CONFERENZE:
il giudicato cautelare
(Giovanni Sabbato, 13 ottobre 2012)
Direttamente dal Sito della Giustizia Amministrativa un interessante Relazione alla Conferenza del Consigliere T.A.R. Giovanni Sabbato, sul giudicato cautelare.
Buona lettura!
FF
Giovanni
Sabbato
(Consigliere
Tar)
IL
GIUDICATO CAUTELARE
13
ottobre 2012*
SOMMARIO: 1.
Premessa; 2. Il giudicato interno; 3. Segue: le ordinanze di riesame e il
provvedimento sopravvenuto; 4. Segue: il regime di invalidità in caso di
violazione/elusione del giudicato cautelare; 5. Segue: il Commissario ad acta;
6. Il giudicato esterno: la possibile rilevanza delle pronunce cautelari del
giudice ordinario.
~
1.
Premessa
Dopo
le pregevoli osservazioni degli illustri relatori in ordine alla cogente
rilevanza del giudicato formatosi su pronunce di merito del giudice
amministrativo, mi prefiggo, in questa autorevole sede, di effettuare un rapido
confronto con il giudicato cautelare, al fine di stabilire se esso sia
realmente in grado, ed in che misura, di incidere sulla successiva attività
amministrativa. In effetti, come evidenziato da alcuni, la locuzione “giudicato
cautelare” sembra del tutto contraddittoria, non essendo dato comprendere come
sia conciliabile la forza del giudicato con la natura interinale e provvisoria
del provvedimento cautelare, siccome assuntoprima facie, ovverosia in difetto
di una approfondita disamina del merito delle censure articolate in ricorso.
Non è un caso che nelle pronunce del giudice amministrativo, ove si discetti
della esecuzione ope judicisdel giudicato cautelare consolidatosi
presso il giudice ordinario, si escluda tale possibilità con tono stentoreo,
proprio sulla base della considerazione che l’esito della fase cautelare non
può assumere la forza tipica del giudicato in senso tecnico. Tale constatazione
mi dovrebbe indurre a concludere rapidamente la mia relazione, appunto
valorizzando la differenza ontologica tra le due differenti tipologie di
provvedimento giurisdizionale e la sua ricaduta in termini di diversa
effettività e cogenza. Eppure, mi sembra che il giudicato cautelare abbia
intrapreso, e con decisione, una marcia di progressivo avvicinamento al
giudicato di merito, in nome della assoluta rilevanza che assume la fase
cautelare nel contesto generale del processo amministrativo, come è dato
evincere dalla articolata disciplina ad essa dedicata dal Codice del Processo
Amministrativo.
Prendiamo
allora le mosse dalla stessa definizione di cosa giudicata in senso formale e
sostanziale, che è dato rinvenire nelle pieghe dell’ordinamento giuridico.
Ebbene, si afferma al riguardo che la prima indica la stabilità acquisita da
una sentenza nel momento in cui essa non può più essere impugnata per via
ordinaria. In altri termini si ha cosa giudicata formale quando la sentenza non
è più contestabile in giudizio per cui le parti non possono chiedere più una decisione
sulla loro controversia. Infatti, secondo quanto dispone l’art. 324 del codice di
procedura civile, "Si intende passata in giudicato la
sentenza che non e' piu' soggetta ne' a regolamento di competenza, ne' ad
appello, ne' a ricorso per cassazione, ne' a revocazione per i motivi di cui ai
numeri 4 e 5 dell'articolo 395". Se la sentenza passa in
giudicato il suo effetto è quello di obbligare le parti a osservare quanto
statuito dal giudice. Si verificano quindi gli effetti del giudicato
sostanziale che sono quelli indicati dall'art. 2909 del codice civile: "L'accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le
parti, i loro eredi o aventi causa". La cosa giudicata in senso
sostanziale, dunque, è l’effetto di diritto sostanziale che produce la sentenza
e che consiste nella determinazione dell’esistenza o inesistenza di un diritto
delle parti.
Si
può subito constatare che la definizione di giudicato trova cittadinanza in un
contesto ordinamentale estraneo al processo amministrativo, di guisa che
occorre interrogarsi circa le possibilità di adattamento di tali nozioni alla
specificità di un processo che, si badi, investe la potestà della pubblica
Amministrazione. E’ alla luce di tale considerazione che va risolto il problema
della possibile rilevanza nel processo amministrativo del giudicato cautelare.
Ho già osservato che tale sintagma risente di una imperfezione logica, essendo
da escludere pacificamente che si tratti di vero e proprio giudicato, in quanto
non si può attribuire tale stabilità ad un provvedimento per sua natura
interinale e provvisorio. Si afferma quindi, comunemente, che l’ordinanza
cautelare, ancorché confermata in appello o mai impugnata in seconde cure, non
gode degli effetti del giudicato né interno, perché non influisce sul merito,
né esterno, perché non incide sulla decisione di altri giudici. Se il primo
aspetto è valorizzato affermando il principio della strumentalità del giudizio
cautelare a quello di merito, per il secondo invece si nota che il
giudicato cautelare non può fondare l’intervento di altro giudice in
executivis, per cui non è possibile che il g.a. intervenga in sede di
ottemperanza su un giudicato che si è formato rispetto ad un provvedimento
cautelare di un giudice ordinario.
Ma
è sempre e del tutto vero quello che solitamente si afferma in giurisprudenza ?
Si pensi
agli effetti irreversibili prodotti da un provvedimento di ammissione con
riserva alle prove concorsuali grazie al cd. effetto di assorbimento. E’ noto
che negli ultimi tempi la giurisprudenza ha inteso fortemente ridimensionare la
configurabilità di questa particolare evoluzione della vicenda innescata dal
provvedimento cautelare, ad esempio osservando che “Il superamento della
preselezione in un pubblico concorso è requisito di ammissione al seguito della
procedura concorsuale e determina, sul piano giuridico, effetti costitutivi
suoi propri, con la conseguenza che la sua mancanza non è surrogabile in via
ricognitiva a seguito del positivo espletamento delle (successive) prove
scritte e orali; pertanto, il superamento delle prove scritte cui il candidato
sia ammesso con riserva in ragione di un'ordinanza cautelare adottata in sede
di impugnativa dell'esclusione per mancato superamento della detta preselezione
non determina il c.d. effetto di assorbimento, né, conseguentemente, la
declaratoria di improcedibilità del ricorso originario”[1].
E’ tuttavia ancora di recente ribadito in sede pretoria che “Il
superamento degli esami di maturità da parte di studente ammesso con riserva a
sostenere l'esame di Stato da parte del giudice amministrativo comporta
l'assorbimento e il superamento del giudizio negativo di ammissione con
conseguente improcedibilità del ricorso”[2].
Ma se tale sopravvenienza si riconnette ad una autonoma evoluzione della
vicenda di causa, per effetto del superamento degli esami ai quali il candidato
è stato ammesso mercé l’intervento del giudice cautelare, particolarmente
complessa è la questione delle conseguenze processuali che possono ricondursi
all’adozione di un atto consequenziale al provvedimento cautelare.
2.
Il giudicato interno
Per
il primo dei due corni della vicenda che connota il giudicato cautelare, nella
prospettiva endoprocessuale, si registrano i casi, assai frequenti nella
pratica, in cui l’intervento del giudice di merito, essendo in gioco interessi
di natura pretensiva, risulta vanificato dalla pronuncia cautelare. Ci si
riferisce alle pronunce cautelari espressione della tecnica del remand che,
assumendo carattere propulsivo, stimolano una ulteriore attività
provvedimentale, che vuoi di segno positivo vuoi negativo, rende il ricorso
improcedibile. Al riguardo si distinguono infatti due ipotesi: quella in cui il
nuovo provvedimento è favorevole, con conseguente improcedibilità del gravame
per cessazione della materia del contendere (rectius, sopravvenuta
carenza di interesse), e quella in cui è sfavorevole, in cui
all’improcedibilità si affianca l’onere di nuova intrapresa giurisdizionale. In
entrambi i casi, per effetto della pronuncia cautelare, l’intervento del
giudice di merito si traduce in una semplice sentenza in rito, che pronuncia
l’improcedibilità del ricorso originario. Invero, come da costante insegnamento
giurisprudenziale, “nel caso in cui il giudice amministrativo abbia sospeso
in sede cautelare gli effetti di un provvedimento e l'amministrazione si sia
adeguata con un atto consequenziale al contenuto dell'ordinanza cautelare, non
è configurabile l'improcedibilità del ricorso o la cessazione della materia del
contendere (rispettivamente, se il successivo atto sia sfavorevole o favorevole
all'originario ricorrente), atteso che l'adozione non spontanea dell'atto
consequenziale, con cui l'amministrazione dà esecuzione all'ordinanza di
sospensione degli effetti di un provvedimento, non comporta la revoca del
precedente provvedimento sospeso ed ha una rilevanza provvisoria, in attesa che
la sentenza di merito accerti se il provvedimento sospeso sia o meno legittimo,
salvo il caso in cui il contenuto della motivata ordinanza cautelare sia tanto
condiviso dall'amministrazione da indurre questa a ritirare il precedente
provvedimento già sospeso, sostituendolo con un nuovo atto, senza attendere il
giudicato sul suo prevedibile annullamento”[3].
E’ facile constatare, alla luce dell’insegnamento giurisprudenziale, che assume
carattere dirimente la circostanza se l’adozione dell’atto consequenziale sia
avvenuta in maniera spontanea o meno, cosa che è da escludere se l’ordine
cautelare abbia tenore sospensivo, mentre molto più difficile è stabilire quale
peso abbia la nuova determinazione dell’Amministrazione ove il provvedimento
del giudice della cautela abbia carattere propulsivo.
3.
Segue: le ordinanze di riesame e il provvedimento sopravvenuto
Proprio
a proposito delle ordinanze di riesame si registra un primo indirizzo
interpretativo secondo cui il provvedimento adottato dall'amministrazione
all'esito di remand del giudice si configura sempre e comunque
come espressione di nuove, autonome, scelte discrezionali che, implicando la
sostituzione dell'atto impugnato a mezzo di un nuovo provvedimento non
meramente confermativo del precedente, renderebbe improcedibile il ricorso
avverso le determinazioni originariamente impugnate[4]. Secondo
altro contrapposto orientamento, invece si afferma che la tesi testé illustrata
non pare condivisibile, nella misura in cui, da un lato, oblitera la componente
di doverosità insita nell'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e,
correlativamente, fa dipendere da una scelta del giudice (circa la tecnica di
tutela cautelare di volta in volta utilizzabile) l’attribuzione di effetti
definitivi al provvedimento cautelare, precludendo all'amministrazione di poter
giungere a una pronuncia di merito di segno contrario. Va considerato,
piuttosto, che a fronte di un provvedimento adottato a seguito di remand cautelare,
ma ancora una volta non satisfattivo, l’eventuale decisione di merito
favorevole al ricorrente non pare di norma idonea - quantomeno nelle ipotesi in
cui l’annullamento del provvedimento originariamente impugnato faccia salvi i
residui spazi di discrezionalità amministrativa - a produrre effetti ulteriori
rispetto a quelli dell’ordinanza cautelare già eseguita; di modo che, in nome
dei principi di effettività della tutela giurisdizionale, di economia
processuale e di economicità dell’azione amministrativa, all’originario
ricorrente non può essere negato l’interesse all’immediata impugnativa del
nuovo provvedimento, tale interesse venendo meno nella sola eventualità di
caducazione, ad opera della decisione di merito, della stessa misura cautelare
contenente l’ordine di riesame, con conseguente automatico travolgimento di
ogni suo effetto[5].
I
possibili sviluppi della dinamica processuale sono alquanto variegati, di guisa
che mi pare opportuno accedere ad una ricostruzione schematica delle possibili
varianti che possono presentarsi all’osservazione.
Possiamo
quindi ipotizzare due casi, quando l’amministrazione, nelle more del giudizio
di merito avverso il diniego, emette il provvedimento favorevole, sospirato dal
ricorrente, in esecuzione di un ordine cautelare:
1) il
sopravvenuto provvedimento satisfattivo è emesso a seguito di un’attività di
riesame imposta dall’ordine cautelare, eventualmente di natura propulsiva, di
talchè il diaframma di discrezionalità riservato all’amministrazione, tale da
rendere incerto l’esito del riesame indotto, rende il nuovo provvedimento
autonomo rispetto all’ordine cautelare e quindi definitivo,
soprattutto se l’amministrazione abbia in autotutela ritirato il provvedimento
originariamente impugnato;
2) il
sopravvenuto provvedimento satisfattivo è emesso ai soli fini di dar seguito
all’ordine cautelare e pertanto esso è provvisorio, siccome
sorretto da tale pronuncia, che è destinata ad essere travolta dalla decisione
finale del ricorso.
Questa
seconda ipotesi si verifica in maniera solare quando il provvedimento cautelare
ha carattere impositivo, laddove il giudice, in sede cautelare, ordina
all’amministrazione di provvedere in senso favorevole all’interesse di parte
nelle more della disamina del ricorso nella più approfondita sede di merito. Si
tratta cioè di quelle ordinanze aventi contenuto positivo e sostitutivo,
attraverso le quali il giudice adotta direttamente le determinazioni necessarie
ad evitare che il tempo occorrente per la definizione del giudizio
frustri irrimediabilmente l’interesse dedotto dal ricorrente, così sortendo un
effetto di temporanea ed anticipata produzione degli effetti propri del
provvedimento dallo stesso invocato e negato dall’amministrazione[6]. Ma
essa si rinviene anche quando il provvedimento cautelare si esprime secondo lo
stilema classico della sospensione degli effetti dell’atto impugnato, avendo
l’amministrazione l’obbligo di riattivare il procedimento innescato
dall’istanza di parte, tenendo conto del principio di diritto affermato in sede
motivazionale. E’ bene rammentare, infatti, che essendo in gioco l’esercizio di
una pubblica potestà, dall’intrinseco contenuto doveroso, l’interesse sotteso
all’intrapresa giurisdizionale non può essere frustrato dal decorso del tempo
necessario per giungere ad una pronuncia nel merito del ricorso, una volta che
il giudice, sia pure in sede di delibazione della domanda cautelare, abbia
ritenuto illegittimo l’operato dell’amministrazione. Anche il provvedimento di
sospensione cautelare si traduce dunque in un dovere di riesame dell’atto
impugnato, più o meno vincolato a seconda del tenore motivazionale della
concessa cautela, di guisa che, a fronte delle due ipotesi estreme dell’ordine
di riesame, da un lato, e dell’ordine di provvedere, dall’altro, che implicano
ed escludono, rispettivamente, l’esercizio del rinnovato potere discrezionale,
la mera sospensione si colloca in una zona per così dire intermedia definendosi
a seconda del tenore della motivazione e delle coordinate della vicenda di
causa[7].
Ne consegue che assume rilievo dirimente l’interpretazione dell’atto
satisfattivo, al fine di stabilire se la nuova determinazione sia stata assunta
dall’amministrazione in virtù di libero riesame della vicenda ovvero al solo
fine di adeguarsi alla pronuncia cautelare. La stessa giurisprudenza[8],
nel caso specifico dell’ordinanza di accoglimento per difetto di motivazione,
che rappresenta il provvedimento cautelare che implica la più ampia latitudine
della discrezionalità dell’amministrazione in sede esecutiva, ha evidenziato
che: “l'obbligo per la Pubblica amministrazione di conformarsi alla
pronuncia cautelare del giudice non può dilatarsi fino a divenire un vincolo
assoluto, riservato al giudicato di merito, tanto più quando si sia in presenza
di un atto amministrativo negativo da riesaminare dopo aver riconosciuto
fondata la denuncia di vizio motivazionale, in assenza di alcun indirizzo
impartito per il prosieguo dell'attività amministrativa”.
Ebbene,
può accadere che l’amministrazione, nel provvedere al riesame della vicenda in
esecuzione di un provvedimento cautelare, reiteri il diniego originariamente
impugnato. La sopravvenienza provvedimentale può determinare la possibile
insorgenza del ricorrente in executivis, lamentando la violazione
dell’ordine cautelare quando il nuovo provvedimento sia stato emesso in spregio
dell’ordinanza cautelare alla luce delle sue specifiche statuizioni. Sarà
quindi invocato il nuovo intervento del giudice in sede di ottemperanza perché
provveda alla nomina di un commissario ad acta.
Il
problema che ci poniamo in questa sede è quello di stabilire se tale nuovo
diniego sia o meno coperto da onere di impugnativa, pena la definitiva
declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di
interesse.
Diciamo
subito che, in linea generale, il confronto tra l’originario diniego e quello
sopravvenuto va effettuato secondo la nota distinzione, di carattere generale,
tra atti confermativi e meramente confermativi. Al riguardo, la giurisprudenza[9] insegna
che un atto amministrativo non può considerarsi meramente confermativo rispetto
ad un precedente, quando la sua formulazione è preceduta da un riesame della
situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure attraverso la
rivalutazione degli interessi in gioco ed un nuovo esame degli elementi di
fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dar luogo
ad un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dar vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma
impugnazione. Ricorre, invece, l’atto meramente confermativo (c.d. conferma
impropria) quando l’Amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame, si
limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento, senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
L’Amministrazione si esime, quindi, dal prendere posizione sulle questioni
sollevate con la nuova istanza, limitandosi ad un rifiuto pregiudiziale di
riesame, con il quale nega, anche implicitamente, l’esistenza delle condizioni
per passare alla valutazione del merito dell’istanza stessa. Così configurato,
l’atto meramente confermativo non costituisce un’autonoma determinazione
dell’Amministrazione, sia pure identica nel contenuto rispetto alla precedente,
ma solo la manifestazione della decisione della p.a. di non ritornare nelle
scelte effettuate. Detto altrimenti, l’atto meramente confermativo non è
impugnabile, perché non integra un’autonoma determinazione
dell’Amministrazione, sia pure identica nel contenuto alla precedente.
Alla
luce di tali definizioni, deve innanzitutto escludersi che sia coperto da onere
di impugnativa il nuovo diniego che sia meramente confermativo del precedente.
Il
problema quindi si pone quando si tratti di una conferma propria, cioè di un
diniego reiterativo del precedente bensì frutto di una rinnovata istruttoria e
quindi di una nuova ponderazione di interessi.
A
ben vedere, la dinamica processuale che vede il provvedimento cautelare
assumere rilievo dirimente ai fini della soluzione della controversia con
effetti definitivi non sembra in contrasto con il principio di strumentalità
del giudizio cautelare, e non è un caso che si ammetta ormai comunemente
l’ammissibilità di tali pronunce atipiche del giudice cautelare, in quanto a
determinare l’improcedibilità del ricorso non è in sé l’ordine cautelare bensì
la successiva attività provvedimentale, tanto che se questa non intervenisse
per l’inerzia dell’Amministrazione, sarebbe ancora in piedi l’interesse a
ricorrere che giustifichi una pronuncia nel merito. Nel confronto tra le due
tesi sembra doversi far prevalere la seconda, di talché l’indagine che compete
al giudice amministrativo deve incentrarsi sul nuovo atto, sia favorevole che
sfavorevole, dovendosi stabilire se questo sia frutto di una rinnovata
valutazione dell’amministrazione o sia stato emesso in maniera guidata dal
previo provvedimento cautelare, al solo fine cioè di adeguarsi all’ordine del
giudice. E’ evidente che tale indagine sul foro interno dell’amministrazione
sarebbe alquanto ostica se non facesse leva sia sul tenore del nuovo atto sia
sulla esatta formulazione dell’ordine giudiziale al fine di stabilire se e
quale perimetro sia stato riservato alle libere valutazioni
dell’amministrazione.
Possiamo
però ipotizzare anche il caso in cui il nuovo provvedimento, che interviene
nelle more del giudizio di merito, sia in violazione o elusione del giudicato
cautelare, ad esempio perché l’amministrazione lo ha posto in essere al solo
fine di ribadire la fondatezza dell’orientamento assunto con l’atto impugnato.
Il discorso è delicato perché il nuovo intervento dell’amministrazione potrebbe
avere finalità surrettizie, intese a indurre il ricorrente a interporre nuovo
gravame, con il rischio di andare incontro a pronunce di improcedibilità nel
caso in cui non si attivi tempestivamente in tal senso. A tal riguardo, ancora
una volta il giudice deve effettuare una indagine sul nuovo atto, al fine di
stabilire se questo sia confermativo o meramente confermativo, non potendosi di
certo ritenere che ogni atto sia coperto da onere di impugnativa.
In
maniera schematica possiamo conclusivamente distinguere due ipotesi:
1)
La prima è quella in cui il nuovo atto sia espressione di quel diaframma di
discrezionalità non interessato dalla pronuncia del giudice in sede cautelare,
di talché, trovando scaturigine da un libero riesame del provvedimento originariamente
impugnato, è meritevole di essere oggetto di una nuova impugnativa mediante
motivi aggiunti. Il ricorso introduttivo non può che essere dichiarato
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, anche in caso
di suo accoglimento, il ricorrente non conseguirebbe alcun vantaggio, essendo
la vicenda regolata dal nuovo provvedimento.
2)
La seconda ipotesi invece è quella in cui l’amministrazione assume una nuova
determinazione denegante in aperta violazione delle statuizioni contenute nel
provvedimento cautelare.
Questo
nuovo diniego va impugnato se si vuole evitare la definitiva improcedibilità
del ricorso incardinato avverso il primo atto di segno sfavorevole ?
Al
quesito non è facile dare soluzione, dovendosi stabilire quale rilevanza
attribuire alla pronuncia resa in sede cautelare.
4.
Segue: il regime di invalidità in caso di violazione/elusione del giudicato
cautelare
Essa,
difatti, può essere valorizzata sino al punto da ritenere che l’atto
asseritamente violativo o elusivo del giudicato sia da considerare nullo ai
sensi dell’art. 114, comma 2, lett. b) C.P.A., secondo cui il giudice
dell’ottemperanza “dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o
elusione del giudicato”. Invero, il tribunale amministrativo regionale, in
sede di esecuzione di misure cautelari, “esercita i poteri inerenti al
giudizio di ottemperanza di cui al Titolo I del Libro IV” (cfr. art. 59
C.P.A.). La giurisprudenza si è già da tempo interrogata sul regime di
invalidità che affetta l’atto amministrativo adottato in violazione di
un’ordinanza cautelare del g.a. stabilendo che esso “deve reputarsi
annullabile e non nullo, in quanto la nullità di cui all'art. 21 septies, l. n.
241 del 1990 presuppone un contrasto con sentenze formalmente passate in giudicato
e non semplicemente con decisioni cautelari prive dell'efficacia di cosa
giudicata”.[10] Alcuni[11] evidenziano
che “se si tenga conto dell’espressione “giudicato cautelare” non può non
osservarsi come essa concreti un ossimoro, ovvero una contraddizione in
termini, dal momento che la parola giudicato indica quella particolare
caratteristica delle pronunce giurisdizionali per cui esse fanno stato tra le
parti ed i loro aventi causa, mentre l’aggettivo cautelare rimanda alla
provvisorietà ed interinalità della soluzione adottata dal giudice nella
valutazione del pericolo grave ed irreparabile prospettato dalla parte in
ordine ad una determinata situazione. Tant’è che la categoria è contestata dai
Tribunali Amministrativi Regionali (Che la giurisprudenza non sia affatto
unanime e concorde in ordine alle conseguenze del cd. “giudicato”
cautelare è ben rappresentato da TAR Lombardia, Milano, sezione IV,
6 giugno 2008, n. 1937 (e la giurisprudenza ivi citata:TAR Liguria, sezione II,
2 febbraio 2007, n. 158) e la discordanza verte proprio su quale sia il tipo di
invalidità che affligge il provvedimento adottato dall’amministrazione in
violazione del comando recato dalla ordinanza cautelare del giudice
amministrativo o di una sentenza di primo grado esecutiva ma non ancora passata
in giudicato. Al riguardo i giudici di primae curae sostengono che gli atti in
contrasto con il precetto cautelare non sono suscettibili di nullità, ma di
mera annullabilità. Ciò è stato sostenuto (TAR Calabria, Catanzaro, sezione II,
26 luglio 2005, n. 1397 ripresa in TAR Calabria, Catanzaro, sezione II, 22
settembre 2008, n. 1314.; v. anche TAR Liguria, sez. II, sentenza 02.02.2007 n°
158), partendo proprio dalla lettura testuale dell’art. 21 septies, 1° comma,
l. n. 241/90 il quale stabilisce che “E’nullo il provvedimento amministrativo.
. . che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli
altri casi previsti dalla legge.” Su tale base l’orientamento in
questione considera che non è predicabile alcuna assimilazione tra le
conseguenze della violazione o elusione di una misura cautelare concessa dal
giudice amministrativo, con quelle derivanti dalla violazione o elusione del
giudicato: “tale assimilazione, oltre a porsi in contrasto con la chiara
lettera della legge, di cui viene proposta una inammissibile interpretazione
estensiva, trova un ostacolo insormontabile nei caratteri tipici del giudicato,
i quali sono affatto estranei alle misure cautelari. Focalizzando l’attenzione
esclusivamente sugli effetti, può richiamarsi il carattere definitivo ed
incontestabile del giudicato, il quale è impermeabile finanche alle pronunce di
incostituzionalità, per loro natura connotate da retroattività. Tali
caratteri sono estranei alle misure cautelari, le quali sono naturalmente
munite di un’efficacia interinale e provvisoria, destinata a cessare con la
pronuncia di merito, anche di primo grado.” Le conseguenze che precedono
vengono tratte dalla circostanza che lo stesso legislatore, nel disciplinare un
procedimento speciale per l’attuazione coattiva delle misure cautelari concesse
dal giudice amministrativo (art. 21, 14° comma, l. n. 1034/71, introdotto dalla
legge n. 205/2000), non ha inteso estendere l’ambito applicativo del giudizio
di ottemperanza, ma ha preferito limitarsi ad attribuire al giudice della
cautela i soli poteri esercitati in sede di ottemperanza ex art. 27, 1° comma,
n. 4) del Testo unico n. 1054/1924. Conclusivamente viene dunque negato che
alle “condotte di violazione o elusione consegua la medesima sanzione della
nullità prevista dall’art. 21 septies per le sole decisioni giurisdizionali
passate in giudicato.”
La
via interpretativa della nullità, che seduce una parte sempre più consistente
della giurisprudenza, è nel senso invece di ritenere che il contenuto
omnicomprensivo del richiamato art. 59 C.P.A. sia tale da rendere
implicita la facoltà del giudice cautelare di dichiarare la nullità degli atti
posti in violazione o elusione del giudicato cautelare. Tale opinione però si
scontra con la natura atecnica di quest’ultimo, non avendo effetti vincolanti
nè interni né esterni, come evidenziato dalla citata giurisprudenza in epoca sì
antecedente all’intervento del Codice del Processo Amministrativo, ma pur
sempre caratterizzata dall’affermazione, in sede prima pretoria poi anche
legislativa (l.n. 205/2000), del principio della esecuzione ope judicis delle
ordinanze cautelari secondo le forme del giudizio di esecuzione del giudicato.
Non può quindi assegnarsi rilievo dirimente al pur valorizzato art. 59.
Ebbene
la tesi secondo la quale gli atti sopravvenuti sarebbero nulli siccome in
violazione o elusione del giudicato, opera una almeno tendenziale assimilazione
tra giudicato in senso tecnico e giudicato cautelare alla luce dell’art. 21 septies della
l.n. 241/90 ed è una tesi che ha trovato un autorevole avallo da parte del
Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa. Partendo dalla considerazione che
lo scopo della norma è quello di codificare il principio interpretativo secondo
cui la nullità del provvedimento amministrativo si verifica solo in presenza di
circostanze tipiche e determinate dalla legge, la quinta sezione del Consiglio
di Stato[12] ha
infatti ridisegnato la figura del cd. giudicato cautelare intesa come quella
particolare “stabilità processuale della decisione non più appellabile
(modificabile solo attraverso lo strumento della revocazione, oppure in
presenza di circostanze sopravvenute)”. Ha poi osservato che la
pronuncia cautelare di primo grado e la sentenza del tribunale non sospesa
contengono un “comando giurisdizionale” che si impone inderogabilmente
alle amministrazioni destinatarie, con il solo limite delle sopravvenienze di
fatto o di diritto. La questione è stata affrontata dalla sezione al
fine di stabilire il termine per l’impugnativa dei provvedimenti adottati
dall’amministrazione in contrasto con pronunce giurisdizionali di tal fatta,
giungendo quindi a concludere che detto contrasto si traduce in una forma di
patologia del provvedimento amministrativo certamente più grave della semplice
annullabilità e che l’inquadramento nella categoria della nullità può essere
affermato per ragioni di ordine sistematico oltre che testuale, costituiti
dalla lettura estensiva del concetto di giudicato oltre che dalla attitudine
della pronuncia del giudice a delimitare i confini delle attribuzioni concrete
dell’amministrazione. Tale ultima notazione consente di osservare che, qualora
si aderisse a tale posizione, le ordinanze cautelari cd. atipiche, come quelle
di accoglimento con riesame, nelle quali il giudice indica i parametri ai quali
l’attività dell’amministrazione deve conformarsi, consentirebbero al fine
quella tutela più efficace dell’interesse legittimo pretensivo, ritenuta
altrimenti frustrata, specie se si considera che il giudice può nominare un
commissario ad acta nel caso di inesecuzione dell’ordinanza
cautelare. Tornando alla pronuncia della quinta sezione, la
conseguenza che essa trae dalle superiori osservazioni è che il provvedimento
adottato in contrasto con il “comando giurisdizionale”, contenuto
nell’ordinanza cautelare, può essere assimilato a quello emanato in difetto
assoluto di attribuzione, va qualificato come senz’altro nullo e non richiede,
dunque, di essere impugnato nel termine di decadenza.
La
tesi è stata però criticata da quella dottrina[13] che,
pur condividendone le conclusioni, osserva che: “In presenza di un assetto
di interessi disciplinato anche in via non definitiva da una pronunzia
giurisdizionale, il provvedimento amministrativo che detto assetto intende
“scardinare” si pone in contrasto con il principio di divisione dei poteri che
non tollera evidentemente deroghe o eccezioni. Ciò, tuttavia, non sembra poter
consentire la qualificazione del provvedimento amministrativo contrastante con
il precetto giurisdizionale come provvedimento adottato in difetto assoluto di
attribuzione; in realtà il difetto assoluto di attribuzione (di potere) in capo
alla PA procedente ex art. 21 septies, sembra indicare il caso
dell’assenza di una previa norma. Il termine “assoluto”, inserito nella nuova
disposizione legislativa, non può che paventare l’ipotesi della mancanza in
astratto del potere (carenza di potere in astratto). La statuizione del giudice
amministrativo, a prescindere dal suo passaggio in giudicato, non elide però la
norma attributiva del potere ma agisce, invero, sull’esplicazione dell’effetto
giuridico in senso stretto. Ciò, d’altronde, appare confermato dalla previsione
di una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: l’intervento del
giudice amministrativo, in tal caso espressamente previsto dal comma 2,
dell’art. 21 septies, non potrà che avere valore
accertativo/dichiarativo di effetti mai prodottisi. Di qui, allora,
l’opportunità della previsione della giurisdizione esclusiva che scongiura i
dubbi sulla configurabilità di decisioni di accertamento in sede di
giurisdizione di legittimità4.
Potrebbe azzardarsi, in definitiva, una distinzione tra nullità provvedimentale
per illegalità e nullità provvedimentale per illiceità: nel primo caso si
avrebbe la violazione di una norma ordinativa e di conformazione della
fattispecie “provvedimento amministrativo”. Nel secondo caso, invece, si
avrebbe la violazione di una norma proibitiva che, pur in presenza di una
fattispecie “provvedimento amministrativo” completa, interdice all’agere pubblicistico
la cura dell’interesse istituzionale. Nel primo caso si avrebbe allora un vizio
di qualificazione/struttura del provvedimento, nel secondo caso un vizio della
funzione”.
La
dottrina, come detto, non ha mancato di schierarsi per la tesi della
nullità.
Essa
preliminarmente rileva che, come evidenziato da un Autore[14],
<< la novella legislativa prevede tre tipologie di nullità del
provvedimento amministrativo. Trattasi, in particolare, della nullità
cosiddetta strutturale - conseguente alla mancanza di elementi essenziali
dell’atto -, della nullità testuale - che viene in considerazione quando una
espressa disposizione di legge contempla espressamente il vizio di nullità del
provvedimento - e della (più dibattuta) nullità virtuale, ciò, tuttavia,
limitatamente alle due ipotesi oggetto di codificazione ovvero quella del
provvedimento adottato in difetto assoluto di attribuzione (dunque in
violazione delle norme imperative attributive del potere amministrativo) e
quella del provvedimento spiccato in violazione o elusione del giudicato. In
tale ultimo caso, più nel dettaglio, anteriormente alla novella del 2005 la
giurisprudenza amministrativa era concorde nel ritenere che l’atto difforme ad
un giudicato fosse viziato per carenza di potere in concreto, trattandosi di un
provvedimento completo ma interdetto quanto alla produzione di effetti da una
circostanza esterna all’atto ovvero la presenza di una sentenza passata in
giudicato. La nullità, in altri termini, era da ricondurre alla violazione
della norma di legge che impone all’amministrazione di conformarsi al giudicato
(di qui la qualificazione in termini di nullità virtuale per violazione di
norma imperativa). Ebbene, pare che la ratio sottesa a tale ultima
nullità provvedimentale debba essere ravvisata nel fatto che, a differenza del
provvedimento affetto da nullità strutturale nonché di quello emanato in
difetto assoluto di attribuzione, l’atto amministrativo difforme ad un
giudicato si configura comunque come un provvedimento “completo” e dotato di
imperatività, ma che, tuttavia, contrastando con il precetto posto
dall’autorità giurisdizionale, “regolamenta” (tenta di regolamentare), in
spregio al principio superiore di divisione dei poteri dello Stato, una
fattispecie già definita, appunto, dal potere giurisdizionale. Il
provvedimento amministrativo viziato dalla nullità in parola, dunque, risulta
improduttivo di effetti in ragione della presenza di un precetto giurisdizionale
che non tollera, allora, nemmeno ad opera del potere amministrativo, invasioni
di campo/sovrapposizione di poteri. In tal caso, dunque, il provvedimento
adottato dall’amministrazione diviene oggetto di una qualificazione negativa da
parte dell’ordinamento, nel senso che lo stesso è configurabile e riconosciuto
come tale - essendo a monte individuabile l’esercizio di un potere attribuito
alla P.A. da una apposita disposizione di legge - ma, tuttavia, nessun effetto
giuridico allo stesso può essere imputato, trovando la fattispecie oggetto di
(tentata) regolamentazione amministrativa, in altra fonte (altro potere dello
Stato) la relativa disciplina giuridica. Ora, se si conviene sull’assunto
secondo cui la nullità provvedimentale per violazione e elusione del giudicato
trova il proprio fondamento nel superiore principio - di matrice costituzionale
- di divisione dei poteri, deve necessariamente qualificarsi come nullo ed
improduttivo di effetti il provvedimento amministrativo che intende incidere su
di un assetto di interessi “organizzato” in conseguenza dell’esercizio di un
potere giurisdizionale, anche se di natura cautelare, ed avverso il quale la
parte pubblica non ha esperito i rimedi processuali previsti dall’ordinamento
(appunto, l’appello cautelare). Insomma, anche in presenza di un assetto di
interessi disciplinato in via non definitiva da una pronunzia giurisdizionale,
di natura cautelare, il provvedimento amministrativo che detto assetto intenda
“scardinare” si pone comunque in contrasto con il principio di divisione dei
poteri, che non tollera evidentemente deroghe o eccezioni. D’altronde,
allorquando il giudice amministrativo adotta una statuizione cautelare in
accoglimento dell’apposita domanda del ricorrente - ad esempio sospendendo gli
effetti dall’atto impugnato - tale dictum giurisdizionale verrebbe
svuotato di effettività qualora fosse concesso all’amministrazione di
“contrastarlo” - invece che con i rimedi processuali all’uopo contemplati
dall’ordinamento - mediante una riedizione del potere amministrativo
esercitato, a tal punto, in spregio all’ordine cautelare medesimo. A ben
vedere, pertanto, anche sotto tale profilo, identica si presenta la ratio sottesa
alla nullità provvedimentale contemplata per il caso di violazione o elusione
del giudicato, sia nell’ipotesi di giudicato formatosi su di una sentenza che
nella ipotesi di giudicato cautelare: l’esigenza è quella di garantire
l’effettività della tutela giurisdizionale a fronte di un nuovo esercizio di
potere amministrativo e dunque scongiurare il pericolo che il provvedimento del
giudice amministrativo, qualunque sia la tipologia, risulti, in definitiva, inutiliter
dato >>[15].
Vero è, come osservato dai giudici nel caso de quo, (aggiunge l’A.)
che la statuizione cautelare non regolamenta in via definitiva l’assetto di
interessi da essa propiziato, non potendosi allora alla stessa riconoscere la
definitività e stabilità che caratterizza la sentenza divenuta inoppugnabile.
E’ vero anche, tuttavia, che l’assetto fattuale venutosi a concretizzare
mediante il dictum cautelare giurisdizionale, sebbene
connotato da un’intrinseca provvisorietà, non appare suscettibile di essere
stravolto oppure aggirato da un riesercizio di potere amministrativo da parte
dell’amministrazione parte resistente nel giudizio; ciò poiché non soltanto si
“minerebbe”, come già indicato, il principio di divisione dei poteri, ma anche
perché verrebbe meno una delle ragioni fondanti l’essenza stessa della tutela
cautelare ovvero quella della sua strumentalità. In effetti, se la misura
cautelare deve “assicurare che il provvedimento giurisdizionale definitivo,
per quanto debba necessariamente ritardare, possa tuttavia in ogni caso essere
utile ed efficace”9,
detta funzione - ovvero il connotato della strumentalità - risulterebbe
azzerata qualora fosse possibile “violare” o “eludere” la cautela. In realtà,
soltanto allorquando la sentenza emessa nel processo di “merito” accerta
l’inesistenza dell’interesse tutelato in via cautelare, la misura viene a
perdere efficacia ex lege. Ammettere ipotesi diverse ed
ulteriori di perdite di efficacia della cautela concessa, significa, in
sostanza - quantomeno per cautele di tipo conservativo negare
fondamento ed effettività alla tutela cautelare e, dunque, alla stessa
decisione definitiva; non a caso il giudice delle leggi ha individuato in
questo risvolto della strumentalità un rilievo costituzionale[16].
Anche
la giurisprudenza di prime cure ormai propende per la tesi della nullità.
La
tesi dell’annullabilità è stata propugnata in un non recente passato, in quanto
“Se è vero che l'effetto conformativo consegue sia al
giudicato ordinario sia al cosiddetto giudicato cautelare, comportando un
vincolo assoluto per l'Amministrazione ad attenersi, nella sua successiva
attività di amministrazione attiva, alla statuizione del giudice , quale risultante
tanto dal dispositivo quanto dalla motivazione del provvedimento
giurisdizionale (sentenza di merito o ordinanza cautelare), è parimenti vero
che il provvedimento cautelare non può, per sua stessa natura, assicurare
all'interessato, e stabilmente, la medesima utilità derivante dal giudicato”[17].
Per
vero l’opzione estensiva è stata abbracciata già dal Tar Reggio Calabria n.
529/2006, confermata da Cons. Stato disp. 8 marzo 2007, n. 93,
in ricorso n. 4335/2006, ove si estende la nullità in parola anche al caso
di violazione/elusione di una misura cautelare nell’assunto che pure in tale
ipotesi viene in rilievo un’ipotesi paradigmatica di carenza di potere
sanzionata con la nullità.
Più
di recente la giurisprudenza amministrativa di prime cure, nel medesimo senso,
ha rilevato che: “L'effetto conformativo di ogni provvedimento
giurisdizionale, che implica un vincolo assoluto per l'Amministrazione di
attenersi nella sua successiva attività alla statuizione del giudice, non è
pertinente al solo giudicato ordinario, ma consegue anche al giudicato
cautelare, assolutamente vincolante al pari del primo per la P.A. fino ad una
eventuale difforme decisione di merito, non essendo consentito
all'Amministrazione, nelle more di tale decisione di merito, di ribadire le
proprie determinazioni che siano difformi dal decisum cautelare; pertanto, sono
radicalmente nulli gli atti violativi ed elusivi del giudicato cautelare,
perché resi in assenza di alcun potere discrezionale in capo
all'Amministrazione”[18].
Da segnalare anche la seguente pronuncia, ancora nel senso della nullità: “L'ordinanza
cautelare emessa dal giudice amministrativo, a seguito dell'esaurimento o del
mancato esperimento del gravame ordinario, acquista un valore d'immodificabilità
— sia pure non assoluta e definitiva — per certi aspetti equiparabile al
formarsi della cosa giudicata formale della sentenza passata in giudicato, con
i limiti oggettivi di una pronuncia giurisdizionale, comportando che, per tutta
la durata del giudizio, i fatti per cui è causa rimangono assoggettati, rebus
sic stantibus, agli effetti ivi stabiliti, destinati a permanere per tutto il
tempo occorrente alla definitiva verifica giudiziale”[19].
Il
Consiglio di Stato ha di recente confermato la tesi della nullità: “Il
potere dell'Amministrazione di riesaminare atti sub judice a fini conservativi,
già di per sé suscettibile di attingere profili di illegittimità in quanto
tendenzialmente contrastante con i principi sulla tutela giurisdizionale, deve
ritenersi in radice precluso allorquando il giudice amministrativo abbia
statuito la sospensione della loro efficacia; pertanto, la ripetizione del
medesimo atto con esito analogo a quello censurato in sede giurisdizionale
costituisce un evidente alterazione della fisiologia processuale e, ove
consentito, implicherebbe l'ineffettività della tutela cautelare, con la
conseguenza che a tale ipotesi è applicabile la fattispecie di cui all'art. 21
septies L. 7 agosto 1990 n. 241, che sanziona con la nullità l'atto posto in
essere in violazione o elusione del giudicato, tale intendendosi anche quello
cautelare”[20].
Ma
nel panorama giurisprudenziale viene in evidenza una recente arresto che denota
ancor di più il particolare valore che assume il giudicato cautelare, sempre
più assimilato a quello di merito. In particolare il Consiglio di Stato[21] ha
affermato che “Nel processo amministrativo, è ammissibile l'opposizione di
terzo ordinaria, prevista dall'art. 404 Cod. proc. civ., anche nel caso di
ordinanze cautelari definitive ( giudicato cautelare) rese dai giudici di primo
o di secondo grado”. Pare opportuno riproporre in nota[22] le
significative articolazioni motivazionali di questa fondamentale pronuncia, secondo
cui il giudizio cautelare nel processo amministrativo assume una funzione del
tutto autonoma rispetto a quella del giudizio di impugnazione e tale da
distinguere in modo netto la tutela cautelare nell’ambito del processo
amministrativo rispetto a quella propria del processo civile. I provvedimenti
cautelari del g.a., avverte l’autorevole Collegio, assumono una precisa
funzione conservativa, riflettendo la necessità di ovviare al danno grave e
irreparabile allegato dal ricorrente. Le osservazioni del Collegio di seconde
cure assumono particolare rilievo nell’ottica di una possibile unicità della
giurisdizione, peraltro auspicata da molti, in quanto la specificità del
processo amministrativo sembra deporre in senso esattamente contrario, e ciò
vale non solo per la fase incidentale della cautela, ma anche per quella di
merito, come si può evincere da quanto riportato nelle pagine successive, a
proposito della esecuzione delle sentenze di primo grado del giudice ordinario.
5.
Segue: il Commissario ad acta
Altra
ipotesi è quella in cui il nuovo provvedimento, intervenuto nelle more del
giudizio di merito, sia stato emesso dal commissario ad acta,
nominato dal giudice cautelare in sede di ottemperanza per far fronte
all’inerzia dell’amministrazione. Questo nuovo provvedimento come incide
sull’interesse a ricorrere ? Si dovrebbe distinguere a seconda della natura del
provvedimento cautelare al fine di verificare se esso riservi o meno diaframmi
di discrezionalità all’amministrazione ? Ove abbia natura impositiva, rispetto
evidentemente ad attività vincolata, l’intervento del commissario ad
acta potrebbe ritenersi risolutivo, ma in realtà anche in questo caso
l’attività commissariale si regge su un provvedimento cautelare che non può e
non deve chiudere la controversia. L’estensione al giudicato cautelare, prima
giurisprudenziale poi normativa, dell’esecuzione ope judicis non
può non indurre a ritenere che diverso sia ontologicamente il provvedimento
giudiziale che ne è alla base, dovendo la fase di ottemperanza essere seguita
da quella di merito. Eppure ripugna alla coscienza metagiuridica che la
decisione nel merito possa ribaltare l’esito dell’incidente cautelare
vanificando l’operato commissariale. Così si afferma in giurisprudenza[23] che
“L'unica forma di reazione avverso l'assetto provvisorio degli interessi
disciplinati dalla misura cautelare adottata dal giudice in sede di esecuzione
del giudicato, o dal suo organo ausiliario costituito dal commissario ad acta,
è il reclamo al medesimo collegio che quella statuizione ha emanato e che,
avvalendosi dei poteri propri dell'ottemperanza, individui in concreto le misure
che possono concretamente realizzare l'interesse sostanziale che si assume leso”
(per completezza si veda però la motivazione in nota dell’ord. CdS n.
115/2010). A sua volta, il TAR Lazio[24] sostiene
che “Gli atti adottati dal commissario ad acta (quale ausiliario del
giudice) in sede di esecuzione dell'ordinanza cautelare di sospensione del
provvedimento impugnato, i cui effetti vengono a cessare con la sentenza di
merito, non sono suscettibili di impugnazione ma sono censurabili unicamente
nelle forme dell'incidente di esecuzione davanti allo stesso giudice cautelare”. Si
aggiunge che “Il commissario ad acta nominato dal giudice non opera come
organo ausiliario di questo bensì come organo straordinario
dell'Amministrazione inadempiente esercitando il potere che la legge
attribuisce a quest'ultima”. La giurisprudenza ha di recente confermato che
“Il commissario ad acta nominato dal giudice non opera come organo
ausiliario di questo bensì come organo straordinario dell'Amministrazione
inadempiente esercitando il potere che la legge attribuisce a quest'ultima”[25].
Ragioni
di coerenza logica indurrebbero a ritenere che, ove vi sia stato l’intervento
del commissario ad acta non andrebbe dichiarata la
improcedibilità del ricorso, in quanto “Il commissario ad acta per
l'esecuzione del giudicato è organo straordinario dell'Amministrazione nella
cui struttura organizzativa è coattivamente inserito dalla sentenza del giudice
amministrativo, la quale costituisce l'unico titolo dell'investitura e l'unico
presupposto per l'emanazione dei relativi provvedimenti; pertanto,
l'annullamento della sentenza del giudice in virtù della quale il commissario
ad acta è stato nominato, ovvero una pronuncia di rito (nella specie,
declaratoria di cessazione della materia del contendere) comporta ipso jure la
caducazione degli atti posti in essere dal commissario medesimo, senza una
definitiva pronuncia che consolidi i risultati del provvedimento,
consequenziale alla misura cautelare eventualmente concessa”[26]. .
Deve
tuttavia valorizzarsi la seguente pronuncia: “Se è vero che, in sede di
esecuzione del giudicato, la Pubblica amministrazione non è titolare di un
potere di autotutela amministrativa tale da consentire l'annullamento di atti
emessi dal commissario ad acta, è pur vero che tale potere deve ritenersi sussistente
rispetto agli atti del commissario giudiziale per l'esecuzione cautelare, in
quanto quest'ultimo è organo sostitutivo funzionale all'esclusiva esigenza del
giudizio cautelare amministrativo, che è quella di assicurare interinalmente
gli effetti della decisione sul ricorso”[27].
Si
può quindi affermare, a mio parere, che, fermo restando in astratto la
necessità che il giudice decida nel merito la controversia, non essendo
l’attività commissariale autosufficiente per la natura interinale
dell’ordinanza cautelare sulla quale si fonda la sua investitura, ciò non sia
necessario quando l’Amministrazione non abbia posto in essere alcun atto di
autotutela sugli atti del commissario, per tal via mostrando di aderire, sia
pure implicitamente, all’orientamento assunto dal commissario stesso. Si
verifica cioè la stessa situazione riconducibile ad un riesame di segno favorevole
dell’Amministrazione sia pure ricavabile implicitamente dal suo comportamento
inerte, per evitare che venga premiata un’amministrazione riottosa e renitente.
Il ricorso andrebbe quindi dichiarato improcedibile. Questa figura di nuovo
conio del riesame implicito non mi sembra che si scontri con il principio di
tipicità del silenzio significativo non volendosi in questa sede ipotizzare la
presenza di un provvedimento amministrativo silenzioso quanto piuttosto di un
comportamento processualmente rilevante secondo il principio di non
contestazione sancito dall’art. 115 c.p.c.
Circa
il rapporto tra giudicato cautelare e permanenza del potere
dell’amministrazione giurisprudenza costante afferma che “Il mero decorso
del termine assegnato per l'esecuzione di un provvedimento cautelare disposto
dal giudice non comporta come effetto automatico la perdita da parte
dell'Amministrazione intimata del potere di provvedere, che essa conserva anche
se, per l'ipotesi di inottemperanza, sia stata disposta la nomina di un commissario
ad acta, almeno fin quando quest'ultimo non si sia concretamente attivato per
adempiere all'incarico affidatogli dal giudice”[28].
L’intervento del commissario non esclude quindi che l’Amministrazione possa
annullare in autotutela gli atti commissariali assumendo motivate
determinazioni di segno contrario sulla vicenda, ove il commissario sia stato
investito da un’ordinanza cautelare. Del resto, come evidenziato in
giurisprudenza[29], “L'ordinanza
cautelare del giudice amministrativo non configura mai una radicale
consumazione del potere amministrativo, in quanto, se è vero che a seguito
della pronuncia cautelare possono essere posti in essere dall'Amministrazione
anche ulteriori atti che hanno come presupposto logico e giuridico il nuovo
provvedimento adottato in esecuzione dell'ordinanza cautelare adottata in primo
grado, che temporaneamente tiene luogo della valutazione positiva mancata e
incide anche sull'efficacia dell'atto impugnato di produrre effetti giuridici,
è altrettanto vero che l'effetto caducante dell'eventuale decisione di riforma
in appello si estende a tutti gli ulteriori atti adottati dalla P.A. a seguito
della sostituzione del provvedimento annullato in primo grado”.
6.
Il giudicato esterno: la possibile rilevanza delle pronunce cautelari del
giudice ordinario
A
tale specifico riguardo occorre chiedersi se il giudicato che si forma su un
provvedimento cautelare emesso dal giudice ordinario possa dirsi del tutto
irrilevante ove sia seguito da un provvedimento dell’amministrazione in sua
violazione o elusione. Se si tratta di un giudicato cautelare che si è formato
rispetto ad una pronuncia del giudice amministrativo dobbiamo inferirne
quantomeno la illegittimità, provocando, come detto, l’annullabilità o addirittura
la nullità dell’atto sopravvenuto. Ma può dirsi lo stesso anche quando il
giudicato cautelare si sia formato rispetto ad un provvedimento cautelare del
giudice ordinario ?
A
tale riguardo non si può non ripercorrere le osservazioni formulate dagli
addetti ai lavori a proposito della esecuzione delle sentenze di primo grado
non sospese. Anzitutto si è chiarito, prima dell’intervento del CPA, che “lo
speciale rimedio offerto dall’art. 10 della Legge n. 205/2000 non può
applicarsi per le sentenze del giudice ordinario non appellate,
seppure la controparte sia una pubblica amministrazione”[30]. Ed
anzi la questione di legittimità costituzionale proposta fu dichiarata
manifestamente infondata sulla base della differenza tra norma generale in tema
di ottemperanza (art. 27 comma 1 n. 4), r.d. 26 giugno 1924 n. 1054) e la norma
derogatrice che tale rimedio estendeva esclusivamente alle sentenze di primo
grado dei TAR non sospese in grado di appello (art. 33 comma 5, l. 6
dicembre 1971 n. 1034, aggiunto dall'art. 10 l. 21 luglio 2000 n.
205).
Attualmente,
dunque, la giurisprudenza pacificamente ritiene impraticabile il rimedio per le
sentenze del giudice ordinario non passate in giudicato, ponendo in rilievo la
differenza tra l’actio judicati che presuppone un giudicato e la provvisoria
esecuzione delle sentenze dei TAR che non può mai compromettere il secondo
grado e ponendo altresì in rilievo i differenti poteri del giudice nei due
casi. Tornando ai limiti di questa cosiddetta provvisoria esecuzione, la
giurisprudenza li individua nella mancanza del carattere di « definitività
» e di « stabilità » .Si osserva infatti che “Se è ormai vero che il giudice
dell'esecuzione della sentenza di primo grado è investito, così come il giudice
dell'ottemperanza, di poteri « sostitutivi » rispetto alle prerogative
ordinariamente esercitabili dall'Amministrazione (in tal senso dovendosi
intendere la riportata disposizione di cui all'art. 10, l. n. 205 del
2000), è altrettanto vero che l'esercizio di siffatti poteri non potrà comunque
estrinsecarsi - in difetto di giudicato - nell'adozione di misure che, in
quanto implicanti effetti e/o conseguenze di carattere irreversibile,
continuano invece a dimostrarsi omogenee al solo giudizio di ottemperanza”.
Così afferma il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa[31] alla
luce del Codice del processo amministrativo osservando che ”Anche ai sensi
dell'art. 112 del codice del processo amministrativo — che richiede all'uopo
l'equiparazione del provvedimento alla sentenza passata in giudicato — non può
essere proposta dinanzi al giudice amministrativo ricorso per ottemperanza al
fine di dare esecuzione a una statuizione (anche definitiva) in ordine alle
spese del giudizio contenuta in un'ordinanza cautelare emessa dal giudice
ordinario, il quale è invece competente in materia ai sensi dell'art. 669
duodecies Cod. proc. civ”.
Lo
stesso Consiglio di Stato, in altra pronuncia, ha ribadito che “Ai sensi
degli artt. 33 comma 5 e 37 comma 1 L. 6 dicembre 1971 n. 1034, il ricorso
per l'esecuzione di una sentenza del giudice ordinario presuppone l'esistenza
di una sentenza o di un provvedimento idoneo a dar luogo a giudicato,
sicché è inammissibile la richiesta di esecuzione su di essi se sono privi di
natura definitiva e decisoria, aventi natura cautelare e provvisoria”( n.
3476 - 8 giugno 2011 - Sez. V). Aggiunge il Collegio che “il ricorso per
l’esecuzione da parte del Giudice amministrativo di una sentenza del Giudice
ordinario presuppone l’esistenza di una sentenza o di un provvedimento idoneo a
dar luogo a giudicato, sicché è inammissibile la richiesta di esecuzione del
giudicato su di essi se sono privi di natura definitiva e decisoria, aventi
natura cautelare e provvisoria…Le implicazioni dell’esecuzione delle sentenze
amministrative, con riguardo ai confini della relativa tutela giurisdizionale,
risultano invero notevolmente differenti dagli effetti e dai caratteri propri
dell’attuazione delle statuizioni dell’autorità giudiziaria ordinaria, sicché
risulta logicamente impraticabile ogni lettura della normativa di riferimento
che si fondi sull’analogia tra le due situazioni e che concluda per
l’applicazione del rimedio di cui all’art. 33, comma 5, della legge n. 1034/71
anche all’ottemperanza delle sentenze pronunciate dal Giudice ordinario, prima
del loro passaggio in giudicato, che, peraltro, deve essere effettivo e non
soggetto a travolgimento a seguito della definitiva pronuncia giurisdizionale
su una sentenza presupposta a quella passata in giudicato. Quanto
alle questioni di costituzionalità sollevate con l’atto di appello esse vanno
riconosciute come manifestamente infondate, atteso che su di esse si è
pronunciata in tal senso la Corte costituzionale, con sentenza 25 marzo 2005,
n. 122, con riferimento all’art. 37 della l. n. 1034 del 1971, nella parte in
cui non consente l’utilizzazione del giudizio di ottemperanza con riguardo alle
sentenze del G.O. esecutive, ancorché non passate in giudicato, in riferimento
agli artt. 3, 24, 97, 111 e 113 della Costituzione, con argomentazioni che alla
Sezione appaiono pienamente condivisibili e non scalfite dalle censure al
riguardo formulate con l’atto di appello. La scelta del legislatore
non è stata ritenuta irragionevole dal Giudice costituzionale in quanto la
procedura di ottemperanza nei confronti della P.A. comporta l’esercizio di una
giurisdizione estesa al merito e la previsione dell’art. 33 della L. n. 1034
del 1971 (secondo la quale il giudizio di ottemperanza può esercitarsi nei
confronti delle sentenze del T.A.R. non sospese dal Consiglio di Stato) è
frutto della discrezionalità legislativa di voler dare concretezza al principio
di esecutività delle sentenze di primo grado, evitando che l’Amministrazione
possa arbitrariamente sottrarsi alle pronunce giurisdizionali. Sono,
invero differenti, secondo la Corte Costituzionale, e quindi non comparabili
con quelle incardinabili innanzi al G.A., le azioni esecutive esperibili
davanti al G.O. secondo le norme di procedura civile (trattandosi in questo
caso di sentenze o di provvedimenti esecutivi che non richiedono l’esame di
merito proprio del giudizio di ottemperanza), sicché non può parlarsi di
disparità di trattamento fra l’ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa
di primo grado, perseguita attraverso il giudizio di ottemperanza, e l’ipotesi
di esecuzione delle sentenze di primo grado del G.O..
Secondo
detto Giudice Costituzionale neppure, attesa la diversità degli istituti, può
parlarsi, in relazione all’esecuzione delle sentenze del G.O., di pregiudizio
per la tutela dei diritti del creditore o per la ragionevole durata del
processo, la quale è garantita peraltro dai tempi processuali disposti dal
codice di procedura civile, mentre il principio di buon andamento si riferisce
agli organi dell’Amministrazione della giustizia unicamente per profili
concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto
l’aspetto amministrativo, ma non riguarda l’esercizio della funzione
giurisdizionale nel suo complesso ed i provvedimenti che ne costituiscono
espressione. Non condivide in particolare il Collegio le tesi di
parte appellante che non differirebbero le valutazioni di merito che il G.A.
può svolgere in sede di ottemperanza di una sentenza dell’A.G.O. passata in
giudicato, rispetto ai poteri del Giudice dell’ottemperanza della sentenza del
G.A. ed essendo comunque differente una sentenza passata in giudicato da una
provvisoriamente esecutiva. Posto che in sede di giudizio di
ottemperanza il Giudice amministrativo può esercitare cumulativamente, ove ne
ricorrano i presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e
cassatori e può, conseguentemente, integrare l’originario disposto della
sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera esecuzione, ma attuazione
in senso stretto, dando luogo al c.d. "giudicato a formazione
progressiva" (Consiglio Stato, sez. IV, 25/06/2010, n. 4131), senza
tuttavia poter ampliare o modificare quanto deciso nella sentenza da eseguire
(soprattutto quando si tratta di sentenze emesse dall’autorità giudiziaria
ordinaria), va invero considerato che il presupposto del passaggio in giudicato
della sentenza azionata in sede di giudizio di ottemperanza è ragionevole a
causa dell’esercizio della giurisdizione estesa al merito proprio del giudizio
di ottemperanza e perché non può disconoscersi che sono obiettivamente diverse
le valutazioni di merito che il Giudice amministrativo prudentemente effettua
in sede di ottemperanza a sentenza del Giudice stesso non sospesa dal Giudice
di appello, rispetto a quelle che può effettuare nei confronti di sentenza del
Giudice ordinario definitivamente passata in giudicato. In
conclusione ritiene la Sezione che, essendo il ricorso introduttivo del ricorso
in esame volto ad ottenere l’esecuzione di una sentenza del Giudice ordinario
formalmente passata in giudicato, ma soggetta ad essere travolta dall’eventuale
accoglimento dell’appello proposto sulla sentenza presupposta e pendente, per
quanto in precedenza evidenziato, esso sia stato correttamente dichiarato
inammissibile dal Giudice di primo grado per impossibilità di applicazione
degli artt. 33 e 37 della L. n. 1034 del 1971, sicché l’appello deve essere
conclusivamente respinto e deve essere confermata la prima decisione.”
Tale
orientamento va tuttavia sottoposto a vaglio critico alla luce della stessa
evoluzione dell’ordinamento processual-civilistico.
Deve
essere rammentato infatti che il nuovo art. 669 octies, comma 6,
c.p.c., introdotto dalla riforma del 2005[32],
ha in realtà rivisitato il connotato della strumentalità della tutela
cautelare, similmente a quanto già in precedenza avvenuto in materia di rito
societario, introducendo la regola iuris della cosiddetta
ultrattività del provvedimento cautelare con riferimento ai provvedimenti di
urgenza ex art. 700 c.p.c., a quelli adottati a seguito di azioni di
nunciazione nonché a tutti gli altri provvedimenti cautelari - previsti dal
codice civile e da leggi speciali - idonei ad anticipare gli effetti della
sentenza di merito. Il quid novi introdotto dal legislatore,
più nel dettaglio, è rappresentato dalla possibile stabilizzazione nel tempo
degli effetti della cautela - dunque della regolamentazione del rapporto
dedotto in giudizio da essa propiziata - consequenziale alla mancata e non più
necessaria prosecuzione nel merito del procedimento cautelare. Questa
valorizzazione della tutela cautelare assicurata dal giudice ordinario potrebbe
quindi costituire viatico per assimilarlo al giudicato amministrativo
cautelare, nel senso di abilitare l’intervento del giudice in executivis quando
l’Amministrazione sia rimasta inerte o abbia posto in essere atti in sua
violazione o elusione, da ritenere eventualmente nulli. Non ritengo tuttavia
che siano maturi i tempi per spingersi così in avanti verso una totale
assimilazione dei due giudicati cautelari, a ciò ostando non solo la diversa
natura degli stessi, come insegna il Consiglio di Stato, ma la stessa ricaduta
applicativa della riforma che non investe l’intero perimetro delle pronunce
cautelari di pertinenza del giudice ordinario. Invero, la norma introdotta dal
legislatore della riforma si riferisce soltanto ai provvedimenti di natura
anticipatoria e non anche a quelli ad effetti conservativi, che costituiscono,
come detto, il proprium della tutela cautelare assicurata dal
giudice amministrativo, di guisa che non sembra che tale norma possa indurre ad
una rivalutazione complessiva del peso specifico da attribuire alle pronunce
cautelari del giudice ordinario nella prospettiva di una possibile esecuzione ope
judicis nell’ambito del processo amministrativo. E’ quindi tuttora da
escludere che il giudicato cautelare maturato in un giudizio ordinario possa
abilitare l’intervento del giudice amministrativo in sede di ottemperanza,
fermo restando però la possibile emersione della più blanda forma di invalidità sub
specie di illegittimità dell’atto emesso in sua violazione o elusione,
da sottoporre all’attenzione del giudice amministrativo nel giudizio ordinario.
Non può infatti escludersi che, all’esito del giudizio cautelare intrapreso
innanzi al giudice ordinario, residuino profili di discrezionalità, a fronte
dei quali si configuri una posizione di interesse legittimo meritevole di
essere condotta all’attenzione del g.a.. L’atto, assuntivamente in violazione
della pronuncia cautelare sarà impugnabile dinanzi al giudice amministrativo in
sede ordinaria.
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