mercoledì 3 luglio 2013

CONFERENZE: il giudicato cautelare (Giovanni Sabbato, 13 ottobre 2012).


CONFERENZE: 
il giudicato cautelare 
(Giovanni Sabbato, 13 ottobre 2012)


Direttamente dal Sito della Giustizia Amministrativa un interessante Relazione alla Conferenza del Consigliere T.A.R. Giovanni Sabbato, sul giudicato cautelare.
Buona lettura!
FF

Giovanni Sabbato
(Consigliere Tar)

IL GIUDICATO CAUTELARE
13 ottobre 2012*

SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Il giudicato interno; 3. Segue: le ordinanze di riesame e il provvedimento sopravvenuto; 4. Segue: il regime di invalidità in caso di violazione/elusione del giudicato cautelare; 5. Segue: il Commissario ad acta; 6. Il giudicato esterno: la possibile rilevanza delle pronunce cautelari del giudice ordinario.
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1. Premessa

Dopo le pregevoli osservazioni degli illustri relatori in ordine alla cogente rilevanza del giudicato formatosi su pronunce di merito del giudice amministrativo, mi prefiggo, in questa autorevole sede, di effettuare un rapido confronto con il giudicato cautelare, al fine di stabilire se esso sia realmente in grado, ed in che misura, di incidere sulla successiva attività amministrativa. In effetti, come evidenziato da alcuni, la locuzione “giudicato cautelare” sembra del tutto contraddittoria, non essendo dato comprendere come sia conciliabile la forza del giudicato con la natura interinale e provvisoria del provvedimento cautelare, siccome assuntoprima facie, ovverosia in difetto di una approfondita disamina del merito delle censure articolate in ricorso. Non è un caso che nelle pronunce del giudice amministrativo, ove si discetti della esecuzione ope judicisdel giudicato cautelare consolidatosi presso il giudice ordinario, si escluda tale possibilità con tono stentoreo, proprio sulla base della considerazione che l’esito della fase cautelare non può assumere la forza tipica del giudicato in senso tecnico. Tale constatazione mi dovrebbe indurre a concludere rapidamente la mia relazione, appunto valorizzando la differenza ontologica tra le due differenti tipologie di provvedimento giurisdizionale e la sua ricaduta in termini di diversa effettività e cogenza. Eppure, mi sembra che il giudicato cautelare abbia intrapreso, e con decisione, una marcia di progressivo avvicinamento al giudicato di merito, in nome della assoluta rilevanza che assume la fase cautelare nel contesto generale del processo amministrativo, come è dato evincere dalla articolata disciplina ad essa dedicata dal Codice del Processo Amministrativo.   
Prendiamo allora le mosse dalla stessa definizione di cosa giudicata in senso formale e sostanziale, che è dato rinvenire nelle pieghe dell’ordinamento giuridico. Ebbene, si afferma al riguardo che la prima indica la stabilità acquisita da una sentenza nel momento in cui essa non può più essere impugnata per via ordinaria. In altri termini si ha cosa giudicata formale quando la sentenza non è più contestabile in giudizio per cui le parti non possono chiedere più una decisione sulla loro controversia. Infatti, secondo quanto dispone l’art. 324 del codice di procedura civile, "Si intende passata in giudicato la sentenza che non e' piu' soggetta ne' a regolamento di competenza, ne' ad appello, ne' a ricorso per cassazione, ne' a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 395".  Se la sentenza passa in giudicato il suo effetto è quello di obbligare le parti a osservare quanto statuito dal giudice. Si verificano quindi gli effetti del giudicato sostanziale che sono quelli indicati dall'art. 2909 del codice civile: "L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa". La cosa giudicata in senso sostanziale, dunque, è l’effetto di diritto sostanziale che produce la sentenza e che consiste nella determinazione dell’esistenza o inesistenza di un diritto delle parti. 
Si può subito constatare che la definizione di giudicato trova cittadinanza in un contesto ordinamentale estraneo al processo amministrativo, di guisa che occorre interrogarsi circa le possibilità di adattamento di tali nozioni alla specificità di un processo che, si badi, investe la potestà della pubblica Amministrazione. E’ alla luce di tale considerazione che va risolto il problema della possibile rilevanza nel processo amministrativo del giudicato cautelare. Ho già osservato che tale sintagma risente di una imperfezione logica, essendo da escludere pacificamente che si tratti di vero e proprio giudicato, in quanto non si può attribuire tale stabilità ad un provvedimento per sua natura interinale e provvisorio. Si afferma quindi, comunemente, che l’ordinanza cautelare, ancorché confermata in appello o mai impugnata in seconde cure, non gode degli effetti del giudicato né interno, perché non influisce sul merito, né esterno, perché non incide sulla decisione di altri giudici. Se il primo aspetto è valorizzato affermando il principio della strumentalità del giudizio cautelare a quello di merito,  per il secondo invece si nota che il giudicato cautelare non può fondare l’intervento di altro giudice in executivis, per cui non è possibile che il g.a. intervenga in sede di ottemperanza su un giudicato che si è formato rispetto ad un provvedimento cautelare di un giudice ordinario.
Ma è sempre e del tutto vero quello che solitamente si afferma in giurisprudenza ?
Si pensi agli effetti irreversibili prodotti da un provvedimento di ammissione con riserva alle prove concorsuali grazie al cd. effetto di assorbimento. E’ noto che negli ultimi tempi la giurisprudenza ha inteso fortemente ridimensionare la configurabilità di questa particolare evoluzione della vicenda innescata dal provvedimento cautelare, ad esempio osservando che “Il superamento della preselezione in un pubblico concorso è requisito di ammissione al seguito della procedura concorsuale e determina, sul piano giuridico, effetti costitutivi suoi propri, con la conseguenza che la sua mancanza non è surrogabile in via ricognitiva a seguito del positivo espletamento delle (successive) prove scritte e orali; pertanto, il superamento delle prove scritte cui il candidato sia ammesso con riserva in ragione di un'ordinanza cautelare adottata in sede di impugnativa dell'esclusione per mancato superamento della detta preselezione non determina il c.d. effetto di assorbimento, né, conseguentemente, la declaratoria di improcedibilità del ricorso originario[1]. E’ tuttavia ancora di recente ribadito in sede pretoria che “Il superamento degli esami di maturità da parte di studente ammesso con riserva a sostenere l'esame di Stato da parte del giudice amministrativo comporta l'assorbimento e il superamento del giudizio negativo di ammissione con conseguente improcedibilità del ricorso[2]. Ma se tale sopravvenienza si riconnette ad una autonoma evoluzione della vicenda di causa, per effetto del superamento degli esami ai quali il candidato è stato ammesso mercé l’intervento del giudice cautelare, particolarmente complessa è la questione delle conseguenze processuali che possono ricondursi all’adozione di un atto consequenziale al provvedimento cautelare.

2. Il giudicato interno

Per il primo dei due corni della vicenda che connota il giudicato cautelare, nella prospettiva endoprocessuale, si registrano i casi, assai frequenti nella pratica, in cui l’intervento del giudice di merito, essendo in gioco interessi di natura pretensiva, risulta vanificato dalla pronuncia cautelare. Ci si riferisce alle pronunce cautelari espressione della tecnica del remand che, assumendo carattere propulsivo, stimolano una ulteriore attività provvedimentale, che vuoi di segno positivo vuoi negativo, rende il ricorso improcedibile. Al riguardo si distinguono infatti due ipotesi: quella in cui il nuovo provvedimento è favorevole, con conseguente improcedibilità del gravame per cessazione della materia del contendere (rectius, sopravvenuta carenza di interesse), e quella in cui è sfavorevole, in cui all’improcedibilità si affianca l’onere di nuova intrapresa giurisdizionale. In entrambi i casi, per effetto della pronuncia cautelare, l’intervento del giudice di merito si traduce in una semplice sentenza in rito, che pronuncia l’improcedibilità del ricorso originario. Invero, come da costante insegnamento giurisprudenziale, “nel caso in cui il giudice amministrativo abbia sospeso in sede cautelare gli effetti di un provvedimento e l'amministrazione si sia adeguata con un atto consequenziale al contenuto dell'ordinanza cautelare, non è configurabile l'improcedibilità del ricorso o la cessazione della materia del contendere (rispettivamente, se il successivo atto sia sfavorevole o favorevole all'originario ricorrente), atteso che l'adozione non spontanea dell'atto consequenziale, con cui l'amministrazione dà esecuzione all'ordinanza di sospensione degli effetti di un provvedimento, non comporta la revoca del precedente provvedimento sospeso ed ha una rilevanza provvisoria, in attesa che la sentenza di merito accerti se il provvedimento sospeso sia o meno legittimo, salvo il caso in cui il contenuto della motivata ordinanza cautelare sia tanto condiviso dall'amministrazione da indurre questa a ritirare il precedente provvedimento già sospeso, sostituendolo con un nuovo atto, senza attendere il giudicato sul suo prevedibile annullamento[3]. E’ facile constatare, alla luce dell’insegnamento giurisprudenziale, che assume carattere dirimente la circostanza se l’adozione dell’atto consequenziale sia avvenuta in maniera spontanea o meno, cosa che è da escludere se l’ordine cautelare abbia tenore sospensivo, mentre molto più difficile è stabilire quale peso abbia la nuova determinazione dell’Amministrazione ove il provvedimento del giudice della cautela abbia carattere propulsivo.

3. Segue: le ordinanze di riesame e il provvedimento sopravvenuto

Proprio a proposito delle ordinanze di riesame si registra un primo indirizzo interpretativo secondo cui il provvedimento adottato dall'amministrazione all'esito di remand del giudice si configura sempre e comunque come espressione di nuove, autonome, scelte discrezionali che, implicando la sostituzione dell'atto impugnato a mezzo di un nuovo provvedimento non meramente confermativo del precedente, renderebbe improcedibile il ricorso avverso le determinazioni originariamente impugnate[4].  Secondo altro contrapposto orientamento, invece si afferma che la tesi testé illustrata non pare condivisibile, nella misura in cui, da un lato, oblitera la componente di doverosità insita nell'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e, correlativamente, fa dipendere da una scelta del giudice (circa la tecnica di tutela cautelare di volta in volta utilizzabile) l’attribuzione di effetti definitivi al provvedimento cautelare, precludendo all'amministrazione di poter giungere a una pronuncia di merito di segno contrario. Va considerato, piuttosto, che a fronte di un provvedimento adottato a seguito di remand cautelare, ma ancora una volta non satisfattivo, l’eventuale decisione di merito favorevole al ricorrente non pare di norma idonea - quantomeno nelle ipotesi in cui l’annullamento del provvedimento originariamente impugnato faccia salvi i residui spazi di discrezionalità amministrativa - a produrre effetti ulteriori rispetto a quelli dell’ordinanza cautelare già eseguita; di modo che, in nome dei principi di effettività della tutela giurisdizionale, di economia processuale e di economicità dell’azione amministrativa, all’originario ricorrente non può essere negato l’interesse all’immediata impugnativa del nuovo provvedimento, tale interesse venendo meno nella sola eventualità di caducazione, ad opera della decisione di merito, della stessa misura cautelare contenente l’ordine di riesame, con conseguente automatico travolgimento di ogni suo effetto[5].
 I possibili sviluppi della dinamica processuale sono alquanto variegati, di guisa che mi pare opportuno accedere ad una ricostruzione schematica delle possibili varianti che possono presentarsi all’osservazione.
Possiamo quindi ipotizzare due casi, quando l’amministrazione, nelle more del giudizio di merito avverso il diniego, emette il provvedimento favorevole, sospirato dal ricorrente, in esecuzione di un ordine cautelare:
1)                       il sopravvenuto provvedimento satisfattivo è emesso a seguito di un’attività di riesame imposta dall’ordine cautelare, eventualmente di natura propulsiva, di talchè il diaframma di discrezionalità riservato all’amministrazione, tale da rendere incerto l’esito del riesame indotto, rende il nuovo provvedimento autonomo rispetto all’ordine cautelare e quindi definitivo, soprattutto se l’amministrazione abbia in autotutela ritirato il provvedimento originariamente impugnato;
2)                       il sopravvenuto provvedimento satisfattivo è emesso ai soli fini di dar seguito all’ordine cautelare e pertanto esso è provvisorio, siccome sorretto da tale pronuncia, che è destinata ad essere travolta dalla decisione finale del ricorso.
Questa seconda ipotesi si verifica in maniera solare quando il provvedimento cautelare ha carattere impositivo, laddove il giudice, in sede cautelare, ordina all’amministrazione di provvedere in senso favorevole all’interesse di parte nelle more della disamina del ricorso nella più approfondita sede di merito. Si tratta cioè di quelle ordinanze aventi contenuto positivo e sostitutivo, attraverso le quali il giudice adotta direttamente le determinazioni necessarie ad evitare che il tempo occorrente  per la definizione del giudizio frustri irrimediabilmente l’interesse dedotto dal ricorrente, così sortendo un effetto di temporanea ed anticipata produzione degli effetti propri del provvedimento dallo stesso invocato e negato dall’amministrazione[6]. Ma essa si rinviene anche quando il provvedimento cautelare si esprime secondo lo stilema classico della sospensione degli effetti dell’atto impugnato, avendo l’amministrazione l’obbligo di riattivare il procedimento innescato dall’istanza di parte, tenendo conto del principio di diritto affermato in sede motivazionale. E’ bene rammentare, infatti, che essendo in gioco l’esercizio di una pubblica potestà, dall’intrinseco contenuto doveroso, l’interesse sotteso all’intrapresa giurisdizionale non può essere frustrato dal decorso del tempo necessario per giungere ad una pronuncia nel merito del ricorso, una volta che il giudice, sia pure in sede di delibazione della domanda cautelare, abbia ritenuto illegittimo l’operato dell’amministrazione. Anche il provvedimento di sospensione cautelare si traduce dunque in un dovere di riesame dell’atto impugnato, più o meno vincolato a seconda del tenore motivazionale della concessa cautela, di guisa che, a fronte delle due ipotesi estreme dell’ordine di riesame, da un lato, e dell’ordine di provvedere, dall’altro, che implicano ed escludono, rispettivamente, l’esercizio del rinnovato potere discrezionale, la mera sospensione si colloca in una zona per così dire intermedia definendosi a seconda del tenore della motivazione e delle coordinate della vicenda di causa[7]. Ne consegue che assume rilievo dirimente l’interpretazione dell’atto satisfattivo, al fine di stabilire se la nuova determinazione sia stata assunta dall’amministrazione in virtù di libero riesame della vicenda ovvero al solo fine di adeguarsi alla pronuncia cautelare. La stessa giurisprudenza[8], nel caso specifico dell’ordinanza di accoglimento per difetto di motivazione, che rappresenta il provvedimento cautelare che implica la più ampia latitudine della discrezionalità dell’amministrazione in sede esecutiva, ha evidenziato che: “l'obbligo per la Pubblica amministrazione di conformarsi alla pronuncia cautelare del giudice non può dilatarsi fino a divenire un vincolo assoluto, riservato al giudicato di merito, tanto più quando si sia in presenza di un atto amministrativo negativo da riesaminare dopo aver riconosciuto fondata la denuncia di vizio motivazionale, in assenza di alcun indirizzo impartito per il prosieguo dell'attività amministrativa”.
Ebbene, può accadere che l’amministrazione, nel provvedere al riesame della vicenda in esecuzione di un provvedimento cautelare, reiteri il diniego originariamente impugnato. La sopravvenienza provvedimentale può determinare la possibile insorgenza del ricorrente in executivis, lamentando la violazione dell’ordine cautelare quando il nuovo provvedimento sia stato emesso in spregio dell’ordinanza cautelare alla luce delle sue specifiche statuizioni. Sarà quindi invocato il nuovo intervento del giudice in sede di ottemperanza perché provveda alla nomina di un commissario ad acta.
Il problema che ci poniamo in questa sede è quello di stabilire se tale nuovo diniego sia o meno coperto da onere di impugnativa, pena la definitiva declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.
Diciamo subito che, in linea generale, il confronto tra l’originario diniego e quello sopravvenuto va effettuato secondo la nota distinzione, di carattere generale, tra atti confermativi e meramente confermativi. Al riguardo, la giurisprudenza[9] insegna che un atto amministrativo non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un precedente, quando la sua formulazione è preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure attraverso la rivalutazione degli interessi in gioco ed un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dar luogo ad un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dar vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre, invece, l’atto meramente confermativo (c.d. conferma impropria) quando l’Amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame, si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento, senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione. L’Amministrazione si esime, quindi, dal prendere posizione sulle questioni sollevate con la nuova istanza, limitandosi ad un rifiuto pregiudiziale di riesame, con il quale nega, anche implicitamente, l’esistenza delle condizioni per passare alla valutazione del merito dell’istanza stessa. Così configurato, l’atto meramente confermativo non costituisce un’autonoma determinazione dell’Amministrazione, sia pure identica nel contenuto rispetto alla precedente, ma solo la manifestazione della decisione della p.a. di non ritornare nelle scelte effettuate. Detto altrimenti, l’atto meramente confermativo non è impugnabile, perché non integra un’autonoma determinazione dell’Amministrazione, sia pure identica nel contenuto alla precedente.
Alla luce di tali definizioni, deve innanzitutto escludersi che sia coperto da onere di impugnativa il nuovo diniego che sia meramente confermativo del precedente.
Il problema quindi si pone quando si tratti di una conferma propria, cioè di un diniego reiterativo del precedente bensì frutto di una rinnovata istruttoria e quindi di una nuova ponderazione di interessi.
A ben vedere, la dinamica processuale che vede il provvedimento cautelare assumere rilievo dirimente ai fini della soluzione della controversia con effetti definitivi non sembra in contrasto con il principio di strumentalità del giudizio cautelare, e non è un caso che si ammetta ormai comunemente l’ammissibilità di tali pronunce atipiche del giudice cautelare, in quanto a determinare l’improcedibilità del ricorso non è in sé l’ordine cautelare bensì la successiva attività provvedimentale, tanto che se questa non intervenisse per l’inerzia dell’Amministrazione, sarebbe ancora in piedi l’interesse a ricorrere che giustifichi una pronuncia nel merito. Nel confronto tra le due tesi sembra doversi far prevalere la seconda, di talché l’indagine che compete al giudice amministrativo deve incentrarsi sul nuovo atto, sia favorevole che sfavorevole, dovendosi stabilire se questo sia frutto di una rinnovata valutazione dell’amministrazione o sia stato emesso in maniera guidata dal previo provvedimento cautelare, al solo fine cioè di adeguarsi all’ordine del giudice. E’ evidente che tale indagine sul foro interno dell’amministrazione sarebbe alquanto ostica se non facesse leva sia sul tenore del nuovo atto sia sulla esatta formulazione dell’ordine giudiziale al fine di stabilire se e quale perimetro sia stato riservato alle libere valutazioni dell’amministrazione.
Possiamo però ipotizzare anche il caso in cui il nuovo provvedimento, che interviene nelle more del giudizio di merito, sia in violazione o elusione del giudicato cautelare, ad esempio perché l’amministrazione lo ha posto in essere al solo fine di ribadire la fondatezza dell’orientamento assunto con l’atto impugnato. Il discorso è delicato perché il nuovo intervento dell’amministrazione potrebbe avere finalità surrettizie, intese a indurre il ricorrente a interporre nuovo gravame, con il rischio di andare incontro a pronunce di improcedibilità nel caso in cui non si attivi tempestivamente in tal senso. A tal riguardo, ancora una volta il giudice deve effettuare una indagine sul nuovo atto, al fine di stabilire se questo sia confermativo o meramente confermativo, non potendosi di certo ritenere che ogni atto sia coperto da onere di impugnativa.
In maniera schematica possiamo conclusivamente distinguere due ipotesi:
1) La prima è quella in cui il nuovo atto sia espressione di quel diaframma di discrezionalità non interessato dalla pronuncia del giudice in sede cautelare, di talché, trovando scaturigine da un libero riesame del provvedimento originariamente impugnato, è meritevole di essere oggetto di una nuova impugnativa mediante motivi aggiunti. Il ricorso introduttivo non può che essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, anche in caso di suo accoglimento, il ricorrente non conseguirebbe alcun vantaggio, essendo la vicenda regolata dal nuovo provvedimento.
2) La seconda ipotesi invece è quella in cui l’amministrazione assume una nuova determinazione denegante in aperta violazione delle statuizioni contenute nel provvedimento cautelare.
Questo nuovo diniego va impugnato se si vuole evitare la definitiva improcedibilità del ricorso incardinato avverso il primo atto di segno sfavorevole ?
Al quesito non è facile dare soluzione, dovendosi stabilire quale rilevanza attribuire alla pronuncia resa in sede cautelare.

4. Segue: il regime di invalidità in caso di violazione/elusione del giudicato cautelare

Essa, difatti, può essere valorizzata sino al punto da ritenere che l’atto asseritamente violativo o elusivo del giudicato sia da considerare nullo ai sensi dell’art. 114, comma 2, lett. b) C.P.A., secondo cui il giudice dell’ottemperanza “dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato”. Invero, il tribunale amministrativo regionale, in sede di esecuzione di misure cautelari, “esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza di cui al Titolo I del Libro IV” (cfr. art. 59 C.P.A.). La giurisprudenza si è già da tempo interrogata sul regime di invalidità che affetta l’atto amministrativo adottato in violazione di un’ordinanza cautelare del g.a. stabilendo che esso “deve reputarsi annullabile e non nullo, in quanto la nullità di cui all'art. 21 septies, l. n. 241 del 1990 presuppone un contrasto con sentenze formalmente passate in giudicato e non semplicemente con decisioni cautelari prive dell'efficacia di cosa giudicata”.[10] Alcuni[11] evidenziano che “se si tenga conto dell’espressione “giudicato cautelare” non può non osservarsi come essa concreti un ossimoro, ovvero una contraddizione in termini, dal momento che la parola giudicato indica quella particolare caratteristica delle pronunce giurisdizionali per cui esse fanno stato tra le parti ed i loro aventi causa, mentre l’aggettivo cautelare rimanda alla provvisorietà ed interinalità della soluzione adottata dal giudice nella valutazione del pericolo grave ed irreparabile prospettato dalla parte in ordine ad una determinata situazione. Tant’è che la categoria è contestata dai Tribunali Amministrativi Regionali (Che la giurisprudenza non sia affatto unanime e concorde in ordine alle conseguenze del cd. “giudicato” cautelare  è ben rappresentato da TAR Lombardia, Milano, sezione IV, 6 giugno 2008, n. 1937 (e la giurisprudenza ivi citata:TAR Liguria, sezione II, 2 febbraio 2007, n. 158) e la discordanza verte proprio su quale sia il tipo di invalidità che affligge il provvedimento adottato dall’amministrazione in violazione del comando recato dalla ordinanza cautelare del giudice amministrativo o di una sentenza di primo grado esecutiva ma non ancora passata in giudicato. Al riguardo i giudici di primae curae sostengono che gli atti in contrasto con il precetto cautelare non sono suscettibili di nullità, ma di mera annullabilità. Ciò è stato sostenuto (TAR Calabria, Catanzaro, sezione II, 26 luglio 2005, n. 1397 ripresa in TAR Calabria, Catanzaro, sezione II, 22 settembre 2008, n. 1314.; v. anche TAR Liguria, sez. II, sentenza 02.02.2007 n° 158), partendo proprio dalla lettura testuale dell’art. 21 septies, 1° comma, l. n. 241/90 il quale stabilisce che “E’nullo il provvedimento amministrativo. . . che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi previsti dalla legge.”  Su tale base l’orientamento in questione considera che non è predicabile alcuna assimilazione tra le conseguenze della violazione o elusione di una misura cautelare concessa dal giudice amministrativo, con quelle derivanti dalla violazione o elusione del giudicato: “tale assimilazione, oltre a porsi in contrasto con la chiara lettera della legge, di cui viene proposta una inammissibile interpretazione estensiva, trova un ostacolo insormontabile nei caratteri tipici del giudicato, i quali sono affatto estranei alle misure cautelari. Focalizzando l’attenzione esclusivamente sugli effetti, può richiamarsi il carattere definitivo ed incontestabile del giudicato, il quale è impermeabile finanche alle pronunce di incostituzionalità, per loro natura connotate da retroattività.  Tali caratteri sono estranei alle misure cautelari, le quali sono naturalmente munite di un’efficacia interinale e provvisoria, destinata a cessare con la pronuncia di merito, anche di primo grado.” Le conseguenze che precedono vengono tratte dalla circostanza che lo stesso legislatore, nel disciplinare un procedimento speciale per l’attuazione coattiva delle misure cautelari concesse dal giudice amministrativo (art. 21, 14° comma, l. n. 1034/71, introdotto dalla legge n. 205/2000), non ha inteso estendere l’ambito applicativo del giudizio di ottemperanza, ma ha preferito limitarsi ad attribuire al giudice della cautela i soli poteri esercitati in sede di ottemperanza ex art. 27, 1° comma, n. 4) del Testo unico n. 1054/1924. Conclusivamente viene dunque negato che alle “condotte di violazione o elusione consegua la medesima sanzione della nullità prevista dall’art. 21 septies per le sole decisioni giurisdizionali passate in giudicato.”
La via interpretativa della nullità, che seduce una parte sempre più consistente della giurisprudenza, è nel senso invece di ritenere che il contenuto omnicomprensivo del richiamato art. 59 C.P.A. sia tale da rendere implicita la facoltà del giudice cautelare di dichiarare la nullità degli atti posti in violazione o elusione del giudicato cautelare. Tale opinione però si scontra con la natura atecnica di quest’ultimo, non avendo effetti vincolanti nè interni né esterni, come evidenziato dalla citata giurisprudenza in epoca sì antecedente all’intervento del Codice del Processo Amministrativo, ma pur sempre caratterizzata dall’affermazione, in sede prima pretoria poi anche legislativa (l.n. 205/2000), del principio della esecuzione ope judicis delle ordinanze cautelari secondo le forme del giudizio di esecuzione del giudicato. Non può quindi assegnarsi rilievo dirimente al pur valorizzato art. 59.
Ebbene la tesi secondo la quale gli atti sopravvenuti sarebbero nulli siccome in violazione o elusione del giudicato, opera una almeno tendenziale assimilazione tra giudicato in senso tecnico e giudicato cautelare alla luce dell’art. 21 septies della l.n. 241/90 ed è una tesi che ha trovato un autorevole avallo da parte del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa. Partendo dalla considerazione che lo scopo della norma è quello di codificare il principio interpretativo secondo cui la nullità del provvedimento amministrativo si verifica solo in presenza di circostanze tipiche e determinate dalla legge, la quinta sezione del Consiglio di Stato[12]  ha infatti ridisegnato la figura del cd. giudicato cautelare intesa come quella particolare “stabilità processuale della decisione non più appellabile (modificabile solo attraverso lo strumento della revocazione, oppure in presenza di circostanze sopravvenute)”.  Ha poi osservato che la pronuncia cautelare di primo grado e la sentenza del tribunale non sospesa contengono un “comando giurisdizionale” che si impone inderogabilmente alle amministrazioni destinatarie, con il solo limite delle sopravvenienze di fatto o di diritto.  La questione è stata affrontata dalla sezione al fine di stabilire il termine per l’impugnativa dei provvedimenti adottati dall’amministrazione in contrasto con pronunce giurisdizionali di tal fatta, giungendo quindi a concludere che detto contrasto si traduce in una forma di patologia del provvedimento amministrativo certamente più grave della semplice annullabilità e che l’inquadramento nella categoria della nullità può essere affermato per ragioni di ordine sistematico oltre che testuale, costituiti dalla lettura estensiva del concetto di giudicato oltre che dalla attitudine della pronuncia del giudice a delimitare i confini delle attribuzioni concrete dell’amministrazione. Tale ultima notazione consente di osservare che, qualora si aderisse a tale posizione, le ordinanze cautelari cd. atipiche, come quelle di accoglimento con riesame, nelle quali il giudice indica i parametri ai quali l’attività dell’amministrazione deve conformarsi, consentirebbero al fine quella tutela più efficace dell’interesse legittimo pretensivo, ritenuta altrimenti frustrata, specie se si considera che il giudice può nominare un commissario ad acta nel caso di inesecuzione dell’ordinanza cautelare.  Tornando alla pronuncia della quinta sezione, la conseguenza che essa trae dalle superiori osservazioni è che il provvedimento adottato in contrasto con il “comando giurisdizionale”, contenuto nell’ordinanza cautelare, può essere assimilato a quello emanato in difetto assoluto di attribuzione, va qualificato come senz’altro nullo e non richiede, dunque, di essere impugnato nel termine di decadenza.
La tesi è stata però criticata da quella dottrina[13] che, pur condividendone le conclusioni, osserva che: “In presenza di un assetto di interessi disciplinato anche in via non definitiva da una pronunzia giurisdizionale, il provvedimento amministrativo che detto assetto intende “scardinare” si pone in contrasto con il principio di divisione dei poteri che non tollera evidentemente deroghe o eccezioni. Ciò, tuttavia, non sembra poter consentire la qualificazione del provvedimento amministrativo contrastante con il precetto giurisdizionale come provvedimento adottato in difetto assoluto di attribuzione; in realtà il difetto assoluto di attribuzione (di potere) in capo alla PA procedente ex art. 21 septies, sembra indicare il caso dell’assenza di una previa norma. Il termine “assoluto”, inserito nella nuova disposizione legislativa, non può che paventare l’ipotesi della mancanza in astratto del potere (carenza di potere in astratto). La statuizione del giudice amministrativo, a prescindere dal suo passaggio in giudicato, non elide però la norma attributiva del potere ma agisce, invero, sull’esplicazione dell’effetto giuridico in senso stretto. Ciò, d’altronde, appare confermato dalla previsione di una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: l’intervento del giudice amministrativo, in tal caso espressamente previsto dal comma 2, dell’art. 21 septies, non potrà che avere valore accertativo/dichiarativo di effetti mai prodottisi. Di qui, allora, l’opportunità della previsione della giurisdizione esclusiva che scongiura i dubbi sulla configurabilità di decisioni di accertamento in sede di giurisdizione di legittimità4. Potrebbe azzardarsi, in definitiva, una distinzione tra nullità provvedimentale per illegalità e nullità provvedimentale per illiceità: nel primo caso si avrebbe la violazione di una norma ordinativa e di conformazione della fattispecie “provvedimento amministrativo”. Nel secondo caso, invece, si avrebbe la violazione di una norma proibitiva che, pur in presenza di una fattispecie “provvedimento amministrativo” completa, interdice all’agere pubblicistico la cura dell’interesse istituzionale. Nel primo caso si avrebbe allora un vizio di qualificazione/struttura del provvedimento, nel secondo caso un vizio della funzione”.
La dottrina, come detto,  non ha mancato di schierarsi per la tesi della nullità.
Essa preliminarmente rileva che, come evidenziato da un Autore[14], << la novella legislativa prevede tre tipologie di nullità del provvedimento amministrativo. Trattasi, in particolare, della nullità cosiddetta strutturale - conseguente alla mancanza di elementi essenziali dell’atto -, della nullità testuale - che viene in considerazione quando una espressa disposizione di legge contempla espressamente il vizio di nullità del provvedimento - e della (più dibattuta) nullità virtuale, ciò, tuttavia, limitatamente alle due ipotesi oggetto di codificazione ovvero quella del provvedimento adottato in difetto assoluto di attribuzione (dunque in violazione delle norme imperative attributive del potere amministrativo) e quella del provvedimento spiccato in violazione o elusione del giudicato. In tale ultimo caso, più nel dettaglio, anteriormente alla novella del 2005 la giurisprudenza amministrativa era concorde nel ritenere che l’atto difforme ad un giudicato fosse viziato per carenza di potere in concreto, trattandosi di un provvedimento completo ma interdetto quanto alla produzione di effetti da una circostanza esterna all’atto ovvero la presenza di una sentenza passata in giudicato. La nullità, in altri termini, era da ricondurre alla violazione della norma di legge che impone all’amministrazione di conformarsi al giudicato (di qui la qualificazione in termini di nullità virtuale per violazione di norma imperativa). Ebbene, pare che la ratio sottesa a tale ultima nullità provvedimentale debba essere ravvisata nel fatto che, a differenza del provvedimento affetto da nullità strutturale nonché di quello emanato in difetto assoluto di attribuzione, l’atto amministrativo difforme ad un giudicato si configura comunque come un provvedimento “completo” e dotato di imperatività, ma che, tuttavia, contrastando con il precetto posto dall’autorità giurisdizionale, “regolamenta” (tenta di regolamentare), in spregio al principio superiore di divisione dei poteri dello Stato, una fattispecie già definita, appunto, dal potere giurisdizionale.  Il provvedimento amministrativo viziato dalla nullità in parola, dunque, risulta improduttivo di effetti in ragione della presenza di un precetto giurisdizionale che non tollera, allora, nemmeno ad opera del potere amministrativo, invasioni di campo/sovrapposizione di poteri. In tal caso, dunque, il provvedimento adottato dall’amministrazione diviene oggetto di una qualificazione negativa da parte dell’ordinamento, nel senso che lo stesso è configurabile e riconosciuto come tale - essendo a monte individuabile l’esercizio di un potere attribuito alla P.A. da una apposita disposizione di legge - ma, tuttavia, nessun effetto giuridico allo stesso può essere imputato, trovando la fattispecie oggetto di (tentata) regolamentazione amministrativa, in altra fonte (altro potere dello Stato) la relativa disciplina giuridica. Ora, se si conviene sull’assunto secondo cui la nullità provvedimentale per violazione e elusione del giudicato trova il proprio fondamento nel superiore principio - di matrice costituzionale - di divisione dei poteri, deve necessariamente qualificarsi come nullo ed improduttivo di effetti il provvedimento amministrativo che intende incidere su di un assetto di interessi “organizzato” in conseguenza dell’esercizio di un potere giurisdizionale, anche se di natura cautelare, ed avverso il quale la parte pubblica non ha esperito i rimedi processuali previsti dall’ordinamento (appunto, l’appello cautelare). Insomma, anche in presenza di un assetto di interessi disciplinato in via non definitiva da una pronunzia giurisdizionale, di natura cautelare, il provvedimento amministrativo che detto assetto intenda “scardinare” si pone comunque in contrasto con il principio di divisione dei poteri, che non tollera evidentemente deroghe o eccezioni. D’altronde, allorquando il giudice amministrativo adotta una statuizione cautelare in accoglimento dell’apposita domanda del ricorrente - ad esempio sospendendo gli effetti dall’atto impugnato - tale dictum giurisdizionale verrebbe svuotato di effettività qualora fosse concesso all’amministrazione di “contrastarlo” - invece che con i rimedi processuali all’uopo contemplati dall’ordinamento - mediante una riedizione del potere amministrativo esercitato, a tal punto, in spregio all’ordine cautelare medesimo. A ben vedere, pertanto, anche sotto tale profilo, identica si presenta la ratio sottesa alla nullità provvedimentale contemplata per il caso di violazione o elusione del giudicato, sia nell’ipotesi di giudicato formatosi su di una sentenza che nella ipotesi di giudicato cautelare: l’esigenza è quella di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale a fronte di un nuovo esercizio di potere amministrativo e dunque scongiurare il pericolo che il provvedimento del giudice amministrativo, qualunque sia la tipologia, risulti, in definitiva, inutiliter dato >>[15]. Vero è, come osservato dai giudici nel caso de quo, (aggiunge l’A.) che la statuizione cautelare non regolamenta in via definitiva l’assetto di interessi da essa propiziato, non potendosi allora alla stessa riconoscere la definitività e stabilità che caratterizza la sentenza divenuta inoppugnabile. E’ vero anche, tuttavia, che l’assetto fattuale venutosi a concretizzare mediante il dictum cautelare giurisdizionale, sebbene connotato da un’intrinseca provvisorietà, non appare suscettibile di essere stravolto oppure aggirato da un riesercizio di potere amministrativo da parte dell’amministrazione parte resistente nel giudizio; ciò poiché non soltanto si “minerebbe”, come già indicato, il principio di divisione dei poteri, ma anche perché verrebbe meno una delle ragioni fondanti l’essenza stessa della tutela cautelare ovvero quella della sua strumentalità. In effetti, se la misura cautelare deve “assicurare che il provvedimento giurisdizionale definitivo, per quanto debba necessariamente ritardare, possa tuttavia in ogni caso essere utile ed efficace9, detta funzione - ovvero il connotato della strumentalità - risulterebbe azzerata qualora fosse possibile “violare” o “eludere” la cautela. In realtà, soltanto allorquando la sentenza emessa nel processo di “merito” accerta l’inesistenza dell’interesse tutelato in via cautelare, la misura viene a perdere efficacia ex lege.  Ammettere ipotesi diverse ed ulteriori di perdite di efficacia della cautela concessa, significa, in sostanza - quantomeno per cautele di tipo conservativo negare fondamento ed effettività alla tutela cautelare e, dunque, alla stessa decisione definitiva; non a caso il giudice delle leggi ha individuato in questo risvolto della strumentalità un rilievo costituzionale[16].
Anche la giurisprudenza di prime cure ormai propende per la tesi della nullità.
La tesi dell’annullabilità è stata propugnata in un non recente passato, in quanto “Se è vero che l'effetto conformativo consegue sia al giudicato ordinario sia al cosiddetto giudicato cautelare, comportando un vincolo assoluto per l'Amministrazione ad attenersi, nella sua successiva attività di amministrazione attiva, alla statuizione del giudice , quale risultante tanto dal dispositivo quanto dalla motivazione del provvedimento giurisdizionale (sentenza di merito o ordinanza cautelare), è parimenti vero che il provvedimento cautelare non può, per sua stessa natura, assicurare all'interessato, e stabilmente, la medesima utilità derivante dal giudicato[17].
Per vero l’opzione estensiva è stata abbracciata già dal Tar Reggio Calabria n. 529/2006, confermata da Cons. Stato disp. 8 marzo  2007, n. 93, in ricorso n. 4335/2006, ove si estende la nullità in parola anche al caso di violazione/elusione di una misura cautelare nell’assunto che pure in tale ipotesi viene in rilievo un’ipotesi paradigmatica di carenza di potere sanzionata con la nullità.
Più di recente la giurisprudenza amministrativa di prime cure, nel medesimo senso, ha rilevato che: “L'effetto conformativo di ogni provvedimento giurisdizionale, che implica un vincolo assoluto per l'Amministrazione di attenersi nella sua successiva attività alla statuizione del giudice, non è pertinente al solo giudicato ordinario, ma consegue anche al giudicato cautelare, assolutamente vincolante al pari del primo per la P.A. fino ad una eventuale difforme decisione di merito, non essendo consentito all'Amministrazione, nelle more di tale decisione di merito, di ribadire le proprie determinazioni che siano difformi dal decisum cautelare; pertanto, sono radicalmente nulli gli atti violativi ed elusivi del giudicato cautelare, perché resi in assenza di alcun potere discrezionale in capo all'Amministrazione[18]. Da segnalare anche la seguente pronuncia, ancora nel senso della nullità: “L'ordinanza cautelare emessa dal giudice amministrativo, a seguito dell'esaurimento o del mancato esperimento del gravame ordinario, acquista un valore d'immodificabilità — sia pure non assoluta e definitiva — per certi aspetti equiparabile al formarsi della cosa giudicata formale della sentenza passata in giudicato, con i limiti oggettivi di una pronuncia giurisdizionale, comportando che, per tutta la durata del giudizio, i fatti per cui è causa rimangono assoggettati, rebus sic stantibus, agli effetti ivi stabiliti, destinati a permanere per tutto il tempo occorrente alla definitiva verifica giudiziale[19].
Il Consiglio di Stato ha di recente confermato la tesi della nullità: “Il potere dell'Amministrazione di riesaminare atti sub judice a fini conservativi, già di per sé suscettibile di attingere profili di illegittimità in quanto tendenzialmente contrastante con i principi sulla tutela giurisdizionale, deve ritenersi in radice precluso allorquando il giudice amministrativo abbia statuito la sospensione della loro efficacia; pertanto, la ripetizione del medesimo atto con esito analogo a quello censurato in sede giurisdizionale costituisce un evidente alterazione della fisiologia processuale e, ove consentito, implicherebbe l'ineffettività della tutela cautelare, con la conseguenza che a tale ipotesi è applicabile la fattispecie di cui all'art. 21 septies L. 7 agosto 1990 n. 241, che sanziona con la nullità l'atto posto in essere in violazione o elusione del giudicato, tale intendendosi anche quello cautelare[20].
Ma nel panorama giurisprudenziale viene in evidenza una recente arresto che denota ancor di più il particolare valore che assume il giudicato cautelare, sempre più assimilato a quello di merito. In particolare il Consiglio di Stato[21] ha affermato che “Nel processo amministrativo, è ammissibile l'opposizione di terzo ordinaria, prevista dall'art. 404 Cod. proc. civ., anche nel caso di ordinanze cautelari definitive ( giudicato cautelare) rese dai giudici di primo o di secondo grado”. Pare opportuno riproporre in nota[22] le significative articolazioni motivazionali di questa fondamentale pronuncia, secondo cui il giudizio cautelare nel processo amministrativo assume una funzione del tutto autonoma rispetto a quella del giudizio di impugnazione e tale da distinguere in modo netto la tutela cautelare nell’ambito del processo amministrativo rispetto a quella propria del processo civile. I provvedimenti cautelari del g.a., avverte l’autorevole Collegio, assumono una precisa funzione conservativa, riflettendo la necessità di ovviare al danno grave e irreparabile allegato dal ricorrente. Le osservazioni del Collegio di seconde cure assumono particolare rilievo nell’ottica di una possibile unicità della giurisdizione, peraltro auspicata da molti, in quanto la specificità del processo amministrativo sembra deporre in senso esattamente contrario, e ciò vale non solo per la fase incidentale della cautela, ma anche per quella di merito, come si può evincere da quanto riportato nelle pagine successive, a proposito della esecuzione delle sentenze di primo grado del giudice ordinario.

5. Segue: il Commissario ad acta

Altra ipotesi è quella in cui il nuovo provvedimento, intervenuto nelle more del giudizio di merito, sia stato emesso dal commissario ad acta, nominato dal giudice cautelare in sede di ottemperanza per far fronte all’inerzia dell’amministrazione. Questo nuovo provvedimento come incide sull’interesse a ricorrere ? Si dovrebbe distinguere a seconda della natura del provvedimento cautelare al fine di verificare se esso riservi o meno diaframmi di discrezionalità all’amministrazione ? Ove abbia natura impositiva, rispetto evidentemente ad attività vincolata, l’intervento del commissario ad acta potrebbe ritenersi risolutivo, ma in realtà anche in questo caso l’attività commissariale si regge su un provvedimento cautelare che non può e non deve chiudere la controversia. L’estensione al giudicato cautelare, prima giurisprudenziale poi normativa, dell’esecuzione ope judicis non può non indurre a ritenere che diverso sia ontologicamente il provvedimento giudiziale che ne è alla base, dovendo la fase di ottemperanza essere seguita da quella di merito. Eppure ripugna alla coscienza metagiuridica che la decisione nel merito possa ribaltare l’esito dell’incidente cautelare vanificando l’operato commissariale. Così si afferma in giurisprudenza[23] che “L'unica forma di reazione avverso l'assetto provvisorio degli interessi disciplinati dalla misura cautelare adottata dal giudice in sede di esecuzione del giudicato, o dal suo organo ausiliario costituito dal commissario ad acta, è il reclamo al medesimo collegio che quella statuizione ha emanato e che, avvalendosi dei poteri propri dell'ottemperanza, individui in concreto le misure che possono concretamente realizzare l'interesse sostanziale che si assume leso” (per completezza si veda però la motivazione in nota dell’ord. CdS n. 115/2010). A sua volta, il TAR Lazio[24] sostiene che “Gli atti adottati dal commissario ad acta (quale ausiliario del giudice) in sede di esecuzione dell'ordinanza cautelare di sospensione del provvedimento impugnato, i cui effetti vengono a cessare con la sentenza di merito, non sono suscettibili di impugnazione ma sono censurabili unicamente nelle forme dell'incidente di esecuzione davanti allo stesso giudice cautelare”.  Si aggiunge che “Il commissario ad acta nominato dal giudice non opera come organo ausiliario di questo bensì come organo straordinario dell'Amministrazione inadempiente esercitando il potere che la legge attribuisce a quest'ultima”. La giurisprudenza ha di recente confermato che “Il commissario ad acta nominato dal giudice non opera come organo ausiliario di questo bensì come organo straordinario dell'Amministrazione inadempiente esercitando il potere che la legge attribuisce a quest'ultima[25].
Ragioni di coerenza logica indurrebbero a ritenere che, ove vi sia stato l’intervento del commissario ad acta non andrebbe dichiarata la improcedibilità del ricorso, in quanto “Il commissario ad acta per l'esecuzione del giudicato è organo straordinario dell'Amministrazione nella cui struttura organizzativa è coattivamente inserito dalla sentenza del giudice amministrativo, la quale costituisce l'unico titolo dell'investitura e l'unico presupposto per l'emanazione dei relativi provvedimenti; pertanto, l'annullamento della sentenza del giudice in virtù della quale il commissario ad acta è stato nominato, ovvero una pronuncia di rito (nella specie, declaratoria di cessazione della materia del contendere) comporta ipso jure la caducazione degli atti posti in essere dal commissario medesimo, senza una definitiva pronuncia che consolidi i risultati del provvedimento, consequenziale alla misura cautelare eventualmente concessa[26].  .
Deve tuttavia valorizzarsi la seguente pronuncia: “Se è vero che, in sede di esecuzione del giudicato, la Pubblica amministrazione non è titolare di un potere di autotutela amministrativa tale da consentire l'annullamento di atti emessi dal commissario ad acta, è pur vero che tale potere deve ritenersi sussistente rispetto agli atti del commissario giudiziale per l'esecuzione cautelare, in quanto quest'ultimo è organo sostitutivo funzionale all'esclusiva esigenza del giudizio cautelare amministrativo, che è quella di assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso[27].
Si può quindi affermare, a mio parere, che, fermo restando in astratto la necessità che il giudice decida nel merito la controversia, non essendo l’attività commissariale autosufficiente per la natura interinale dell’ordinanza cautelare sulla quale si fonda la sua investitura, ciò non sia necessario quando l’Amministrazione non abbia posto in essere alcun atto di autotutela sugli atti del commissario, per tal via mostrando di aderire, sia pure implicitamente, all’orientamento assunto dal commissario stesso. Si verifica cioè la stessa situazione riconducibile ad un riesame di segno favorevole dell’Amministrazione sia pure ricavabile implicitamente dal suo comportamento inerte, per evitare che venga premiata un’amministrazione riottosa e renitente. Il ricorso andrebbe quindi dichiarato improcedibile. Questa figura di nuovo conio del riesame implicito non mi sembra che si scontri con il principio di tipicità del silenzio significativo non volendosi in questa sede ipotizzare la presenza di un provvedimento amministrativo silenzioso quanto piuttosto di un comportamento processualmente rilevante secondo il principio di non contestazione sancito dall’art. 115 c.p.c.
Circa il rapporto tra giudicato cautelare e permanenza del potere dell’amministrazione giurisprudenza costante afferma che “Il mero decorso del termine assegnato per l'esecuzione di un provvedimento cautelare disposto dal giudice non comporta come effetto automatico la perdita da parte dell'Amministrazione intimata del potere di provvedere, che essa conserva anche se, per l'ipotesi di inottemperanza, sia stata disposta la nomina di un commissario ad acta, almeno fin quando quest'ultimo non si sia concretamente attivato per adempiere all'incarico affidatogli dal giudice[28]. L’intervento del commissario non esclude quindi che l’Amministrazione possa annullare in autotutela gli atti commissariali assumendo motivate determinazioni di segno contrario sulla vicenda, ove il commissario sia stato investito da un’ordinanza cautelare. Del resto, come evidenziato in giurisprudenza[29], “L'ordinanza cautelare del giudice amministrativo non configura mai una radicale consumazione del potere amministrativo, in quanto, se è vero che a seguito della pronuncia cautelare possono essere posti in essere dall'Amministrazione anche ulteriori atti che hanno come presupposto logico e giuridico il nuovo provvedimento adottato in esecuzione dell'ordinanza cautelare adottata in primo grado, che temporaneamente tiene luogo della valutazione positiva mancata e incide anche sull'efficacia dell'atto impugnato di produrre effetti giuridici, è altrettanto vero che l'effetto caducante dell'eventuale decisione di riforma in appello si estende a tutti gli ulteriori atti adottati dalla P.A. a seguito della sostituzione del provvedimento annullato in primo grado”.

6. Il giudicato esterno: la possibile rilevanza delle pronunce cautelari del giudice ordinario

A tale specifico riguardo occorre chiedersi se il giudicato che si forma su un provvedimento cautelare emesso dal giudice ordinario possa dirsi del tutto irrilevante ove sia seguito da un provvedimento dell’amministrazione in sua violazione o elusione. Se si tratta di un giudicato cautelare che si è formato rispetto ad una pronuncia del giudice amministrativo dobbiamo inferirne quantomeno la illegittimità, provocando, come detto, l’annullabilità o addirittura la nullità dell’atto sopravvenuto. Ma può dirsi lo stesso anche quando il giudicato cautelare si sia formato rispetto ad un provvedimento cautelare del giudice ordinario ?
A tale riguardo non si può non ripercorrere le osservazioni formulate dagli addetti ai lavori a proposito della esecuzione delle sentenze di primo grado non sospese. Anzitutto si è chiarito, prima dell’intervento del CPA, che “lo speciale rimedio offerto dall’art. 10 della Legge n. 205/2000 non può applicarsi per le sentenze del giudice ordinario  non  appellate, seppure la controparte sia una pubblica amministrazione[30].  Ed anzi la questione di legittimità costituzionale proposta fu dichiarata manifestamente infondata sulla base della differenza tra norma generale in tema di ottemperanza (art. 27 comma 1 n. 4), r.d. 26 giugno 1924 n. 1054) e la norma derogatrice che tale rimedio estendeva esclusivamente alle sentenze di primo grado dei TAR non sospese in grado di appello (art. 33 comma 5, l. 6 dicembre 1971 n. 1034, aggiunto dall'art. 10 l. 21 luglio 2000 n. 205). 
Attualmente, dunque, la giurisprudenza pacificamente ritiene impraticabile il rimedio per le sentenze del giudice ordinario non passate in giudicato, ponendo in rilievo la differenza tra l’actio judicati che presuppone un giudicato e la provvisoria esecuzione delle sentenze dei TAR che non può mai compromettere il secondo grado e ponendo altresì in rilievo i differenti poteri del giudice nei due casi. Tornando ai limiti di questa cosiddetta provvisoria esecuzione, la giurisprudenza li individua nella mancanza del carattere di « definitività » e di « stabilità » .Si osserva infatti che “Se è ormai vero che il giudice dell'esecuzione della sentenza di primo grado è investito, così come il giudice dell'ottemperanza, di poteri « sostitutivi » rispetto alle prerogative ordinariamente esercitabili dall'Amministrazione (in tal senso dovendosi intendere la riportata disposizione di cui all'art. 10, l. n. 205 del 2000), è altrettanto vero che l'esercizio di siffatti poteri non potrà comunque estrinsecarsi - in difetto di giudicato - nell'adozione di misure che, in quanto implicanti effetti e/o conseguenze di carattere irreversibile, continuano invece a dimostrarsi omogenee al solo giudizio di ottemperanza”. Così afferma il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa[31] alla luce del Codice del processo amministrativo osservando che ”Anche ai sensi dell'art. 112 del codice del processo amministrativo — che richiede all'uopo l'equiparazione del provvedimento alla sentenza passata in giudicato — non può essere proposta dinanzi al giudice amministrativo ricorso per ottemperanza al fine di dare esecuzione a una statuizione (anche definitiva) in ordine alle spese del giudizio contenuta in un'ordinanza cautelare emessa dal giudice ordinario, il quale è invece competente in materia ai sensi dell'art. 669 duodecies Cod. proc. civ”.
Lo stesso Consiglio di Stato, in altra pronuncia, ha ribadito che “Ai sensi degli artt. 33 comma 5 e 37 comma 1 L. 6 dicembre 1971 n. 1034, il ricorso per l'esecuzione di una sentenza del giudice ordinario presuppone l'esistenza di una sentenza o di un provvedimento idoneo a dar luogo a  giudicato, sicché è inammissibile la richiesta di esecuzione su di essi se sono privi di natura definitiva e decisoria, aventi natura cautelare e provvisoria”( n. 3476 - 8 giugno 2011 - Sez. V). Aggiunge il Collegio che “il ricorso per l’esecuzione da parte del Giudice amministrativo di una sentenza del Giudice ordinario presuppone l’esistenza di una sentenza o di un provvedimento idoneo a dar luogo a giudicato, sicché è inammissibile la richiesta di esecuzione del giudicato su di essi se sono privi di natura definitiva e decisoria, aventi natura cautelare e provvisoria…Le implicazioni dell’esecuzione delle sentenze amministrative, con riguardo ai confini della relativa tutela giurisdizionale, risultano invero notevolmente differenti dagli effetti e dai caratteri propri dell’attuazione delle statuizioni dell’autorità giudiziaria ordinaria, sicché risulta logicamente impraticabile ogni lettura della normativa di riferimento che si fondi sull’analogia tra le due situazioni e che concluda per l’applicazione del rimedio di cui all’art. 33, comma 5, della legge n. 1034/71 anche all’ottemperanza delle sentenze pronunciate dal Giudice ordinario, prima del loro passaggio in giudicato, che, peraltro, deve essere effettivo e non soggetto a travolgimento a seguito della definitiva pronuncia giurisdizionale su una sentenza presupposta a quella passata in giudicato.  Quanto alle questioni di costituzionalità sollevate con l’atto di appello esse vanno riconosciute come manifestamente infondate, atteso che su di esse si è pronunciata in tal senso la Corte costituzionale, con sentenza 25 marzo 2005, n. 122, con riferimento all’art. 37 della l. n. 1034 del 1971, nella parte in cui non consente l’utilizzazione del giudizio di ottemperanza con riguardo alle sentenze del G.O. esecutive, ancorché non passate in giudicato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 113 della Costituzione, con argomentazioni che alla Sezione appaiono pienamente condivisibili e non scalfite dalle censure al riguardo formulate con l’atto di appello.  La scelta del legislatore non è stata ritenuta irragionevole dal Giudice costituzionale in quanto la procedura di ottemperanza nei confronti della P.A. comporta l’esercizio di una giurisdizione estesa al merito e la previsione dell’art. 33 della L. n. 1034 del 1971 (secondo la quale il giudizio di ottemperanza può esercitarsi nei confronti delle sentenze del T.A.R. non sospese dal Consiglio di Stato) è frutto della discrezionalità legislativa di voler dare concretezza al principio di esecutività delle sentenze di primo grado, evitando che l’Amministrazione possa arbitrariamente sottrarsi alle pronunce giurisdizionali.  Sono, invero differenti, secondo la Corte Costituzionale, e quindi non comparabili con quelle incardinabili innanzi al G.A., le azioni esecutive esperibili davanti al G.O. secondo le norme di procedura civile (trattandosi in questo caso di sentenze o di provvedimenti esecutivi che non richiedono l’esame di merito proprio del giudizio di ottemperanza), sicché non può parlarsi di disparità di trattamento fra l’ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa di primo grado, perseguita attraverso il giudizio di ottemperanza, e l’ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del G.O..
Secondo detto Giudice Costituzionale neppure, attesa la diversità degli istituti, può parlarsi, in relazione all’esecuzione delle sentenze del G.O., di pregiudizio per la tutela dei diritti del creditore o per la ragionevole durata del processo, la quale è garantita peraltro dai tempi processuali disposti dal codice di procedura civile, mentre il principio di buon andamento si riferisce agli organi dell’Amministrazione della giustizia unicamente per profili concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, ma non riguarda l’esercizio della funzione giurisdizionale nel suo complesso ed i provvedimenti che ne costituiscono espressione.  Non condivide in particolare il Collegio le tesi di parte appellante che non differirebbero le valutazioni di merito che il G.A. può svolgere in sede di ottemperanza di una sentenza dell’A.G.O. passata in giudicato, rispetto ai poteri del Giudice dell’ottemperanza della sentenza del G.A. ed essendo comunque differente una sentenza passata in giudicato da una provvisoriamente esecutiva.  Posto che in sede di giudizio di ottemperanza il Giudice amministrativo può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l’originario disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera esecuzione, ma attuazione in senso stretto, dando luogo al c.d. "giudicato a formazione progressiva" (Consiglio Stato, sez. IV, 25/06/2010, n. 4131), senza tuttavia poter ampliare o modificare quanto deciso nella sentenza da eseguire (soprattutto quando si tratta di sentenze emesse dall’autorità giudiziaria ordinaria), va invero considerato che il presupposto del passaggio in giudicato della sentenza azionata in sede di giudizio di ottemperanza è ragionevole a causa dell’esercizio della giurisdizione estesa al merito proprio del giudizio di ottemperanza e perché non può disconoscersi che sono obiettivamente diverse le valutazioni di merito che il Giudice amministrativo prudentemente effettua in sede di ottemperanza a sentenza del Giudice stesso non sospesa dal Giudice di appello, rispetto a quelle che può effettuare nei confronti di sentenza del Giudice ordinario definitivamente passata in giudicato.  In conclusione ritiene la Sezione che, essendo il ricorso introduttivo del ricorso in esame volto ad ottenere l’esecuzione di una sentenza del Giudice ordinario formalmente passata in giudicato, ma soggetta ad essere travolta dall’eventuale accoglimento dell’appello proposto sulla sentenza presupposta e pendente, per quanto in precedenza evidenziato, esso sia stato correttamente dichiarato inammissibile dal Giudice di primo grado per impossibilità di applicazione degli artt. 33 e 37 della L. n. 1034 del 1971, sicché l’appello deve essere conclusivamente respinto e deve essere confermata la prima decisione.”
Tale orientamento va tuttavia sottoposto a vaglio critico alla luce della stessa evoluzione dell’ordinamento processual-civilistico.
Deve essere rammentato infatti che il nuovo art. 669 octies, comma 6, c.p.c., introdotto dalla riforma del 2005[32], ha in realtà rivisitato il connotato della strumentalità della tutela cautelare, similmente a quanto già in precedenza avvenuto in materia di rito societario, introducendo la regola iuris della cosiddetta ultrattività del provvedimento cautelare con riferimento ai provvedimenti di urgenza ex art. 700 c.p.c., a quelli adottati a seguito di azioni di nunciazione nonché a tutti gli altri provvedimenti cautelari - previsti dal codice civile e da leggi speciali - idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito. Il quid novi introdotto dal legislatore, più nel dettaglio, è rappresentato dalla possibile stabilizzazione nel tempo degli effetti della cautela - dunque della regolamentazione del rapporto dedotto in giudizio da essa propiziata - consequenziale alla mancata e non più necessaria prosecuzione nel merito del procedimento cautelare. Questa valorizzazione della tutela cautelare assicurata dal giudice ordinario potrebbe quindi costituire viatico per assimilarlo al giudicato amministrativo cautelare, nel senso di abilitare l’intervento del giudice in executivis quando l’Amministrazione sia rimasta inerte o abbia posto in essere atti in sua violazione o elusione, da ritenere eventualmente nulli. Non ritengo tuttavia che siano maturi i tempi per spingersi così in avanti verso una totale assimilazione dei due giudicati cautelari, a ciò ostando non solo la diversa natura degli stessi, come insegna il Consiglio di Stato, ma la stessa ricaduta applicativa della riforma che non investe l’intero perimetro delle pronunce cautelari di pertinenza del giudice ordinario. Invero, la norma introdotta dal legislatore della riforma si riferisce soltanto ai provvedimenti di natura anticipatoria e non anche a quelli ad effetti conservativi, che costituiscono, come detto, il proprium della tutela cautelare assicurata dal giudice amministrativo, di guisa che non sembra che tale norma possa indurre ad una rivalutazione complessiva del peso specifico da attribuire alle pronunce cautelari del giudice ordinario nella prospettiva di una possibile esecuzione ope judicis nell’ambito del processo amministrativo. E’ quindi tuttora da escludere che il giudicato cautelare maturato in un giudizio ordinario possa abilitare l’intervento del giudice amministrativo in sede di ottemperanza, fermo restando però la possibile emersione della più blanda forma di invalidità sub specie di illegittimità dell’atto emesso in sua violazione o elusione, da sottoporre all’attenzione del giudice amministrativo nel giudizio ordinario. Non può infatti escludersi che, all’esito del giudizio cautelare intrapreso innanzi al giudice ordinario, residuino profili di discrezionalità, a fronte dei quali si configuri una posizione di interesse legittimo meritevole di essere condotta all’attenzione del g.a.. L’atto, assuntivamente in violazione della pronuncia cautelare sarà impugnabile dinanzi al giudice amministrativo in sede ordinaria.


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