizioni facili da spiegare», disse il pittore. «Qui si parla di due cose diverse, di quello che sta nella legge e di quello di cui ho fatto personalmente esperienza, lei non deve confondere. Nella legge, che d'altronde non ho letto, da una parte ovviamente sta scritto che l'innocente viene assolto, ma dall'altra non sta scritto che i giudici possono essere influenzati. Ebbene, io ho fatto proprio l'esperienza contraria. Non conosco nessuna assoluzione reale, ma so di molti casi in cui si è esercitata un'influenza. Certo è possibile che in tutti quelli a me noti non ci fosse innocenza. Ma non le pare improbabile? Su tanti casi, non una sola innocenza? Già da bambino ascoltavo attento mio padre quando a casa raccontava dei processi, anche i giudici che venivano nel suo studio raccontavano del tribunale, nel nostro ambiente non si parla d'altro; non appena ho avuto io stesso la possibilità di andare al tribunale ne ho sempre approfittato, ho ascoltato innumerevoli processi nelle loro fasi salienti e, per quanto c'è di visibile li ho seguiti, ebbene - devo ammetterlo - non ho mai conosciuto una sola assoluzione vera». «Neanche un'assoluzione, dunque», disse K. come se parlasse a sé e alle sue speranze. «Ma questo conferma l'idea che già mi sono fatta del tribunale. Tutto inutile dunque, anche da questa parte. Un solo boia potrebbe sostituire l'intero tribunale». «Non deve generalizzare», disse il pittore scontento, «ho parlato solo delle mie esperienze». «Mi pare che basti», disse K., «o ha sentito di assoluzioni avvenute in passato?». «Assoluzioni devono pure esserci state», rispose il pittore. «Solo è molto difficile appurarlo. Le sentenze definitive del tribunale non vengono pubblicate, non sono accessibili nemmeno ai giudici, di conseguenza intorno ai vecchi casi giudiziari si sono conservate solo leggende. Queste, comunque, e addirittura nella maggior parte, parlano di assoluzioni vere, ci si può credere, ma non è possibile provarle. Eppure non sono proprio da trascurare, una qualche verità la contengono di certo, e poi sono bellissime, io stesso ho dipinto alcuni quadri che hanno queste leggende per soggetto». «Non bastano le leggende a farmi cambiare avviso», disse K., «non ci si può appellare a queste leggende davanti al tribunale, no?». Il pittore rise: «No, non si può», disse. «Allora è inutile parlarne», disse K., per il momento voleva accettare tutte le opinioni del pittore, anche se le riteneva inverosimili e in contrasto con altre indicazioni. Non aveva tempo di fare una verifica di tutto quello che il pittore diceva o magari di confutarlo, era già tanto se riusciva a indurre il pittore ad aiutarlo, in qualunque modo, foss'anche non determinante. Perciò disse: «Lasciamo da parte allora l'assoluzione vera, lei aveva parlato di altre due possibilità». «L'assoluzione apparente e il rinvio. Non può che trattarsi di queste», disse il pittore. «Ma non vuole togliersi la giacca, prima che ne parliamo? Mi pare che lei abbia caldo». «Sì», disse K., che fino a quel momento aveva prestato attenzione solo alle spiegazioni del pittore ma, ora che era stato menzionato il caldo, cominciò a grondare sudore dalla fronte. «È quasi insopportabile». Il pittore annuì, come se capisse benissimo il disagio di K. «Non si potrebbe aprire la finestra?», chiese K. «No», disse il pittore. «È solo una lastra di vetro fissa, non la si può aprire». Ora K. si rese conto di avere sperato tutto il tempo che a un tratto il pittore, o lui, sarebbero andati alla finestra e l'avrebbero spalancata. Era disposto a inspirare a bocca aperta anche la nebbia. L'impressione di essere del tutto isolato dall'aria gli diede il capogiro. Diede un colpetto con la mano sul piumino che aveva accanto e disse con voce debole: «È scomodo e malsano». «Oh no», disse il pittore a difesa della sua finestra, «poiché non si può aprire, anche se è un vetro semplice, riesce a mantenere il calore meglio di una doppia finestra. Se però voglio cambiare l'aria, il che non è molto necessario perché l'aria passa dappertutto attraverso le fessure, posso aprire una delle mie porte, se non tutte e due». Un po' rassicurato da questa spiegazione, K. si guardò attorno per cercare la seconda porta. Il pittore se ne accorse e disse: «È dietro di lei, ho dovuto metterci contro il letto». Solo allora K. vide la porticina nella parete. «È tutto troppo piccolo qui per uno studio», disse il pittore, come per parare una critica di K. «Mi sono dovuto sistemare alla meglio. Il letto davanti alla porta è certo in una pessima posizione. Il giudice che sto dipingendo adesso, per esempio, entra sempre dalla porta vicino al letto, e io gli ho anche dato una chiave di questa porta perché possa aspettarmi qui nello studio quando non sono in casa. Ma lui viene di solito alla mattina presto, mentre ancora dormo. Ogni volta che si apre la porta vicino al letto vengo naturalmente strappato dal sonno più profondo. Lei perderebbe ogni rispetto per i giudici se sentisse le imprecazioni con cui lo ricevo quando la mattina presto scavalca il mio letto. Gli potrei togliere la chiave, certo, ma sarebbe ancora peggio. Tutte le porte, qui, si possono scardinare con un minimo sforzo». Durante tutto questo discorso, K. rifletteva se togliersi la giacca, infine capì che se non lo faceva non avrebbe potuto rimanere più a lungo, perciò tolse la giacca, ma la mise sulle ginocchia per poterla infilare di nuovo qualora il colloquio fosse finito. Appena si fu tolta la giacca, una delle bambine gridò: «Si è già tolta la giacca!» e si sentì che tutte si accalcavano alle fessure per non perdere lo spettacolo. «Le bambine credono che io le faccia il ritratto», disse il pittore, «e che lei si spogli per questo». «Ah», disse K., poco divertito, perché non si sentiva molto meglio di prima, sebbene ora fosse in maniche di camicia. Chiese di malumore: «Come le ha chiamate le altre due possibilità?». Aveva dimenticato ancora una volta i termini. «L'assoluzione apparente e il rinvio», disse il pittore. «Sta a lei quale scegliere. L'una e l'altra si possono ottenere con il mio aiuto, certo, non senza sforzo, la differenza sotto questo aspetto è che l'assoluzione apparente richiede un impegno concentrato ma limitato nel tempo, il rinvio uno molto più leggero ma prolungato. Allora, cominciamo con l'assoluzione apparente. Se è questa che lei desidera, scrivo su un foglio una dichiarazione della sua innocenza. Il testo della dichiarazione mi è stato tramandato da mio padre ed è inattaccabile. Con questa dichiarazione faccio poi un giro dai giudici che conosco. Incomincio ad esempio con il giudice che sto dipingendo, stasera quando viene per la posa gli presento la dichiarazione. Gli presento la dichiarazione, gli spiego che lei è innocente, e mi faccio garante della sua innocenza. E non è una garanzia puramente formale, ma effettiva e vincolante». Nelle occhiate del pittore c'era quasi un rimprovero che K. gli volesse addossare il peso di una simile garanzia. «Sarebbe molto gentile», disse K. «E il giudice le crederebbe, e malgrado ciò non mi darebbe l'assoluzione vera?». «Gliel'ho già detto», rispose il pittore. «Ma non è affatto sicuro che tutti mi crederebbero, qualche giudice pretenderà che io la conduca da loro. Allora lei dovrebbe una volta venire con me. Ma in questo caso la causa è già vinta a metà, tanto più che io prima le darei istruzioni precise sul contegno da tenere di fronte al giudice in questione. Va peggio con i giudici - capita anche questo - che mi respingono fin dal principio. A questi bisogna rinunciare, anche se non lascerò niente d'intentato, ma non ci perderemo niente, perché isolatamente i giudici non hanno potere decisionale. Quando poi avrò sulla dichiarazione un numero sufficiente di firme di giudici, vado con questa dichiarazione dal giudice che ha in mano il suo processo. Può darsi che io ottenga anche la sua firma, allora tutto procederà un po' più in fretta del solito. Ma in generale, a questo punto, non ci sono più molti impedimenti, per l'imputato è il momento della massima fiducia. È strano ma vero, la gente in questo momento è più fiduciosa che dopo l'assoluzione. Ora non c'è bisogno di darsi tanto da fare. Nella dichiarazione, il giudice ha la garanzia di un gran numero di giudici, può darle tranquillamente l'assoluzione, e non c'è dubbio che lo farà, non senza avere espletato varie formalità, per fare un piacere a me e ad altri conoscenti. Lei comunque esce dal tribunale ed è libero». «E così sono libero», disse K. esitante. «Sì», disse il pittore, «ma libero solo in apparenza, o, per meglio dire, temporaneamente libero. I giudici di rango inferiore, di cui fanno parte quelli che conosco io, non hanno infatti il diritto di assolvere definitivamente, questo diritto ce l'ha solo il tribunale supremo al quale né lei né io né nessuno di noi tutti può assolutamente arrivare. Come si presentino lassù le cose non lo sappiamo, e nemmeno, sia detto per inciso, vogliamo saperlo. Fatto sta che i nostri giudici non hanno il grande diritto di liberare dall'accusa, hanno però di certo il diritto di sciogliere dall'accusa. Cioè, se lei viene assolto in questo modo, per il momento è sottratto all'accusa, ma questa continua a pendere sopra di lei e basta che arrivi un ordine superiore perché entri subito in vigore. Dal momento che sono in così buoni rapporti con il tribunale, sono anche in grado di dirle che nelle prescrizioni per le cancellerie del tribunale la differenza fra l'assoluzione vera e l'apparente vi compare come puramente formale. Nell'assoluzione vera gli atti processuali devono essere totalmente eliminati, scompaiono del tutto dal procedimento, non solo l'accusa ma anche il processo e persino la sentenza vengono distrutti, tutto viene distrutto. Nell'assoluzione apparente è diverso. Nel fascicolo degli atti non è avvenuto nessun cambiamento, tranne che è stato arricchito della dichiarazione d'innocenza, dell'assoluzione e della motivazione dell'assoluzione. Ma per il resto rimane nel procedimento, viene trasmesso, come richiede il movimento ininterrotto delle cancellerie, ai tribunali superiori, ritorna a quelli inferiori, secondo un moto pendolare con oscillazioni più o meno grandi, con arresti sporadici più o meno lunghi. Queste vie sono imprevedibili. Visto dal di fuori, si può talvolta avere l'impressione che tutto sia stato dimenticato, che gli atti siano andati persi e l'assoluzione sia piena. Ma chi è addentro non ci crede. Gli atti non vanno mai persi, il tribunale non conosce dimenticanza. Un bel giorno - nessuno se l'aspetta - un giudice qualunque prende in mano gli atti con più attenzione, si accorge che in quel caso l'accusa è ancora viva, e ordina l'arresto immediato. Qui ho ammesso che fra l'assoluzione apparente e il nuovo arresto passi molto tempo, questo è possibile, e conosco casi in cui è andata così, ma è altrettanto possibile che l'assolto torni a casa dal tribunale e già trovi ad aspettarlo gl'incaricati per arrestarlo di nuovo. Allora, naturalmente, è la fine dell'esistenza libera». «E il processo ricomincia da capo?», chiese K. quasi incredulo. «Certo», rispose il pittore, «il processo ricomincia da capo, ma c'è ancora la possibilità, esattamente come prima, di ottenere un'assoluzione apparente. Bisogna raccogliere di nuovo tutte le forze, non ci si deve arrendere». Le ultime parole il pittore le aveva dette forse in seguito all'impressione che K., un po' abbattuto, gli aveva fatto. Come per prevenire una qualche rivelazione del pittore, K. chiese: «Ma ottenere una seconda assoluzione non è più difficile che ottenere la prima?». «Su questo punto», rispose il pittore, «non si può dire niente di preciso. Lei vuol dire che un secondo arresto influenzerebbe nella loro sentenza i giudici a svantaggio dell'imputato? No, questo no. I giudici hanno previsto questo arresto già al momento dell'assoluzione. Tale circostanza, dunque, non influisce. Ma la disposizione di spirito dei giudici e la loro valutazione giuridica del caso possono certo essere mutati per innumerevoli altri motivi, e gli sforzi intesi a ottenere la seconda assoluzione devono quindi venire adeguati alle mutate circostanze e in genere devono essere altrettanto energici quanto quelli che hanno preceduto la prima assoluzione». «Ma neppure questa seconda assoluzione, dunque, è definitiva», disse K. e voltò la testa come per respingere quegli argomenti. «Certo che no», disse il pittore, «alla seconda assoluzione segue il terzo arresto, alla terza assoluzione il quarto arresto, e così via. Questo è insito nel concetto stesso di assoluzione apparente». K. taceva. «È chiaro che l'assoluzione apparente non le pare vantaggiosa», disse il pittore, «forse le va meglio il rinvio. Devo spiegarle in che cosa consiste il rinvio?» K. annuì. Il pittore si era appoggiato comodamente indietro sulla seggiola, la camicia da notte era aperta, lui ci aveva infilato sotto una mano e si lisciava il petto e i fianchi. «Il rinvio», disse il pittore guardando un momento dinanzi a sé, come se cercasse una spiegazione perfettamente appropriata, «il rinvio consiste nel mantenere permanentemente il processo nella fase più bassa. Per ottenere questo, è necessario che l'imputato e chi lo appoggia, ma in specie chi lo appoggia, si mantengano in contatto personale ininterrotto con il tribunale. Lo ripeto, per questo non è necessario il dispendio di energie che richiede un'assoluzione apparente, ma è necessaria un'attenzione molto maggiore. Non si può mai perdere d'occhio il processo, ci si deve recare a intervalli regolari e inoltre in occasioni particolari dal giudice competente e si deve cercare di tenerselo buono con ogni mezzo; se non si conosce il giudice personalmente, bisogna arrivare a influire su di lui tramite giudici conosciuti, senza per questo sospendere gli incontri diretti. Se non si trascura niente a questo riguardo, si può prevedere con sufficiente certezza che il processo non supererà la prima fase. Non che il processo sia terminato, ma l'accusato è al sicuro da una condanna quasi come se fosse libero. Rispetto all'assoluzione apparente, il rinvio ha il vantaggio che l'avvenire dell'accusato è meno vago, è preservato dal terrore dell'arresto improvviso e non ha da temere, magari proprio in momenti in cui le altre circostanze gli sono meno favorevoli, di doversi assumere le fatiche e le agitazioni connesse con l'ottenimento dell'assoluzione apparente. Tuttavia, anche il rinvio ha per l'imputato alcuni svantaggi, che non sono da sottovalutare. Non penso al fatto che qui l'imputato non è mai libero, perché, in senso stretto, non lo è nemmeno con l'assoluzione apparente. Lo svantaggio è un altro. Il processo non può stagnare senza che ci siano dei motivi, anche solo apparenti. Nel processo si deve quindi avere almeno l'impressione che succeda qualcosa. Perciò, di tanto in tanto, si devono prendere svariati provvedimenti, l'imputato deve essere interrogato, si devono fare indagini, perquisizioni e così via. Bisogna, cioè, che il processo venga fatto continuamente circolare nell'ambito ristretto in cui è stato artificiosamente racchiuso. Questo comporta naturalmente certi fastidi per l'imputato, che lei però, anche in questo caso, non deve immaginare troppo gravi. È tutta pura esteriorità, gli interrogatori per esempio sono brevissimi, se capita di non avere tempo o voglia di andarci è possibile giustificarsi, con certi giudici si possono persino fissare di comune accordo le ordinanze con lungo anticipo, in sostanza si tratta solo che uno, dal momento che è imputato, si presenti ogni tanto dal proprio giudice». Già durante le ultime parole, K. si era messo la giacca sul braccio e si era alzato in piedi. «Si è già alzato!», gridarono subito fuori della porta. «Se ne va di già?», chiese il pittore, che si era alzato in piedi anche lui. «Sono sicuro che è l'aria a farla scappare. Mi dispiace molto. Avrei ancora parecchie cose da dirle. Ho dovuto essere piuttosto conciso. Ma spero di essermi fatto capire». «Oh sì», disse K., che per lo sforzo posto nell'ascolto aveva il mal di testa. Nonostante questa conferma, come per dare a K. una speranza con cui tornarsene a casa, il pittore riassunse ancora una volta il tutto e disse: «Entrambi i metodi hanno questo in comune, che impediscono la condanna dell'imputato». «Però impediscono anche l'assoluzione vera», disse K. sottovoce, come se si vergognasse di averlo riconosciuto. «Lei ha colto il nocciolo della questione», disse in fretta il pittore. K. mise la mano sul cappotto, ma non sapeva decidersi a infilare nemmeno la giacca. Avrebbe preferito fare un fagotto di tutto e scappare fuori all'aria aperta. Neppure le bambine seppero indurlo a vestirsi, sebbene già gridassero l'una all'altra anzitempo che lui si stava vestendo. Il pittore ci teneva a capire cosa avesse in animo K., quindi disse. «Pare che lei non abbia ancora preso una decisione riguardo alle mie proposte. Non le do torto. L'avrei persino sconsigliata dal decidersi subito. Vantaggi e svantaggi sono sottilissimi. Bisogna valutare tutto attentamente. Ma nemmeno si può perdere troppo tempo». «Tornerò presto», disse K., che con improvvisa decisione infilò la giacca, si buttò il cappotto sulle spalle e si affrettò alla porta, dietro a cui le bambine incominciarono subito a gridare. K. credette di vedere attraverso la porta le bambine urlanti. «Deve mantenere la parola, però», disse il pittore, «se no vengo io in banca per sapere che cosa ha deciso». «La prego, apra la porta», disse K. facendo forza sulla maniglia, ma dalla resistenza si accorse che da fuori le bambine la tenevano ferma. «Vuol farsi infastidire dalle bambine?», chiese il pittore. «È meglio se prende quest'uscita», e indicò la porta dietro il letto. K. fu d'accordo e con un salto tornò al letto. Ma invece di aprire la porta, il pittore s'infilò sotto il letto e di lì sotto chiese: «Ancora un momento solo; non vuole vedere un quadro che le potrei vendere?», K. non voleva essere scortese, il pittore si era davvero interessato di lui e aveva promesso di aiutarlo in futuro, e poi, smemorato com'era, K. non aveva ancora parlato del compenso per l'aiuto, perciò adesso K. non poteva rifiutare e si fece mostrare il quadro, sebbene fremesse dall'impazienza di andarsene dallo studio. Il pittore tirò fuori da sotto il letto una pila di quadri non incorniciati, talmente impolverati che, quando cercò di soffiar via la polvere dal quadro che stava sopra, questa turbinò a lungo dinnanzi agli occhi di K. togliendogli il respiro. «Un paesaggio di brughiera», disse il pittore porgendo il quadro a K. Rappresentava due gracili alberi, molto lontani l'uno dall'altro nell'erba scura. Sullo sfondo, un tramonto multicolore. «Bello», disse K., «lo compero». K. si era espresso in modo così sbrigativo senza volerlo, fu perciò contento quando il pittore, invece di aversela a male, sollevò un secondo quadro. «E questo gli fa riscontro», disse il pittore. Può darsi che fosse inteso come riscontro, fatto sta che rispetto al primo quadro non c'era la minima differenza, qui c'erano gli alberi, qui l'erba e laggiù il tramonto. Ma poco importava a K. «Sono bei paesaggi», disse, «li compero tutti e due e li appenderò nel mio ufficio». «Pare che questo soggetto le piaccia», disse il pittore, e tirò su un terzo quadro, «è una fortuna che io ne abbia qui un altro simile». Ma non era simile, era lo stesso identico paesaggio di brughiera. Il pittore sfruttava bene questa occasione per vendere dei vecchi quadri. «Prendo anche questo», disse K. «Quanto costano i tre quadri?». «Ne parleremo un'altra volta», disse il pittore. «Ora lei ha fretta, del resto rimarremo in contatto. E poi mi fa piacere che le piacciano questi quadri, le voglio dare tutti i quadri che ho qui sotto. Sono tutti paesaggi di brughiera, ho già dipinto molti paesaggi di brughiera. Molti rifiutano questi quadri, perché sono troppo cupi, altri invece, e lei è fra questi, amano proprio questa cupezza». Ma ora K. non era disposto ad ascoltare le esperienze professionali del pittore mendicante. «Faccia un pacco di tutti i quadri!», esclamò, troncando la parola al pittore, «domani passerà a ritirarli il mio usciere». «Non è necessario», disse il pittore. «Spero di poterle procurare un facchino che venga via con lei adesso». E finalmente si sporse sul letto e aprì la porta. «Non abbia timore a salire sul letto», disse il pittore, «lo fanno tutti quelli che entrano qui». Anche senza questo invito K. non avrebbe avuto riguardi, anzi, aveva già messo un piede in mezzo al piumino quando guardò fuori dalla porta e lo ritirò. «Che cos'è?», chiese al pittore. «Di che cosa si stupisce?», chiese questi, a sua volta stupito. «Sono le cancellerie del tribunale. Non sapeva che qui ci sono le cancellerie del tribunale? Ci sono cancellerie del tribunale quasi in ogni solaio, perché dovrebbero mancare proprio qui? Anche il mio studio, a rigore, fa parte delle cancellerie, ma il tribunale me l'ha messo a disposizione». K. non era tanto spaventato di aver trovato cancellerie del tribunale anche lì, quanto soprattutto di sé, della sua ignoranza in questioni giudiziarie. Norma di comportamento fondamentale per un imputato gli pareva quella di essere sempre preparato, di non farsi mai sorprendere, di non guardare ignaro a destra se il giudice stava alla sua sinistra - proprio la norma fondamentale che lui contravveniva di continuo. Davanti a lui si apriva un lungo corridoio da cui soffiava un'aria che, a confronto di quella dello studio, era rinfrescante. Ai due lati del corridoio erano disposte delle panche, esattamente come nella sala d'aspetto dell'ufficio da cui dipendeva la causa di K. Pareva ci fossero regole precise per l'arredamento degli uffici. Al momento non c'era gran movimento d'imputati. C'era un uomo mezzo sdraiato, aveva nascosto il viso nelle braccia appoggiate alla panca e sembrava dormire; un altro era in piedi nella penombra all'estremità del corridoio. K. si decise a scavalcare il letto, il pittore lo seguì con i quadri. Incontrarono subito un usciere - ormai K. riconosceva tutti gli uscieri del tribunale dal bottone dorato che avevano sull'abito civile fra i bottoni comuni - e il pittore lo incaricò di accompagnare K. con i quadri. K. barcollava più che camminare, e teneva il fazzoletto premuto sulla bocca. Erano già vicini all'uscita, quando gli si precipitarono incontro le bambine; neanche queste, dunque, erano state risparmiate a K. Evidentemente avevano visto aprire la seconda porta dello studio e avevano fatto il giro per entrare da quella parte. «Non posso più accompagnarla», esclamò ridendo il pittore fra le bambine che gli si accalcavano addosso. «Arrivederci! E non stia troppo a riflettere!».
K. non si voltò nemmeno a guardarlo. In strada prese la prima vettura che incontrò. Gli premeva liberarsi dell'usciere, il cui bottone d'oro continuava a ferirgli gli occhi, anche se pareva che nessun altro lo notasse. Nel suo zelo, l'usciere fece ancora per sedersi a cassetta. Ma K. lo cacciò giù. Mezzogiorno era passato da un pezzo quando K. arrivò davanti alla banca. Avrebbe lasciato volentieri i quadri nella vettura ma temeva che qualche circostanza lo costringesse a servirsene per rinfrescare la memoria al pittore. Li fece quindi portare nel suo ufficio e li chiuse a chiave nell'ultimo cassetto della scrivania per metterli al riparo, almeno per i primi giorni, dagli sguardi del vicedirettore.


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